Che disastro la scuola progressista! Non ci sono più gli ignoranti di una volta!

di Mario Maviglia

Un recente articolo dell’amico e collega Franco De Anna, apparso su queste pagine (Signora mia, non c’è più la scuola di una volta: la ragione astuta del sociologo illustre …e famiglia), mi offre l’occasione per tornare sull’argomento e sottolineare alcuni aspetti che mi stanno a cuore.

Comincio sottoponendo i lettori ad un piccolo test parascientifico (in Italia di scientifica c’è sicuramente l’evasione fiscale…): alzi la mano chi non ha mai sentito i seguenti mantra: “i guai della scuola sono iniziati con il ‘68”; “la scuola progressista è un disastro”; “la scuola media unica ha abbassato il livello di istruzione e favorito l’analfabetismo”.
Vedo che nessuno ha alzato la mano, come volevasi dimostrare. In effetti, periodicamente e in modo ciclico, i soloni nostrani lanciano i loro strali contro la scuola di massa, rimpiangendo un passato irrimediabilmente perduto dove la scuola era seria, i ragazzi apprendevano (e i treni arrivavano in orario, ma questo è un altro mantra…) e insomma lo spirito assoluto spargeva il suo sapere sulle vergini menti dei giovani (quelli delle classi abbienti, beninteso) preparandoli adeguatamente alla pugna e alla direzione del Paese.
Questa idilliaca, funzionale e rassicurante situazione (rassicurante per le classi abbienti, beninteso) è stata spazzata via dalla scuola di massa, ossia dalla innaturale pretesa delle classi subalterne di accedere al sapere e di occupare posti di potere prima riservati esclusivamente alle élite. Il punto di non ritorno di questo imbarbarimento etico-culturale è individuabile nell’istituzione della scuola media unificata che, aderendo a una deplorevole istanza democratica, ha messo insieme il figlio del villano con quello dell’imprenditore, Gianni con Pierino, quello col conto in banca e quello col conto con la giustizia.


Ma l’errore ancor più grave della nuova scuola è stato quello di aver tolto il latino dalle materie di studio: un lutto mai elaborato dai nostri reazionar-chic. Ma come si fa a formare un cittadino colto, preparato e responsabile se non si studia il latino?

Il colpo di grazia è comunque arrivato con il ’68, con le sue pretese egualitarie e le sue visioni oniriche (“L’immaginazione al potere”). La cultura data in pasto alle masse è come una perla data in pasto ai porci: è una metafora, ovviamente, ma rende bene l’idea di come tanti intellettuali inorganici leggono quel periodo storico.
La cosa interessante di tutto ciò è che il vero fallimento a cui abbiamo assistito in campo pedagogico è stato quello del modello gentiliano di scuola, incapace e disinteressato a garantire un’istruzione di qualità a tutti i cittadini. Quel modello, che già funzionava male nel Ventennio, è esploso con l’avvento della scuola di massa in quanto ha continuato a perpetuarsi in un contesto storico-educativo del tutto diverso. Puntare il dito contro la cosiddetta “pedagogia progressista” indica l’ignoranza degli accusatori verso la storia della pedagogia e della scuola.

Infatti, se si vanno ad analizzare e studiare le esperienze educative dei pedagogisti progressisti si scoprirà (incredibile!) che sono tutte accomunate da un grande rigore, impegno e attenzione ai risultati. Ma forse fare i nomi di Dewey, Decroly, Freinet, Visalberghi, Bertoni Jovine, Lodi, Ciari, Malaguzzi e altri ancora e pensare che siano conosciuti dai nostri socio-pedagoghi è pretendere troppo.
Dire che da queste esperienze nasce l’antinozionismo progressista in Italia (come afferma una professoressa-scrittrice che forse si è ritrovata nel ritratto della prof della Lettera di Barbiana) denota, nella migliore delle ipotesi, una profonda ignoranza verso la storia della pedagogia. Di fronte a simili sciocchezze in sede di esame all’Università il prof direbbe: “Vedo che ha le idee confuse o forse non ha studiato a sufficienza. Torni al prossimo appello”.

