Linguaggio, significato e comprensione del testo

di Giancarlo Cavinato

Leggendo un testo può capitare di imbattersi in termini come ‘gheriglio’, ‘pistillo’, ‘sgranocchiare’, ‘mariuolo, ‘zuppiera’, di cui il lettore non conosce il significato.
All’età in cui si affronta la pagina scritta non è ancora possibile ricorrere al vocabolario, né la definizione data dall’adulto consente di inquadrare il termine nel testo orale o scritto, e non lascia una traccia sufficiente a riconoscere il significato del termine quando lo si reincontra,
E’ questo uno dei nodi centrali per la costruzione di strategie consapevoli di lettura e per poter comprendere messaggi in profondità.

Una scuola conservatrice affronta il tema del significato in modo coerente alle sue linee generali di organizzazione culturale e funzionale: come struttura rigida trasmette cultura in modo rigido. Per la lingua si privilegia lo scritto sul parlato e per lo scritto si tengono d’occhio modelli, che mal sopportano devianze.
Si crede che la lingua sia formata da una somma di elementi tutti della stessa importanza, dai più semplici ai più complessi, le vocali, le consonanti, le parole, le frasi, le proposizioni, i periodi…si crede anche che l’analisi di questi elementi si possa fare ancora secondo gli schemi del razionalismo di Port-Royal (analisi logica e grammaticale) e che questo tipo di analisi giovi al saper scrivere e al saper parlare. Una scuola conservatrice ha della lingua una concezione statica ove la massima ambizione è scrivere secondo “il modello”. Dal bambino della prima elementare, che mette insieme i “pensierini” e legge sul libro di lettura, al ragazzo della media, che svolge il tema, c’è una continuità didattica e metodologica, che testimonia il peso e il ruolo della tradizione […..]

In una scuola, che considera la lingua come nomenclatura e che crede che il significato sia entro le forme linguistiche, il problema della lettura si risolve abbastanza facilmente. Quando il bambino ha superato il momento strumentale del leggere, che viene visto nella capacità di trasformare dei segni scritti in suoni, la lettura in classe sembra avere un unico obiettivo: superare al più presto e nel modo migliore le difficoltà (sillabazione, rispetto dei segni d’interpunzione, doppie, buona pronuncia di tutti i suoni, intonazione, velocità); la comprensione di ciò che si legge non sembra essere un grosso problema: se si sta attenti, si capisce.

Infatti una scuola, che trasmette il sapere attraverso la parola e che chiede agli alunni di dimostrare di sapere, ripetendo ciò che hanno letto o ascoltato, è una scuola che crede che i significati stiano dentro alle parole e che trasmettere parole voglia dire trasmettere significati.

La comprensione della lettura sembra essere quindi problema di buona volontà e di attenzione, dal momento che i significati sono dentro le parole.

Conquistare il significato

In ‘Pensiero e linguaggio’ Vygotskij [2] affronta in modo originale e con un esame approfondito il tema del significato.
Vygotskij critica quella corrente psicologica, che considera il legame tra parola e significato, come un legame di ordine puramente associativo, formatosi nella coscienza, per il fatto che una certa parola e una certa cosa si sono presentate più volte in coincidenza.

“La parola richiama il suo significato allo stesso modo con cui il soprabito di una persona conosciuta richiama alla memoria la persona stessa.”

La comprensione del linguaggio, secondo questa teoria, consisterebbe in una catena di associazioni, richiamate alla mente da immagini o da parole: “Una volta il soprabito può farci ricordare la persona che lo porta, un’altra volta è l’aspetto della persona che può richiamarci alla memoria il suo soprabito. Conseguentemente la comprensione del linguaggio e l’espressione del pensiero nella parola in nulla si differenziano dal semplice atto di ricordare per associazioni.”

Vygotskji non condivide una visione così semplicistica del rapporto parola-significato e del valore della complessità del significato, e con una serie di serrate argomentazioni, che si richiamano a sperimentazioni legate allo studio dello sviluppo del pensiero e del linguaggio nel bambino, contrappone alla teoria associazionistica la sua tesi[…]:

  • il significato della parola è una generalizzazione
  • il significato della parola si sviluppa.

Nell’affermare che il significato della parola è una generalizzazione, Vygotskji sottolinea la complessità del significato, che è prodotto di una serie di operazioni mentali e non l’espressione di pura associazione.
Il significato della parola “è riflessione generalizzata” della realtà, che realizzandosi nella parola trova in essa il segno necessario alla comunicazione. Il significato della parola è, per Vygotskji, l’unità in cui si sostanzia il pensiero verbale, esso è infatti, egli dice, tanto pensiero che linguaggio.
La comunicazione (e la comprensione) è possibile quando il pensiero riesce ad operare sulla realtà con generalizzazioni successive che si traducono in simboli(le parole). Per cui ogni parola non si riferisce ad un singolo oggetto, ma ad un gruppo o a una classe di oggetti.

Poiché il significato è prodotto di un’operazione del pensiero e non di una giustapposizione associativa, esso non è un dato, ma un processo dinamico. C’è una conquista lenta e continua dei significati da parte del bambino, proprio perché si tratta di conquistare delle generalizzazioni sempre più astratte, e quindi trasferibili.
Che il significato sia una conquista continua e non sia dato una volta per tutte, lo dimostra la diversità di competenza, che si riscontra nel bambino dell’elementare e nel ragazzo della media, tra aspetto semantico e fonetico del linguaggio (Piaget, ad esempio, ha dimostrato come il bambino possa usare nel suo linguaggio i “perché” e i “sebbene” dell’adulto, ma dando ad essi significati diversi da quelli dati dall’adulto)[3]

Anche Bruner sul rapporto tra competenza sintattica e semantica scrive: “Ciò che è impressionante rispetto al linguaggio come una delle espressioni specializzate dell’attività simbolica, è che uno dei suoi aspetti, la sfera sintattica. raggiunge molto rapidamente la maturità. La maturità sintattica di un bambino di cinque anni sembra priva di connessione con la sua abilità nelle altre sfere. Egli può disporre di parole e di enunciati, utilizzando regole molto astratte; ma non può, in modo corrispondente, organizzare le cose che le parole e gli enunciati rappresentano. Questa asimmetria si riflette nelle attività semantiche del fanciullo, dove la sua conoscenza dei sensi delle parole e le implicazioni empiriche dei suoi enunciati restano infantili per molti anni, anche dopo che la sintassi si è pienamente sviluppata.”[4]

Nella conquista del significato il bambino passa dalla giustapposizione nome-oggetto (ad es. “gatto”, sentito come il mio gatto Fufi e non altri) al considerare “gatto” come rappresentante di una classe ( il “gatto” come uno fra tutti i gatti possibili, bianchi, neri, grandi e piccoli), per salire infine al rapporto di inclusione cioè al sistema (gatto-felino; felino-animale).

La seconda affermazione di Vygotskji relativa allo sviluppo dei significati è già insita nella prima.
Se il significato è una generalizzazione e se esso è l’unità in cui si sostanzia il pensiero verbale, conseguentemente esso è processo dinamico.
Questo ha una grossa conseguenza sul piano metodologico-didattico.
Nella scuola dell’obbligo, ove il bambino e il ragazzo stanno maturando la cultura di base, considerare i significati delle parole come processi in evoluzione, vuol dire cambiare, nei confronti dell’alunno, l’atteggiamento dell’insegnante.

Se i significati sono strettamente legati alle conquiste del bambino, al grado di sviluppo del suo pensiero verbale nel rapporto con la realtà, compito dell’insegnante è quello di aiutare tutti a conquistare significati sempre più astratti, più generalizzabili.

La scuola tradizionale, che ha alle spalle una teoria associazionistica, considera i significati come dati una volta per tutte; dell’esattezza dei significati è garante l’insegnante. Si instaura così, ancora una volta, una situazione di subordinazione culturale e di dipendenza. Il maestro è il solo arbitro che decide del significato, basta chiederlo a lui e ricordarsi che cosa ha detto. Non c’è stimolazione dello sforzo del bambino a cercare il significato, a provarlo in situazioni di confronto e quindi di verifica.

“Il brano letto vuol dire questo e non altro, chi ha capito in modo diverso ha sbagliato.”

Però non si dà al bambino la possibilità di provare, di dimostrare, di difendere l’errore perché ciò sarebbe una perdita di tempo, dal momento che l’insegnante stabilisce dove comincia e dove finisce l’errore. Quando il bambino chiede il significato di una parola sconosciuta, gli si spiega cosa vuol dire o lo si rimanda al vocabolario, se è più grande: gli si danno ancora parole per spiegare parole.

