Ma il piano estate c’entra poco con il sistema formativo allargato

Stefaneldi Enrico Bottero

Il Piano scuola per l’estate 2021 è un documento interessante perché prende finalmente atto che, dopo più di un anno di confinamento i nostri ragazzi non hanno solo (e tanto) bisogno di un tradizionale recupero didattico (soprattutto se realizzato con i soliti metodi trasmissivi) ma di luoghi di relazione di esperienze di vita sociale.
Il Piano, seguendo la normativa precedente propone “patti di comunità” tra scuola, Enti Locali, enti pubblici e privati (e assegna fondi cospicui). Assisteremo alla riedizione del sistema formativo integrato (o allargato, secondo la dizione di De Bartolomeis in Fare scuola fuori della scuola, Aracne, 2018, ) quello che abbiamo vissuto tra gli anni 70 e 80? C’è da dubitarne.
Tra allora e oggi abbiamo assistito a un’importante modifica strutturale del nostro sistema. Con il principio di sussidiarietà (formulato per la prima volta da Papa Leone XIII nel 1891 contro lo Stato laico e liberale) è stata attribuita di fatto funzione pubblica ad enti privati. Nello stesso tempo con le leggi degli anni 90 negli Enti Locali è stata introdotta una logica aziendale di tipo privatistico.
Come già notava allora De Bartolomeis “l’allargamento conquista scarso spazio senza il contributo decisivo dell’Ente Locale”.
Oggi purtroppo, in nome dell’efficienza (sic!), la logica privatistica ha invaso lo spazio sociale, anche le Istituzioni. In queste condizioni, come osserva Christian Raimo in un recente articolo pubblicato su Internazionale, è logico porsi la domanda: accordi tra scuola e terzo settore (un terzo settore falcidiato dalla crisi e affamato di contratti) saranno in grado di costruire progetti pedagogicamente fondati e motivati da un reale interesse collettivo? Chi farà la regia di tutto questo ora che Stato ed Enti Locali hanno ormai quasi del tutto dismesso i loro servizi diretti (quasi spariti gli insegnanti comunali di allora, servizi educativi assegnati a cooperative e privati, ecc.) in nome della sussidiarietà? Bastano la buona volontà e i soldi se non ci sono le condizioni strutturali? Spero di sì, naturalmente, ma un’analisi spassionata non permettere di essere molto ottimisti.




Sorridere, voce del verbo insegnare

di Mario Maviglia e Laura Bertocchi

Sorridere per vivere meglio (M.Maviglia)

Nel 1972 Patch Adams, un anomalo e anticonformista medico statunitense, fonda in Virgina il Gesundheit! Institute (Salute, in tedesco). La ricetta di Adams è apparentemente semplice: la salute si fonda sulla felicità ed è possibile intraprendere un percorso di cura e terapia se vi è un approccio con l’altro basato sull’umorismo, la vicinanza emotiva. All’ingresso dell’ospedale da lui fondato ha fatto mettere una frase famosa: “Per noi guarire non è solo prescrivere medicine e terapie ma lavorare insieme condividendo tutto in uno spirito di gioia e cooperazione. La salute si basa sulla felicità – dall’abbracciarsi e fare il pagliaccio al trovare la gioia nella famiglia e negli amici, la soddisfazione nel lavoro e l’estasi nella natura delle arti”.[1]

L’intuizione di Patch Adams non è la trovata di un medico bizzarro o alternativo; in realtà vi sono prove scientifiche che evidenziano il valore terapeutico del riso. È noto infatti che il riso fa aumentare la secrezione di sostanze come l’adrenalina e la noradrenalina e le endorfine che provocano diminuzione del dolore e della tensione. Ma vi sono altri effetti collegati al riso:

Muscolatura: quando si ride parte la muscolatura … si rilassa e innesca una ginnastica addominale che migliora le funzioni del fegato e dell’intestino (ridere equivale a un buon jogging fatto rimanendo fermi). Solo col riso muoviamo alcuni muscoli del corpo e soprattutto del viso. Quando il cervello invia il messaggio “ridi”, ben quindici muscoli del viso vengono attivati dal segnale …  La risata si riflette dall’espressione facciale ai muscoli del torace e dell’addome (le spalle e il torace si sollevano aritmicamente) sino agli sfinteri. Non a caso dopo una risata a crepapelle si sentono i muscoli della pancia doloranti, come pure le costole.

Respirazione: Il primo beneficio provocato da una risata lo riceve la respirazione, che grazie ad essa diventa più profonda. L’aria dei polmoni viene rinnovata attraverso fasi di espirazione e inspirazione tre volte più efficaci che in stato di riposo. Questo favorisce l’eliminazione dell’acido lattico, una sostanza tossica per il nostro organismo, con una sensazione di minor stanchezza. Le alterazioni del ritmo respiratorio intervengono sull’ossigenazione del sangue. La respirazione, inoltre, esercita e rilassa la muscolatura toracica e innesca una ginnastica addominale che migliora le funzioni del fegato e dell’intestino.

Circolazione sanguigna: La risata favorisce, attraverso la respirazione profonda, l’ossigenazione e la circolazione del sangue con aumento della pressione arteriosa. Il riso crea un calore interno generalizzato che ossigenando tutte le cellule del corpo, può accelerare la rigenerazione dei tessuti e stabilizzare molte funzioni corporee, contribuendo a difendere il fisico da infezioni. La riattivazione della circolazione provoca un generale senso di benessere (cenestesi).

Cuore: Durante una risata, il cuore aumenta le pulsazioni anche fino a 120 al minuto.

Occhi: Quando si ride gli occhi sfavillano, hanno una luce più accesa grazie a un nuovo apporto di sangue fresco alle pupille.

Naso: Si dilatano le narici, aumentando così la quantità d’aria che entra nelle fosse nasali. Chi più ride, inoltre, con l’aria fresca ripulisce anche le fosse nasali e chi ride meno incorre nelle malattie di raffreddamento.

Sistema uditivo: Gli stessi suoni emessi da una risata contribuiscono a darci una sferzata di vitalità, grazie a un’azione positiva diretta sui nervi auditivi …

Polmoni: Il primo effetto di una bella risata è di dare aria ai polmoni, con lo stesso risultato degli esercizi che si dovrebbero fare ogni mattina appena alzati. I nostri polmoni contengono infatti dal 10 al 15% di aria residua, che non esce con la respirazione ordinaria, ma che è bene togliere.”[2]

Sulla scia delle esperienze terapeutiche di Patch Adams si è sviluppato un filone di studi denominato clownterapia e di esperienze che si sono diffuse in tutto il mondo[3].