A proposito di Barbiana, Don Milani è spesso fatto oggetto di attacchi da parte dei nostri Nobel in Pedagogia, dimenticando che proprio Don Milani è stato uno dei più strenui difensori di una scuola “seria”: a Barbiana non esisteva la ricreazione e si andava a scuola anche nei giorni festivi. Il priore teneva continuamente i ragazzi impegnati nel compito (e questo dovrebbe piacere moltissimo ai nostri soloni). Il problema è che quei ragazzi venivano sollecitati a usare la loro testa, ad utilizzare i dati per discutere della realtà, a capire le ragioni per cui durante la seconda guerra mondiale ci siano state tante vittime tra i civili piuttosto che tra i soldati. Questo è insopportabile per i nostri socio-pedagoghi: la storia è già scritta nei libri di testo, non abbisogna di essere ulteriormente investigata, basta spiegarla. Si fa una bella lezione e tutto si chiude lì, senza tanti fronzoli che fanno perdere tempo e non offrono ai bambini le nozioni necessarie per la loro crescita intellettuale.

Anche la malsana idea di Mario Lodi di introdurre i bambini al metodo scientifico facendo fare loro esperienze adatte alla loro età è pura perdita di tempo in quanto i concetti scientifici debbono essere appresi per come si sono storicamente sedimentati. E per fare questo basta e avanza il libro di testo. Insomma, se si vanno ad investigare le esperienze di scuola progressista (per quel che è dato capire con questo termine), senza utilizzare il paraocchi dei nostri soloni, si scopre che dietro c’è un’idea di scuola sicuramente ambiziosa, seria, operosa, attenta ai risultati e ai processi, fortemente inclusiva. (Ecco: inclusiva è veramente troppo per i nostri studiosi. Come i cani di Pavlov, quando sentono questo termine hanno eruzioni cutanee di carattere sociologico…). Certo, non necessariamente in quelle scuole si studiava il latino, e magari si faceva meno grammatica di quel che servirebbe. E questo non è tollerabile per i socio-pedagoghi last minute.

Un’ultima annotazione: dal ’68 in poi si sono succeduti in Italia 46 Governi (https://www.senato.it/leg/ElencoMembriGoverno/Governi.html); non tutti erano di marca “progressista” (per quel che è dato capire con questo termine), anzi alcuni erano di marca decisamente non progressista. Eppure, malgrado ciò, i nostri soloni addebitano la colpa dei mali della scuola alla cultura progressista. Evidentemente c’è stata una forte connivenza tra non progressisti e progressisti, altrimenti i primi avrebbero potuto, con la loro saggia opera riformatrice e restauratrice, deviare il corso della storia e salvare la scuola italiana dai tanti problemi che oggi la affliggono. Così non è stato, anche se i nostri soloni non sembrano rendersi conto di ciò, troppo presi a prestare la loro grande disattenzione allo studio delle opere di storia della pedagogia, tutte scritte rigorosamente in latino, obviously.




Crocifisso sì, crocifisso no. La soluzione: non togliere, ma aggiungere

di Aluisi Tosolini

Pochi giorni fa la sentenza della Cassazione a sezioni unite (la numero 24414) ha posto fine ad una diatriba giudiziaria iniziata nel 2009 ma soprattutto ad una questione culturale che da decenni attraversa la società italiana.

Il nodo del contendere è il crocifisso  nelle aule scolastiche: imposizione che confligge con la laicità della scuola di uno stato laico in cui non può esistere una religione di stato oppure espressione di un sentire comune radicato nel nostro Paese e simbolo di una tradizione culturale millenaria?

La sentenza della corte suprema scrive: «L’aula può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso cercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi».

Aggiungere, non togliere

Anni fa, quando curavo la rubrica di educazione interculturale per il sito Pavonerisorse avevo dato conto dell’evoluzione dei punti di vista su questo tema segnalando come sia i primi documenti ministeriali sull’educazione interculturale prodotti dalla Commissione Ministeriale (si veda http://www.educational.rai.it/corsiformazione/intercultura/ ) che il documento del 2007 dell’Osservatorio (La vita italiana le la scuola https://archivio.pubblica.istruzione.it/news/2007/allegati/pubblicazione_intercultura.pdf) affrontano con chiarezza e stile innovativo il tema della compresenza di religioni diverse nella società e quindi nelle classi delle scuole italiane.
La proposta di cui mi fece portatore allora si riassume nella frase: “aggiungere, non togliere” che è la sintesi anche della posizione espressa dalla consulta.

In tema di religione e di identità religiosa non esiste infatti una possibile sintesi tra diverse esperienze ognuna delle quali si presenta come “verità”. Neppure è possibile ridurre l’esperienza religiosa al privato di una singola persona: la religione non è, infatti, soltanto un’esperienza interiore, ma ha anche una dimensione più ampia, sociale, culturale, materiale che coinvolge l’intera società.