Si toglie la condizione prima dell’apprendimento del linguaggio: quella della prova, dell’uso, quella che ha permesso a tutti di imparare in modo attivo, sperimentale, impegnato, la lingua materna, prima di venire a scuola.

Significato e lettura

Se ora guardiamo alla lettura, tenendo presente quanto abbiamo detto sul significato, essa acquista un valore ben diverso da quello che solitamente le si attribuisce. Leggere, scoprendo i significati che il messaggio trasmette, è un’operazione complessa, che va ben al di là della capacità strumentale di decifrare dei segni.

Nell’arco dell’obbligo la lettura può diventare momento fondamentale dell’apprendimento della lingua, se si pensa che da sei a quattordici anni le operazioni mentali di classificazione, di analisi e di sintesi hanno la possibilità di esercitarsi su “oggetti” molto diversi per quantità e qualità, “oggetti” verbali e scritti, semplici e complessi, con cui viene a misurarsi la “cultura” di ogni ragazzo, con tutto ciò che essa ha alle spalle e con tutto quanto viene via via acquistando.

Riprendiamo quanto abbiamo detto sul significato.

  • il significato della parola è una generalizzazione;
  • il significato della parola si sviluppa;

e aggiungiamo quanto dice De Mauro[5]:

“Le forme linguistiche non hanno un’intrinseca virtù semantica: isolate dal parlante che le adopera, esse non hanno capacità di garantire la trasmissione di un significato univoco: acquistano tale capacità soltanto in relazione a chi le usa.”

Un uso tuttavia che non è senza vincoli perché “il significato di una parola non  dipende dall’uso di un individuo uti singulus, ma dall’uso di un individuo in quanto inserito in una certa comunità storica e quindi da ciò obbligato (anche se maleducato) a evitare ogni arbitrio individuale nell’attribuire un significato ad una parola.”
Da scienza del significato, dice De Mauro, la semantica passa ad essere scienza del significare.
“L’uomo è il solo responsabile del suo parlare, del quale egli solo foggia, corregge trasforma forme e valori. il suo parlare è uno dei modi di intervenire nel mondo, ordinando secondo valori collegati a forme nate collettivamente, l’esperienza che egli ne ha: forme e valori che egli stesso ha creato, e la cui unione egli solo, solidale con  i suoi simili e con  se stesso, può e sa garantire. l’esperienza semantica riposa dunque sulla possibilità d’azione dell’uomo.”

Abbiamo quindi ricavato linee indicative su cui impostare il lavoro:

  • la lettura è un’operazione attiva, che coinvolge il bambino con tutto il suo vissuto, sia essa lettura della lingua scritta o lettura delle parole dell’insegnante o dei compagni di classe;
  • imparare a leggere (nel senso di leggere per capire) è un’operazione difficile, che richiede tempi e tecniche adeguati; non è certo operazione automatica (nel senso che basti stare attenti per capire);
  • significanti uguali, cioè “parole” uguali, non hanno per tutti gli stessi significati, né li hanno per il singolo bambino in tempi e in situazioni diverse;
  • quando si leggono la lingua scritta o la parola degli altri, i segni scritti o verbali riattivano in noi le tracce del nostro vissuto e ci offrono interpretazioni che, al limite, sono solo nostre (“La comprensione di un testo sta nell’uso delle connessioni precedentemente acquisite. Nel processo di comprensione si ha l’attualizzazione delle connessioni formate in precedenza e l’inclusione di nuove connessioni nel sistema già formato”[6])
  • il confronto delle varie “letture”, la messa in discussione dei significati trovati, permettono di uscire dal proprio vissuto e di socializzare la conoscenza;
  • la possibilità di un confronto finalizzato alla ricerca dei significati può essere garantita da un’organizzazione della classe, profondamente diversa da quella tradizionale, che si realizza attraverso tre elementi:
  • gli strumenti (schede e materiali pensati per creare in classe occasioni di uso motivato e verificabile della lingua e quindi di riflessione su di essa e su coloro che la usano)
  • il ruolo dell’insegnante
  • il lavoro di gruppo

Il nostro cervello sembra avere fondamentalmente due grosse attività: una riproduttrice e una combinatoria.
I fatti, gli oggetti, le persone, i sentimenti lasciano tracce sulla nostra sostanza nervosa, che registra in tal modo la realtà. Noi possiamo così conservare le esperienze anteriori e facilitare il loro reiterarsi.
Tuttavia senza la seconda attività, la combinatoria, saremmo capaci di adattarci soltanto a situazioni usuali e stabili; non saremmo capaci di affrontare il nuovo, l’inatteso, saremmo esseri rivolti solo al passato.
L’attività combinatoria permette di collegare le tracce fra di loro in un modo anche diverso da come si presentarono nel passato, permette di rielaborare creativamente tracce vecchie e tracce nuove, formando e rappresentando nuove situazioni. [7]

Quando leggiamo, e tentiamo di capire un testo, i segni della pagina scritta richiamano e attualizzano le vecchie tracce in un processo che è complesso e articolato, legato com’è ai modi e ai tempi e alle situazioni in cui le tracce si formarono, al funzionamento della memoria a lungo o a breve termine, alla partecipazione del lettore al fatto lettura, ai “disturbi” che sorgono fra lui e il testo, ecc.

Le vecchie e le nuove tracce si combinano dando vita a nuove connessioni, in un sistema in cui trovano equilibrio dinamico tracce vecchie e nuove, pronte a ristrutturarsi e ricombinarsi sotto la spinta di nuove stimolazioni, di obiettivi da raggiungere, soprattutto all’uso, che il soggetto ha deciso di fare del materiale, che viene ad avere via via a disposizione.
Dando la possibilità ai bambini di leggere per comprendere in base a quanto proposto tramite i tre elementi suddetti, si rispetta combinatoria e quindi la creatività nella lettura.
Una creatività che aiuta nel modo più naturale la crescita conoscitiva che avviene per continue ristrutturazioni del già posseduto con il nuovo e non già per semplice aggiunta quantitativa.
Una creatività che, pur lasciando tutto lo spazio al singolo, lo immette subito al confronto con gli altri, alla ricerca del significato, che, essendo unità delle  due funzioni del linguaggio, quella intellettuale e quella comunicativa, non può non fare i conti con le esigenze della lingua, come sistema entro il quale il singolo si muove.

Un momento particolare: la classe prima

Un discorso sulla lettura deve coinvolgere la classe prima, il momento cioé in cui il bambino affronta in modo sistematico i segni della lingua scritta così come la scuola glieli propone. La classe prima non può essere saltata in un discorso sulla lettura, perché il modo, la strada che si percorre per appropriarsi dell’alfabeto non sono indifferenti all’uso della lettura.
Non ci sono, secondo noi, una fase strumentale di appropriazione del meccanismo del leggere e poi una fase di lettura, come scoperta dei contenuti, come comprensione del messaggio; l’una staccata e indipendente dall’altra.
Il modo in cui s’impara a leggere condiziona il leggere.
Conoscere le combinazioni alfabetiche, attraverso una serie di condizionamenti percettivi, in cui la memoria gioca il ruolo preponderante, può voler dire per molti bambini subire i segni della lingua scritta come qualcosa di estraneo, di abbastanza incomprensibile, di inutile. Qualcosa di cui si farà volentieri a meno appena cesserà l’imposizione, perché la fatica del leggere non viene ricompensata da una gratificazione equivalente. E l’unica gratificazione naturale alla lettura è la comprensione di ciò che si legge.

