Ripartire: decisamente sì, ma bene


di Antonio Valentino

1. Se la ricostruzione comincia dalla scuola…

Sono confortanti tutti questi pronunciamenti per la riapertura della scuola e la parola d’ordine che ‘non una sola ora di lezione si perda più’.

Mai la scuola aveva avuto tanti fan di ogni colore politico e tanti riconoscimenti della sua importanza. Strano che non sia stato ancora coniato lo slogan Scool First. Ma forse solo perché va forte ancora la disputa accesa sulle misure di sicurezza, con tutti i suoi sviluppi quotidiani da prima pagina.

Per carità, la individuazione di misure appropriate, di problemi ne pone; e certamente i problemi legati alla sicurezza sanitaria – causa pandemia – sono assolutamente inediti. Ma una gestione così sconfortante – e per giunta arretrata – di questa emergenza era forse prevedibile, ma non a questi livelli.
Non a caso ho parlato prima di gestione arretrata. In quanto fatta di parole d’ordine che, se giustamente richiamano l’importanza e la necessità di riaprire le scuole, non riescono ad andare oltre. Il Presidente Conte ha parlato, da par suo, di ‘imperativo assoluto’ e la Ministra, ormai convertita, dopo aver chiuso la scuola per più di sei mesi, ha ripetuto il refrain, senza porsi le domande giuste sui mali cronici della nostra scuola che l’emergenza da Covid ci ha gettato sotto gli occhi – e in qualche caso ha accresciuto in modo netto e drammatico.

Certamente aprire è una  priorità assoluta; ma non meno importante è sapere come e con quali prospettive dare un senso all’apertura.

Certamente, considerata l’importanza, sotto il profilo sociale e culturale, di riprendere una normalità di rapporti tra insegnanti e studenti, tra scuola e famiglie – bene si è fatto a fissare la data della ripresa delle lezioni senza tentennamenti. Ma quale attenzione si è riservata al partire bene? Favorendo, ad esempio, la consapevolezza non generica dei problemi che l’emergenza ha messo sotto gli occhi di tutti? Problemi che nascono, in buona parte, da un prima fatto di ritardi cronici, diffuse arretratezze culturali e professionali, di diseguaglianze tra i nord del Paese e i suoi tanti sud che si collocano anche nel nord geografico, e che evidenziano ritardi e incongruenze su aspetti importanti del fare scuola.

A partire – vale la pena ripeterseli –

  • da curricoli e competenze in uscita ormai disancorati dalle grandi rivoluzioni della nostra epoca,
  • da didattiche e metodologie ancora centrate in prevalenza sull’insegnamento frontale e in molti casi non adeguatamente ‘attrezzate’ di cultura digitale,
  • da relazioni e clima in cui la centralità di chi apprende è in molti casi un obiettivo difficile da centrare,
  • da spazi di apprendimento e da un patrimonio edilizio ormai fuori dal tempo e da tecnologie digitali spesso obsolete o mancanti,
  • da un profilo docente ancora caratterizzato da autoreferenzialità e separatezza.

Evidenze e problemi che non diventano ancora però consapevolezze diffuse.

Tra questi, se ne vuole richiamare soprattutto una che è emersa con particolare urgenza dall’inizio della pandemia: quella delle molte situazioni di studenti e famiglie che non hanno potuto/saputo collegarsi con i loro insegnanti per partecipare alle lezioni a distanza.
Si parla del 15-20% – della popolazione scolastica, ma è da presumere che il dato della rilevazione è per difetto. In ogni caso si tratta di un numero enorme di studenti (dal milione e mezzo ai 2 milioni) che ha vissuto la scuola come istituzione lontana, difficile da raggiungere, anche dove non è mancato l’impegno dei docenti.
Ne conosciamo le cause – anche perché si tratta di casi vissuti come problematici già prima del Covid-19 – di fronte ai quali le strategie messe in campo dalle scuole si sono dimostrate inadeguate.
Povertà educativa – associata spesso a povertà economica, sfiducia, disagi familiari, emigrazione – hanno vanificato anche l’impegno di quei dirigenti e docenti che pure hanno teso a creare contatti personali e fornito strumenti opportuni per favorire una ‘offerta’ accettabile.

Quella vista in questi mesi, raccontata in altri termini, è l’immagine di un servizio scolastico che ancora mal si posiziona dentro una idea convinta di uguaglianza e quindi di equità ed inclusione [1].

  1. A proposito delle nuove consapevolezze da sviluppare.

Con riferimento alle emergenze riportate in evidenza dalla pandemia, la questione più immediata, che soprattutto gli istituti superiori si trovano ad affrontare prima dell’apertura generalizzata delle scuole, riguarda, come è noto, le attività previste da una specifica Ordinanza ministeriale del 16 maggio scorso (prevista dal DL n.22/2020); con la quale si fa obbligo alle scuole di pianificare tali attività, per offrire agli studenti , con la riapertura delle scuole (1 settembre), sia percorsi  ‘individualizzati’ di ‘recupero’ nelle materie in cui erano state rilevate insufficienze negli scrutini di giugno (PAI), sia attività di ‘integrazione degli apprendimenti’, che la pandemia non aveva permesso di affrontare nel secondo quadrimestre. Nell’Ordinanza, come è noto, si parla distintamente di Piani individualizzati di apprendimento (PIA), sia di Piano di integrazione degli apprendimenti (PIA).

Ma, a rileggerla – l’Ordinanza -, è difficile trovare riferimenti ad una chiara consapevolezza sulle questioni emerse, da cui far derivare impegni precisi. Consapevolezza che avrebbero richiesto, in primo luogo,  attenzione prioritaria alle risorse professionali e finanziarie  necessarie  per pianificare e organizzare gli interventi previsti.

Si ha l’impressione invece di trovarsi di fronte più a un documento volto a giustificare la scelta della promozione generalizzata degli studenti alla classe successiva – criticata da settori influenti della scuola e da fette di opinione – che di un atto di indirizzo finalizzato a evidenziare il senso dell’operazione proposta e renderne possibile la realizzazione migliore.

A riprova può essere portato il comportamento della Ministra, che dopo alcune iniziali dichiarazioni difensive su tale Ordinanza – volte soprattutto a magnificare e a nobilitare la ragione della sua scelta ‘di rigore’ – ha preferito, nelle numerose interviste e apparizioni televisive di questi mesi, puntare tutto e solo sulle questioni  della sicurezza, regalandoci descrizioni appassionate sulle diverse tipologie di metri per il distanziamento nelle scuole, piuttosto che sul tipo di banchi (si è capito che lei ama quelli a rotelle) o sul miracoloso plexiglass; o ancora – e soprattutto  – sull’algoritmo da applicare alla misurazione degli spazi, che avrebbe risolto d’emblèe, dentro le aule, e anche fuori e altrove, tutti i problemi della ripartenza.

Ovviamente – e su questo non ci piove – la sicurezza sanitaria è una condizione primaria. Ma se essa continua a essere l’unica preoccupazione, tra l’altro ingigantita in misura tale da oscurarne il senso e le finalità, allora vuol dire che qualcosa non gira per il verso giusto. Con il rischio che già i corsi di recupero e integrazione curricolare delle due prime settimane di settembre, previste dall’Ordinanza, diventino pannicelli caldi per qualche ulteriore illusione.