Dove sta dunque la soluzione? Nell’impegno al rispetto dei credo altrui e nell’impegno comune a costruire una società che luogo della convivialità delle differenze dove tutti e ognuno si sentono a casa.
I bambini e le bambine nelle classi multiculturali della scuola italiana stanno imparando a vivere e a costruire assieme una società in cui tutti possano sentirsi a casa anche se con differenti culture e con differenti religioni. Per questo è fondamentale conoscere le diverse esperienze religiose dei propri compagni: solo così sarà possibile comprendersi e rispettarsi vicendevolmente. La scuola è il luogo della alfabetizzazione, ovvero il luogo dove si impara a scrivere, leggere e far di conto, ma anche a vivere assieme impegnandosi per il bene comune. La mancata conoscenza delle diverse religioni e dei vissuti che le stesse richiamano è una forma di analfabetismo che ha conseguenze negative sul presente e sul futuro del- le nostre società glo-cali fondate su doveri e diritti condivisi.

La dichiarazione universale dei diritti umani

La stessa posizione espresse anche uno dei massimi studiosi di diritti umani e fondatore del centro dei Diritti umani dell’università di Padova, Antonio Papisca.
Commentando l’articolo18 della dichiarazione universale dei diritti umani (Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti) Papisca scrive che ci troviamo di fronte al triangolo sacra della dichiarazione.
Per Papisca l’articolo 18 va letto insieme con l’articolo 1 ( “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”) perchè i due articoli contengono la parte per così dire sacrale dell’intera Dichiarazione universale. I soggetti di riferimento sono, ovviamente, tutte le persone umane, quindi ‘credenti’, ‘non credenti’, ‘atei’, ‘agnostici’. Pensiero, coscienza, religione: è il triangolo valoriale di più denso spessore etico, che qualifica la soggettività giuridica originaria della persona umana la cui retta coscienza (foro interno) è vero tribunale di ultima istanza dei diritti.

L’articolo 18 pone in relazione fra loro tre libertà, che sono sia “da” (interferenze e limitazioni) sia “per” (la realizzazione di percorsi di vita con assunzione di responsabilità personale e sociale). E’ il caso di sottolineare che queste tre libertà si riferiscono all’essere umano integrale – fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia – e sono pertanto interdipendenti e indivisibili rispetto a tutti gli altri diritti fondamentali. Però con una caratteristica peculiare. Gli altri diritti possono essere distrutti dall’esterno: si pensi al diritto all’alimentazione o al diritto all’assistenza pubblica in caso di necessità o al diritto al lavoro. Non è così per i tre diritti dell’articolo 18, essi hanno una intrinseca forza di resistenza, possono essere combattuti, contrastati, ma sopravvivono comunque: più forti della morte. Mi possono mettere in carcere, possono combattere la mia religione, ma le mie idee, la mia fede, la mia coscienza rimangono intatte. Al dittatore, al carnefice si può sempre gridare: dov’è la tua vittoria?

Rimandando al testo originale di Papisca per le altre considerazioni (https://unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/Articolo-18-Libere-coscienze/22 ) basti qui rileggere quanto scrive a proposito dei simboli religiosi:  C’è anche dibattito sui simboli religiosi a scuola e in altri luoghi pubblici. C’è chi vuole togliere il Crocifisso dalle pareti motivando che nella scuola pubblica aumenta il numero di studenti di religione diversa dalla cristiana. La mia personale risposta è: non togliere, ma aggiungere. Non estirpiamo radici di grandi culture, al contrario motiplichiamole: la condizione della loro compatibilità è che tutte siano compatibili con il codice universale dei diritti umani, a cominciare dall’articolo 1 della Dichiarazione universale. Laicità non significa “togliere” valori, fare tabula rasa. Laicità significa pluralismo e rispetto reciproco. La laicità dello Stato si misura con gli indicatori che si riassumono in “tutti i diritti umani per tutti”, e tra questi, c’è appunto il diritto alla libertà religiosa”.

Per una scuola delle differenze

Spero che la soluzione proposta dalla Cassazione venga accolta da ogni singola scuola: far sì che nel rispetto di tutte le diverse posizioni (credenti, non credenti, atei, agnostici) a scuola ogni studente possa ritrovare il riferimento simbolico anche alla propria fede. Solo così può sentirsi a casa e solo così ognuno può impegnarsi per la costruzione di una casa comune delle differenze dove tutti si sentano a casa lavorando nel contempo per il bene comune.
Personalmente credo anche utilissimo creare, all’interno di ogni scuola (così come di ogni spazio pubblico), l’equivalente della stanza che  nel 1957 il segretario dell’ONU Dag Hammarskjöld volle al palazzo di vetro. Una stanza del silenzio e della meditazione come luogo di raccoglimento per tutte le fedi (https://www.un.org/depts/dhl/dag/meditationroom.htm).