Tutto ciò sembra ovvio: tuttavia se si osserva e si controlla la lettura dei bambini a scuola, troppo spesso ci si trova davanti a capacità di giustapporre delle sillabe o delle parole, sonorizzando i segni della pagina scritta, senza che tale capacità porti, come dovrebbe portare, alla comprensione di ciò che si legge.
Troppo spesso il leggere è slegato dal capire: la capacità strumentale gira a vuoto su se stessa: si legge per leggere.
La lettura, e altre attività della scuola, non riescono a coinvolgere il bambino e perciò non sono capaci di rispondere alle sue domande culturali; tali attività sono spesso imposte, senza una conoscenza appropriata del bambino e del suo rapporto con esse. […]

Ci sembra che alcuni punti vadano tenuti presenti:

  • L’apprendimento della lingua scritta non è tanto o solo un problema di discriminazione percettiva, di strutturazione spazio-temporale, di abilità senso-motoria, ma è soprattutto un problema socio-linguistico, coinvolgente cioè l’area culturale del bambino a tutti i livelli;
  • bisogna che la motivazione al leggere nasca da leggi interne alla lettura; bisogna cioè che la fatica del deciframento sia ricompensata, fin dall’inizio, dalla scoperta del significato, non da premi e da castighi esterni, caduti i quali cade anche la lettura. La lettura deve essere fin dall’inizio avvertita e attenta: un gioco il cui risultato va sempre cercato, perché non sempre prevedibile;
  • non può essere dato per scontato che il bambino comprenda “naturalmente” il nesso esistente tra la lingua parlata e la sua rappresentazione scritta: tale nesso deve essere conquistato attraverso un cammino né facile né breve;
  • la lingua scritta è fatto simbolico molto astratto: perché il simbolo sia conquistato bisogna dare al bambino la possibilità di incorporarlo, di farlo proprio, come proiezione del suo vissuto e del vissuto della classe;
  • la lingua è sistema simbolico, in cui le parti e gli elementi sono tra loro collegati in modo tale che, manipolandone alcuni, si altera il prodotto totale del sistema, cioè il significato.
  • la conoscenza razionale, analitica, è conquista lenta, è gioco intellettuale dentro i segni della lingua, alla scoperta delle analogie percettive., visive, sonore, semantiche. E’ intuizione, prima, scoperta, poi, che la lingua è codice con sue leggi e sue costanti, le cui mutazioni non sono senza conseguenze sul piano dell’espressione e della comunicazione.
  • è una presentazione di testi e frasi come simbolizzazione dei vissuti, nel senso che i segni rimandano a dei significati vissuti e conosciuti, e che i significati si traducono in segni. Segni di cui si ha una conoscenza partecipata, affettiva. prima, razionale poi. Segni che si capiscono perché si conosce anche il contesto di cui fanno parte.

[…] prima è il maestro che scrive per il bambino, che traduce in segni l’esperienza o che legge dei segni per tutti; la partecipazione è data dal sentire, dal sapere che quelli sono i segni della classe, sono la proiezione delle cose fatte, viste, toccate insieme. Insieme o da soli dette, parlate, cantate, e poi ritrovate, come segni grafici, come cose scritte. Leggere vuol dire riconoscere un’esperienza vissuta in un insieme di simboli, vuol dire scoprire significati sconosciuti,, ma vuol dire anche prendere coscienza che ad es. l’ordine in cui gli elementi si presentano non è casuale e che la sua alterazione altera il significato, il messaggio.

Una lettura “avvertita” fin dall’inizio; lettura attenta al risultato, cioè al significato. Pronta a cogliere le mutazioni legate alla variazione dei segni dentro ad una struttura.
Una lettura avvertita fin dall’inizio condiziona l’attenzione del bambino al significato che può scaturire dai segni, un significato che bisogna sempre vagliare, perché i segni, manipolati nelle loro relazioni, possono dare risultati imprevedibili.
Forse così, a livello di gioco, si possono intuire le possibilità di porre o di trovare nel simbolico relazioni diverse dal reale; intuire anche le enormi possibilità che nel simbolico relazioni e operazioni acquistano. Abbiamo detto intuire, perché è chiaro che non vi possono essere in prima classe esigenze di analisi degli enunciati o dei periodi.

Un tale approccio alla comprensione dello scritto fa seguito alla fase di scrittura e lettura libera, per tentativi.
Si fondava, negli anni 70, su un approccio con il metodo globale, allora considerato l’alternativa a un metodo fonico-sillabico rigido e prescrittivo, che consegnava i bambini a una sorta di impossibilità di fuoriuscire dalla decifrazione [8]

Diversi elementi intervenuti successivamente hanno convinto gli insegnanti MCE a rivedere completamente l’approccio:

  • l’emergere di un’attenzione al rapporto lingua parlata- lingua scritta[9]
  • la proposta della lettura funzionale e silenziosa dell’Association française pour la lecture [10]
  • l’incontro (reincontro) con il metodo naturale di Freinet nella versione particolarmente pregnante proposta da Paul Le Bohec [11]
  • la conoscenza delle ricerche di E. Ferreiro e A. Teberosky sulla costruzione della lingua scritta [12]

[1] L’articolo si rifà ai contenuti del volume Gruppo nazionale lingua ‘Lettura come comprensione’ a cura di B. Malfermoni, B. Tortoli Giraldi,  Milano, Emme edizioni, 1978
[2] L. S. Vygotskij, ‘Pensiero e linguaggio’, Firenze, Giunti, 2007
[3] J. Piaget, ‘Il linguaggio e il pensiero del fanciullo’, Firenze, Editrice universitaria, 1955
[4] J. Bruner, ‘Studi sullo sviluppo cognitivo, Roma, Armando, 1968 , p. 60
[5] T. De Mauro, ‘Introduzione alla semantica’, Bari, Laterza, 1965
[6] L.S. Vygotskji, A. Lurija, A. Leontiev, ‘Psicologia e pedagogia’, Roma, Editori Riuniti, 1971
[7] L.S. Vygotskji, ‘Immaginazione e creatività nell’età infantile’, Roma, Editori Riuniti, 1972
[8] Mialaret G., ‘Apprendimento della lettura’, Roma, Armando, 1967
[9] L. Lentin, ‘Dal parlare al leggere’, Milano, Emme edizioni, 1979
[10] J. Foucambert, ‘Come si impara a leggere- la lingua scritta come codice autonomo rispetto alla lingua orale’, Milano, Emme edizioni, 1981
[11] P. Le Bohec, B. Campolmi, ‘Leggere e scrivere con il metodo naturale’, Bergamo, Junior, 2001
[12] E. Ferreiro, A, Teberosky, ‘La costruzione della lingua scritta nel bambino’, Firenze, Giunti Barbèra, 1985




Che cos’è? Ovvero sulla filosofia insegnata agli allievi della primaria

di Agata Gueli

Che cos’è? Ovvero sulla filosofia insegnata agli allievi della primaria
Che cos’è? , una domanda che ci sentiamo fare mille volte dai bambini quando sono nelle aule scolastiche, quando sono nelle loro case. Talmente tante volte da
riconoscerla solo come espressione di una curiosità da soddisfare velocemente, senza andare oltre.
Che cos’è?, τί ἐστί, è anche la domanda che Socrate pone ai suoi occasionali interlocutori, allorché vuole aprire con loro un confronto profondo sulla giustizia, ad esempio, per capire se sia meglio riceverla o farla, oppure sul bene, la virtù e altro ancora.
Così leggiamo negli scritti socratici di Platone e non abbiamo difficoltà ad affermare che ci stiamo occupando di filosofia, perché questo è l’orizzonte in cui si muovono Socrate e Platone, cioè quello della ricerca di significati da attribuire a qualcosa, di analizzare nessi, di dare risposte a domande complesse, senza, però riuscirci sempre in maniera univoca e non necessaria di altre indagini conoscitive.
Per quale ragione, allora, non attribuire alla domanda posta da un piccolo allievo della primaria il valore di un iniziale e possibile dialogo filosofico? In altri termini ci stiamo chiedendo se s a o no possibile fare filosofia con lui, con i suoi compagni.


La risposta è sì, si può, anzi si deve. Si può nel momento in cui quella domanda non si faccia morire dopo un’arida risposta, ma la si renda piattaforma ideale per dialogare insieme, per farsi insieme altre domande, per cercare risposte, ancora insieme.
Si deve perché solo così si dà senso e significato all’azione dell’istruire e dell’educare a scuola, individuandone il fine ultimo: formare il pensiero critico.
Andando per ordine, diciamo subito che nella generica formula didattica per competenze, ben nota ad ogni docente, occorre identificare un significato profondo della parola competenza, che rintraccio in Durkeim, allorché scrive che bisogna “costituire in lui (l’allievo) uno stato profondo, una sorta di polarità dell’anima che l’orienti in senso definito, non solo durante l’infanzia, ma per tutta la vita” (1)

La competenza, dunque, come stella polare per procedere sicuri nei sentieri della vita.
Ma come costruirla a scuola? La parola competenza evoca un metodo di lavoro, richiede processi da attivare, il clima favorevole per costruirla, la partecipazione emotiva degli allievi, ai quali fare vivere la sfida dell’impresa conoscitiva, la voglia di andare avanti. La classe come luogo in cui accettare con gioia la sfida della conoscenza, ogni aspetto della quale ri – costruire insieme, passo dopo passo, frammento dopo frammento, domanda dopo domanda. Come se ogni allievo fosse un interlocutore occasionale di Socrate.
Infatti è qui che risiede la sfida che il docente deve accogliere: sentirsi parte di una comunità ermeneutica, la classe, nella quale mettere in atto un modo di operare che ha a suo fondamento l’applicazione di una metodologia rigorosa, quale quella indicata dai fondatori della filosofia analitica di fine 1800 ed inizi 1900, che alla filosofia attribuirono (o ri-attribuirono?) il significato di un tessuto metodologico che, sostenuto da una solida padronanza epistemologica di ogni settore del sapere, rendesse possibile attivare processi di costruzione del sapere stesso o, in aggiunta, dei saperi nel loro interrelarsi continuo.

