L’impresa difficile dell’interdisciplinarità

di Raimondo Giunta

Il ministro Bianchi spinge vigorosamente perché nelle scuole secondarie di primo e secondo grado vengano abbattute le frontiere esistenti tra le discipline e si cominci a praticare convintamente l’interdisciplinarità per mettersi finalmente dietro le spalle l’ultimo baluardo del fordismo a scuola, costituito dai curricoli fondati sulla separazione e diversità delle discipline.
L’aveva detto in Parlamento e lo ha ripetuto il 28 maggio ad un seminario INPS sul tema “Una valutazione efficace come condizione per una efficace coesione sociale”.
Di interdisciplinarità a scuola si parla da tempo e da tempo si pratica con relativo giudizio, ma a nessuno è venuto in mente, se non sbaglio, che questo è un modo certo per regolare i conti col fordismo, se non altro perché i curricoli con discipline distinte e separate esistono da tempo immemorabile, da quando ancora non si sapeva e non si sperava che ci si sarebbe spostati da un posto all’altro con le automobili. Il ministro parla di interdisciplinarità come di un’impresa facile da mettere in cantiere.
E’ proprio così?
Credo, purtroppo, che non sia così e soprattutto che non si possa imporre per decreto. Non può essere messa in atto casualmente, senza predisposizione di mezzi, temi, tempi e senza la convinta collaborazione dei docenti.


L’interdisciplinarità è la messa in relazione di due o più materie scolastiche che deve condurre a stabilire tra di loro legami di complementarità, di cooperazione, di interpretazione, di reciprocità sotto diversi aspetti, per favorire l’integrazione degli apprendimenti e dei saperi nella mente degli alunni. Non può essere praticata su ogni argomento e con approssimazione; se è a volte difficile rispettare i tempi del singolo piano di lavoro, immaginiamo per un po’ quello che potrebbe succedere quando più insegnanti devono tenere il passo in modo da arrivare unitariamente in tempo, ciascuno per il proprio contributo, a trattare l’argomento, oggetto di un intervento interdisciplinare.
Le discipline coinvolte in un passaggio interdisciplinare devono organizzarsi perché lo svolgimento avvenga in modo razionale e persuasivo; senza rigore e consapevolezza epistemologica non è possibile procedere fruttuosamente con questo metodo.
E il lavoro d’equipe è necessario in fase di progettazione e al momento delle verifiche intermedie e conclusive.
L’interdisciplinarità non è un guazzabuglio di più discipline convocate a prescindere e forzatamente intorno ad un argomento. E’ il metodo a volte unico con cui un contenuto, un problema, una situazione vengono affrontati da discipline apparentate dal loro patrimonio conoscitivo, dai loro procedimenti, dalla loro prossimità epistemologica.
L’interdisciplinarità, quando è ben proposta restituisce la trama delle relazioni che una conoscenza aveva nella realtà delle cose e che le discipline tendono a separare secondo la propria logica costitutiva.
“L’interdisciplinarità si iscrive nella prospettiva della post-modernità; permette una presa di coscienza della complessità degli oggetti del sapere, valorizza la pluralità e la diversità dei saperi e dei metodi. L’interdisciplinarità è l’integrazione e il dialogo delle discipline, il loro fattore di coesione”(Ph. Jonnaert)
Non può, però, essere usata come una clava per delegittimare le discipline scolastiche, che non sono nate casualmente e che ancora devono svolgere il proprio mestiere.
”Lungi dal costituire la semplice volgarizzazione di un sapere di partenza; lontano anche dall’essere il prodotto povero o utile di un sapere “scientifico” sempre inattingibile, il sapere insegnato (le discipline..) deve essere considerato come una creazione altamente originale, collettiva, spesso secolare dell’istituzione scolastica in funzione del suo compito primario, che è quello di insegnare, di trasmettere dei saperi e dei saper – fare per preparare soggetti adatti alla società”(B.Scheuwly)
L’interdisciplinarità è la situazione di apprendimento in cui si parte dal contenuto, dal problema; non dalle discipline.
Ma questo può valere per una questione e non per un’altra.
Non è detto che debba avvenire sempre. L’interdisciplinarità non è un luogo di bizzarrie e di trovate; non è la dissoluzione delle discipline in una generica brodaglia interdisciplinare; si tradirebbe il significato più autentico di questa impostazione, che ha validi fondamenti ed una valenza formativa rispettabile. Rappresenta per altro un passaggio significativo nelle abitudini professionali degli insegnanti, ben disposti all’individualismo e sempre sospettosi dei lavori di gruppo. Non bisogna, però, farne una questione di moda per ricalcare modelli professionali prestigiosi come quelli scientifici o aziendali
E’ opportuno, ad ogni buon conto, non farsi molte illusioni sulla praticabilità dell’interdisciplinarità e sulla sua efficacia; siamo eredi di una storia in cui molti sono stati i tentativi di unificazione del sapere e nessuno dei quali è andato a buon fine; la molteplicità dei saperi e dei linguaggi è per certi aspetti irreversibile. Ma il tentativo va sempre fatto ed è quello che può fornire elementi di comprensione e di valutazione critica della realtà. La tensione verso l’unità del sapere fa vedere quali sono le zone di frontiera tra le varie discipline e il loro grado di parentela e ci ricorda come la chiusura dentro uno specifico sapere non crea cultura, non dà intelligenza delle cose.
C’è un’esigenza di superamento dei confini dei saperi particolari per attingere, come suo orizzonte problematico, l’unità delle cose, che bisogna sapere coltivare e alla quale dal punto di vista didattico risponde l’interdisciplinarità.
Per ultimo. Se gli insegnanti nell’attività interdisciplinare fanno lavoro di gruppo, sarebbe alquanto sorprendente che non lo facessero anche gli alunni.
E questo è un problema aggiuntivo.