Solo un dubbio rimane dopo quanto detto sopra: perché la gente mediamente sorride e ride poco?
Infatti secondo alcuni dati pubblicati da La Stampa (risalenti al 2010)[4] con l’avanzare dell’età si tende a ridere sempre meno. Infatti, mentre un bebè arriva a ridere fino a 300 volte al giorno, già un adolescente ride “solo” sei volte al dì e dai 20 ai 30 anni si ride in media solo quattro volte al giorno. Tra i 30 e i 40, invece, le cose migliorano: le risate salgono a cinque, ma questo sembra sia legato alla presenza di bambini piccoli, che si hanno di solito intorno proprio in questa fascia d’età. Dopo si assiste ad un crollo: a 50 anni si ride tre volte al giorno, mentre per gli ultra-sessantenni la media si riduce a 2,5. Se si considera che i docenti italiani sono i più vecchi in Europa è facile desumere che nelle classi italiane si tende a ridere e sorridere molto poco.

Sorridere per apprendere meglio (L. Bertocchi)

Se ridere fa vivere meglio, in senso generale, è altrettanto vero che un approccio sorridente, caldo e cordiale aiuta il processo di apprendimento. E questo per ragioni di carattere psicopedagogico. Innanzi tutto, il processo di apprendimento si sviluppa, com’è noto, all’interno di una relazione e dunque la qualità dell’apprendimento, la sua stabilità, la sua implementazione dipendono anche da come funziona tale relazione. In sostanza, c’è un forte intreccio tra gli aspetti cognitivi e quelli emotivi. Una relazione che stigmatizza l’errore o la prestazione probabilmente non aiuta il processo di apprendimento; così pure, una relazione fredda, distaccata, poco empatica rischia di non dare quella giusta motivazione al soggetto in situazione di apprendimento.

Ce ne dà una testimonianza lo scrittore francese Daniel Pennac, che è stato anche professore. In una intervista concessa a Repubblica l’8 ottobre 2016[5], l’inventore di Malaussène afferma “L’umorismo protegge il nostro interlocutore con cui ci stiamo relazionando e in questo senso crea un legame prezioso tra le persone perché con la risata si rassicura l’altro divertendolo. Nel mio caso l’umorismo l’ho ereditato da mio padre. Durante il mio primo anno di scuola sembrava che io non avessi appreso nulla se non la prima lettera dell’alfabeto. Mia madre era terribilmente preoccupata, ma poi mio padre la fece ridere dicendole semplicemente: non ti devi preoccupare, tra ventisei anni conoscerà perfettamente tutte le altre lettere! Ecco, usare il sorriso, la risata, per rassicurare l’altro, per metterlo di nuovo in condizione di affrontare la realtà, questo è il segreto. È quello che ho fatto come professore, rifiutandomi sempre di drammatizzare i piccoli insuccessi dei miei alunni”.

Ridere di se stessi, in primo luogo, appare molto terapeutico, anche perché, nota sempre Pennac, “Tutte le tragedie dell’umanità sono state provocate da megalomani incapaci di prendersi gioco di loro stessi. Io cerco di non prendermi mai troppo sul serio, anche se è più complicato quando sono stanco”. Riguardo la sua esperienza scolastica lo scrittore confessa che provava vergogna per i suoi fallimenti e che nutriva desideri di vendetta contro i suoi professori. “Ho impiegato molto tempo a capire che la vendetta è un sentimento sterile. L’umorismo è stato per me un lungo apprendimento dell’amore”. Da docente, Pennac ha usato l’umorismo come leva motivazionale: “Credo che agli studenti si possa trasmettere l’autoironia è proprio da lì che bisogna cominciare, per combattere in modo efficace la paura che i bambini hanno della scuola. Perché questa paura distrugge ogni capacità di apprendimento”.

Su questi aspetti ha dedicato una grande attenzione Daniela Lucangeli che ha sottolineato la necessità di fondare quella che con felice espressione ha denominato una “didattica del sorriso”[6].
Afferma Lucangeli:Le nozioni si fissano nel cervello insieme alle emozioni. Se imparo con curiosità e gioia, la lezione si incide nella memoria con curiosità e gioia. Se imparo con noia, paura, ansia, si attiva l’allerta. La reazione istintiva della mente è: scappa da qui che ti fa male. La scuola ancora crea questo cortocircuito negativo”[7].
Ma la studiosa avverte che adottare questa modalità non vuol dire fare i faciloni: Non si vuole incoraggiare una scuola ‘molle’ ma si vuole incoraggiare una scuola capace di dare il 38% in più di organizzazione cerebrale, se sa come innescare il meccanismo dell’intelligenza creativa, costruttiva distribuita“.

Chiunque si sia trovato ad insegnare sa quanto la motivazione giochi un ruolo decisivo nel processo di apprendimento. Certo, la demotivazione scolastica ha cause molteplici e complesse, ma un atteggiamento positivo, che promuova la motivazione intrinseca, può predisporre favorevolmente all’impegno o, quantomeno, limitare le situazioni di disagio che spingono a rifiutare lo studio. Come chiarisce Boscolo[8], l’insegnante può interagire con l’atteggiamento motivazionale dei suoi alunni. Adottare rinforzi non punitivi, non frustranti, riesce a sostenere nella fatica che l’apprendimento comporta. Ed è qui che il sorriso assume un ruolo cruciale.

Innanzitutto precisiamo che il sorriso deve essere vero, sincero. Bonfiglio[9] ha individuato diverse tipologie di sorriso, tra le quali ricordiamo: il sorriso di paura, di disprezzo, triste. Queste espressioni suscitano emozioni negative, che non favoriscono il processo di insegnamento-apprendimento.
Il sorriso che scegliamo di portare in classe ogni giorno deve essere aperto, onesto, sentito.

C’è il sorriso di benvenuto, che accoglie gli studenti ogni mattina all’ingresso nella scuola; il sorriso di incoraggiamento che, unito ad un cenno del capo, invita alla partecipazione attiva, a prendere parola, ad intervenire in una discussione. I rinforzi positivi non possono che essere accompagnati da un sorriso, così come gli sguardi d’intesa. Sorridere in risposta al nostro interlocutore comunica che abbiamo capito e condividiamo ciò che ci viene detto.
Affinché la nostra espressione sia percepita come sincera e partecipata, è necessario che anche gli occhi sorridano, diversamente la sensazione è che qualcosa stoni, come se lo sguardo trasmettesse un messaggio completamente diverso rispetto al resto.
Naturalmente l’età dei nostri studenti determina la percezione di una gamma più o meno ampia di emozioni, di sfumature di significato. I bambini della scuola dell’infanzia non hanno ancora pienamente sviluppato la sensibilità che generalmente permette ad uno studente di scuola superiore di distinguere un sorriso d’intesa da uno di condivisione.
Non è però questo il punto. Qualunque sia il motivo che ci porta a sorridere in classe, questo deve essere sostenuto ed incentivato perché, come precedentemente esposto, non può esserci apprendimento se manca una disposizione d’animo fiduciosa e propositiva.