Allora, se la filosofia analitica considera l’analisi come un metodo di lavoro, questo in cosa consisterebbe nella classe della primaria ( e non solo)? Si realizzerebbe, a nostro avviso, attraverso i dià-logoi, cioè l’uso dei discorsi nell’interscambio delle idee, dei pensieri, per provare a costruire ogni conoscenza ricomponendone le parti, frammento dopo frammento. Come con un puzzle, o con le costruzioni che hanno appassionato ognuno di noi da bambini. Ogni pezzo è parte di una procedura che condurrà verso il risultato, l’apprendimento, che si rivelerà in tal modo autentico, dunque duraturo ed atto a produrre tratti fondamentali della “polarità dell’anima”, o, per dirla più correttamente, abiti mentali. E ogni allievo sarà lieto di avercela fatta da solo, perché messo nelle condizioni di porre domande, ricevere altre domande, esprimere ragionamenti, fare ipotesi, verificare, osservare, imparare: lui, con i compagni e l’insegnante, tutti immersi nella scoperta, passo dopo passo.
Tutti insieme a fare filosofia, ad apprendere filosofia. Usare la capacità di pensiero per fare filosofia; applicare le categorie del conoscere per apprendere. Ci ritorna in mente Aristotele con i suoi predicati ed anche Kant con le sue categorie della conoscenza: in entrambi i casi l’uso che se ne fa è quello di mettere ordine, di organizzare la conoscenza. È ciò di cui ha bisogno l’uomo sin da quando inizia a conoscere sé, il mondo e sé e il mondo insieme: mettere ordine, organizzare, ridurre il molteplice ad una unità di conoscenza. Così il nostro piccolo allievo condotto dal suo maestro o dalla sua maestra nelle vie del conoscere: “si tratta di un’educazione al pensiero logico e analitico diretto alla soluzione di problemi” (2), e “consente di
apprendere ed affrontare le situazioni in modo analitico, scomponendole nei vari aspetti che le caratterizzano e pianificando per ognuno le soluzioni più idonee” (3)

Quali gli ingredienti necessari per attivare questi processi di formazione del pensiero
critico, per costruire atteggiamenti non dogmatici, ma liberi e sovrani della conoscenza, per dirla con Don Milani? Mi limiterò ad indicarne uno soltanto, ma fondamentale: la padronanza epistemologica della disciplina che si insegna. Perché disciplina è un dispositivo organizzatore del sapere sapiente che deve essere trasformato in sapere insegnato. Ma senza conoscere il sapere sapiente, quello della scienza che sta prima della disciplina, non si sarà mai in grado di percorrere la via della ri-costruzione della sua essenza, delle sue ragioni profonde, quelle, per fare un esempio, che ti spiegano perché esistono i verbi e non solo i nomi, cosa sono le forme e cosa sono le funzioni nel sistema lingua. Allora, proviamo ad entrare in classe e a cominciare una lezione di grammatica con i nostri piccoli allievi ponendoci insieme una domanda: perché abbiamo inventato i verbi? Il resto verrà da sé.

(1)  In E. Morin, La testa ben fatta, 2000
(2) In INDICAZIONI NAZIONALI E NUOVI SCENARI, 2018
(3) ibidem

Sul tema del FARE FILOSOFIA CON I BAMBINI, puoi vedere anche un nostro video con una “lezione” di Matteo Saudino

 




“Innovare il curricolo”, il libro di Stefano Stefanel scritto in pieno lockdown

di Ariella Bertossi

Timidamente noi, fieri di essere parte del “suo gruppo”, esibiamo quasi con pudore la nostra piccola copia del suo ultimo libro con dedica. Ne scrive una per ciascuno, quando andiamo a prendercela scappando dal nostro mondo così complesso: andiamo a trovare Stefano Stefanel nella sua scuola a Udine.
Durante la pandemia alcuni dirigenti scolastici del Friuli Venezia Giulia hanno trascorso virtualmente insieme un lock down comune, ritrovandosi settimanalmente in meeting a tema.
L’idea è nata per accompagnare i primi passi dei nostri colleghi neo dirigenti, provati da una prova del fuoco terribile e successivamente per condividere, insieme a tutti i nostri dubbi, anche le nostre strategie, le idee, le azioni e la determinazione nell’affrontare le difficoltà di un periodo che in ogni momento chiedeva nuovi adattamenti.
I vari appuntamenti sono diventati sempre più importanti, sempre più attesi e sempre più interessanti. Ci abbiamo scherzato su, ma così come durante un’epidemia è nato il Decameron, anche durante il nostro isolamento qualcosa di buono si è creato.
Li abbiamo chiamati “Incontri sotto le stelle” perché si sono tenuti nella parte finale delle nostre dure giornate e la crescita è stata per tutti, non solo per i nostri colleghi più giovani. Instancabili e con piacere sono venuti a trovarci i più grandi nomi del panorama pedagogico e didattico italiano, tra gli altri sono stati con noi Roberto Maragliano, Giancarlo Cerini, Franca da Re, Raffaele Iosa, Roberto Trinchero, Franco de Anna: Stefano Stefanel a fare da cornice e padrone di casa.
Lui è il mentor di tutti noi, è l’insegnante vero, quello che tutti vorremmo avere, quello che ti fa credere in te stesso perché comprendi che è lui per primo a credere in te. La sua capacità di sintesi, di vedere e di comprendere non solo le vie d’uscita, ma soprattutto i problemi che ci stanno opprimendo, si trova tutta nel suo ultimo libro “Innovare il curricolo”, un’utile lettura in questo periodo e del tutto condivisibile nei contenuti.


Mentre insomma il Covid-19 consumava tutte le nostre energie, l’instancabile Stefanel ha meditato, scritto ed elaborato il pensiero su quelli che sono i temi caldi del momento nel mondo della scuola. Sembra un libriccino, ma dentro c’è tutto, tutto quello che serve alla scuola. Ancora una volta il nostro mentor ha colto nel segno, riuscendo ad individuare le sfumature e le necessità per poter operare a passo con i tempi.
Le scuole non hanno le stesse velocità: alcune hanno preso il volo, altre arrancano per stare dietro a quanto di continuo si propone e alle novità legislative, ma sia per le prime che per le seconde il tempo di revisione e ristrutturazione del curricolo è sempre il presente. Questo libro da’ indicazioni precise, un manuale utile e pratico, come sempre l’autore sa fare. Partendo dagli esempi concreti di linee di indirizzo per la stesura del PTOF da dare al collegio, passando attraverso Don Milani e le Charter School, nei vari capitoli si affrontano i punti focali del dibattito sulla scuola.
L’educazione civica è la novità di quest’anno e viene proposta sia nella dimensione valutativa che in quella progettuale, spiegando come applicare nelle scuole i due diversi approcci. In un paio di pagine sono racchiuse delle profonde riflessioni relative allo studio della storia. Alludendo a quanto accade anche nel nostro paese (ad es. il negazionismo della Shoah, l’uso del saluto fascista, l’associazione comunismo-nazismo) si condanna la scelta riduttiva dello studio del Novecento, ripreso alla fine della terza media e in quinta superiore, senza quella continuità verticale che sarebbe auspicabile come approccio.
La comprensione dei fenomeni storici importanti sfugge pertanto agli studenti, racchiusi in percorsi che sembrano più macchine che linee del tempo e non facilitano la contestualizzazione di ciò che studiano con quanto poi fanno nella vita reale.
La via d’uscita è la proposta di separare il Curricolo di Storia dal Curricolo della Memoria, il primo per i nostalgici dei Programmi, il secondo per lo sviluppo di quelle competenze civiche e di cittadinanza che forse più di tutte la scuola dovrebbe dare.
Molto interessanti sono anche i capitoli sul digitale, con l’attenzione al BYOD e quello sul curricolo e valutazione. Ora che anche Riccardo Muti ha demonizzato i pifferi a scuola, siamo tutti più sereni e convinti della necessità di rivedere le consuete modalità didattiche nell’approccio alla musica, con buona pace di tutti i vicini di casa degli scolari d’Italia. Le riflessioni sono ampie condivisibili, ma non vorrei spoilerare di più: causa Covid non saranno possibili incontri con l’autore, un peccato perché anche a voce l’interazione con Stefanel sarebbe stata piacevole.
Direi che il libro è un buon strumento di lavoro per chi di scuola si occupa e una guida per rimettere in discussione certe pratiche ormai datate e documenti che rischiano di essere sterili incombenze invece di utili piste di lavoro.