L’ora di lezione, tra mito e idealismo

di Mario Maviglia

Nel recente Manifesto per la nuova Scuola (sottoscritto da noti intellettuali quali, tra gli altri, Chiara Frugoni, Carlo Ginzburg, Vito Mancuso, Dacia Maraini, Massimo Recalcati, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky), tra gli otto punti elencati per rilanciare il ruolo della scuola compare anche la centralità dell’ora di lezione a cui viene dedicata una particolare enfasi.
Vi si legge infatti: “Dopo vent’anni di devastanti riforme, occorrerebbero interventi precisi e profondi, per rilanciare la funzione della scuola, e cioè, prima di tutto, restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la funzione e la rendono un’attività residuale”.
Sarebbe facile fare dell’ironia sottolineando che i promotori del Manifesto hanno dimenticato di aggiungere che per restituire centralità all’ora di lezione “disciplinare” è indispensabile disporre di una cattedra posta sopra una pedana, come avveniva qualche decennio fa, perché in questa modo viene esaltata ancor più la sacralità della lezione, ancorché in un contesto laico. Ci si potrebbe spingere oltre dicendo che in quest’idea sacrale di lezione si intravede lo Spirito che diventa atto, ossia un agire dello Spirito, per usare termini cari a Gentile.

Nessuno vuole misconoscere l’importanza che la lezione riveste nell’economia degli interventi didattici, ma, per come viene presenta dai promotori del Manifesto, si intravede una concezione alquanto ingenua, se non idealistica, della lezione stessa, che non tiene conto di cinquant’anni di ricerca culturale, psicopedagogica e didattica. Già l’insistenza sulla lezione “disciplinare” spazza via tutti i richiami ad evitare la compartimentazione e il frazionamento del sapere, inducendo – come sottolinea Morin[1] “a isolare gli oggetti (dal loro ambiente), a separare le discipline (piuttosto che a riconoscere le loro solidarietà), a disgiungere i problemi, piuttosto che a collegare e a integrare”.
Tutto ciò porta a una divaricazione e tra “i saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte, e realtà o problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari dall’altra” [2].
È facile immaginare la fenomenologia didattica della centralità dell’ora di lezione disciplinare così come agognata dai promotori del Manifesto: un susseguirsi di docenti, nel corso della giornata scolastica, ognuno dei quali trasmette il suo sapere disciplinare agli studenti senza alcuna preoccupazione di costruire collegamenti e ponti con le altre discipline. Ovviamente, in questa rappresentazione, gli studenti sono tutti in estatico assorbimento del sapere magistrale, attenti e disponibili a fare da anello terminale di questo processo di transfer cognitivo che vede il docente-sacerdote elargire il suo sapere.

Questa narrazione non farebbe una piega se non trovasse due limiti sostanziali: la realtà concreta del fare scuola e, soprattutto, la realtà concreta degli studenti in carne ed ossa. È infatti noto, a chi ha qualche conoscenza diretta della scuola, che i livelli di attenzione degli studenti non sempre garantiscono una tenuta adeguata su tutte le quattro-cinque ore mattutine di lezioni disciplinari. In questo caso l’opera meritoria dell’agire dello Spirito rischia di essere compromessa dalla volgare, prosaica e ahimè reale esigenza dei corpi che recalcitrano, si distraggono, reclamano pause cognitive.
Va poi tenuto presente che non tutti gli studenti si trovano a loro agio con la comunicazione verbale, preferendo altri canali (motori, iconici, prassici). Una volta tutto ciò andava sotto il nome di stili cognitivi e una competenza specifica dell’insegnante consisteva proprio nel modulare il suo intervento in modo da intercettare, per quanto possibile, tutti i diversi stili cognitivi degli allievi. (Si rinvia alle opere di Jerome Bruner su questo). La lezione, classicamente intesa, azzera queste differenze ed enfatizza la produzione orale.

Connesso a quanto appena detto, c’è un altro aspetto che va considerato e che i nostalgici della centralità della lezione disciplinare hanno trascurato: più che di “lezione” occorre parlare di interventi didattici e formativi variamente connotati. Le attività didattiche svolte in forma laboratoriale sono da considerarsi lezioni in senso classico? E i lavori svolti in gruppo? E la realizzazione di un progetto didattico? E alcune metodologie di coinvolgimento attivo degli studenti come la flipped classroom o il debate? Ma già immaginiamo l’espressione inorridita e disgustata dei puristi della lezione: queste attività andrebbero vietate perché sottraggono ore preziose al vero fare scuola che si realizza solo nel momento in cui si svolge il rito della lezione. Ma forse sotto c’è un altro motivo: la lezione rappresenta l’esaltazione della centralità del docente, il suo potere (cognitivo e non solo). Dare spazio al protagonismo degli studenti (se se ne è capaci, ovviamente), mette in crisi questo paradigma e offusca l’immagine del docente-sacerdote. Lo Spirito che diventa atto potrebbe soffrirne.

[1] E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 7
[2] Ivi, p. 5




Dare di più a chi ha di meno

di Raimondo Giunta

I lunghi mesi della pandemia hanno accentuato le disuguaglianze nella società e di conseguenza anche nella scuola, dove già erano  forti per la diversità di non pochi fattori contestuali, per le diverse condizioni di  ogni singola scuola, non derivanti soltanto da carenze materiali e strumentali, per la diversità delle condizioni familiari di ogni singolo alunno.
L’impegno straordinario delle scuole, non adeguatamente apprezzato come sarebbe stato giusto, ha impedito che ci si trovasse oggi di fronte ad un vero disastro educativo; ci si trova, comunque, davanti a seri problemi, perché solo in parte si sono potuti arginare i danni provocati dalla chiusura delle scuole.
Con le antiche fratture e con quelle nuove, però, col miglioramento della situazione epidemiologica bisogna fare i conti; tra quest’ultime e che bisogna curare si colloca la lacerazione dei rapporti sociali tra gli stessi studenti, tra gli studenti e la scuola, messi in crisi dai necessari provvedimenti per tutelare la loro salute e quella del personale della scuola.
In quest’opera necessaria di ricomposizione di ogni singola comunità scolastica non si può dimenticare che diverso è stato il peso che ha dovuto sostenere ogni alunno o per mancanza di strumenti e di spazio o per la presenza  in famiglia  di morti e di malati o per familiari allontanati dal lavoro o impediti nelle proprie attività.