Tra l’altro, su tali corsi c’è in ballo una controversia Amministrazione-Sindacati che rischia di rendere ancora più incerto il clima. È di alcuni giorni fa, 26 agosto, l’Ordinanza a firma del dott. Bruschi che, a proposito dei Piani di recupero e integrazione, chiarisce che le attività in essi previste, “debbano intendersi quale attività didattica e quindi non retribuibili “con emolumenti di carattere accessorio”. ‘Alveo degli adempimenti contrattuali ordinari’ a parte, quello che non si capisce è perché, su un caso come questo, certamente destinato a introdurre in una situazione delicata e particolarmente pesante – ulteriori motivi di dissapori e conflitti, non si sia voluto puntare a chiarimenti e ricomposizione nei mesi precedenti. Tanto che uno si chiede: Ma per  casi come questi, non c’è l’ARAN – e il buon senso e l’opportunità -?

  1. Il Piano scuola 2020-2021: occasione per ridisegnare il POFT e programmare il nuovo a.s. sulle priorità evidenziate nel periodo della DaD.

Allargando poi  lo sguardo dai Piani previsti dell’Ordinanza del maggio scorso alla ripresa generale dell’attività didattica, appare evidente che l’attenzione andrebbe posta sulla ricerca di un clima di riflessione e condivisione, in primis dentro le scuole, delle consapevolezze che l’emergenza sanitaria ha sollecitato, per mettere a punto un nuovo patto formativo tra tutti gli attori in campo.

Ma la sensazione è che sembrano mancare, per una operazione di questo tipo, segnali attendibili dallo stesso Ministero. Ne è segnale, a suo modo preoccupante, il Decreto ministeriale del 26 giugno sul Piano Scuola 2020-2021.

Tale Decreto viene presentato come documento per la pianificazione delle attività per il 2020-2021, che certamente sarà ancora segnato dal COVID–19. Ma nel documento poco si colgono le aspettative – e quindi le misure e gli investimenti – che già da alcuni mesi hanno cominciato a delinearsi da più parti nel dibattitto sulla scuola.

Vi prevale invece lo stile esortativo delle migliori occasioni (“valorizzare le forme di flessibilità derivanti dall’Autonomia scolastica”, “aggiornare il POFT con i PIA e PAI”, “studiare gli accomodamenti ragionevoli” per una gestione all’altezza della situazione degli alunni con disabilità, riorganizzare, migliorare e valorizzare eventuali spazi presenti nelle scuole”); e si richiamano  e si mettono ben in fila, alla fine del documento, azioni e strumenti per la ripartenza; ma solo quelli a carico delle scuole.

Il ruolo dell’Amministrazione – la sua parte in termini di condizioni da costruire direttamente e di risorse e supporti da garantire – è visibilmente riservato invece a impegni e attenzioni sostanzialmente ordinarie. Solo nei capitoli dedicati alla Formazione e al Piano scolastico per la didattica digitale (e, in quest’ottica, al Piano scolastico per la didattica integrata) si coglie più attenzione alle condizioni richieste sui due fronti; anche se la ‘visualità’ complessiva appare ancora piuttosto miope.

Mi riferisco all’assenza di richiami alle forme stimolanti del fare formazione, previste dal Contratto Integrativo del novembre scorso, quali: la formazione tra parie dentro gruppi di approfondimento e miglioramento e attraverso attività laboratoriali, la formazione di ricerca ed innovazione didattica e la ricerca-azione.

Forme importanti perché configurano modalità formative tese 1. a sviluppare – con opportuni supporti esterni – competenze professionali soprattutto sul campo (all’interno cioè del proprio ambiente di lavoro e in coerenza coi bisogni formativi dei propri studenti); 2.  a privilegiare non solo la dimensione collegiale della formazione, ma anche il protagonismo dei soggetti coinvolti (degli insegnanti in primo luogo). Prospettiva in gran parte da costruire dentro le scuole e tra le scuole, che ripropone essa stessa l’interrogativo: “E il ruolo di indirizzo e garanzie di condizioni, da parte dell’Amministrazione Centrale?”.

Quello che comunque appare fondamentale per questi primi mesi è che il Piano scuola del 2020-2021 e il Piano di formazione di Istituto (PFI) diventino occasione speciale per dare coerenza – valorizzando al meglio gli spazi dell’autonomia – al discorso delle priorità dell’essere e fare scuola in questa fase e attrezzarsi per dargli gambe.

[1] L’ONU nell’Agenda 2030, nel suo Obiettivo n° 4, dedicato alla Formazione, scrive: “Fornire un’educazione di qualità, equa e inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.

 




Pedagogia del ritorno. La lettera della ministra Azzolina.

Si è svolto venerdì 4 settembre un incontro organizzato dalla Associazione Gessetti Colorati con l’ispettore Raffaele Iosa sul tema  La pedagogia del ritorno
In questo breve video il segretario  dell’associazione Gessetti Colorati Reginaldo Palermo legge le prime righe della lettera inviata ai partecipanti dalla ministra Lucia Azzolina.

(al tavolo Raffaele Iosa, pedagogista e già dirigente tecnico del Ministero Istruzione, Reginaldo Palermo e la prof.ssa Cristina Marta, dirigente scolastica dell’IC di Pavone Canavese).
Nei prossimi giorni sarà disponibile il video completo dell’incontro.




C’era una volta a Torino. Vi racconto il mio esordio da prof…

di Marco Guastavigna

C’era una volta una scuola media della periferia torinese.
Anzi, di estrema periferia. Estrema per la distanza – non tanto geografica quanto socio-culturale – dal centro della città, ma soprattutto per le posizioni politico-culturali di coloro che ci lavoravano.
Anzi, ci militavano, convinti allora – e molti ancora adesso – che la scuola deve e può essere luogo pubblico e dialettico di emancipazione dai condizionamenti socio-culturali di provenienza di tutt* e di ciascun*. Insegnant*compres*.

Ci arrivo a 27 anni, con 4 di esperienza da supplente di materie letterarie alle spalle, di cui quasi uno – già bello tosto, straniante e formativo – nella scuola della preside sulla cui vicenda e sui cui valori e principi è imperniata larga parte della trama di La classe degli asini.
Mi accoglie un’affascinante signora quarantenne, di cui in pochi minuti mi invaghisco perdutamente: mi affiderà la sola prima non a “tempo pieno” della scuola, su cui spenderò tutte le mie 18 ore, per italiano, storia ed educazione civica (già…) e geografia, e per attività di supporto ad alcuni scolari, in compresenza.

La preside  – entusiasta, incaricata e in qualche modo “reclutata” ad assumere quel compito da alcuni colleghi già presenti nella scuola, di cui riscuote la massima fiducia –  sottolinea che è una situazione delicata: i genitori hanno infatti accettato di iscrivere i propri figli a patto che frequentino il tempo normale, pretesto che consente loro costituire un gruppo separato.

Ringrazio della fiducia, prometto di fare del mio meglio e – dentro un me obnubilato da occhi e sorriso dell’interlocutrice – giuro che convertirò i reprobi a una frequenza più ampia.
E, in effetti, ci riuscirò. L’anno dopo la seconda E chiederà e otterrà per i due successivi il tempo pieno, ovvero una frequenza scolastica di 36 ore, con mensa e numerose compresenze tra insegnamenti.