C’è ancora un futuro per la scuola?

di Raimondo Giunta

 

RIPENSARE LA SCUOLA

Ragionare di scuola nei giorni in cui viene sacrificata e costretta alla didattica a distanza per coprire le pubbliche inadempienze soprattutto in materia di trasporti pubblici, dopo mesi estenuanti e difficili in cui gli istituti scolastici hanno lavorato per garantire in sicurezza la ripresa delle attività didattiche del nuovo anno scolastico, può sembrare un mero esercizio retorico; forse una provocazione in un clima di esasperata delusione.
Credo invece che serva per alzare lo sguardo “in modo da contrastare il rischio di ritirarci impauriti e talvolta rabbiosi nel nostro particulare.” (Chiara Saraceno).
Se vogliamo pensare al futuro con ragionevole speranza, sempre con la scuola dobbiamo fare i conti, perché necessariamente ci proietta su quello che potrebbe essere il nostro domani, avendo il compito di prendersi cura delle nuove generazioni .

Ma la scuola così come l’abbiamo vissuta e così come ancora funziona ha un suo futuro? Questo è il problema e non è per nulla ozioso che in modo particolare chi riveste un ruolo in un sistema di istruzione si chieda come dovrebbe/potrebbe essere la scuola fra qualche anno. Pensarci significa impegnarsi per impedire, ognuno per la propria parte, che la scuola si lasci trascinare dagli eventi, anche se non è dato di potere definire con nettezza i confini di quel che sarà la nostra società tra un decennio, ma sapendo già che sono cambiati gli orientamenti e le scelte di moltitudini di persone relativi ai processi di istruzione e formazione.
La scuola che verrà dovrà fare i conti sia con le mutate esigenze di molte famiglie e della società, sia col fatto che fuori della scuola esistono tanti modi di istruirsi e tanti modi di far valere quello che si è imparato fuori dai circuiti istituzionali.

Grandi sono sempre in questo campo le responsabilità delle autorità preposte alla guida e alla direzione di una società; responsabilità che per forza di cose si iscrivono nella logica politica e culturale di chi deve prendere delle decisioni, portarle avanti e darle un senso, proponendo di conseguenza valori e criteri prioritari con cui governare l’eventuale processo di rinnovamento del sistema di istruzione e formazione.
Responsabilità che non dovrebbero privarsi del contributo di pedagogisti, di sociologi, di uomini di scienza e di cultura, di uomini di scuola e del mondo del lavoro.
Su questo tema, sotto gli auspici della Revue Internationale d’Education de Sèvres, si è svolto il convegno “Réformer l’éducation”,di cui sono stati pubblicati gli atti, anche on-line(n83/2020).Vale la pena di leggerli.
Negli interventi degli studiosi provenienti da diverse parti del mondo vengono affrontati quei problemi sui quali dovrebbe esercitarsi la riflessione per potere elaborare proposte di rinnovamento del sistema di istruzione e formazione, che tengano conto dei fattori di trasformazione della società e del ruolo che la scuola vi deve avere.
Un convegno che non si è dovuto misurare con le ferite arrecate alle scuole in ogni parte del mondo dalla pandemia del COVID 19, che ha reso più acuti gli interrogativi sul destino della scuola, sull’identità e sul significato che debba avere.
La stessa necessità di ricorrere alla didattica a distanza per mantenere nei limiti del possibile il rapporto educativo con gli alunni si è subito trasformata in una opportunità per proporre di ristrutturare le procedure abituali dell’insegnamento, di riconfigurare con uno sguardo proiettato nel futuro gli ambienti di apprendimento e l’articolazione del rapporto tra alunni e luoghi di formazione.

LA SCUOLA E I MOLTI LUOGHI DELL’ APPRENDIMENTO

Da tempo non c’è pace nel mondo dell’istruzione; un mondo attraversato da fortissime tensioni che possono lacerarne il tessuto e che se non sono adeguatamente governate possono sfociare in soluzioni che rischiano di farne perdere la complessità e la ricchezza culturale. E la complessità va governata, non mutilata a colpi di accetta.
Sono le tensioni fra tradizione, saperi consolidati e attualità e saperi emergenti; tra scuola formale e molteplicità dei luoghi e delle occasioni di apprendimento; tra ripiego comunitario e apertura alla diversità; tra funzione educativa e adattamento funzionale ai cambiamenti della società; tra zone favorite e quelle sfavorite; tra servizio pubblico e scuola a domanda individuale.
Fa da sfondo a queste polarità lo sviluppo impetuoso della multimedialità e dell’informatica, che segneranno qualsiasi soluzione potrà essere data nel futuro al sistema di istruzione e formazione, perché costituiscono di fatto lo spazio degli ambienti di apprendimento.

Alla scuola non è dato di pensare di restare ferma, ma nemmeno di infilarsi in modifiche che invece di rinnovarla, la possono snaturare. Non ha bisogno di scelte casuali, ma di quelle sensate, siano a breve o a lungo termine.
E queste sono possibili se ci si curerà del quadro generale dell’istruzione e della formazione; se ci si curerà del come, del cosa, ma soprattutto del perché si debba fare scuola.
La scuola è un’istituzione in cui si opera bene soltanto lavorando secondo finalità. Se riforme/innovazioni devono esserci, per misurarle e per valutarle bisognerà vedere fin dove e come riescano a salvaguardare il carattere dell’istruzione/formazione come bene comune, disponibile per tutti, come fondamento di coesione sociale; bisognerà constatare se e come siano riuscite a dare una risposta alle richieste più significative che dalla società nel suo insieme vengono formulate.

Un problema che acquista un rilievo crescente nei sistemi di istruzione è quello che emerge nel rapporto tra scuola formale e la molteplicità dei luoghi e delle occasioni di apprendimento, fenomeno questo che può trasformare il mondo della scuola e alterarne la natura.

Ci sono bisogni di apprendimento sempre più estesi e in vario modo sostenuti, che non sempre hanno risposte dentro i sistemi scolastici; per un verso cresce la corsa a rifornirsi in luoghi altri dalla scuola e per un altro si cerca di condizionare ogni singolo istituto con la richiesta  di modifica dei curricoli e di integrazioni formative a immagine e a convenienza di quel gruppo di persone che sono in grado di sostenerla e di farla valere.
Un fenomeno che potrebbe sfuggire di mano e che in alcuni settori della società potrebbe fare crescere l’aspettativa di un superamento di un sistema che non riesce o che non vuole accompagnare questa corsa all’impossessamento privato di quel bene pubblico che è la conoscenza.

In questo potenziale conflitto è in gioco il destino della funzione conoscitiva della scuola.
Nel momento in cui in qualsiasi luogo si può apprendere, che cosa si deve e si può apprendere a scuola? Non è una novità che la scuola e quindi l’insegnante non siano più nella società attuale gli unici dispensatori di conoscenze.
Che non siano più gli unici, non vuol dire che non lo possano più essere.
Questo comporta che con chiarezza debba essere circoscritta, indicata e valorizzata l’area specifica che in questo campo attiene alla scuola e che solo a scuola può essere coltivata.
Il sistema scolastico è legittimato ad esistere, perché ancora è tenuto a svolgere il compito di trasmettere da una generazione ad un’altra il patrimonio di saperi, di conoscenze, di tecniche e di valori del passato e solo per questo ha un senso che in ogni scuola si incontrino studenti e docenti.
La scuola non può smettere di essere luogo di trasmissione razionale e ordinata del sapere, luogo di formazione di conoscenze solide e strutturate.
A scuola si costruiscono, si formano le basi concettuali di alcuni saperi che si ritengono necessari e con le quali in seguito si può progredire in autonomia in quello che si sceglie di coltivare.
I saperi sono beni immateriali che costituiscono l’infrastruttura della nostra civiltà; sono fini da rispettare e mezzi per crescere e per apprendere altri saperi.
Ma si apprendono con procedure rigorose e controllate. Questo risultato non può essere ottenuto attraverso i media o con internet, nei quali è prevalente la componente emotiva e con i quali è possibile informarsi, ma non istruirsi seriamente.

LA FUNZIONE CONOSCITIVA

La funzione conoscitiva della scuola, oggi, va esaltata e rinforzata; non c’è senso critico, di cui si ha grande bisogno, se non si possiede una rete concettuale ampia, solida e strutturata.
Non è l’ultima conoscenza, l’ultima novità che qualifica il lavoro a scuola, ma la capacità di saperne cogliere il senso e il valore.