Una risposta a questi problemi bisognava darla e tentarla. Si possono legittimamente nutrire tutti i dubbi di questo mondo sulla qualità e pertinenza delle iniziative proposte dal Ministero, ma non si poteva restare inerti.
Il piano straordinario di interventi tesi ALL’AMPLIAMENTO DELL’OFFERTA FORMATIVA vuole ispirarsi al modello di “scuola inclusiva” e trova fondamento nell’art. 31, comma 6, del D. L n. 41 del 22 Marzo 2021 e nel DM n48 del 2 marzo; è stato ulteriormente definito con la nota n. 643 del 27 aprile e con il decreto dipartimentale n. 39 del mese di Maggio.
L’intenzione è quella di costruire un “ponte formativo” tra ciò che è successo negli ultimi tempi e ciò che si spera di potere fare nel nuovo anno scolastico, se si sarà riusciti ad avere ragione della pandemia.

Il ponte formativo non dovrebbe essere costituito con i soli mattoni del recupero delle competenze di base e col consolidamento delle discipline, ma anche e forse soprattutto con la promozione del “recupero della socialità, della proattività, della vita di gruppo delle studentesse e degli studenti”. Scompaiono dall’orizzonte il Piano Integrazione degli Apprendimenti e il Piano di Apprendimento Individualizzato dell’anno passato, calibrati sul piano cognitivo e senza altra ambizione formativa se non quella di rimettere in sesto il patrimonio di conoscenze e di competenze di ogni singola classe e di ogni singolo alunno.

E’ una scelta giusta?
Oggi, nei nuovi provvedimenti si può individuare un netto spostamento di attenzione verso il recupero di socialità, di cui sarebbero stati privati i ragazzi e i giovani, anche se in questo specifico compito il mestiere della scuola è un po’ improvvisato. Nella nota 643 del 27 Aprile 2021 vien detto, infatti, che “le modalità più opportune per realizzare “il ponte formativo” sono quelle che favoriranno la restituzione agli studenti di quello che più è mancato in questo periodo: lo studio di gruppo, il lavoro in comunità, le uscite sul territorio, l’educazione fisica e lo sport, le esperienze accompagnate di esercizio dell’autonomia personale.  In altri termini, attività laboratoriali utili al rinforzo e allo sviluppo degli apprendimenti, per classi o gruppi di pari livello”.

Se con il Piano Integrazione degli Apprendimenti e il Piano Individualizzato di Apprendimento ci si trovava nel consolidato terreno della scuola che istruisce, dissodato, arato e seminato con il consueto lavoro dei docenti, con il Ponte Formativo si pretende di più e qualcosa di diverso.
La scuola, per assolvere questo arduo compito educativo, recita la suddetta nota, ha necessità di modalità scolari innovative, di “sguardi plurimi”, di apporti differenziati.  Occorre una scuola aperta, dischiusa al mondo esterno.
Aprire la scuola significa aprire le classi ai gruppi di apprendimento; aprirsi all’incontro con “altri mondi” del lavoro, delle professioni, del volontariato; come pure aprirsi all’ambiente; radicarsi nel territorio;  realizzare esperienze innovative, attività laboratoriali.
Si tratta di moltiplicare gli spazi, i luoghi, i tempi, le circostanze di apprendimento, dentro e fuori la scuola”.

Gli sguardi plurimi e gli apporti differenziati evocano i contributi del mondo esterno alla scuola e di questi non si dovrebbe/potrebbe fare a meno, se il lavoro che sa fare la scuola non  è considerato sufficiente per costruire il nuovo ponte formativo… Ci si deve chiedere allora se a questo vasto programma di interventi, che con i PON si prolungano fino nel 2022, non sia sottesa l’ipotesi  che i danni della socialità siano più gravi delle smagliature nel possesso dei saperi e delle conoscenze e anche l’altra  che forse oltre alla pandemia sia stata la mancanza di questi sguardi e di questi apporti ad avere creato le  condizioni per l’insuccesso di tanti alunni.
Dubbi e perplessità legittimi.

Tutti i provvedimenti presi a partire dal mese di marzo dicono con inconsueta chiarezza che la missione del momento per la scuola  è quella di DARE DI PIU’ e di DIVERSO.
DI PIU’ a chi ha ed ha avuto di meno e forse di DIVERSO a tutti . L’obiettivo generale che si propongono è quello di contrastare la povertà e l’emergenza educativa; ma ce ne è anche uno  particolare, ma di assoluto rilievo, che è quello “di contrastare l’emergere di una nuova questione meridionale, segnata da un maggiore rischio di dispersione educativa”(art. 4 decreto dipartimentale  del 14/5/2021).
Per quest’ultimo, però, ci vorrebbe qualcosa di più di tutte le risorse predisposte ai sensi dell’art. 31 del DL n. 41 del 22 marzo 2021 e dei 40 milioni messi a disposizione col DM. 48 del 2 marzo 2021.

 

Dare a scuola di più a chi ha di meno è da sempre lotta contro le disuguaglianze.
Ma non è una   questione che riguarda solo singole persone, ma come si sa e come si individua dall’insieme dei provvedimenti presi dal governo, è anche una questione di intere comunità e di interi territori.
Ragione per cui, pur interagendo le due questioni, si dovrebbe distinguere in questa lotta ciò che manca alla singola persona e ciò che manca ad una comunità, per distinguere ciò che deve essere fatto per le persone, da ciò che va fatto per i singoli territori.