Tra le strategie di convinzione, il viaggio di istruzione a Niella Belbo, in primavera.
Camminate, studio dell’ambiente, chiacchierate, risate. M. è però particolarmente timida e DR, la collega di Educazione Tecnica Libertaria e soprattutto Femminista, ha un idea-gioco: chi riuscirà a farle leggere il proprio biglietto ad alta voce di fronte a tutti, vincerà mille lire, che mette sul tavolo.
Partecipo anch’io e trionfo con un infantile stratagemma manipolatorio di cui ancora adesso sento il peso deontologico ed etico, perché sul mio foglietto scrivo: “Se leggi il mio messaggio, ti passo metà del premio. Il prof”.
Mentre mi adopero per recuperare i miei allievi alla dimensione collettiva ed eterogenea dell’istruzione pubblica, non solo vedo trasformata la mia supplenza in un incarico a tempo determinato presso la medesima scuola, grazie al fatto che in graduatoria si arriva ben oltre la mia posizione, ma entro in contatto con i colleghi dei 4 corsi completi (A, B, C, D) che insieme alla mia prima E costituiscono l’istituto (già… siamo alla fine dei gloriosi anni Settanta, ben prima di razionalizzazione e ridimensionamento).

Bene: alle lettere A, B, C e D corrispondono quattro modelli di sperimentazione differenti, in palese concorrenza l’uno con l’altro e assolutamente incoerenti tra di loro. Rapidamente scopro la mia ammirazione e manifesto la mia preferenza – basate entrambe sulla quantità di distanza dai canoni istituzionali e quindi da quella che io considero la “scuola della selezione di classe” – per il corso C, a cui infatti otterrò di essere assegnato l’anno successivo.
In questa occasione avrò anche modo di scoprire che – essendo la scuola a regime sperimentale – ho l’opportunità di essere confermato con una semplice domanda, a patto che le nomine annuali prevedano di arrivare fino al mio punteggio.

Eserciterò questo privilegio – da me considerato dedizione alla causa del riscatto socio-culturale dei sommersi – per altri tre anni, fino a quando il “mio” posto verrà occupato da un maledetto vincitore di concorso e sarò deportato in una scuola vicino a casa mia, il che mi sembrerà aggiungere ulteriore indegnità al mio esilio, già di per sé una atroce sconfitta.

Torniamo però al mitico corso C: due insegnanti di lettere, due di scienze e matematica, due di educazione tecnica, 1 di educazione artistica, 1 di musica, 1 di Lingua straniera e 1 di educazione fisica sono variamente sovrapposti tra loro, per modo che molte delle ore – al minimo due per giornata – permettono la divisione delle classi in piccoli gruppi, orizzontali e verticali.

Lo slogan, infatti, è “imparare facendo”: ci assiste Piero Simondo, per conto niente meno che di Francesco De Bartolomeis.
Fiori all’occhiello sono il laboratorio di fotografia (già… su carta, in B/N, con tanto di ingranditori, acidi e camera oscura) e quello di ceramica (con tornio e artigiano professionista, oltre ai prof di Educazione Tecnica e Artistica).
Io sono con un collega di Scienze a fare tipografia freinettiana, con ciclostile e telai. Le altre prof di Lettere e Matematica lavorano alla lettura e al confronto dei quotidiani, in particolare sul rapporto tra politica estera e Storia.
Nel laboratorio di stampa confluisce un po’ di tutto, ma ricordo in particolare il lavoro sulle interviste condotte in classe a giudici dei minori, educatori e assistenti sociali, per meglio capire alcune delle possibili conseguenze delle reazioni predatorie al disagio. Oppure i diari e i cartelloni sui soggiorni di socializzazione egualitaria a Levone (6 gg) e Loano (11 gg), grazie alle opportunità che le giunte di allora riservavano alle scuole della “sfiga” sociale. Oppure ancora i bollettini a proposito dei seminari del consultorio di quartiere, per la prevenzione e il benessere psico-fisico.

Ogni settimana un pomeriggio è riservato ai consigli di classe, tranne in quella in cui ha luogo il collegio docenti. Ci rappresentiamo entrambe le istanze come soviet, non capendo – o non volendo vedere – che sono in realtà palestre di retorica, in cui ci scanniamo su mille dettagli e – soprattutto – per la leadership personale, spacciata per egemonia professionale e pedagogica.
C’era una volta … e ora non c’è più: nel 1983 viene istituito il tempo prolungato, che ha un organico inferiore a quello “pieno”, mentre la popolazione giovanile del quartiere comincia la curva discendente, fino a che la scuola viene chiusa e il suo edificio viene adibito ad altre funzioni.
Per noi insegnanti comincia la diaspora.

Ora non c’è più … ma qualcosa di prezioso è rimasto: ciascuno di noi ha fatto il suo percorso da prof, ma ogni volta che ci siamo rivisti abbiamo sottolineato il fatto che lì abbiamo imparato quasi tutto quello che ci ha fatto amare questo mestiere. E odiare dai nostri successivi colleghi per la lutulenza dei nostri interventi. Soprattutto, però, ci ha insegnato come rispettare le ragazze e ragazzi, investendo sul loro futuro di cittadini e sul presente delle relazioni tra adulti e giovani.




Si riprende scuola, ma con poca pedagogia.

di Stefano Stefanel

            Il ruolo del dirigente scolastico è molto cambiato negli ultimi anni, assumendo connotazioni, anche pubbliche, che non erano state previste da nessuno dei legislatori che si sono  occupati di normare la materia. Chiuso l’anno scolastico finora più difficile, se ne sta per aprire un altro che sembra essere ancora più difficile di quello precedente e chi, come me, entra nel suo ventesimo anno da dirigente scolastico si trova davanti alla necessità di aumentare il grado di riflessione in rapporto ad avvenimenti e novità impreviste, che di giorno in giorno stanno cambiando scenari già fragili. Mi accorgo, però, che il raggio della riflessione è diventato così ampio, che è difficile anche soltanto mettere in ordine le cose, sia sulla scrivania fisica dell’ufficio, sia sulla scrivania virtuale del proprio computer, sia sulla scrivania mentale, che è quella più importante. Soprattutto perché il dibattito sulla scuola va in direzioni opposte a quelle che dovrebbero animare il dibattito: pedagogia e apprendimenti, non sanificazioni e mascherine. In questo breve contributo mi permetto di sollevare alcune questioni e di cercare di riflettervi sopra.

 EDILIZIA SCOLASTICA, MES, RECOVERY FUND

             Con mia grande sorpresa vedo che il problema dell’edilizia scolastica è stato improvvisamente rimosso.  Durante la chiusura delle scuole è apparso evidente a tutti che gli edifici scolatici italiani hanno tali e tante carenze, che non possono essere considerati un patrimonio adeguato alle esigenze della scuola italiana. Mi sono illuso che almeno dieci miliardi del MES sarebbero stati spesi quest’estate per costruire, creare, progettare nuovi spazi per garantire quel distanziamento che ha una certa ricaduta sanitaria ( e che quindi autorizza l’uso del MES). Invece si è andati nella direzione delle misure e dei beni mobili (banchi) senza che ci fosse da parte dei dirigenti scolastici, degli insegnanti, del personale ata, degli enti locali, delle regioni, dei parlamentari, delle opinioni pubbliche una richiesta di costruire subito nuove scuole leggere, adattabili, eco compatibili capaci di entrare nell’emergenza e di aprire possibilità per il dopo. Addirittura sono andati avanti progetti già finanziati, ma assolutamente obsoleti, pensati per scuole vecchie prime e diventate improvvisamente vecchissime.

Tutta la progettualità nazionale prescinde dalla scuola e, infatti, di uomini di scuola non se ne sono visti nella “Commissione Colao”, ma non se ne vedono neppure oggi nelle varie commissioni che stanno sorgendo per il Recovery Fund. Forse sarà solo il Ministero dell’istruzione a parlare per conto delle scuole autonome. Questo è grave perché se c’è un soggetto che non ha il polso della situazione nazionale è proprio il Ministero dell’Istruzione, capace di attivare monitoraggi che cercano di far stare le grandi diversità della scuola italiana dentro una semplice modalità numerica e che comunque da un centro così lontano, situato in una grande metropoli, non conosce le realtà degli ottomila istituti autonomi statali. E non la conoscono neppure gli Uffici periferici del ministero, occupati ad applicare norme generali e a richiedere di non manifestare alcun dissenso.