Nell’ “Etica Nicomachea”[10] Aristotele aveva notato la stranezza del fatto che per poter fare alcune cose è necessario impararle e che per impararle bisogna farle… Secoli più tardi il paradosso aristotelico non è risolto e si adatta perfettamente al mistero dell’insegnamento-apprendimento: un accompagnamento positivo e propositivo può essere imparato, ma per impararlo è necessario praticarlo. Possiamo quindi imparare a sorridere, ma solo esercitando questa capacità, che può diventare un atteggiamento costante.
Tutto ciò naturalmente non significa che sia necessario avere sempre il sorriso stampato in volto: come abbiamo visto, un sorriso sforzato viene percepito immediatamente come falso. È però necessario acquisire la consapevolezza che le nostre espressioni e i nostri atteggiamenti suscitano reazioni solitamente prevedibili nel nostro interlocutore.
Proviamo quindi a sorridere di più: in quel sorriso ci può essere tutto il senso di ciò che vogliamo trasmettere.

[1] P. Adams (2014) Salute!, Feltrinelli, Milano; P. Adams (2005), Visite a domicilio, Apogeo, Adria

[2] http://www.accademiadellarisata.it/public%5CPDF%5CRicerca%5C1.PDF

[3] A.Dionigi, P, Germani (a cura di) (2014), La clownterapia. Teoria e pratiche, Carocci, Roma; V. Olshansky (2017), Manuale di clownterapia, Audino, Roma; M. L. Mirabella, Clownterapia. Volontari clown in corsia e missionari della gioia, Neos edizioni, Torino, 2006; G. Mattia (a cura di), (2014), Con un naso rosso tutto posso! Esperienze di clownterapia, Pensa editore, S. Cesario di Lecce.

[4] https://www.lastampa.it/cultura/2010/10/09/news/dopo-i-52-anni-non-si-ride-piu-1.3699699

[5] https://www.repubblica.it/rclub/persone/2016/10/08/news/daniel_pennac_una_risata_ci_salvera_-150803693/

[6] https://www.youtube.com/watch?v=FOW821d90pM

[7] M. D’incerti (2019), Daniela Lucangeli, l’importanza di insegnare con gioia, Intervista, in “Donna moderna”, 18/02/2019; D. Lucangeli (2019), Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere, Erickson, Trento

[8] P. Boscolo (2012), La fatica e il piacere di imparare. Psicologia della motivazione scolastica, UTET Università, Torino

[9] S. Bonfiglio (2008), Introduzione alla comunicazione non verbale, ETS, Pisa, p. 90

[10] Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di M. Mazzarelli (2000), Bompiani, Milano




Giancarlo Cerini: decine di testimonianze, la nostra raccolta

 

La morte di Giancarlo Cerini ha lasciato attoniti non solo chi lo aveva conosciuto personalmente o chi aveva collaborato direttamente con lui, ma l’intero mondo della scuola.
Non si contano i post e i commenti che in queste ore sono stati pubblicati nei social.
In questo documento, curato da Daniele Scarampi, abbiamo raccolto le testimonianze che siamo riusciti a raccogliere in rete.
Chiunque voglia aggiungere la propria può inviarla a info@gessetticolorati.it

Segnaliamo anche tre testimonianze di Marco Campione, Paolo Fasce e Mauro Piras pubblicate nel sito del Gruppo Condorcet

Riportiamo qui il ricordo dei suoi colleghi ispettori dell’Emilia Romagna Claudio Bergianti, Gabriele Boselli, Anna Bravi, Chiara Brescianini, Paolo Davoli, Raffaele Iosa, Agostina Melucci, Maurizia Migliori, Anna Morrone, Francesco Orlando.

Un grande uomo di scuola: Giancarlo Cerini

Avvertiamo il bisogno, in questo giorno della nostra esistenza che induce a riflettere sulla grandezza e la fragilità della condizione umana, di ricordare pensando al magistero di Giancarlo Cerini il senso della funzione ispettiva. Il modo in cui il nostro collega ha sentito e interpretato tale funzione rimanda al significato più profondo del termine, ossia un guardare che sa vedere, un essere-per-altro e per-gli-altri. Ciò ha costituito un in-segnamento, un insegnamento vissuto nella piena consapevolezza e testimonianza dell’essenza dell’educare e dell’educare a scuola, come luogo di sviluppo delle potenzialità di ogni soggetto -soprattutto di chi fa più fatica- e di emancipazione sociale per un’autentica scuola “di tutti e di ciascuno”.

Con Giancarlo la funzione ispettiva viene ulteriormente ad assumere i nobili tratti dell’impegno pedagogico, civile e politico. Possiamo ben testimoniarlo, noi che per anni abbiamo avuto la fortuna di averlo come collega e in seguito Coordinatore del corpo ispettivo dell’Emilia-Romagna.

Vorremmo che persone siffatte potessero continuare per sempre nella loro missione. Non sarà interrotta la lettura dei Suoi lavori. Permarrà certo il ricordo delle parole appassionate, dei significativi interventi, delle numerose iniziative, della saggezza e della passione di questo grande uomo di scuola. Ognuno di noi ha un tempo assegnato; conta come riusciamo a viverlo e come sentiamo la nostra appartenenza alla comunità umana. La morte fisica ci ricorda che non duriamo sempre, ma pure che i nostri pensieri e il nostro agire non terminano con la scomparsa dal visibile. Morire non significa fuoriuscire dall’essere. Coloro che -come Giancarlo o Annamaria Benini- hanno avuto qualcosa da dire ne partecipano prima e dopo la loro vita materiale.
Ricorderemo la Sua lezione nel ripensare la funzione del corpo ispettivo cui Giancarlo ha contribuito con numerosi scritti e con la testimonianza di professione e di vita.




Patti territoriali per la formazione: dalle parole ai fatti

Stefaneldi Raffaele Iosa e  Massimo Nutini

Un commento pedagogico e alcune indicazioni operative sull’ampliamento dell’offerta formativa possibile, per la prossima estate, con i 150 milioni di euro previsti dal “Decreto legge Sostegni”

 

 

Dunque, dal Decreto Sostegni del governo Draghi arrivano 150 milioni direttamente alle scuole come primo segno di carattere squisitamente sociale ed educativo per i nostri bambini e ragazzi che da febbraio 2020 ad oggi hanno patito gli effetti sconvolgenti della pandemia da Covid nell’esperienza scolastica, nella vita sociale, nella dimensione esistenziale di crescita.
Tali risorse si aggiungono ad una cifra di circa 175 milioni destinabile alla stessa finalità nell’ambito del Programma operativo nazionale PON “Per la Scuola” 2014-2020.