E allora a che cosa ci si riferisce quando si parla di ciò che manca o di ciò che non è sufficiente?
Mancano davvero gli sguardi plurimi e i rapporti col mondo esterno?

Ci si riferisce forse e anche alle risorse, culturali, materiali e finanziarie di cui dispongono alunni e territori?
Alla mancanza di sostegno individuale per gli alunni in difficoltà? All’assenza di attenzioni per i ragazzi disagiati?

Alla modestia dell’interesse per apprendere?
Alla povertà del patrimonio linguistico, strumentale e cognitivo di tanti alunni?
Alla qualità degli istituti?
Alla qualità degli insegnanti?
Sono tutti problemi di un certo rilievo e non tutti si risolvono con la restaurazione della socialità infranta degli alunni, perché ognuno di essi richiede specifico lavoro e se risolti aiuteranno con molta probabilità a sanare le fratture che nel seno della società e della scuola si solo allargate negli ultimi due anni.
L’ identificazione esatta di ciò che manca agli alunni e ad una comunità è condizione per trovare in modo realistico e razionale le soluzioni e per rimuovere gli ostacoli che impediscono ad ogni ragazzo, che varca le soglie di un istituto scolastico, di raggiungere le mete che gli sono congrue e proprie e di essere alla pari di tutti gli altri. Lo dice anche la Costituzione.

Credo che l’apertura culturale e pedagogica dei provvedimenti e delle misure prospettate sia sostenuta da una individuazione generica e debole dei problemi da risolvere. Si parla di rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari e “RELAZIONALI” (mese di giugno); di rinforzamento e potenziamento delle competenze disciplinari e della “SOCIALITA’” (mesi di luglio e agosto) e addirittura di RIQUALIFICAZIONE e ABBELLIMENTO degli edifici scolastici (mese di settembre?), accompagnati, però, da interventi per studenti stranieri, da iniziative di accoglienza, da sportelli ad hoc per bisogni educativi speciali.
Tanta generosità, ma anche tanta indeterminatezza.
C’è un investimento di risorse e di energie sulla periferia dei processi di apprendimento (animazione socio-educativa, artistica, ambientale e sportiva) e una rituale citazione dei problemi di apprendimento.
Ci voleva e ci vuole più innovazione pedagogica, più aiuto personalizzato, più senso da dare alla scuola e ai saperi e si è scelto la via di fare un po’ o tanto di più; appunto in quantità, ma non in qualità.

La prima e indiscutibile funzione della scuola è quella conoscitiva; il primo compito della scuola è dare a tutti gli alunni le conoscenze e i saperi, che usciti fuori sono indispensabili per essere in grado di inserirsi nel mondo del lavoro e per partecipare da cittadino alle vicende della propria comunità, se ne ha voglia: è su questo piano che si disegna il compito di dare ciò che manca e con tutta evidenza questo compito  è una responsabilità  imprescindibile della scuola in qualsiasi tempo e soprattutto nei giorni post-pandemici. Occorre tracciare lo spazio tra ciò che si deve fare e ciò che manca e cercare di colmarlo, essendo chiaro che può trattarsi anche di una differenza tra ciò che è la scuola e ciò che è l’alunno che ha bisogno di più. Una differenza che può essere attenuata o cancellata, modificando le caratteristiche dell’essere e del fare scuola. Alla scuola compete prendere in carico le differenze tra sé e la propria popolazione e vedere quali sono quelle che con strumenti propri può/deve eliminare.




Comunità educante o Sistema nazionale di istruzione?

di Giovanni Fioravanti

La consideravo archiviata, appartenere ad altri tempi, una sorta di attrezzo arrugginito del secolo scorso, riposto in soffitta tra la polvere delle cose da abbandonare all’usura del tempo. Poi l’espressione in questi lunghi mesi stravolti dalla pandemia ha iniziato a salire di tono, a ridondare nel lessico ministeriale e in quello scolastico: la “comunità educante”.

Incuriosito sono tornato a leggere la lettera che il 27 marzo 2020 la ministra Azzolina ha indirizzato alla comunità scolastica nella quale l’espressione “comunità educante” ricorre ben due volte. Non c‘è documento ministeriale dall’inizio della pandemia in cui compaiano espressioni come società della conoscenza, apprendimento permanente, come se le nostre istituzioni scolastiche fossero calate in un altro mondo, quello ancora del secolo scorso insieme alla loro scarsa familiarità con le nuove tecnologie.

Nel lessico che i nostri padri costituenti hanno utilizzato a proposito della scuola termini come educare, educazione, educante non compaiono mai. Agli articoli 33 e 34 della nostra Costituzione istruzione è l’unica parola usata: “istruzione” e non “educazione”, e se si riflette sulla composizione dell’assemblea costituente, sulle sue differenti fonti di ispirazione, non si può che convenire che si sia trattato di una scelta soppesata e voluta. Anzi, a proposito di Enti e privati si provvede a sottolineare la distinzione tra “scuole” ed “istituti di educazione “. Precipuo delle scuole statali è l’istruzione, mentre il compito di “educare” attiene ai genitori come recita l’articolo 30: “E` dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.”

Istruzione, dunque, e il Ministero è della Pubblica Istruzione, anche se ora gravemente privo di “pubblica”, non c’è un “Ministero dell’ educazione” e, quindi, neppure alcuna “comunità educante” di Stato. Per chi ha perduto la memoria e ancora rincorre le comunità educanti sarà utile ricordare che il Ministero dell’ Educazione Nazionale è opera del regime fascista ed è stato soppresso nel 1944.
L’ identificazione della scuola con l’educazione è una forzatura della tradizione personalistica che ha contrassegnato nel dopoguerra la cultura dei nostri governanti e che si è espressa nella “formazione della persona e del cittadino” come finalità di volta in volta prescritta dai programmi scolastici dei vari ordini e gradi. Ma si tratta di sovrapposizioni che risentono degli anni e dei vari governi che si sono succeduti nel tempo.