NORME COVID E DIDATTICA 

Un altro fronte molto sorprendente è quello che tende a ridurre il problema della scuola agli ingressi, alle uscite e alle permanenze negli spazi comuni, ma non a che cosa insegnare o apprendere in quegli spazi e in quei tempi. La questione delle mascherine sta tutta qui: è possibile imparare con la mascherina addosso? è possibile insegnare con la mascherina? Legato a questo problema c’è quello di una scuola statica a fronte di una gioventù dinamica. Ma l’importante pare sia solo garantire distanze che permettano di ritornare tutti a scuola e procedure che siano a prova di giudice. Qui si apre il fronte del grande equivoco italiano, ingigantito dall’emergenza, ma presente da molto tempo: scambiare il diritto allo studio per il diritto a fare tutti le stesse cose, con gli stessi orari, dentro gli stessi edifici e tutto contemporaneamente.

Dopo le esperienze traumatiche della Didattica a distanza, dell’esame di stato modificato dalle necessità e della promozione generalizzata, si è entrati in un’estate in cui tutti hanno cominciato a fotografare (in senso metaforico e non) la realtà modificata delle scuole al fine di far tornare tutto come prima. Il distanziamento è necessario per diminuire la pericolosità del virus e limitare i contagi: a questo distanziamento non è stata legata alcuna riflessione sulle modifiche necessarie alla didattica, ma solo un serrato dibattito sulle procedure da adottare in attesa del vaccino.

Il curricolo che si insegnava prima non era molto efficace (visti gli esiti delle rilevazioni internazionali e nazionali) e quindi questa inattesa emergenza poteva aprire un vero “cantiere” analitico su contenuti, metodologie, valutazioni. Invece si è cominciato a misurare e a organizzare quella che sarà probabilmente una grande attesa statica di tornare tutti alla dinamica e spesso caotica normalità precedente.

Scuole vecchie e didattica vecchia: tutti lo diciamo, ma tutti, alla fine, non facciamo niente per cercare di cambiare quel “vecchio” in “nuovo”, anche perché se il “vecchio” produceva risultati non esaltanti, magari col “nuovo” qualcosa si migliora. Questo bloccarsi davanti al progetto pur in presenza di ingenti risorse economiche (MES e Recovery Fund) mi ha molto sorpreso, ma mi ha portato alla riflessione per cui il mondo della scuola e l’opinione pubblica sono molto più interessati a rientrare a scuola, piuttosto che a discutere su cosa fare una volta rientrati.

PERSONALIZZARE IL PERCORSO

La necessità del distanziamento, le nuove norme igieniche, le precondizioni per ritornare a scuola (assenza di problemi respiratori e febbre), lo smart working, la derubricazione dell’importanza della didattica rispetto alle norme di prevenzione, i lavoratori deboli, i mezzi di trasporto, le nuove potenzialità del web, avrebbero potuto portare ad una sospensione dell’idea di una scuola uguale per tutti, contemporanea e ripetitiva per portare verso un’idea di Curricolo dello studente, in cui ogni studente certifichi il suo reale percorso, fatto di competenze proprie, di tempi non omogenei, di presenze e assenze bilanciate dall’aiuto del web, di un’integrazione tra Didattica in presenza e Didattica a distanza, di una personalizzazione assoluta che tenga conto delle reali esigenze di tutti. Questo avrebbe potuto portare ad un’azione di verifica e valutazione interessata al processo e all’esito e non agli stanchi e stantii riti dei compiti in classe e delle interrogazioni.

Per gli Istituti professionali qualcosa del genere è nato l’anno scorso, ma mi sembra che questa giusta modifica non sia stata colta nella sua reale portata. Siamo tutti diversi e abbiamo tutti esigenze diverse, ma dentro queste esigenze i curricolo hanno spazio per ognuno di noi. Si tratta di diversificare per non disperdere, di personalizzare per non bocciare.

Dentro un’idea moderna di personalizzazione poteva trovare spazio il rapporto tra obiettivi della scuola ed esigenze delle famiglie: spesso le due cose non coincidono, perché le famiglie vogliono che i figli possano passare 5-8 ore al giorno a scuola, mentre le scuole vogliono ottimizzare il processo di apprendimento degli studenti dentro quelle 5-8 ore. Classi troppo numerose, studenti troppo disomogenei, orari troppo rigidi, necessità della scuola sottomesse a quelle delle parrocchie, dello sport, dell’associazionismo, degli enti locali, delle mense, del mondo del lavoro hanno reso difficile strutturare un servizio così vasto in maniera veramente efficiente ed efficace. Ma, invece di usare l’emergenza per intervenire su almeno alcuni di questi problemi, li si è tutti aggregati dentro un’idea di ripartenza in cui leggi, note, linee guida, faq, ordinanze andassero a costruire un coacervo di norme spesso inapplicabili, sulla cui applicazione, però, risponde alla fine solo il dirigente scolastico.

Per cui sembra che lo scopo sia quello di riaprire per far entrare tutti contemporaneamente a fare le stesse cose il più fermi possibile e non quello di individuare obiettivi didattici ed educativi, strutturare alleanze locali, creare dei meccanismi di personalizzazione del curricolo che integra il lavoro a scuola con quello casalingo, con quello on line e con quello delle agenzie che sul territorio si possono occupare di operare con bambini e ragazzi quando la scuola e la famiglia non ce la fanno. Qui non sto parlando di sorveglianza, ma proprio di contenuti: quelli che la scuola deve trasmettere al fine di migliorare gli apprendimenti, quelli educativi che la famiglia deve dare in piena serenità, quelli che i vari soggetti sociali devono poter elargire a supporto o in aggiunta e che a questo punto possono essere pagati perché i soldi ci sono e ci saranno.

Sto pensando (ma elenco in maniera semplice a livello di esempio) a scuole dell’infanzia con meno bambini e più maestre supportate da centri comunali di supporto che agiscano in parallelo in modo da operare su più spazi; parlo di scuole primarie che si colleghino al territorio e possano sdoppiarsi all’esigenza (più organico, quindi), parlo di scuole secondarie collegate al territorio in forma omogenea e complementare, con ampie possibilità di diversificare. Per fare questo servirebbe uscire dalla logica del tutto uguale per tutti ed entrare in quella personalizzazione dei tempi, delle metodologie, degli spazi che porterebbero ad un vero Curricolo dello studente, che rispetterebbe le necessità dell’apprendimento, collegherebbe queste alle esigenze delle famiglie e alle offerte della società civile. Però bisognerebbe abbandonare l’idea degli orari rigidi, dei tempi scuola obbligatori uguali per tutti, della didattica frontale come base fondativa dell’azione scolastica. I soldi ci sono, ma la volontà mi pare non ci sia.