La scuola moderna affonda le proprie radici nella cultura illuministica; ne sono derivati come finalità del proprio operare, il desiderio di conoscere, il sapere critico e documentato, la ricerca metodica, l’amore per le scienze, la lotta contro le superstizioni e le credenze popolari. Tenendovi fede, a scuola si può far compiere negli alunni il passaggio dal senso comune all’interpretazione razionale di sè e del mondo che li circonda, li si può rendere capaci di controllare la consistenza e la veridicità di molte informazioni che circolano nel mondo, li si può formare ad utilizzare bene internet e le risorse dell’informatica.
Altrimenti come dice B.Vertecchi gli alunni saranno fortemente attratti da dispositivi che riducono la loro operatività; che limitano le acquisizioni di capacità di scrittura, di lettura ad alta voce, di calcolo, di osservazione dei fenomeni, di soluzione dei problemi, di acquisizione di un lessico appropriato per formulare e comunicare concetti.

La scuola per sostenere la funzione conoscitiva non può parlare di qualsiasi cosa. E’ tenuta ad adottare criteri ragionevoli e condivisi dalla società per proporre i saperi e le conoscenze che siano conformi alle sue competenze.
E’ necessario passare dal paradigma dell’allargamento dell’enciclopedia dei saperi, come fin qui si è fatto, a quello della loro selezione, perché la scuola non si disperda nella moltiplicazione degli intrecci col mondo esterno. L’autonomia del sistema scolastico si esprime nella capacità di avere propri criteri di riferimento per stabilire la gerarchia dei saperi che deve trasmettere e delle competenze che deve formare; nella capacità di dettare codici di comportamento, di organizzare modi di apprendimento, di difendere il proprio linguaggio e le proprie regole di comunicazione.
Questi criteri di riferimento sono l’anima culturale di un sistema scolastico. Autonomia, non autoreferenzialità: nessun sistema scolastico potrebbe sopravvivere chiudendosi ai grandi temi culturali della propria epoca, ai problemi della società in cui è collocato.
Quello che si vuole dire è che la scuola non è solo apertura; è anche per certi aspetti ” diversità” e “separatezza”.
“La storia della scuola è la storia di una separazione: separazione dei bambini rispetto agli adulti; separazione della preparazione alla vita relativamente alla vita stessa; messa in disparte degli apprendimenti rispetto all’attività produttiva”(B.Rey).
Il paradosso della scuola  è quello di essere un’istituzione separata nella quale si dispensano conoscenze slegate dalla vita quotidiana ed avere la vocazione di preparare alla vita sociale .La scuola non è il luogo delle situazioni reali.
“La scuola è un luogo dove si svolge un particolare tipo di lavoro intellettuale che consiste nel ritirarsi dal mondo quotidiano, al fine di considerarlo e valutarlo, un lavoro che resta coinvolto con quel mondo, in quanto oggetto di riflessione e di ragionamento”(L.Resnick).
La scuola non può e non deve limitarsi ad assicurare una semplice continuità con la società che l’attornia o con l’esperienza quotidiana.
“Essa è quella particolare comunità in cui si fa l’esperienza di scoprire le “cose” usando l’intelligenza e ci si introduce in nuovi e inimmaginati campi d’esperienza”(J.Bruner)

In pagine di aspra ed efficace polemica contro certe tendenze pedagogiche e di politica scolastica, G. Ferroni nella “Scuola sospesa” affermava che non è sensato rendere il sistema scolastico subalterno ai modelli della comunicazione di massa e al consumo tecnologico, perché i quadri concettuali delle discipline e i metodi che sono loro propri non cambiano per l’uso delle tecnologie. Affermava, anche, che bisogna evitare ogni forma di illusione, di accecamento tecnologico.

Questo non significa che non si debbano considerare e comprendere le implicazioni della tecnologia dell’informazione nella trasmissione del sapere, che non ci si debba fare arricchire dalla tecnologia, di usarla come mezzo. Nell’organizzazione e nella trasmissione delle conoscenze, delle tecniche e del patrimonio culturale del passato i saperi scolastici per le loro caratteristiche (analiticità, sequenzialità, astrazione, logicità, primato della scrittura) superano di gran lunga altre forme di diffusione e di comunicazione delle conoscenze.
Per risultati di questo genere gli alunni devono imparare a porre proposizioni limpide, a compiere processi di astrazione, a fare ordinate classificazioni, a svolgere argomentazioni rigorose, a immaginare modelli, ad enunciare generalizzazioni, a procedere ad applicazioni ai casi particolari .

Riproporre e sostenere con forza la funzione conoscitiva della scuola significa fare la parte più grande della riscrittura della missione della scuola nel XXI secolo. La scuola deve ricentrarsi sul compito cruciale dell’istruzione, così come si è tentato di parlarne; deve per equità garantire l’uguaglianza di tutti davanti all’accesso al sapere; deve educare a riconoscere la pertinenza delle informazioni e il valore dei saperi; deve educare ad amare sapere e conoscenza e convincere che l’apprendimento non è mestiere che vale solo per la scuola, ma per tutta la vita di ognuno di noi. Nella situazione odierna la posizione di una persona nella società e nella cultura di appartenenza non dipende da un processo casuale di apprendimento; ma da una specifica e programmata attività di formazione che solo a scuola può svolgersi.
Scuola della conoscenza ed equità sono la stessa cosa.
Bisogna scommettere su una scuola che afferma alto e forte la sua missione cognitiva.




Stop alle uscite didattiche fino al 13 novembre. Intervista con Raffaele Iosa

Con il DPCM emanato il 13 ottobre, il Governo dispone che viaggi di istruzione e visite guidate sono sospese fino alla scadenza del decreto, fissata nelle premesse al 13 novembre prossimo.
Il decreto parla anche di “uscite didattiche comunque denominate”: in altre parole non sarà possibile neppure uscire dalla scuola per andare a piedi fino alla biblioteca comunale o nel centro cittadino per studiare da vicino un monumento.

Nella nostra video-intervista il parere dell’ex dirigente tecnico Raffaele Iosa.

 




La centralità dell’insegnante

di Raimondo Giunta

  • DALL’INSEGNAMENTO ALL’APPRENDIMENTO.

Nel processo di formazione l’insegnante svolge opera necessaria di  mediazione tra il sapere costituito e il bisogno di apprendere dell’alunno; un bisogno che non può essere preso a pretesto per volerne la sottomissione, perché la funzione e la posizione dell’insegnante non possono essere sostenute da alcuna pretesa di potere sugli alunni. Ciò nondimeno, anche sgombrate da ogni forma  impropria di autoritarismo la funzione e la posizione dell’insegnante, da qualche tempo e da più parti  sono state sottoposte a critiche severe, alcune delle quali più suggestive che fondate.

Si sa che la scuola e quindi l’insegnante non sono più nella società attuale  gli unici dispensatori delle conoscenze, divenute ormai  reperibili in ogni momento e in ogni luogo.
Che non siano più gli unici, non vuol dire che non debbano più svolgere la funzione di trasmetterle o che non lo possano più fare.
Questo comporta che con chiarezza debba essere circoscritta, indicata e valorizzata l’area specifica che in questo campo attiene alla scuola e che solo a scuola può essere coltivata.
Fatto che richiede specifiche  prestazioni professionali, connesse necessariamente alla funzione magistrale dell’insegnante, alla sua responsabilità di orientamento e di direzione nei processi di formazione.

Da più parti si afferma che la centralità della figura dell’insegnante, come si constatava nei modelli educativi del passato, debba essere sostituita da quella che deve avere  l’alunno nel nuovo modo  di fare scuola.
Una rivoluzione copernicana, in sintonia con le trasformazioni di costume, con l’espansione dell’area delle libertà individuali e con gli orientamenti  di alcuni filoni della psicologia.
Significativa, perché esalta anche il dovere di attenzione e di cura, trascurato a volte per lo spazio esclusivo assegnato al compito di trasmettere saperi e conoscenze.
Bisogna, allora, cercare di capire quali siano le conseguenze che ne derivano, se questa tensione etico-pedagogica metta in discussione il primato della conoscenza goduto nel passato e che  ha avuto come suo interprete autorevole l’insegnante con la sua cultura.
Se sono un problema di prima grandezza il ruolo e la posizione che l’alunno deve avere nelle relazioni pedagogiche, certamente in queste non può sparire l’insegnante e non può sparire il sapere.