La scuola in quanto comunità educante fa la sua apparizione come assoluta novità, tra la distrazione generale, con il primo CCNL del Comparto Istruzione e Ricerca relativo al triennio 2016-2018.
L’articolo 24, richiamando l’articolo 3 del Testo Unico in materia di istruzione (Decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297), detta: “[…] la scuola è una comunità educante […] volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni.”

La curiosità consiste nel fatto che nel citato articolo 3 del Testo Unico il legislatore usa l’espressione “comunità scolastica” “che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica”. Ora come sia possibile il passaggio da “comunità scolastica” a “comunità educante” è spiegabile solo attraverso un pregiudizio culturale di chi ha steso le norme del contratto in questione.

E poi chi sarebbe il depositario della funzione educativa nella comunità educante costituita dalla comunità scolastica?
Gli attori citati dall’articolo 24 del CCNL? È scritto: “Appartengono alla comunità educante il dirigente scolastico, il personale docente ed educativo, il DSGA e il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, nonché le famiglie, gli alunni e gli studenti che partecipano alla comunità nell’ambito degli organi collegiali previsti dal d.lgs. n. 297/1994.”
Dei soggetti citati, la nostra Costituzione attribuisce alla sola famiglia il compito dell’educazione e, dunque, quali sarebbero i protagonisti della comunità educante legittimati ad educare?

Il contratto in questione all’articolo 25, relativo all’Area docenti, distingue il personale docente da quello educativo essendo, quest’ultimo, il personale dei convitti e degli educandati femminili. Tutti gli altri sono docenti dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di 2° grado.
Dal Testo Unico in materia di istruzione ai contratti collettivi nazionali del lavoro succedutisi dal 1994 al 2009 non c’è norma relativa alla funzione docente che contempli l’educazione tra le competenze degli insegnanti.

L’artico 396 del testo unico citato detta: “La funzione docente è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità”.
Successivamente il dettato del legislatore relativo alla funzione docente è stato aggiornato in rapporto alle conoscenze acquisite nell’ambito delle ricerche in campo psico-pedagogico, così già nel CCNL del quadriennio 1994 – 1997  “l’attività di trasmissione della cultura” come esplicazione essenziale della funzione docente viene sostituita dalla realizzazione del “…processo di insegnamento/apprendimento volto a promuovere lo sviluppo umano, culturale, civile e professionale degli alunni, sulla base delle finalità e degli obiettivi previsti dagli ordinamenti scolastici definiti per i vari ordini e gradi dell’istruzione dalle leggi dello Stato e dagli altri atti di normazione primaria e secondaria”.

Dunque non “educazione” e neppure “trasmissione della cultura”, ma “processo di insegnamento/apprendimento”, qualcosa di dinamico e articolato, monitorato nei suoi input e nei suoi output. Processo che definisce “i vari ordini gradi e dell’istruzione”.
La funzione docente nella sua traduzione normativa resta sostanzialmente inalterata fino al contratto del quadriennio 2006 -2009, accanto ad essa si evolve il profilo professionale del docente nel quale mai compaiono riferimenti a compiti e finalità educative.

Il profilo professionale fa del docente un professionista della cultura in considerazione delle competenze che gli sono richieste da quelle disciplinari a quelle pedagogiche, metodologiche – didattiche, organizzative, relazionali e di ricerca “tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano ed approfondiscono attraverso il maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio, di ricerca e di sistematizzazione della pratica didattica”.

Con il contratto di Comparto del 2018 il profilo docente si arricchisce di due competenze, fino ad allora assenti: informatiche e linguistiche. Competenze informatiche che l’inaspettato ricorso alla didattica digitale a distanza ha messo a dura prova, rivelandone nella maggioranza dei casi la totale fragilità.
È sorprendente come con questo contratto del Comparto Istruzione e Ricerca scompaia la funzione docente intesa come processo di insegnamento/apprendimento per cedere il posto all’azione “della comunità educante al centro della quale si colloca la progettazione educativa e didattica definita dal piano triennale dell’offerta formativa”.
La funzione docente si realizza come “prestazione professionale […] nel quadro degli obiettivi generali perseguiti dal sistema nazionale di istruzione”.
Come si concilia, dunque con la “comunità educante”? Comunità educante o Sistema nazionale di istruzione?

Al momento nessuna legge nazionale ha sancito la mutazione del sistema scolastico in comunità educante, a meno che non si sia deciso di affidare la riforma mai riuscita della scuola alla contrattazione tra le parti del Comparto Istruzione e Ricerca.
L’ultimo tentativo di riforma omnibus è stato compiuto con la legge 107 del 2015 che prometteva la Buona Scuola. In quella legge di comunità educante neppure l’ ombra, anzi l’articolo 1 e unico, con i suoi 212 commi, esordisce con la volontà del legislatore di “affermare il ruolo centrale della scuola nella società della conoscenza”. La scuola è intesa come “comunità attiva, aperta al territorio”, come “comunità professionale scolastica”.

Ora sarebbe giunto il tempo di rivolgere seriamente, senza slogan e giochi di parole, l’attenzione al Sistema Nazionale dell’Istruzione, alla preparazione professionale dei suoi professionisti per portarli all’altezza della qualità dell’Istruzione che è dovuta ai nostri giovani per crescere e realizzarsi nella società della conoscenza, nella società del capitale umano, nella società dell’apprendimento permanente del nuovo millennio ormai avanzato.