Una novità assoluta che deve essere ben compresa e attuata

E’ una novità che rischia di non essere capita in tutta la sua potenzialità da molte scuole ed enti locali e forse anche fraintesa. Non siamo più infatti nel periodo delle passioni generose della primavera del 2020, ma in quello (con la seconda e terza pandemia) delle passioni tristi di questo anno scolastico, in cui il clima sociale ed educativo si è complicato e raffreddato anche con la nuova grande chiusura di tutte le scuole delle zone rosse, di cui oggi non è nota la fine, anche se il Governo garantisce che le scuole saranno (auguriamocelo) le prime ad essere riaperte.

Eppure questa novità arriva giusto al momento in cui emerge, giorno dopo giorno, la drammatica emergenza sociale ed educativa fatta pagare ai nostri bambini e ragazzi con ferite non solo curricolari ma anche e forse soprattutto sociali, emotive, esistenziali, proattive.
Tutti aspetti che hanno (eccome) a che fare con l’educazione e con la scuola nel suo offrire quotidianamente, e insieme, istruzione e formazione.

Lo scopo di questi 150 milioni, che si uniscono ai fondi del Programma operativo nazionale PON “Per la Scuola“, è infatti definito con precisione. Si propone alle scuole di attivarsi direttamente per “potenziare l’offerta formativa extracurricolare, il recupero delle competenze di base, il consolidamento delle discipline, la promozione di attività per il recupero della socialità, della proattività, della vita di gruppo delle studentesse e degli studenti” (inserendo a questo punto un “anche” un po’ pericoloso che potrebbe vanificare, almeno in parte, la finalità perseguita) “nel periodo che intercorre tra la fine delle lezioni dell’anno scolastico 2020/2021 e l’inizio di quelle dell’anno scolastico 2021/2022”.

Per tale periodo, si invitano le scuole ad ampliare l’offerta formativa ad ampio orizzonte, facendo riferimento (appunto) ad un celebre articolo del Regolamento autonomia (il 9) molto poco utilizzato (ahimè), in questi venti anni di scarsa autonomia reale, dalle scuole e spesso utilizzato per “progetti” di contorno accessorio e poco connessi alla parte hard del curricolo.

Le risorse in campo, i procedimenti e le tempistiche

Si apprende dalla Relazione tecnica che il finanziamento previsto sarà mediamente pari a circa 45.000 euro per ogni istituto scolastico, considerato che con le risorse PON 2014-2020 si darà copertura a circa il 60% degli istituti mentre il rimanente 40% sarà finanziato, appunto, con i 150 milioni del decreto sostegni.
Tali risorse saranno assegnate, sulla base di un avviso pubblico, prioritariamente alle istituzioni scolastiche statali che manifestano il proprio interesse e che non abbiano già ottenuto un finanziamento, per le medesime finalità, a valere sulle risorse del Programma operativo nazionale “Per la Scuola” 2014-2020.
Se il decreto attuativo del Ministro dell’Istruzione sarà adottato in tempi brevi, si può dire che il finanziamento, questa volta, non arriverà troppo tardi, ma tre mesi prima del suo utilizzo. C’è dunque tempo per riflettere, progettare, diffondere l’idea.

Il successo o meno di questa idea però dipenderà da molti soggetti. In primo luogo, naturalmente, si tratterà di vedere quale sarà la gestione del Ministero e quanta dose di centralismo e di burocratizzazione si vorrà continuare a seminare nel processi attuativi. Da questo punto di vista sarà un banco di prova per il nuovo Ministro e per il nuovo Capo Dipartimento per dimostrare un cambio di passo. Ma dipenderà anche dai sindacati, dagli enti locali, dalla società civile, dal terzo settore, se cioè tutti gli steackholders coinvolti a diverso titolo nell’educazione proveranno, o meno, a costruire e condividere (assieme alle scuole) sinergie significative e di qualità per tentare di restituire quanto perduto e per offrire ancora speranza e risanamento del dolore vissuto.

Risulta evidente infatti che le ferite delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi vissute in questo periodo non sono solo tema della scuola (come fosse l’unico ospedale rieducativo) ma di tutta la società adulta, a partire da quella orizzontale e del territorio composta dai tanti diversi soggetti che si occupano di educazione e giovani.

Vediamo, quindi e innanzitutto, alcuni temi squisitamente pedagogici e sociali, oltre alle prime indicazioni operative,  anche per offrire spunti e idee alle scuole che saranno interessate a candidarsi per questo finanziamento, che è di libera scelta di ogni singola scuola autonoma. Esempi riguardanti l’estate prossima, per quelli durante l’autunno ne parleremo più avanti.

L’estate, i bambini e i ragazzi

Superato il troppo demagogicamente discusso “proseguimento dell’anno scolastico a fine giugno”, il Decreto fa una svolta inedita, mai avvenuta prima e persino coraggiosa: propone alle scuole di essere aperte da metà giugno a fine agosto per realizzare (appunto) originali ampliamenti dell’offerta formativa. Lo richiede quest’epoca così dura ed emergenziale ma è una grande opportunità per praticare, dopo averne parlato tanto, una nuova progettazione e azione educativa sul territorio e con il territorio.

Ma cosa c’è nelle nostre città per l’estate dei bambini e dei giovani? C’è spesso già molto. Non sono pochi i comuni grandi e piccoli che hanno una lunga tradizione estiva di opportunità, anche se, qualche volta, un po’ appannata come qualità. Pullulano le iniziative di carattere animativo-sociali, in primis quelle delle parrocchie e della cooperazione sociale che occupano volontari e educatori, a partire da quelli che seguono gli alunni con disabilità a scuola durante l’anno.

Sono iniziative molto spesso svolte in scuole pubbliche, possibilmente con ampi spazi e giardini, concesse dalle amministrazioni comunali che, tra l’atro, sono anche un modo per mantenere a tanti educatori un salario nei mesi estivi, altrimenti perduto perché il loro lavoro è a cottimo, centrato sull’anno scolastico e sulla presenza o meno dell’alunno con disabilità.

La maggioranza delle attività estive sono a pagamento (si paga per settimana o per mese) e le tariffe variano secondo la tipologia e in relazione all’orario che prevalentemente copre tutta la giornata pur essendo presenti centri che offrono opportunità solo mattutine o solo pomeridiane. In genere si offrono uno/due giorni settimanali in piscina o in montagna o al mare, con almeno uno o due gite interessanti a mese, e varie attività sportive. Se c’è nelle vicinanze un grande parco giochi, non ci si lascia perdete l’occasione…  Spesso, le attività si interrompono nelle settimane centrali di agosto, ma possono offrire servizi anche fino alla prima settimana di settembre. La frequenza è ovviamente calibrata sulle esigenze delle famiglie e sulle loro ferie familiari.