Sul piano gnoseologico il nuovo modello educativo propone per una maggiore efficacia di dare spazio maggiore, se non esclusivo, all’apprendimento. Una proposta che può destare qualche perplessità, se si vuole lasciare intendere che in questo ribaltamento l’alunno possa apprendere da solo e l’insegnante col suo sapere sia un impedimento.
Il primato dell’apprendimento ad ogni buon conto non può prescindere dal valore dei contenuti e dai saperi che si possono e si devono apprendere a scuola. Il sistema  scolastico è legittimato ad esistere, perché tenuto a svolgere il compito di trasmettere da una generazione ad un’altra il patrimonio di saperi, di conoscenze ,di tecniche e di valori del passato e solo per questo ha un senso che in ogni scuola si incontrino studenti e docenti.
La scuola non può smettere di essere luogo di trasmissione razionale e ordinata del sapere, luogo di formazione di conoscenze solide e  strutturate.
Per essere in grado di partecipare alla vita sociale ed esercitare i diritti di cittadinanza, i giovani devono portarsi all’altezza dei saperi e delle conoscenze che è necessario possedere.
Delle innovazioni non si deve avere paura, e quando le circostanze lo richiedono vanno introdotte, ma sapendo in partenza definire i propri fattori di riuscita e quelli eventuali di insuccesso; sapendo conoscere e praticare le regole del giuoco che si vuole fare.
Non si cambia per il semplice gusto di cambiare .I modelli educativi, che sono cosa seria, variano in funzione della concezione che si ha dell’uomo, della società e delle loro relazioni e non per caso o per moda.

  • ARTEFICI DEL PROPRIO APPRENDIMENTO

Nel paradigma che si vuole sviluppare ed estendere l’iniziativa dell’apprendimento viene affidata all’alunno e l’insegnante da mediatore privilegiato del sapere si trasforma in un organizzatore di situazioni di apprendimento.
A soccorso di questa innovazione vengono chiamate  diverse formulazioni del costruttivismo, secondo le quali l’apprendimento è visto come attività di chi apprende ,sia individualmente sia in un gruppo di pari.
Le concezioni costruttivistiche sottolineano la centralità del soggetto apprendente che attivamente e intenzionalmente costruisce la propria conoscenza e riflette sul proprio modo di apprendere .Sono teorie che intendono creare un quadro di intelligibilità delle pratiche didattiche, anche se non ne privilegiano qualcuna in particolare e stimolano a precisare le intenzioni pedagogiche e a determinare meglio le procedure più adeguate per gli scopi che si vogliono realizzare. Sono un quadro di riferimento, non modelli da applicare ciecamente.
Per cui fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire “ le loro conoscenze non sarà per nulla facile, perché comporta un lavoro di innovazione di un certo rilievo e soprattutto perché non viene mai meno il compito dell’insegnante di convincere  gli studenti ,che spesso non mostrano particolare attenzione e interesse per tutto quello che si fa a scuola, del valore e dell’importanza degli argomenti che vengono affrontati nelle attività didattiche. Altrimenti sarebbe difficile vederli all’opera; a spingerli a lavorare non sarà la propria autonomia, ma il convincimento di fare cosa buona e giusta.

Ad ulteriore chiarimento va detto che se si possono modificare gli ambienti di apprendimento per dare spazio all’attività del soggetto apprendente, l’epistemologia dei saperi da apprendere non cambia affatto.
Le strutture del sapere sui quali devono essere edificate le competenze non sono nella libera disponibilità degli alunni e dei docenti e non è una buona idea non educare gli alunni a misurarsi con i vincoli di questa necessità. Per possedere certi saperi è una necessità apprendere quel che va appreso, quale che sia il modo di apprenderlo. Per consentire ai giovani di accedere a particolari professioni e a determinate occupazioni è assolutamente indispensabile che il tenore dei contenuti, la loro progressione debba essere stabilita da chi dirige il sistema di istruzione; responsabilità delegata alle singole scuole e agli insegnanti e che non può essere nè negata, nè trascurata, nè arbitrariamente modificata.

Il valore fondante del nuovo modello pedagogico è l’autonomia dell’alunno, che in tanto è possibile formare e sostenere , in quanto viene messa alla prova nelle relazioni del processo formativo, nelle modalità di sviluppo delle procedure didattiche.
Autonomia, si spera, come “capacità di autodeterminazione e di autoregolazione, secondo un adeguato senso di responsabilità verso se stessi, verso gli altri, la comunità, l’ambiente sociale e naturale”(M.Pellerey)
L’autonomia dell’alunno è una finalità di alto profilo, ma sarebbe incomprensibile che per essa si voglia alleggerire l’insegnante della responsabilità di trasmettere i contenuti della sua disciplina.

Non è scritto da nessuna parte che l’apprendimento debba essere noioso; è scritto che ci si debba preoccupare di renderlo interessante e anche piacevole, se è possibile.
E’ scritto soprattutto che debba essere solido e duraturo.
E a proposito di iniziativa e di autonomia dell’alunno in quali campi possono essere esercitate?
Sulla scelta degli argomenti?
Sulle modalità del lavoro scolastico?
Sulla valutazione dei risultati di apprendimento?
Sulla tipologia delle prove?
”Un processo costruttivo che voglia essere valido e fecondo implica che chi lo mette in pratica abbia a disposizione un progetto chiaro e puntuale nelle sue varie componenti, sintetizzabili nella questione; perchè e come. Ma è ben difficile che nel caso dell’apprendimento di nuove conoscenze il progettista e il capocantiere possa essere lo stesso studente”(M.Pellerey)

  • IL MAGISTERO DELL’INSEGNANTE

Le ricerche di John Hattie sull’efficacia delle metodologie didattiche hanno messo in evidenza la funzione centrale del docente nei processi di formazione e che quando manca la sua direzione gli approcci didattici innovatori ,ai quali si affidano molte speranze , non danno i risultati sperati. I metodi meno direttivi favoriscono gli alunni migliori ,mentre danneggiano i più deboli, perché per loro è più pesante il carico cognitivo per fare fronte alle responsabilità loro assegnate.
Le procedure di insegnamento diretto, contro le quali si continua a schierarsi, danno migliori risultati.
”Quando l’insegnamento esplicito è chiaro e il docente mette in luce i passaggi fondamentali e le variabili critiche di quanto espone, evidenzia i percorsi e gli schemi mentali che debbono essere utilizzati e l’appropriato vocabolario che deve essere padroneggiato, egli rende visibile ed esplicito quanto potrebbe rimanere nascosto e implicito.”(M.Pellerey).

Se un alunno deve affrontare un contenuto nuovo e di un certo spessore culturale e teorico, il buon senso dice che è opportuno che venga introdotto nei concetti che lo costituiscono e che venga guidato nella pratiche messe in campo per acquisirne le abilità essenziali.
Solo dopo che avrà acquisito gli elementi fondamentali e li ha conservati ben strutturati nella sua memoria può essere indirizzato a svolgere in autonomia le proprie ricerche o a risolvere i problemi che gli vengono assegnati.
L’insegnamento esplicito e diretto, che nella lezione ha uno dei modi di realizzarsi, non toglie nessuna iniziativa all’alunno, non ne menoma il compito e l’impegno di apprendere ,anzi facilita questa avventura intellettuale, perché toglie di mezzo tanti ostacoli superflui.
Sono il significato e la funzione che si danno a questo tipo di intervento a determinare il grado di autonomia che viene lasciato all’alunno e che si dà alla sua attività di apprendimento.
Lasciato a se stesso non è detto che l’alunno eserciti la sua autonomia nel modo migliore e più efficace.
L’insegnamento diretto non si riduce chiaramente alla lezione frontale, e tutti gli altri modelli didattici non possono fare a meno della direzione e della guida culturale dell’insegnante.
Solo svolgendo la sua funzione magistrale l’apprendimento dell’alunno potrà essere, stabile, significativo e fruibile.
Il suo compito non si colloca dopo l’apprendimento dell’alunno, ma prima e accanto e non è ragionevole e in alcun modo giustificato ridimensionarne l’importanza.
Certamente l’alunno apprende da sè e nessun altro può farlo al suo posto, ma appoggiandosi sul sostegno e l’esperienza dell’insegnante.
Per apprendere l’alunno ha bisogno di incontrare situazioni di comunicazione, di scambio e di confronto con chi ha esperienza e conoscenza.

Con questo non si vuole dire che il sapere dell’insegnante debba essere replicato dall’alunno, ma che è necessario per fare comprendere la distanza tra esperienza personale e sapere costituito, la complessità dei contenuti ai quali ci si deve avvicinare, le difficoltà per conquistarli, l’inestinguibilità del dovere di conoscere .
Il  sapere degli insegnanti serve per fare apprendere e se utilizzato bene per fare comprendere.
Insomma l’insegnante non è un tecnico di laboratorio e nemmeno uno psicologo.
Nessuno mette in discussione che ci sia bisogno di una diversa relazione educativa tra docente e alunno; una relazione da instaurare sul principio del valore assoluto della persona dell’alunno, che ha tutto il diritto di sapere, di capire e di farsi sempre una propria idea; perché solo la sua partecipazione attiva al processo di formazione renderà solido l’apprendimento.
Nessuno mette in discussione che per fare crescere in autonomia e in libertà l’alunno, bisogna interpellarlo, aiutarlo a problematizzare, coinvolgerlo in attività di elaborazione di senso, dargli fiducia.
Nessuno, se tutto ciò viene fatto, ha bisogno però di escogitare nuovi primati nelle relazioni educative.