Istruzioneducazione

di Simonetta Fasoli

No, non è un refuso quello che si legge nel mio titolo. È un modo per richiamare il nesso inscindibile che caratterizza, o dovrebbe caratterizzare, il nostro sistema scolastico. Dove comincia l’una e dove finisce l’altra? A mio avviso, si tratta di una questione mal posta e insomma indecidibile.
Un fatto è certo: se si perde di vista questo tratto, si va incontro a derive che hanno radici antiche e che purtroppo sembrano allungare le proprie ombre sul presente e sulle sue prospettive. Detto altrimenti: una visione unilaterale della scuola ridotta alla sua funzione di istruzione o, alternativamente, circoscritta al suo compito educativo produce effetti perversi.
La storia ce lo insegna, fino alla più stretta attualità.
Nel primo caso, ecco fiorire prese di posizione, documenti che solennemente sollecitano al ritorno alla scuola delle “conoscenze”, all’ora di “lezione” come stella polare di un sistema smarrito. Come non avvertire in questi richiami il sentore allettante quanto insidioso della nostalgia? Bisogna dire con disarmante linearità che il futuro ha radici antiche, certo!, ma non sta mai dietro alle spalle. E ricordare, semmai ce ne fosse bisogno, che quella scuola reca l’impronta elitaria (userei il termine “classista”, con buona pace di chi lo ritiene obsoleto) di un sistema pensato per la riproduzione sociale, non per l’emancipazione.


Quella scuola è sopravvissuta all’articolo 3 comma 2 della nostra Costituzione, ha ignorato nei fatti l’articolo 34 comma 1. L’istruzione enfatizzata e sconnessa dall’educazione ha permesso di usare gli oggetti del sapere come strumenti di selezione e di esclusione. A buon diritto, alla fine degli Anni Sessanta del secolo scorso, si poteva parlare degli insegnanti che si ispiravano a quelle idee come delle “vestali della classe media” (M. Barbagli, M. Dei, Le vestali della classe media, ed. Il Mulino 1969)
Analoghe distorsioni comportano, a mio parere, le concezioni che risolvono nell’educazione separata dall’istruzione il mandato della scuola. In questo caso, con qualche insidia in più, visto che si presentano nella forma suadente di un’attenzione specifica ai temi della “socialità”. Tutto un fiorire di progetti che fanno leva sulle “educazioni a…” con quel che segue; che enfatizzano il potere salvifico di percorsi programmaticamente lontani da qualsivoglia dimensione cognitiva fondata su saperi sistematizzati, quasi fosse l’origine di ogni male. Con il risultato di far mancare questi riferimenti culturali proprio a quelle fasce di scolarità appartenenti a contesti sociali che solo nella scuola possono incontrarli, forse per la prima e ultima volta. Portando con ciò a compimento quello che da sempre ho ritenuto un “doppio inganno”.
Dunque: la scuola è scuola perché “tiene insieme” istruzione ed educazione. È questa la sua caratteristica fondante, e a mio avviso la sua stessa ragion d’essere. Lo fa misurandosi con una sfida, dall’esito tutt’altro che scontato. Istruisce educando ed educa istruendo, nella medesima circolarità dei suoi percorsi: vuol dire, in buona sostanza, considerare le discipline, e i saperi che esse veicolano, come depositi culturali a cui attingono le nuove generazioni, per interagire criticamente con quel patrimonio. E, in questa azione critica che contempla la messa in questione radicale di quell’eredità, farla rivivere: interpretarla, fino all’eresia (“airesis”, non dimentichiamolo, nel suo etimo vuol dire “scelta”).
La scuola educa perché non ci siano seguaci nostalgici e fedeli di principi indiscussi, ma attivatori di nuovi significati nati dal criterio della discussione. È debitrice a Socrate e alla sua maieutica.
Diffido, e invito a diffidare, di ogni progetto di rinnovamento del sistema scolastico in cui sia contemplata, in modo esplicito o surrettizio, la separazione delle due dimensioni. In cui, per dire, ci sia “un tempo per istruire” e “un tempo per educare”, o una ordinata “divisione del lavoro” tra soggetti deputati all’una e all’altra funzione. Sono, invece, favorevole a un progetto politico-culturale che accetti la scommessa di un sistema scolastico finalmente liberato da quella dicotomia su cui si sono infrante nel tempo le varie intenzioni riformatrici. Soprattutto, si sono perse le opportunità di emancipazione di intere nuove generazioni.




Il calcolo vivente

di Giancarlo Cavinato

Si parla oggi di somministrare ‘compiti di realtà’  (=simulazioni) per costruire competenze.
Tutto bene se non si tratta di artifici non emersi da reali interessi della classe.

Freinet, per superare un apprendimento meccanico – quello che Guido Petter definiva ‘l’aritmetica del  droghiere’ il ‘far di conto’, il meccanismo delle operazioni),  proponeva la tecnica del calcolo vivente.
Esperienze reali, che mettono in gioco le strutture logiche del pensiero.

La fecondità del calcolo vivente non sta solo nella sua vitalità, nel fatto che il fanciullo non sente il problema come materia estranea ma come qualcosa che gli nasce dentro, ma dal fatto che dal problema immediato nasce spesso (nasce specialmente quando gli stimoli del maestro lo mettano in evidenza) un problema più generale, più formale.[1]