I Comuni garantiscono un finanziamento alle attività che rispondano a determinati requisiti e, anche avvalendosi di contributi statali e regionali, aiutano le famiglie a basso reddito pagando, di fatto, una parte della quota di compartecipazione, naturalmente in base all’ISEE. Tutte le opportunità del territorio sono utilizzate, dalla visita al museo alla giornata al centro equitazione, dalla pomeriggio alla fattoria all’incontro con l’artigiano che effettua lavorazioni in via di estinzione. La maggioranza delle iniziative accolgono bambini dai 3 ai 14 anni, con diverse articolazioni di attività secondo l’età. Si può perfino creare per ogni bambino una specie di estate à la carte. Sono comunque attività a valenza di socialità, proattività, amicizia, esperienze culturali, ma anche di apprendimenti curricolari informali (es. l’inglese, l’arte).

Ci sono poi i nostri giovani da 14 anni in su, e qui la forbice si apre: i figli del ceto medio-alto si fanno la stagione al mare o vanno (andavano prima del Covid) all’estero per corsi di inglese o in vacanze ancora più raffinate in giro per il mondo. Invece I giovani degli istituti professionali e dei ceti medio-bassi si trovano lavoretti estivi (nelle zone in cui questo è possibile) e diverse attività di passatempo. Se ci sono, utilizzano spazi di aggregazione giovanile, offerti spesso dalle parrocchie e da qualche circolo, dove non è richiesto il pagamento di una tariffa.

In conclusione: attività che nulla finora hanno avuto di relazione con le nostre scuole. Tutto questo per dire che dalla fine della scuola e fino all’anno scolastico successivo non c’è il deserto educativo nelle nostre città. Ci può essere un sud (e non tutto) con un’offerta più scarsa, e qui la presenza della scuola può essere davvero determinante, ma in altre parti del paese la situazione è del tutto diversa. Il problema, ed è questa una grande occasione da non perdere, è abbattere i costi, in particolare per i più bisognosi, e far fare un salto di qualità a quest’offerta che, con l’ingresso della professionalità e dell’esperienza delle scuole, è sicuramente realizzabile.

Il rapporto tra progetti delle scuole e progetti del territorio

Dunque   la scuola si troverà nuovamente, ma con risorse proprie e alla pari, a dialogare con altri soggetti pubblici e privati che già offrono opportunità educative, già utilizzate dalle famiglie, e non è escluso che si possano verificare episodi di competizione infelice e di conflitti, anche politici.

Le alternative sono quattro:

– la scuola tende a lasciar perdere perché ritiene il “mercato locale” di opportunità già saturo e non avanza alcun progetto per chiedere il finanziamento;
– la scuola procede separatamente e si affianca alle tante iniziative separate di altri soggetti, a canne d’organo ognuna per conto suo;
– la scuola semplicemente “appalta” qualche iniziativa già pronta dalle varie cooperative e associazioni, magari mettendoci come prezzemolo qualche insegnante volenteroso;
– la scuola si offre come partner (e anche investitore) in iniziative progettare e realizzate assieme ad altri soggetti del territorio, nella logica “paritaria” del “patto di comunità”.

È evidente che la quarta alternativa è l’unica che può realizzare un ruolo della scuola nel territorio che, se non è ancora quel “sistema formativo integrato” che abbiamo imparato da Bruno Ciari negli anni 70 dello scorso secolo, ci si avvicina molto, attivando una sinergia educativa che potrà aiutare tutti i soggetti a crescere e migliorare. E così l’educazione esce dalle sole aule di scuola e attraversa le strade delle nostre città. E, ovviamente, in questa filosofia pedagogica, l’ente locale può agire come coesore di comunità, dunque il primo partner che la scuola dovrebbe avere.

Tutto questo porta a pensare che, sia al nord sia al centro sia al sud, la scuola debba fare i conti, per eventuali attività estive, da un lato con i bisogni esistenziali e le ferite dei propri alunni e studenti, ma dall’altro anche con l’offerta qualitativa del territorio già presente. Ed è per questo che appare essenziale, per dare successo alle iniziative possibili con le significative risorse che stanno per essere erogate, che le gli istituti scolastici agiscano come soggetti attivi ma non unici o solitari nel programmare le attività estive proposte dal Decreto.

D’altra parte lo dice e favorisce lo stesso articolo 9 del Regolamento Autonomia DPR 275/99 che esplicitamente afferma:

“Art. 9 (Ampliamento dell’offerta formativa)

  1. Le istituzioni scolastiche, singolarmente, collegate in rete o tra loro consorziate, realizzano ampliamenti dell’offerta formativa che tengano conto delle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali. I predetti ampliamenti consistono in ogni iniziativa coerente con le proprie finalità, in favore dei propri alunni e, coordinandosi con eventuali iniziative promosse dagli enti locali, in favore della popolazione giovanile e degli adulti.
  2. I curricoli determinati a norma dell’articolo 8 possono essere arricchiti con discipline e attività facoltative, che per la realizzazione di percorsi formativi integrati le istituzioni scolastiche programmano sulla base di accordi con le Regioni e gli Enti locali.
  3. Le istituzioni scolastiche possono promuovere e aderire a convenzioni o accordi stipulati a livello nazionale, regionale o locale, anche per la realizzazione di specifici progetti.”

Come operare concretamente

Innanzitutto c’è da augurarsi che le circolari  ministeriali non mettano lacci e vincoli formali, che i sindacati condividano la presenza dei docenti, pur su base volontaria e contrattualmente regolata, in queste iniziative, che gli enti locali partecipino ad una progettazione condivisa portando il loro apporto di esperienza e conoscenza sull’attività educativa sul territorio ed una comune regolamentazione delle modalità di utilizzo degli edifici di cui sono proprietari e dei servizi di supporto che potrebbero essere utilizzati anche per le attività estive, che si definiscano accordi locali di integrazione e collaborazione tra i diversi soggetti istituzionali e con il coinvolgimento degli altri soggetti presenti sul territorio.

Si tratta, insomma, di una vera opportunità per iniziare a coniugare la risposta ai bisogni dei singoli (di crescita e sviluppo di ciascun individuo, di cui si occupa tradizionalmente la scuola) con i bisogni emergenti dal contesto socio economico locale (di sviluppo della comunità, appannaggio degli enti locali). Peraltro, la sottoscrizione di “Patti educativi di comunità” è oggi esplicitamente sollecitata dal Piano Scuola 2020/21, approvato con decreto ministeriale 26 giugno 2020, n. 39, contenente le indicazioni per la ripartenza delle attività didattiche in presenza dopo le chiusure obbligate dall’emergenza sanitaria.