”Certo anche nelle altre classi si insegnavano molte cose ,ma un pò come s’ingozzavano le oche. Si presentava loro un cibo pre-confezionato e si invitavano i ragazzi ad inghiottirlo. Nella classe del signor Bernard per la prima volta in vita loro sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo” (A.Camus).

 

 




Il disagio degli insegnanti

di Raimondo Giunta

Gli insegnanti sono a scuola in nome di una società che non vuole riconoscere il valore e il significato del ruolo che esercitano nei confronti delle nuove generazioni.

La loro autorevolezza, se e quando viene riconosciuta, deriva da quella della scuola e tutte e due sono necessarie per istituire fin dai primi anni di vita di una persona un rapporto di fiducia con le istituzioni; tutte e due, però, si nutrono del rispetto, delle cure, del prestigio che vengono ad essi assegnati da ogni componente della società. Alla radice dei malumori se non proprio dell’ostilità nei confronti della scuola e degli insegnanti va collocata l’impossibilità per la scuola di mantenere le promesse che nel passato l’hanno accreditata come un’istituzione fondamentale e imprescindibile per il funzionamento complessivo della società: buona e rifinita preparazione civica e professionale degli alunni, certificazioni indubitabili e insostituibili a garanzia di sicuri processi di mobilità sociale.
Il prezzo maggiore di questa divaricazione tra scuola e società lo pagano gli insegnanti, sempre e comunque, come si può constatare ancora oggi, anche se senza il loro contributo determinante si sarebbe perso l’intero anno scolastico a causa della pandemia. Poca comprensione nei confronti degli insegnanti, da troppo tempo al centro di un ostile e prevenuto dibattito, che sarebbe azzardato definire politico e culturale. Accanto ad esso si sono sviluppate, quasi come conseguenza, la percezione diffusa tra i docenti di una propria marginalità sociale e la convinzione di un’assegnazione esorbitante di responsabilità, priva di sostegni e di garanzie.

Nel passaggio da una scuola d’élite, alla quale l’insegnante era contiguo dal punto di vista sociale e culturale, ad una scuola di massa di fatto si è modificato il suo ruolo pubblico, ma non si sono modificati la sua consapevolezza e il suo approccio al compito da svolgere.

Lo smarrimento causato da questa transizione per molti di loro non si è ancora risolto in uno sbocco chiaramente definito di responsabilità e di comportamenti professionali, anche per la sua interminabile ed estenuante durata.

Anzi questo stato soggettivo di sofferenza, pubblicamente e più volte individuato da serie ricerche sociologiche, in alcuni casi si è accompagnato a processi di dequalificazione professionale ed è stato aggravato dalle inquietudini originate dall’emergere di nuove figure di intellettuali e di professionisti socialmente più apprezzati, e dalla lenta e continua erosione della propria posizione economica.

Nella scuola dell’autonomia, inoltre, la valorizzazione del ruolo del dirigente scolastico e i tentativi di scomposizione della funzione del docente con l’introduzione delle figure di staff hanno fatto esplodere reazioni risentite e aggressive di rifiuto nei confronti di ogni innovazione di sistema e l’insoddisfazione della propria condizione professionale.

Con l’autonomia gli insegnanti non sono andati al timone della scuola (N. Bottani).  Anzi.

I cambiamenti degli ultimi anni sono vissuti dagli insegnanti più anziani, spesso, come una grave ferita alla “parità” celebrata nei decreti delegati dei primi anni 70, come un declassamento.

L’introduzione della R.S.U. in ogni singolo istituto non ha risolto la grande questione della “dignità” e dello “status” del docente nella scuola e nella società; in alcuni casi anzi ha irrobustito il sentimento di estraneità alla proprie responsabilità pubbliche ed ha alimentato conflitti interni ad ogni sede scolastica, privi di significato.

L’esplosione della crisi e del disagio sociale degli insegnanti è da collegare alla proletarizzazione delle loro condizioni di vita, e allo stravolgimento delle aspettative di status e di considerazione sociale, causate dalle costanti politiche governative di riduzione della spesa scolastica.

Questi fenomeni vengono registrati nella coscienza di parte considerevole della categoria con inquietudine e talvolta con rancore.

Tra l’altro gli insegnanti, come categoria, nelle proprie rivendicazioni hanno avuto molte incertezze che dipendono dal fatto che come gruppo sociale non hanno unitariamente e ragionevolmente interpretato le trasformazioni che hanno investito il loro ruolo e la loro immagine sociale.

L’ideologia dell’autonomia professionale verso cui si orientano, quasi per compensazione, discrete porzioni della categoria oscilla dall’esaltazione della specificità della professione (con i tratti di incommensurabilità del proprio lavoro, enfasi sulla funzione etc) alle richieste di privilegi corporativi e rappresenta comunque un impedimento a razionalizzare la propria posizione nella società. La soluzione al problema del disagio degli insegnanti non può essere trovata nella rincorsa nostalgica di presunti antichi privilegi, anche se nelle loro contrastanti richieste di considerazione e di valorizzazione, nella loro ricerca di valori da ceto medio va riconosciuta un’esigenza che deve essere presa in considerazione e che può tornare utile all’intero sistema scolastico.

Il problema non è solo di natura economica, anche se il bisogno di un esercizio altamente professionale dell’insegnamento richiede dei costi sociali.

La questione del “prestigio” e dell’ ”autorevolezza” del docente, che emerge imperiosamente nelle aspettative della categoria, non si può relegare nell’ambito dei problemi di psicologia sociale, come si trattasse di un caso di falsa o cattiva coscienza collettiva.

Nel tempo si è visto che è un problema serio, la cui soluzione richiede un riordino generale del reclutamento dei docenti, del rapporto di lavoro, una battaglia culturale di grande respiro a sostegno del lavoro dei docenti, una modifica profonda del regime disciplinare interno delle scuole, un controllo rigoroso del lavoro scolastico.

La sindacabilità di tutte le scelte dell’insegnante a prescindere dagli aspetti squisitamente tecnici, ha tolto autonomia e dignità al lavoro dei docenti. Ha ingenerato l’insicurezza che porta alla remissività e alla condiscendenza nei confronti degli “utenti” o all’aggressività nei confronti di ogni controparte e in alcuni casi all’abdicazione alle proprie responsabilità.

Occorre ripristinare per quanto possibile quel poco o quel tanto di funzione pubblica della scuola, che serva a riportare l’insegnamento tra i compiti istituzionali di uno stato da difendere, per disancorarla dalla collocazione tra i semplici servizi sociali. La scuola e gli insegnanti dovrebbero essere uno degli aspetti tra i più civili e umani del volto delle istituzioni pubbliche presso le nuove generazioni.

Finora disagio e attaccamento ai propri doveri, rifiuto e adesione ai valori del sistema scuola sono stati i termini entro i quali si sono definiti, con tendenza al peggioramento gli atteggiamenti pubblici degli insegnanti. Bisogna rompere questa logica. Sarebbe un grave errore provocare o rafforzare con scelte sbagliate atteggiamenti e posizioni antistituzionali dell’insegnante.

Gli atteggiamenti “non collaborativi” o peggio ancora di rifiuto servono a confermare solo gli aspetti peggiori del sistema scuola (selettività, abbandono degli alunni di estrazione popolare; diffusione di comportamenti rinunciatari; degrado dell’insegnamento).

Non sarà facile uscire dal “disagio”: duraturi e radicati sono la disillusione e lo scoraggiamento degli insegnanti.

La mancanza di turn – over, la stazionarietà generazionale del corpo docente, con prevalenza di individui anziani, la friabilità di tutte le ipotesi di innovazione, che hanno frantumato le residue riserve di entusiasmo e di energie, hanno consolidato una cultura del disincanto che si potrà rimuovere con molta fatica.

Ci vuole una grande scommessa pubblica sulla scuola e sulla valorizzazione del docente per cominciare un’altra volta a sperare che le innovazioni piccole o grandi che siano, ma necessarie, possano mettere radici, consolidarsi e dare frutto. Il momento non è dei più facili e richiede un surplus di passione educativa e di cura delle persone e il mondo della scuola non si può permettere il lusso della rassegnazione

L’insegnante deve poter svolgere il proprio lavoro, senza inutili impedimenti, senza imbarazzo e senza umiliazioni.