Nessun settore di apprendimento può considerarsi a se stante, scisso dalla vita dinamica della comunità scolastica. La connessione del calcolo con le altre attività comunitarie è indispensabile in certe fasi; in momenti diversi, poi, le operazioni matematiche sembrano astrarsi completamente dagli oggetti e dai problemi viventi per esplicarsi nel campo dei simboli puri. Questo passaggio dal concreto all’astratto costituisce una inderogabile conquista intellettuale; ma no si deve mai perdere il contatto con  la prassi. Le conquiste astratte debbono in ogni istante potersi riapplicare ai problemi della vita concreta, in un continuo circolo in cui i simboli che son nati dalla  realtà servono a dominarla e a interpretarla meglio. Il calcolo, dunque, sorge dalle attività di compra e vendita, osservazione e misura, progettazione, ricerca, costruzione, che hanno luogo nella classe. Vi è quindi una motivazione dei fanciulli, che s’incontra con quella dell’educatore. Come si deve impostare e risolvere il problema vivente che via via si manifesta? Il maestro si deve guardar bene dall’impostare lui la soluzione, o dal tentare di provocare un ragionamento agendo lui stesso su certi materiali, manipolando e operando. Ammettiamo che la cooperativa di classe abbia acquistato 5 tubetti di colore, a 60 lire ciascuno. Vediamo quanto si è speso. Evidentemente, i ragazzi sono interessati a risolvere il problema: c’è una motivazione. […] Merito delle tecniche Freinet e del MCE è l’aver affermato la connessione del calcolo con le attività comunitarie, e necessità della motivazione. Ma questa non  è sufficiente. Il calcolo dev’essere vivente non solo perché sgorga dalla vita, ma anche perché il fanciullo vive la soluzione dei problemi, in un totale impegno dei sensi, dei muscoli e delle facoltà logiche. il simbolo stesso dev’essere scoperto dal fanciullo…[…] La conquista e l’esercitazione astratta dev’essere vista come un momento necessario e importantissimo  che sta tra una serie di esperienze viventi (da cui è scaturita) e ulteriori esperienze su cui rifluisce e da cui possono sorgere nuovi elementi di astrazione in un continuo circolo.[2]

Ogni tecnica un valore’, scrive Fiorenzo Alfieri[3]: per l’aggancio alla realtà, per il valore morale, per il valore della razionalità, per il valore socio-culturale. Ogni tecnica è essenziale per lo sviluppo dell’abito democratico. La matematica ha un ruolo fondamentale per la costruzione di valori.
Lo studio dell’aritmetica non era il triste momento dell’addestramento immotivato alle magie del calcolo, ma un’attività vitale come tutte le altre. [4]

Anche quando bisogna calcolare quanti posti ci saranno e quante persone ci staranno nelle auto dei genitori per andare di domenica in visita ai corrispondenti.
Oppure quando il direttore vuole regalare a tutti i bambini della scuola un sacchetto di caramelle per Natale.
Comprammo trenta chili di caramelle; si dovevano dividere in  500 sacchetti, tante quante in ognuno. Con che ardore si lavorò l’intera mattinata! Fu necessario organizzare e distribuire il lavoro…

Non può esserci esperienza e conquista di abilità e competenze, ci dicono questi maestri, senza un’organizzazione funzionale dell’ambiente di lavoro: sono necessari dei materiali e ogni cosa deve avere una collocazione chiara a tutti per poter operare.
Il pensiero matematico diventa modo di vita e confronto costante con gli altri alla ricerca delle soluzioni più funzionali.
Siamo ben lontani da una guida all’appropriazione di meccanismi rapidi e vuoti di significato o di una pratica e una manipolazione cieche senza una reale interiorizzazione di processi.

[1] Bruno Ciari, ‘Le nuove tecniche didattiche’, Ed. Riuniti, Roma, 1971, p. 198

[2] Bruno Ciari, ‘I modi dell’insegnare’, Ed. Riuniti, Roma, 1973 , pp. 220 sgg.

[3] Fiorenzo Alfieri, ‘il mestiere di maestro’, Emme edizioni, Milano, 1974, p. 59 sgg.

[4] Fiorenzo Alfieri, op. cit., pp. 28 sgg.




Le tante ragioni della dispersione scolastica

di Raimondo Giunta

Nei giorni che precedevano l’inizio delle lezioni, finché sono stato in servizio, impegnavo il collegio dei docenti e i gruppi di coordinamento a discutere sui risultati dell’anno precedente e in modo particolare su quelli che fanno parlare di dispersione scolastica.
Il proposito era quello di vedere come e se era possibile contenerla.
Trasmettevo ai miei docenti la preoccupazione e l’amarezza di vedere tanti giovani perdersi e perdere le occasioni per istruirsi, per andare avanti, per impossessarsi degli strumenti che sono indispensabili per diventare cittadini e lavoratori all’altezza dei tempi.

La definizione degli insuccessi scolastici come dispersione non mi è mai piaciuta e non mi piace ancora. Sembra quasi che si tratti di un fenomeno naturale, che si verifichi a prescindere dalle decisioni degli uomini, dalle scelte fatte dagli uomini.
Una volta con più precisione si parlava di selezione, ma il termine era ed è sovraccarico di molteplici significati contrastanti e pro bono pacis non lo si usa più, tranne negli articoli di quegli intellettuali che nei quotidiani la reclamano ad alta voce per dare prestigio alla scuola e al sapere e anche per darsi un alto contegno…

Che la dispersione scolastica (ci atteniamo alla vulgata ministerial-pedagogica..) continui a verificarsi nonostante le lotte che le sono state dichiarate è un fatto grave sul quale è giusto soffermarsi a ragionare.
Senza dimenticare che nel fenomeno della dispersione oltre agli abbandoni bisogna includere ripetenze e scarso livello di conoscenze e competenze.

A determinarla nelle proporzioni che vengono messe in luce dalle statistiche ministeriali non sono solo le scelte di parte sempre minoritaria del corpo docente, ancora arroccata a difesa di procedure di valutazione che non hanno alcun valore pedagogico e docimologico; a determinarla contribuiscono la disarticolazione dei rapporti tra enti locali e istituzioni scolastiche, ma anche e in modo preponderante la stessa scuola come sistema.
La scuola come istituzione con le sue regole, con la sua organizzazione, con i suoi codici di valore, con la sua identità culturale non è priva di responsabilità in questo campo.