Un rinnovamento della scuola passa dal transitare dall’orario settimanale ripetitivo ad un monte ore annuale mobile e personalizzato per studenti e lavoratori della scuola, in cui la funzione docente accompagni i tempi di apprendimento e non li condizioni. Dentro l’idea di Curricolo dello studente va rivista completamente anche la procedura valutativa, che attualmente vuole agire per standard e non per azioni valorizzanti. Un esempio lo abbiamo avuto sia nella valutazione di fine anno, sia nell’esame di stato conclusivo del secondo ciclo: tutti promossi e in complesso con voti migliori e un esame di stato interessante e meno oppressivo del precedente. Il flebile dibattito sull’argomento ha sottolineato che l’emergenza ha creato un aumento delle valutazioni, senza però far venire in mente a nessuno che fossero sbagliate quelle di prima, non quelle di quest’anno. Come è noto qualunque misurazione altera l’oggetto o il soggetto misurato e noi scambiamo la misurazione per valutazione. E una volta tanto che, a causa dell’emergenza, abbiamo dovuto valutare e  non misurare, poi storciamo il naso perché abbiamo dato più valore ai nostri ragazzi. Da professionista riflessivo dico: se un metodo di valutazione mi da risultati migliori forse è il caso di verificare se non era il metodo di valutazione precedente (mnemonico, ossessivo, nozionistico) ad alterare il sistema.

GIORNALISMO ADDIO

Credo che mai come in riferimento alla scuola il giornalismo abbia mostrato la sua crisi strutturale, nella sua disperata rincorsa ai social. Tra titoli scandalistici, argomenti affrontati con superficialità, ossessione nel cercare il negativo, accentuazione degli elementi generali partendo da situazioni particolari, spazio dato ai molti narcisismi (mio incluso), sintetizzazione di documenti corposi in poche righe e disegni impropri, rapporto non mediato con esperienze estere, predilezione per lo scontro e non per il confronto tutto è scivolato nel gossip, nello sconto, nella polemica, nella trasformazione del problema pedagogico italiano in una questione di banchi e centimetri. E qui la scuola è caduta nel tranello, fidando su giornalismo e social e aprendosi con parti di comunicazione ad un’opinione pubblica che della scuola e dell’istruzione non capisce nulla, dentro terminologie sbagliate, richieste inapplicabili, proteste in cui alla fine si chiede solo più rigidità, disinteresse per i risultati modesti del sistema. Tutto questo ci ha portati qui, nel punto in cui solo la riflessione ci può salvare dalla confusione.

 




Homeschooling, Filter Bubble e lo spirito del tempo

di Aluisi Tosolini

Sulla scuola parentale (e sulle specificità tutte italiane di questa esperienza) hanno già scritto in molti su questo sito e lo hanno fatto in modo per me davvero convincente e molto approfondito.
Così, quasi come una chiosa, credo possa essere utile aggiungere solo un piccolo ulteriore approfondimento che connette alcuni aspetti dell’esperienza homeschooling con il più complessivo spirito del tempo nel quale viviamo.

Nel 2011 lo studioso americano Eli Pariser ha scritto un saggio che ha avuto molto successo. Il suo titolo è The Filter Bubble: What The Internet Is Hiding From You, tradotto poi in italiano dalla casa editrice Il Saggiatore con il titolo Il Filtro (una sintesi della posizione di Pariser si può leggere su Internazionale).
Nel volume Pariser spiega con grande precisione il funzionamento della bolla nella quale molti utenti internet si rin-chiudono grazie ai filtri che vengono adoperati nel corso della navigazione. L’esito è semplice: ognuno vive la propria vita in un mondo fatto a misura di marketing che finisce per diventare costrittivo. Un’isola di sole notizie gradevoli, attinenti ai nostri interessi e conformi alle nostre convinzioni, che lascia sempre meno spazio a punti di vista diversi e a incontri inaspettati, limita la scoperta di fonti di creatività e innovazione, e restringe il libero scambio delle idee.

Il sociologo Vanni Codiluppi – studioso dei fenomeni comunicativi presenti nel mondo dei consumi, dei media e della cultura di massa –  recensendo il volume di Pariser scrive: ciascun utente del Web tende a vivere oggi all’interno di una “bolla” in cui può sperimentare soltanto quello che corrisponde ai propri interessi e alle proprie opinioni personali. Ne consegue che si riduce la capacità personale d’innovare, perché è noto che la creatività può nascere soprattutto dall’incontro con l’imprevisto e l’inconsueto. Il digitale sembra dunque produrre un effetto di tipo paradossale: accelera con forza i movimenti dei flussi comunicativi, ma rallenta pesantemente i processi di cambiamento in atto all’interno dell’economia e della società” (vedi link).

Inoltre, continua Codiluppi, Pariser mostra con chiarezza come funziona il “filtraggio” rispetto al mondo esterno, ovvero come “uno spazio nato come liberamente accessibile e privo di confini si è progressivamente trasformato in un insieme di luoghi recintati e chiusi, dove spesso si può accedere a certi servizi solamente pagando un determinato prezzo. Il risultato di tutto ciò è che ciascun utente tende a vivere all’interno di una “bolla”, la quale diventa progressivamente sempre più definita, ma anche sempre più isolata. Ciascuno vede riflesse nello schermo del computer solamente le sue opinioni personali e si vede offrire solo quello che corrisponde ai suoi interessi. Non siamo cioè di fronte ad un mondo più libero e democratico, ma semmai al suo contrario. La democrazia richiede infatti che ci sia un confronto tra diversi punti di vista a partire da una piattaforma comune, da una conoscenza almeno parzialmente condivisa dello stesso argomento. Se ognuno vive in una “bolla” personale popolata solamente dei suoi interessi, ciò difficilmente può verificarsi”.

Per questo motivo ho scritto prima che l’Homeschooling è, a mio parere, perfettamente connaturata allo spirito del tempo. Di questo strano ed assurdo tempo nel quale alla massima potenzialità e possibilità di incontro e scambio con l’alterità corrisponde poi, nella pratica quotidiana, una comoda bolla che ci tiene al caldo e al riparo da tutto ciò che è “altro”, diverso. Il rischio – a livello educativo e sociale – sta proprio qui: nel venire meno del contesto e dello spazio in cui far interagire le differenze. Lo spazio del conflitto da gestire in modalità nonviolente. La spazio della conversazione necessaria, direbbe Sherry Turkle.




Ripartire dall’infanzia. Il documento d’indirizzo per il sistema 0-6 anni

di Daniele Scarampi
(Dirigente Scolastico dell’I.C. di Vado Ligure, Sv)

Lo sviluppo delle capacità creative e innovative, è noto, ha radici profonde nella prima infanzia. E ben lo aveva arguito il menestrello della parola Gianni Rodari, nella sua fortunatissima Grammatica della fantasia: il bambino, già a partire dalle primissime esperienze ludiche, non è solamente un artificialista (ossia una specie di demiurgo che plasma sempre nuove storie), ma è un vero e proprio scienziato creativo; manipola oggetti e concetti uscendo dallo spazio angusto di schemi precostituiti e la forza dell’immaginazione che lo sorregge, scomponendo e ricomponendo la realtà, crea logiche combinatorie sempre nuove, capaci a loro volta di condurre verso significative esperienze d’apprendimento.

Ora, in ragione di quanto premesso, i servizi educativi e le scuole dell’infanzia, oltre a rappresentare per i bambini il primo approccio alla vita di società, rappresentano uno spazio di relazioni multiple da vivere e sperimentare creativamente (leggasi al riguardo gli Orientamenti pedagogici sui LEAD, i Legami Educativi a Distanza, elaborati lo scorso mese di maggio dalla Commissione per il Sistema integrato di educazione e istruzione), per poi condividerle con gli altri. Di più: si tratta di uno spazio di sperimentazioni e di acquisizioni successive, nel quale – manipolando oggetti e costruendo nuove esperienze – i bambini incontrano il prossimo, sviluppano le prime autonomie personali e costruiscono la propria identità in un contesto sociale.