Tali “Patti” possono rappresentare, anche in relazione a attività da svolgersi nei periodi di interruzione del calendario scolastico, un’importante occasione per potenziare e qualificare i rapporti tra le scuole e gli enti locali. Il decreto legge 14 agosto 2020, n. 104 (decreto Agosto), al comma 2, lett. a), dell’art. 32, ha già stanzia specifiche risorse per sostenere finanziariamente i “patti”. La norma prevede che “le istituzioni scolastiche stipulano accordi con gli enti locali contestualmente a specifici patti di comunità, a patti di collaborazione, anche con le istituzioni culturali, sportive e del terzo settore, o ai piani di zona, opportunamente integrati, di cui all’articolo 19 della legge 8 novembre 2000, n. 328, al fine di ampliare la permanenza a scuola degli allievi, alternando attività didattica ad attività ludico-ricreativa, di approfondimento culturale, artistico, coreutico, musicale e motorio-sportivo, in attuazione di quanto disposto dall’articolo 1, comma 7, della legge 13 luglio 2015, n. 107”.

Dal punto di vista procedurale c’è un po’ di lavoro per il dirigente scolastico e il direttore generale dei servizi amministrativi. Per prima cosa si deve fare una delibera del Consiglio di Istituto e approvare un progetto di massima che già preveda la necessità della sottoscrizione di un “patto” territoriale” e autorizzi il dirigente alla sottoscrizione, poi sarà necessario definire questo “patto territoriale” assieme all’ente locale e agli altri soggetti del territorio che potranno concorrere alla realizzazione del progetto, sarà quindi opportuno condividere con le rappresentanze sindacali nella scuola i criteri per raccogliere le adesioni del personale scolastico all’iniziativa e le modalità di incentivazione e definire, con il responsabile del servizio prevenzione e protezione, le indicazioni utili per contrastare la diffusione del contagio da Covid-19, tenendo conto dei protocollo nazionali e regionali che trattano tali questioni.

A monte, naturalmente, non appena sarà pubblicato l’avviso pubblico per richiedere il finanziamento, la scuola dovrà avanzare la sua candidatura. È un lavoro che non deve impensierire più di tanto. Si deve pensare a documenti semplici, essenziali, asciutti, e non a voluminosi e complicati elaborati che, ove necessari per la parte operativa, potranno essere rinviati ad un momento successivo e delegati a chi si occuperà dell’attuazione. Inoltre, per la stesura di alcune parti, ci si potrà avvalere di collaborazioni anche utilizzando le altre risorse messe a disposizione delle scuole con l’altro articolo dello stesso decreto sostegni che stanzia ulteriori 150 milioni per acquisti di forniture e servizi necessari ad affrontare l’emergenza sanitaria e le azioni da intraprendere da parte degli istituti.

Ma lo sguardo che dobbiamo avere per realizzare queste attività rimane quello che si muove a partire dalle bambine e dai bambini, dalle ragazze e dai ragazzi, con un’attenta riflessione sulla loro condizione esistenziale, ma anche familiare, sociale, scolastica, di reti amicali. Meglio ancora sarebbe se più attività possibili fossero condivise e progettate assieme loro, avendo però nel cuore l’onesta sensazione che siamo in un’emergenza educativa e sociale per la quale dobbiamo dare il meglio. Non una gabbia afosa a fare noiose ripetizioni, non una guardiania per farli correre nei giardini, né banalità amene per far passare il tempo. Ci vogliono idee creative, divertenti ed emozionanti anche per noi adulti, che le scuole assieme alle altre agenzie educative del territorio sapranno sicuramente trovare.

Le riflessioni contenute in questo testo sono dedicate a Francesca Sivieri, l’insegnante che nella prima ondata ha “riaperto la scuola” nei giardini pubblici della sua Città e a Iselda Barghini, promotrice della rete delle scuole senza zaino che si è detta convinta che i cambiamenti indotti dall’emergenza sanitaria genereranno una risorsa stabile e condivisa tra la scuola e il territorio.




La pandemia pedagogica

di Raffaele Iosa

In questi ultimi tre giorni ho ricevuto molte telefonate e mail da dirigenti scolastici, insegnanti e genitori su cosa (di brutto) sta accadendo in molte classi a seguito del “ritorno a casa” di molti bambini e ragazzi del primo ciclo per via delle zone neo-rosse e la diffusione della “variante inglese”.
In un clima d’ansia collettiva e di forte incertezza, assisto ad una “frenesia curricolare” nelle Dad in corso ben diversa dall’epoca di primavera 2020 che ho chiamato della “didattica della vicinanza” con una generosa azione dei docenti più legata alla relazione educativa che al completare il “programma”. Oggi invece mi raccontano di una specie di una “pandemia pedagogica” di iper curricularismo online di dubbio valore.
Per esempio in una 2ª primaria a tempo pieno 8 ore di lezione online tendenzialmente frontale, con 15 minuti di pausa tra un’ora e l’altra. Sconcertante.

Provo in breve a spiegarmi il perchè di tutto questo.

1. Un’insufficiente fase di riflessione pedagogica sugli eventi scolastici febbraio-giugno 2020 ha prodotto una ripresa delle lezioni a settembre con l’ansia del “recupero del programma” e l’ansia della sicurezza limitante. Da qui in forte aumento di lezioni frontali e di compiti per casa, favoriti anche dal fatto che le regole sanitarie strette in classe riducevano di molto la flessibilità didattica e la progettualità (es. progetti interdisciplinari, uscite, ecc…). Ci vedo perfino una buona fede nei docenti, anche perché i “messaggi” sul recupero o l’allungamento dei giorni di scuola pareva implicitamente criticare gli insegnanti. Si è quindi fatto troppo di jn curricolo tornato duro e lineare.

2. Questa pandemia pedagogica sembra continuare anche adesso in questa seconda peste che inizia questa settimana ma rischia di durare a lungo. Quindi molte ore di Dad, lezioni frontali online, relazione educativa addio. Con effetti depressivi per tutti, anche dei genitori. È evidente che questa seconda primavera di Covid è più dura e pessimista della precedente, ma proprio per questo merita riflettere e rallentare, flessibilizzare e addolcire questa pandemia dell’online direttivo.

3. Lo stato d’animo, lo stress, le depressioni e le tristezze nei nostri bambini e ragazzi sono in aumento. Servirebbe anche nell’online una vicinanza dialogante e rassicurante senza l’ansia nevrotica dei programmi.
Per questo il mio messaggio è di riflettere bene su una fase più drammatica della precedente. Più relazione educativa attivistica, più I CARE donmilaniano che tabelline, capitoli di storia, compiti per casa.