L’apertura della scuola e il sostegno economico ,ma sempre in crescente riduzione(esenzione tasse, libri gratis, borse di studio, trasporto gratuito) non hanno realizzato le condizioni perché tutti potessero godere pienamente del diritto allo studio e avere le stesse chances di successo.
I pierini fino a qualche anno di studio si trovano accanto i gianni come compagni di classe, ma i primi concludono gli studi, fanno carriera si inseriscono nel mondo del lavoro, gli altri si disperdono, incespicano e a parità di talento fanno meno strada.

A scuola non si riesce a compensare lo squilibrio del patrimonio culturale ereditato dagli alunni; non ci si riesce perché alla fine non si comprende il meccanismo, la logica che impedisce l’integrazione dei “nuovi “alunni con la scuola e quali nodi della struttura scolastica vadano sciolti per consentirla.

Il problema non è di facile soluzione perché non si dà una sola ipotesi interpretativa di questo fenomeno sociale, e non c’è una sola causa di inconciliabilità tra istituzioni scolastiche e nuova popolazione scolastica, peraltro accresciuta dalla presenza di centinaia di migliaia di ragazzi di famiglie di recente immigrazione.

Sono varie le forme di disagio, scaturite dai contesti umani e culturali di provenienza degli alunni che si riversano sulla scuola e con cui si dovrebbero fare i conti.
E’ importante considerare (e questo lo fa dire l’esperienza diretta della vita scolastica)che ad una certa età scolare, per lo più dopo il biennio delle superiori, non è tanto il possesso di specifici saperi di famiglia a determinare un migliore rendimento scolastico, ma la percezione del valore sociale dell”investimento in cultura, la conoscenza della profittabilità del sapere in tutto l’arco della vita, la pratica quotidiana dell’importanza delle competenze, della professionalità nella vita..

Nel processo di formazione il giovane che conosce il guadagno ricavabile dallo studio è in grado di sostenere la sfida quotidiana tra soddisfazione immediata e sacrificio, di intendere cioè il senso dello scambio tra sacrifici attuali ed eventuali vantaggi futuri.

Questo tipo di alunni conoscono le ragioni più rilevanti che motivano nello studio, conoscono i tempi, i ritmi e le difficoltà del percorso da compiere.
Questo sapere esperienziale che la scuola possiede non sempre viene messo a disposizione di quei gruppi consistenti di giovani, che dal proprio ambiente non riescono ad avere questo importante sostegno.

Vi è, inoltre, un problema di corrispondenza tra comportamenti individuali, acquisiti in ambienti sociali deprivati, e regole interne della scuola. La formalità dei comportamenti esigiti per assicurare un regolare svolgimento delle attività didattiche contrasta con le abitudini di molti alunni, soprattutto nella scuola dell’obbligo, molto vicine all’indisciplina e questo impedisce spesso l’accettazione della scuola e del suo mondo.

Il gruppo più numeroso di problemi è costituito, però, dal contrasto forte tra le procedure naturali di apprendimento e i processi di astrazione, di formalizzazione delle procedure d’apprendimento richieste dai saperi scolastici e dai linguaggi in cui questi si esprimono.
In una parola dal contrasto tra cultura giovanile e cultura scolastica.
Rendere il processo di apprendimento attraente per le nuove generazioni è la sfida più impegnativa da affrontare a scuola.

In questa contraddizione si concentrano gli insuccessi, i ritardi; si forma la consapevolezza della propria incapacità e matura molto spesso la decisione di abbandonare.
E allora quali saperi? Quali metodi? Quali tempi? Quali metodi di valutazione? Come recuperare?

La scuola non può essere ritagliata su misura del primato logico-linguistico o peggio ancora sulla particolare figura di studente, estratta dall’ambito sociale che sul possesso del codice linguistico, ampio e ricco ha fondato e legittimato le proprie posizioni sociali.
La scuola si deve misurare con la pluralità dei linguaggi, dei saperi e delle intelligenze e dare a questa complessità il rilievo che merita e trarne le conseguenze.

Per gli alunni che si sentono fuori casa, estranei nel mondo scolastico è importante partire dai problemi che danno un senso al sapere che bisogna acquisire. Bisogna adottare metodologie attive e realistiche che lancino un ponte con le pratiche sociali in cui gli alunni sono immersi. Bisogna tentare, nei limiti in cui è possibile, andare oltre l’aula per ritrovare tutti gli elementi possibili di contiguità tra saperi scolastici e i processi della vita quotidiana.

Non si recupera lo svantaggio che denunciano molti alunni con l’aggiunta di ore di attività, che ripetono quelle che l’insuccesso hanno determinato, ma col cambiamento delle relazioni docente-saperi-alunno; con l’implementazione del patrimonio linguistico, chiave di accesso ai saperi; con metodologie dove il parlare abbia la stessa importanza del fare, il muoversi la stessa importanza dello stare fermi.

L’aula non è un auditorium e la cattedra un palcoscenico dove qualcuno recita la parte del sapere; l’aula deve essere un laboratorio che deve impegnare tutte le energie degli alunni, suscitare emozioni e il piacere della scoperta personale, attivare l’immaginazione.
L’alunno deve rapportarsi al sapere con spirito amichevole e curiosità (D.Nicoli).

Bisogna lavorare con dibattiti, con situazioni-problema, con esperimenti, con progetti di ricerca; bisogna dare spazio al dialogo, alla negoziazione, alla riflessione. Non si può avere paura di attivare processi di partecipazione e di coinvolgimento

A scuola si deve lavorare senza rassegnarsi ai dati acquisiti della “dispersione” come se fossero naturali e immodificabili.
La scommessa è quella di condurre i giovani alla conquista del sapere; una scommessa che va fatta ogni giorno e in ogni lezione.
Ma senza amore ,senza passione per il sapere e per il proprio mestiere non può essere vinta.
Testimoniare concretamente l’amore per il sapere che si vuole far possedere agli altri è la regola aurea per superare a scuola molte difficoltà nel lavoro di insegnamento.

Lunga è la vita dei precetti; corta e infallibile quella degli esempi (Seneca).