Già il Piano Scuola 2020/21, pubblicato il 26 giugno, aveva enucleato una serie di linee metodologiche per la ripartenza a settembre delle attività in presenza nella scuola dell’Infanzia; esse si muovevano lungo tre direttrici: garantire un protocollo efficace per un rientro in sicurezza (distanziamento, igienizzazione, modalità di funzionamento del servizio, segnaletica orizzontale e verticale), valorizzare e impiegare tutti gli spazi interni o esterni (riprogettando ambienti o riconvertendo locali o pertinenze), nonché costruire gruppi didattici stabili e omogenei, formando adeguatamente gli educatori, gli insegnanti e i collaboratori scolastici di riferimento.

Coerentemente con quanto previsto dal Piano Scuola 2020/21, lo scorso 31 luglio è stato emenato il Documento d’indirizzo e orientamento per la ripartenza delle attività in presenza dei servizi educativi e delle scuole dell’infanzia”, focalizzato sulla necessità di garantire la ripresa e lo svolgimento in sicurezza di tutti i servizi afferenti all’infanzia (di cui all’art. 2 del D.lgs 65/2017), assicurando i consueti tempi di erogazione e l’accesso del medesimo numero di bambini, così come disposto dalle previgenti normative regionali o dalle norme tecniche sull’edilizia scolastica.

Il Documento in parola, che oltre al Piano Scuola ‘20/’21 si rifà alle indicazioni del CTS del 28 maggio 2020 (così come dettagliate nel successivo Verbale n.94 del 7 luglio), è articolato in dieci punti programmatici, a partire dalla corresponsabilità educativa, condicio sine qua non per una sinergica ripartenza delle attività in presenza, perché un “patto” d’alleanza educativa tra scuola e famiglia ha un ruolo cardine nei servizi del sistema integrato 0-6 e, in fase emergenziale, il dialogo, l’empatia e il mutuo soccorso non possono che giovare soprattutto alle famiglie più in difficoltà, economica e sociale.

Il secondo punto si concentra sulla stabilità dei gruppi: se è vero che relazione e socialità sono aspetti irrinunciabili sia dei servizi da 0 a 3 anni sia delle scuole da 3 a 6 anni, è altrettanto vero che, per non compromettere la qualità dell’esperienza educativa e garantire la sicurezza, è necessario che il personale educativo, docente e ATA non ruoti e costituisca un riferimento fisso e – al tempo stesso – i gruppi/sezioni siano organizzati in modo omogeneo e identificabile, evitando attività promiscue o comuni.

Il terzo punto programmatico, invece, decisivo per gli aspetti logistici del servizio, afferisce all’organizzazione degli spazi, che giocoforza dev’essere funzionale alla già citata omogeneità dei gruppi/sezioni. Sarà importante strutturare gli ambienti in aree non promiscue, anche atrraverso una ragionata disposizione degli arredi; tutti gli spazi disponibili, compresi saloni, atrii e laboratori, dovranno essere separati e distinti; si dovrà inoltre valorizzare al megli lo sfruttamento degli spazi esterni, attivando mirate allenaze col territorio allo scopo di reperire eventuali spazi aggiuntivi.

Il quarto punto, a proposito degli aspetti organizzativi, riprendendo quanto già disposto dal Piano Scuola ‘20/’21, poggia sulla salvaguardia dei bisogni dei bambini e sull’opportunità di conciliarli con le esigenze lavorative dei genitori. Il servizio di pre o post scuola andrà strutturato opportunamente; accessi e uscite dai locali didattici saranno regolamentati e differenziati; sarà opportuno redigere una tabella di programmazione delle attività, alla quale allegare un registro di presenze giornaliero dei bambini, del personale scolastico e di quallo esterno.

Considerata l’esigenza di non limitare il numero di bambini nelle strutture né l’offerta formativa e il tempo scuola, il quinto punto del Documento prevede la necessità di individuare ulteriori figure professionali a supporto delle attività didattiche, assegnare alle scuole dotazioni organiche aggiuntive e tutelare i lavoratori “fragili”, nel rispetto della normativa di settore in materia di salute e sicurezza (D.lgs 81/2008 e s.m.i.) e di quella legata all’emergenza, con particolare attenzione al DL 34/2020, convertito con modificazioni nella L.77/2020.

Il sesto e il settimo punto prevedono la regolamentazione di refezione e riposi pomeridiani (turnazioni, possibilità di consumare i pasti nelle aree didattiche, opportuna areazione e sanificazione dei locali) e la stesura di efficaci protocolli di sicerezza (regole per l’igiene personale, utilizzo corretto dei DPI, attività peculiari di igienizzazione); l’ottavo punto di fatto ribadisce una serie di prescrizioni già ben sottolineate nella normativa previgente, a proposito di modalità di formazione/informazione del personale, erogabili anche a distanza; il nono punto, invece, focalizza l’attenzione sulla necessità – indispensabile dai punti di vista sociale ed emotivo – di curare le attività inclusive, per garantire una totale ripresa ai bambini con disabilità cerrtificata. Il decimo punto, quello conclusivo, è un allegato tecnico che riprende ed enuclea le indicazioni igienico-sanitarie basilari, utili al contenimento del contagio nelle strutture scolastiche.

L’impostazione del Documento d’indirizzo del 31 luglio, è bene rammentarlo in conclusione, si concentra sul rinvigorire il patto educativo tra personale docente/educativo e genitori, così come avevano caldeggiato gli Orientamenti pedagogici sui LEAD. Il rientro di settembre, soprattutto per i servizi afferenti all’infanzia, deve garantire anzitutto la sicurezza, ma deve altresì mirare alla ricostruzione del rapporto tra docenti/educatori e bambini, condizione necessari all’educazione e all’apprendimento profondo.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

1) Vittoria Striato, Come la creatività può favorire l’acquisizione di competenze, in Dirigere la Scuola, Euroedizioni, luglio 2020
2) Documento per la pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative in tutte le Istituzioni del Sistema nazionale di Istruzione per l’anno scolastico 2020/2021, del 26 giugno 2020.
3) Orientamenti pedagogici sui LEAD: legami educativi a distanza, un modo diverso per fare nido e scuola dell’infanzia, a cura della Commissione Infanzia Sistema Integrato zero-sei, maggio 2020
4) “Documento d’indirizzo e orientamento per la ripartenza delle attività in presenza dei servizi educativi e delle scuole dell’infanzia”, del 31 luglio 2020.




Alcune considerazioni sulla istruzione parentale

di Mario Maviglia

La normativa

La possibilità di provvedere direttamente all’istruzione dei propri figli, senza fruire del servizio scolastico fornito dalle scuole statali o paritarie o non statali non paritarie, è prevista già da tempo dal nostro ordinamento giuridico. Il D.Lvo 16 aprile 1994, n. 297, all’art 111, comma 2, stabilisce che “i genitori dell’obbligato o chi ne fa le veci che intendano provvedere privatamente o direttamente all’istruzione dell’obbligato devono dimostrare di averne la capacità tecnica od economica e darne comunicazione anno per anno alla competente autorità.”
Queste scarne indicazioni normative sono state ripetutamente richiamate da successivi provvedimenti legislativi e amministrativi:
DM n. 489 del 13 dicembre 2001 sulla vigilanza dell’obbligo di istruzione;
D.Lvo 25 aprile 2005, n. 76, riguardante le norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione;
Legge 27 dicembre 2006, n. 296, che porta a 10 anni la durata dell’istruzione obbligatoria; 

D.Lvo 13 aprile 2017 n. 62 sulla valutazione degli alunni.