Per una pedagogia dell’autonomia. Oltre i compiti, un’altra scuola è necessaria

di Giancarlo Cavinato

La situazione della sospensione della scuola nel periodo del lockdown  se da un lato ha visto molti insegnanti impegnati alla ricerca di pratiche possibili a ‘bassa intensità tecnologica’ per promuovere esperienza, gioco mentale, mantenere forme di interazione e ascolto (cfr. il blog senzascuolawordpress.com) , dall’altro ha visto piovere nelle case già sovraccariche di problematiche schede ed esercizi (giungendo perfino  alla ‘raffinata perfidia’ di alcune situazioni in cui sono stati chiesti a insegnanti di inviare i compiti per la settimana pasquale) a seguito di lezioni trasmissive. Coniugazioni di verbi, studio di regioni, frazioni ed equivalenze… tutta una tradizione mnemonica si è riversata su alunni su cui per di più gravava il ‘sospetto’ della soluzione da parte degli adulti. E agli insegnanti l’ingiunzione di una valutazione sommativa standard applicata a una situazione del tutto nuova. Eppure proprio alcune proposte circolate (fare della casa, del nucleo familiare, dello spazio circostante luogo e sede di attività e di ricerche) andavano proprio nella direzione che Freinet ha così chiaramente delineato.

La pedagogia Freinet è una pedagogia dell’emancipazione e in quanto tale prevede precisi dispositivi che evitino assuefazione, saturazione, meccanicismo e, soprattutto, un aumento delle differenziazioni fra alunni e il conformismo (i ‘diligenti’ che svolgono regolarmente i compiti assegnati e i ‘negligenti’ che non stanno al passo). E’ emblematico l’esempio nel film ‘L’école buissonnière’ di Jean-Paul Le Chanois (1949) dell’alunno che non ricorda la data della battaglia di Azincourt ma dimostra un elevato grado di consapevolezza e di conoscenza della lunga marcia per la conquista dei diritti umani,

Freinet cercava di sviluppare nei ragazzi l’autonomia e l’autoorganizzazione attraverso le tecniche  con lo scopo che  il gruppo, attraverso un’organizzazione della classe  cooperativa, sia impegnato  in attività significative, in ricerche intorno a temi di  interesse, in laboratori. Quindi nemmeno a scuola è produttivo assegnare compiti, evitando il triangolo banale “spiegazione/studio – compito/interrogazione –  valutazione”.

Schedari autocorrettivi  e biblioteche di lavoro non sono quindi pensati in funzione di un ‘allenamento’ privo di significato ma di una messa a disposizione di un repertorio di materiali, fonti, ‘buoni modelli’ linguistici e logici per una progressiva consapevolezza di sé, una messa alla prova e un autocontrollo tali da costituire una dotazione di strumenti non chiusi in se stessi ma recuperabili in una serie di attività di ricerca, documentazione, produzione e comprensione, risoluzione di problemi della vita. Ed è la vita che deve entrare, scrive Freinet, nelle classi. Quindi gli impegni che responsabilmente  gli alunni si assumono in relazione a un piano di lavoro definito collegialmente prevedono, sì, delle attività al di fuori della scuola. Ma si rende necessario all’attività della classe- quindi di un gruppo sociale-   reperire attraverso ricerche, interviste, strumenti,  oggetti e dimostrazioni quanto può arricchire e integrare la conoscenza di argomenti su cui si sta lavorando.

Una scuola vera è una scuola dove si apprende a pensare insieme;  se le cose si fanno con piacere, si proseguiranno anche a casa: non c’è separazione netta ( un testo libero, la lettera al corrispondente, una proposta di logo per il blog della classe,…).

E’ la prosecuzione di un percorso di pensiero.

…LA SCUOLA NON PUO’ ESSERE LUOGO DI DISPERSIONE O ATROFIZZAZIONE DEL PENSIERO

Tali attività trovano il loro corrispettivo e complemento  nelle uscite nell’ambiente alla ricerca di altre testimonianze, in un interscambio costante fra scuola e ambiente.

E’ così che si possono sviluppare e affinare attività e modi diversi di apprendere, che vanno tutti ‘allenati’:

  • osservare/ ricercare, fare ipotesi /esplorare/visitare ambienti naturali, strutture produttive, musei, teatri/camminare
  • sviluppare manualità e progettualità/ costruire, inventare
  • narrare storie /collaborare/conoscere il mondo/leggere / buoni testi e lingue diverse
  • classificare insegne, spazi, costruzioni, manifesti pubblicitari, …/fare ordine/organizzare/
  • classificare oggetti, attività umane, seriare/ collezionare /leggere il territorio/
  • osservare il cielo le albe i tramonti/osservare le ombre e i movimenti del sole e le fasi lunari/
  • sperimentare forme e colori /scrivere testi diari poesie/problematizzare
  • osservare cambiamenti temporali e spaziali
  • storia personale storia familiare /storia di scoperte oggetti invenzioni eventi/ raccogliere fonti, testimonianze, intervistare

Per costruire autonomia

Le attività per stimolare la ricerca, l’espressione, la scoperta di regole, non sono “compiti”. revisione di quanto fatto in ottemperanza al piano di lavoro personale e della classe, organizzazione di esposizioni, ‘conferenze’ e, progressivamente, metodo di studio.

Il lavoro individuale

Ovviamente ci vuole anche l’esercizio e l’allenamento per consolidare delle capacità specifiche. In alternanza con la consultazione di schede di controllo è necessario periodicamente rivedere insieme il lavoro, fare una messa a punto collettiva,  perché l’alunno/a, con l’aiuto dei compagni e  dell’adulto, acquisti consapevolezza dei suoi punti di forza e del lavoro che deve ancora fare per raggiungere degli obiettivi di cui ha chiara l’importanza.

Il tempo necessario

non può essere il tempo consumistico dell’esercizio fai e chiudi (il quaderno, la scheda, la verifica)
è necessario un tempo per il pensiero, per il confronto, per il fare, per il dialogo che aiuta gli alunni/e a prendere coscienza dei loro percorsi, dei loro progressi, della strada ancora da fare.

Una scuola dei tempi lunghi

rende superflui  i compiti a casa: il tempo pieno e  le scuole aperte il pomeriggio. con biblioteche aperte e accessibili con orario lungo, in città che offrano occasioni culturali anche ai giovanissimi contro la povertà educativa.
Una scuola dai tempi lunghi che educhi a ricercare personalmente, dopo l’orario, il piacere e il bisogno della lettura, della scrittura, dell’espressione artistica; addirittura a trovare piacere in attività significative legate a percorsi scolastici, nello studio, anche nell’allenamento.

Nel rispetto del diritto al gioco e a spazi vuoti di proposte (cfr. Convenzione ONU)

Non discriminazioni

Non siamo per i compiti “assegnati”, né a scuola, né tantomeno a casa se poi ai ragazzi/e viene inflitta l’umiliazione di vederli ignorati o semplicemente corretti o valutati senza che sia dedicato al loro sforzo il giusto tempo per il confronto e la revisione.
E’ fonte di discriminazione, la pratica di assegnare compiti a casa complessi e uguali per tutti/e che qualcuno svolgerà facilmente e per qualcun altro saranno un ostacolo insormontabile: perché c’è chi è autonomo/a e chi non lo è; chi padroneggia la lingua dei compiti e chi no; chi può contare sull’aiuto di adulti competenti e chi no; chi vive dopo la scuola dentro spazi tempi e relazioni adeguate e chi no.