Dall’insieme di queste norme emerge che la possibilità di fare ricorso all’istruzione parentale (o homeschooling) è subordinata al requisito della capacità tecnica da parte dei genitori o della capacità economica. In sostanza se i genitori intendono provvedervi direttamente devono dimostrare di avere una preparazione culturale adeguata a fornire l’istruzione prevista per quel livello scolastico o, in alternativa, avere la capacità economica per provvedere tramite docenti privati o istitutori.

È importante sottolineare che la scuola non esercita un potere di autorizzazione in senso stretto verso le richieste di istruzione parentale dei genitori, ma un semplice accertamento della sussistenza dei requisiti tecnici ed economici.
Va pure sottolineato che, in relazione a quanto stabilito dal citato D.Lvo 62/2017, in caso di istruzione parentale, i genitori dell’alunno o coloro che esercitano la responsabilità genitoriale, sono tenuti a presentare annualmente la comunicazione preventiva al dirigente scolastico del territorio di residenza. Tali  alunni sostengono annualmente l’esame di idoneità per il passaggio alla classe successiva in qualità di candidati esterni presso una scuola statale o paritaria, fino all’assolvimento dell’obbligo di istruzione.

Il movimento Homeschooling

Fin qui la norma. Da un punto di vista di analisi quantitativa del fenomeno, navigando in rete si può facilmente verificare che il fenomeno della homeschooling [1] è diffuso soprattutto all’estero: negli Stati Uniti i ragazzi interessati sono più di 2 milioni, in Inghilterra sono circa 80 mila, 70 mila in Canada, 4 mila in Francia e 2 mila in Spagna (dati relativi al 2018).
In Italia sono 5126 i ragazzi che utilizzano questa forma di istruzione (dati ufficiali MIUR relativi all’a.s. 2018-2019)[2], anche se il fenomeno appare in costante aumento[3].
Non è dunque in discussione la libertà di scelta da parte delle famiglie che presentano i requisiti illustrati sopra. Si tratta semmai di capire le ragioni di tale scelta e i risultati conseguiti. Va però sottolineato che mentre alcune famiglie utilizzano l’istituto dell’istruzione parentale per una forte sfiducia nei confronti del sistema scolastico (soprattutto per quanto concerne gli esiti del processo di apprendimento, anche in relazione alle disfunzioni organizzative della scuola), altre vi fanno ricorso essenzialmente per motivi ideologici in quanto, dal loro punto di vista, la scuola propone ai bambini modelli educativi che condizionano la sfera morale del loro sviluppo (es. la cosiddetta teoria gender, no vax ecc.), e altre ancora si ispirano al modello della homeschooling che propone un progetto educativo alternativo a quello del sistema scolastico storicamente inteso. Infatti, se si analizzano i siti dei fautori di questo progetto (in particolare www.controscuola.it e www.educazioneparentale.org) si può facilmente rilevare che coloro che aderiscono a questo orientamento lo fanno da una parte per motivi ideali e pedagogici e dall’altra in quanto non hanno fiducia nel tipo di educazione e insegnamento impartito dal sistema scolastico, troppo scandito – dal loro punto di vista – in tappe predefinite, verifiche, voti. Viceversa, viene privilegiato un approccio educativo basato sull’esperienza personale e sulla ricerca favorendo “un percorso da autodidatti da subito, quindi non proponiamo loro alcuna nozione preconfezionata e non li sottoponiamo ad alcun tipo di esaminazione. Stiamo imparando accanto ai nostri figli, osservandoli e sostenendoli nelle loro ricerche e scoperte. Il fatto di essere i protagonisti di un cammino la cui direzione è sconosciuta, rende l’avventura ancora più emozionante e imprevedibile. Questo ci permette anche di costruire un percorso assolutamente originale, che non riprende nessuno schema già in uso.”[4]

Una capacità molto curata – sempre a detta dei fautori di questo movimento – è quella di “avere una mente inquisitiva e la capacità di imparare in autonomia. Ogni bambino ha un bagaglio di domande infinito, e il nostro compito è semplicemente quello di mantenere viva la fiamma della conoscenza. Lo facciamo in molte maniere, per esempio facendoci in primis noi tante domande e poi valutando con loro le possibili risposte. Tutti i bambini hanno questo spirito di ricerca ma, troppo spesso, esso viene soffocato in nome del sistema educativo tradizionale che non incoraggia il pensiero divergente e riempie le teste degli studenti con nozioni già pronte. Le lezioni vengono assimilate temporaneamente per poi essere rigurgitate nel momento del test. Questo tipo di esercitazione sterile uccide il pensiero critico.”

Tutto ciò dovrebbe portare ad essere più curiosi. Molte attività, infatti, sono basate su esigenze di soluzione concreta di problemi quotidiani, come per esempio “imbiancare la casa, oppure trovare i soldi per una bicicletta nuova o programmare una vacanza”, creando progetti, ciascuno con il proprio scopo ben definito.
I bambini vengono incentivati in questo modo “a trovare le opportune soluzioni a quelli alla loro portata, mentre per quelli più complicati chiediamo comunque e sempre la loro opinione. Più di una volta la loro freschezza ci ha permesso di trovare una soluzione originale, alla quale noi adulti non saremmo arrivati da soli. Li incoraggiamo quindi a procedere per tentativi, suggerendo di riprovare se falliscono e congratulandoci con loro per le conquiste ottenute. Questo processo alimenta la loro autostima e la sicurezza di poter sormontare qualsiasi ostacolo che la vita gli presenterà. Così saranno esperti di problem solving, una dote impagabile.”

Volendo sintetizzare in alcune parole chiave il progetto educativo della homeschooling (almeno per quanto concerne la versione italiana e secondo quanto riportato dai loro fautori), questi sono i punti caratterizzanti:

  1. Libertà. I bambini vengono sollecitati ad agire liberamente, senza condizionamenti e a scoprire le proprie passioni, come presupposto per avere una vita piena in futuro anche in campo lavorativo. Libertà vuol dire avere la possibilità anche di sbagliare e di apprendere dagli errori.
  2. Felicità. I bambini vengono educati a trovare in se stessi la felicità e non negli oggetti che si posseggono o nel denaro o nei voti. “Fin da piccolissimi noi lasciamo ai nostri figli la propria privacy, la libertà di intrattenersi da soli: giocando, leggendo, immaginando, costruendo. L’ozio creativo e solitario è da noi largamente valorizzato con risultati positivi. La felicità si raggiunge da soli. Non ho praticamente mai sentito i miei figli lamentarsi di essere annoiati. Piuttosto che l’algebra o il nome dei fiumi del centro America, si dovrebbe insegnare a essere felici. Il bambino che non sperimenta questo grado d’indipendenza rischia, una volta adulto, di attaccarsi in maniera morbosa ad un’altra persona, oppure di colmare il vuoto esistenziale con dei passatempi come i social o lo shopping, oppure peggio ancora, con il cibo.”
  3. Indipendenza. I bambini vengono aiutati e sollecitati a rendersi sempre più indipendenti nelle loro attività quotidiane. “Li lasciamo sbagliare un numero infinito di volte, ricordandoci che sbagliando s’impara. L’indipendenza conduce alla libertà… senza aver bisogno di un insegnante o di un genitore (o in un futuro lontano di un capo) che gli dica cosa fare, essi sanno cosa vogliono raggiungere e trovano da soli il modo per realizzare i propri sogni. Se lungo il cammino hanno bisogno di qualcuno che li aiuti, sanno bene a chi rivolgersi e in quali termini.”
  4. Compassione. Per compassione si intende empatia verso il prossimo che dovrebbe portare alla felicità reciproca. come fonte di benessere.
    “La tolleranza va di pari passo con la compassione, e si allena conoscendo persone di diverse etnie, gruppi sociali e stati fisici.”
  5. Cambiamento. I bambini vengono educati ad adattarsi al cambiamento, ad accogliere le sfide della vita, anche quando le cose non vanno come erano state progettate.

 Alcune considerazioni critiche

Analizzando in modo critico questo progetto pedagogico, va detto innanzi tutto che non esistono – almeno in Italia – ricerche empiriche che supportino quanto dichiarato dai fautori della homeschooling o istruzione parentale. In particolare non si sa se, in senso longitudinale, i bambini che hanno fruito di questo approccio abbiano sviluppato effettivamente le capacità elencate sopra e con quale margine di differenza rispetto ai bambini che hanno frequentato il tradizionale sistema scolastico. In mancanza di dati empirici dobbiamo quindi condurre una riflessione critica tenendo conto dei risultati della ricerca psico-pedagogica degli ultimi decenni.

Alcuni aspetti, in particolare, appaiono fragili nel modello educativo della homeschooling:

  1. La coincidenza di ruolo tra genitore e istitutore/insegnante può essere fonte di criticità nello sviluppo psicofisico del bambino. Ogni genitore esercita, direttamente o indirettamente, consapevolmente o meno, funzioni anche “istruttive” nei confronti dei figli, e non solo educative. In questo modello però vengono assunte dai genitori anche quelle funzioni istruttive più formali che generalmente vengono svolte da professionisti della didattica (i docenti), come ad esempio gli apprendimenti di base e le conoscenze previste dai diversi livelli scolastici. Non è solo questione di competenza professionale (i genitori, sotto questo profilo, potrebbero essere professionalmente più attrezzati dei docenti), ma di gestione della relazione di insegnamento-apprendimento. Nella relazione genitore-figlio, infatti, inevitabilmente assumono una certa prevalenza gli aspetti emotivo-affettivi che, pur presenti nella relazione insegnante-bambino, vengono maggiormente diluiti in vista del raggiungimento di un obiettivo di apprendimento.
  2. L’asimmetria che caratterizza il rapporto educativo tra un adulto e un bambino/minore rischia di essere “annacquata” in un rapporto troppo sbilanciato in senso affettivo. Non è detto che ciò debba avvenire nell’istruzione parentale, ma il rischio c’è, anche perché tutte le attenzioni vengono rivolte ad un solo soggetto e non ad una classe. In altre parole, vi può essere un eccesso di “codice materno” a scapito di quello “paterno”, con tutte le disfunzioni nello sviluppo che sono state messe in luce dalla letteratura psicopedagogica[5].
  3. La classe rappresenta una sorta di microcosmo sociale all’interno del quale i bambini possono sperimentare e vivere in modo consapevole le regole della convivenza civile. L’altro contesto è sicuramente la famiglia, ma nella cultura italiana la famiglia rappresenta il centro degli interessi degli individui, anche a scapito della comunità che richiede invece cooperazione. Anche per queste ragioni socio-storiche, il privare il bambino della frequenza di questo microcosmo può portarlo a non acquisire adeguatamente le forme di convivialità e relazionalità sociale.
  4. Il processo di insegnamento-apprendimento, oggi più di ieri, tende ad aiutare gli alunni a sistematizzare le conoscenze. E’ vero che i ragazzi possono acquisire una mole di dati, informazioni e conoscenze a prescindere dalla scuola: basta accendere un computer o utilizzare un telefonino; ma quando e dove hanno la possibilità di dare un senso a questa massa di dati? In teoria, i ragazzi potrebbero avere più nozioni dei loro docenti, ma la scuola offre loro la possibilità di collocarle in un orizzonte di senso, di dare loro un significato, di costruire quadri interpretativi per meglio capire il reale, altrimenti le nozioni rimangono appiccicate alla memoria, senza connessioni tra loro, come una insalata mentale mal amalgamata, come succede nei quiz televisivi. La scuola aiuta questo processo di sistematizzazione non solo attraverso l’intervento dell’insegnante, ma anche mediante la condivisione della vita scolastica con i compagni che consente di mettere a confronto opinioni, pensieri, idee e comportamenti diversi[6].
  5. Uno degli aspetti più deboli della homeschooling è proprio la mancanza di questa agorà che consenta ai bambini di confrontare con altri bambini e altri adulti (non legati da un vincolo affettivo naturale!) idee, posizioni, sentimenti, conoscenze, comportamenti. In fondo la conoscenza è un processo di costruzione sociale[7], che nasce nell’interazione con gli altri, con la diversità delle situazioni e delle persone.

In conclusione, per tutte le ragioni esposte sopra, riteniamo che i bambini debbano frequentare una normale scuola, insieme ai loro coetanei e a contatto con una pluralità di figure adulte.
Ci sembra che la scelta dell’istruzione parentale o homeschooling risponda più alle esigenze degli adulti di “preservare” il bambino da un ambiente considerato poco attento alle sue esigenze individuali, emotive e intellettive. E forse soddisfa i bisogni narcisistici degli adulti di voler “forgiare” il piccolo secondo i propri desideri inconsci, ma in realtà, come recita il poeta Gibran, i figli “non vi appartengono benché viviate insieme”[8]. Noi pensiamo invece che si cresce e si apprende meglio nel rapporto e nell’incontro con gli altri. E poi, nella vita professionale e lavorativa, occorre fare i conti con una realtà contrassegnata da tante diverse individualità, idee, opinioni, stili. La scuola, sotto questo profilo, è una palestra ineliminabile.

[1] A. Knepper (2018), Progetto Homeschooling: come pianificare un anno di educazione parentale adatto alla vostra realtà famigliare, Park Day Publishing Libreria online; E. De Marchi (2017), I nostri figliuoli. Primo manuale di educazione parentale e homeschooling, Scrivere edizioni, Libreria universitaria online; E. Di Martino (2017), Homeschooling. L’educazione parentale in Italia, CreateSpace Independent Publishing Platform, Scotts Valley, California; https://www.controscuola.it/; https://www.homeschool.com/

[2] E. d’Albergo, G. Moini (2019), Politica e azione pubblica nell’epoca della depoliticizzazione, Università Sapienza, Roma

[3] M. Maviglia (2020), Sopravvivere a scuola. Manuale di istruzione, Edizioni Conoscenza, Roma

[4] https://www.controscuola.it/perche-homeschooling-prepara-per-futuro-scuola/

[5] L. Pati (a cura di) (2014), Pedagogia della famiglia, Editrice La Scuola, Brescia; F. Fenzio (2018), Manuale di consulenza Pedagogica in ambito Familiare, Giuridico e Scolastico, Youcanprint, Tricase-LE; D. Simeone (2011), La consulenza educativa, Vita e Pensiero, Milano; Bowlby J. (1976), Attaccamento e perdita, Boringhieri, Torino

[6] L. Czerwinsky Domenis (2000), La discussione intelligente. Una strategia didattica per la costruzione sociale della conoscenza, Erickson, Trento;  J. S. Bruner (2000), La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola , Feltrinelli, Milano; P. Boscolo (2012), La fatica e il piacere di imparare, UTET, Torino

[7] P. L. Berger (1997), La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna; L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, (orig. 1934, trad.it. 2007), Giunti Editore, Firenze

[8] G.K. Gibran (1981), Il Profeta, Guanda, Parma