Quindi

  • Non compiti impossibili, non calibrati  sulle possibilità reali
  • Non compiti che si possano fare solo con aiuto esterno
  • Non compiti che siano oggetto di valutazione
  • Non compiti che uno possa fare agevolmente in 10’ mentre un altro in tempi estenuanti
  • Non compiti basati su memoria e meccanismi

Ridurre le disuguaglianze

“Rimuovere gli ostacoli” è un compito obbligatorio PER L’ADULTO. Assegnare a tutti/e compiti uguali, complessi, da svolgere in solitudine, sapendo che non tutti sono in grado di svolgerli, aumenta le distanze. Fa il contrario di quello che dovrebbe fare.

È una responsabilità gravissima.

 




C come cooperazione

di Giancarlo Cavinato

Cooperazione è l’opposto di individualismo, egoismo, sopraffazione, depredazione delle risorse comuni, guerra. Pratiche, queste ultime, che si sviluppano in tempi rapidi, non  richiedono particolare preparazione e riflessione. La cooperazione, al contrario, non si improvvisa in base ad impulsi. Richiede pazienza, tempo di attesa, ascolto, dispositivi da mettere in funzione con cura e costruzione lenta. Così si istituisce una classe cooperativa come ambiente di vita in Freinet.

Educare alla cooperazione è necessario per ritrovare interesse ai valori collettivi e dare senso alla vita, per immaginare e costruire mondi migliori.

Nel mondo attuale segnato da pesanti disuguaglianze e individualismi distruttivi educare alla cooperazione  è necessario per costruire equilibrio sociale, per combattere l’iniquità e l’ingiustizia, perché siano  riconosciuti  i diritti fondamentali a tutti gli esseri viventi e ognuno/a si assuma la responsabilità della  loro realizzazione.

In un mondo in cui troppo spesso  il conflitto è la cifra dei  rapporti sociali e il linguaggio delle armi risuona sempre più forte, è necessario educare alla cooperazione:

  • per ritrovare interesse ai valori collettivi e dare senso alla vita, immaginare e costruire mondi migliori
  • per costruire equilibrio sociale, per combattere l’iniquità e l’ingiustizia che pervadono tuttora i nostri contesti anche se spesso non ‘vediamo’
    • per riconoscere diritti a tutti gli esseri viventi e salvaguardare l’ambiente e la vita nel pianeta
  • per una reale cultura della pace

Cooperare, fin dai primi anni di vita, significa ri-conoscere sé e l’altro, sviluppare la capacità di ascolto,  dare e ricevere fiducia,  saper lavorare insieme a un progetto comune, essere accolti/e e riconosciuti/e con la propria identità e la propria storia ed essere arricchiti/e  dal  confronto con le identità e le storie degli/delle altri/e. Ampliare la percezione, costruendo solidarietà  piuttosto che rinforzare la competizione e la disparità, evita che si formino  rappresentazioni dei fatti sociali   rigide e   immodificabili.

Nella scuola la cooperazione nasce  se l’ambiente educativo è pensato per accogliere, far interagire,  sviluppare relazioni di reciprocità nella concretezza dell’agire  quotidiano, se da parte degli adulti vi è apprezzamento, curiosità e ascolto ed è bandito il giudizio. Per dare ‘ a tutti, ossia a ciascuno, la possibilità di avere nella scuola  il punto di incontro dei motivi più profondi della propria vita e della propria ricerca’

 (A. Canevaro).  

Il che significa, nell’agire quotidiano, agire sugli spazi e sui tempi, istituire democraticamente un ordine dinamico  da comporre  e ricomporre,  attuare una pedagogia della ricerca e della narrazione ( un ‘pensare per storie’), studiare strategie di valorizzazione di ciascuno/a che consentano di  star bene insieme, provare il piacere del fare, l’emozione del conoscere, dell’ agire in modo riflessivo e condiviso, per scoprirsi uguali e diversi.

Significa attuare una scuola laboratorio sociale, palestra di democrazia, ma nello stesso tempo nuova agorà aperta al territorio, luogo di incontro, di pensiero e di cultura.  Una  scuola viva con  un’IDENTITA’,  un sistema di memoria e documentazione,  una propria cultura.

  1. Asch ( in ‘Psicologia sociale’, SEI) : ‘l’azione di cooperazione è analoga alla formazione di un gruppo: il gruppo e il compito costituiscono un sistema, ed il cambiamento in una qualsiasi delle parti del sistema modifica tutte le altre parti.’

Freinet definiva la propria didattica come un insieme di ‘tecniche’ e sosteneva che ogni tecnica ha valenza formativa se è tecnica di vita inserita in un sistema di valori. L’insieme delle tecniche modifica l’impostazione, il ritmo, le norme della scuola attraverso pratiche , strumenti, messa a disposizione di condizioni operative, crea le condizioni per  crescere insieme in una dimensione sociale superando i condizionamenti negativi, le diverse forme di emarginazione, la rigidità percettiva e culturale, gli stereotipi, l’etnocentrismo,  l’assunzione di  punti di vista parziali.

Intervenire su tali idee, ampliando la percezione, costruendo solidarietà  piuttosto che rinforzare la competizione e la disparità, evita che le rappresentazioni dei fatti sociali siano  rigide e   immodificabili.

  1. Oury, padre della pedagogia istituzionale, aggiungeva che ‘le relazioni umane ( sottostanti alle tecniche ) sono educative’ in quanto arricchiscono le percezioni reciproche.

Una classe organizzata cooperativamente  non è un  mondo a sé, ma un  sistema complesso e coerente in evoluzione, che crea  proprie  ‘istituzioni’ , che funzionano grazie a strategie e a progetti  non lineari o fondati su parametri di efficientismo , ma su una sensibilità ’ecologica’. Riflettere su come regolare la vita comune,  su come tener conto dei pareri e dei diritti di tutti, è un percorso trasversale all’intera esperienza scolastica,  forma cittadini/e attivi/e . Mario Lodi , commentando una  seduta di bilancio della cooperativa nella sua classe, afferma  l’importanza  di ‘render conto agli altri’, della condivisione della responsabilità,  dell’assumere il bene comune come valore.

In un paese in cui spesso le istituzioni sono soggette a pressioni esterne,  a forme di  familismo amorale, a forme di  deregulation, in cui singoli e gruppi sociali sono  guidati da forme di fascinazione derivate da quella  che Ph. Meirieu definisce ’la terza fase del capitalismo: il capitalismo compulsivo’, la cooperazione può essere  lo strumento per una trasformazione del modi di fare scuola, per il decondizionamento, elemento fondante di una cittadinanza attiva e della costruzione di un’etica pubblica.