Un segno che la scuola è capace di anticipare e costruire la società di domani dove tutti possano vivere la propria esperienza religiosa rispettando le altre posizioni in merito di religione apportando nel contempo il proprio contributo alla costruzione della convivialità.
Dove non si toglie, ma si aggiunge.




Insegnare per discipline o in modo interdisciplinare?

di Raimondo Giunta

Ripensare e rifare la scuola si rivela sempre un’operazione complessa e difficile per la capacità di resistenza che ha dimostrato di avere la forma che le è stata data dall’inizio della storia moderna. Bisogna chiedersi, allora, se le difficoltà che la scuola incontra nell’affrontare i problemi che gli si presentano siano dovuti a questa stabilità o ad altro. La crisi della scuola, di cui si parla e di cui si è sicuri, di che natura è? A che cosa è dovuta? Lo smantellamento dell’impianto che dà forma alla scuola è davvero la condizione per assicurare quei risultati che possono corrispondere oggi alle aspettative  dell’opinione pubblica e di parte crescente e cospicua della società?

La scuola è stata ed è una istituzione  le cui regole interne,  codificatesi nel tempo, prefigurano una vita diversa rispetto a quella che si vive nell’ambiente  ad essa circostante; ma  se diversa è stata ed è la scuola non per questo è stata ed è estranea alla società di appartenenza.
E’ sempre esistito un certo grado di corrispondenza tra scuola e società.  D’altra parte una cosa è la separatezza rispetto alla società, un’altra è la condizione di isolamento o di incomunicabilità in cui a volte è venuta a trovarsi in tempi di tumultuosi cambiamenti rispetto al mondo del lavoro, dell’informazione, delle scienze e delle tecnologie.

La scuola si è definita oltre che con la sua separatezza soprattutto con la funzione di trasmissione dei saperi e delle conoscenze, filtrati e ricomposti nelle discipline scolastiche. Ragione per cui ripensare e cambiare la scuola significa soprattutto vedere fino a che punto si debba mantenere o si debba innovare il suo impianto disciplinare per potere svolgere nella società attuale le sue funzioni, con la stessa efficacia con la quale le ha svolte nel passato.
L’attuale ministro è dell’avviso che questo impianto debba saltare in aria e spinge perché nelle scuole secondarie di primo e secondo grado vengano abbattute le frontiere esistenti tra le discipline e si cominci a praticare l’interdisciplinarità, per mettersi finalmente dietro le spalle l’ultimo baluardo del fordismo a scuola (sic!), costituito dai curricoli fondati sulla separazione e diversità delle discipline. Come se la crisi della scuola consistesse in un difetto di metodologia e non di contenuti e di saperi nuovi e necessari.
Per evitare questo genere di fraintendimento, forse, si dovrebbe ribadire con forza che qualsiasi idea di scuola, di quella che c’è e di quella che si vorrebbe avere, dipende dalla configurazione dell’enciclopedia dei saperi, che si ritengono indispensabili per gli alunni e la società. Fino ad un certo punto dipende dai metodi didattici che si ritiene opportuno adottare.

Andiamo, allora, con ordine. La scuola ha avuto e dovrebbe ancora avere il compito di rendere disponibile per le nuove generazioni il patrimonio culturale, scientifico e professionale accumulato nella storia dell’uomo e della società alle quali appartengono. Un patrimonio di cognizioni infinitamente superiore alla capacità conoscitiva di ciascuno individuo e soprattutto di un individuo . . . in età scolare. E’ questa la funzione conoscitiva della scuola e non ci sono cambiamenti che la possano mettere  in discussione. Anzi. La prima missione della scuola è sempre quella di consentire l’apprendimento dei saperi fondamentali per la vita di una persona e per la vita di una società. E’ questo il compito fondativo dell’esistenza della scuola e non puo’ essere in alcun modo sminuito a vantaggio di altri compiti che si ritiene opportuno affrontare. §Se ci fosse ancora del buon senso, la funzione conoscitiva dovrebbe continuare ad essere svolta  senza ostacoli e imbarazzi .

Per consentire alla scuola di potere svolgere la funzione conoscitiva, che si esplica nella trasmissione dei saperi  e delle conoscenze,   è stato necessario svincolare il patrimonio culturale e conoscitivo tramandatoci dal “contesto concreto in cui si è potuto costituire, selezionarlo e riformularlo secondo criteri di:
a) segmentazione di ogni particolare sapere in parti combinabili le une con le altre;
b) omogeneità delle singole sequenze;
c)organizzazione di queste sequenze secondo un ordine di complessità crescente.

Il sapere in questo modo diventa disciplina di studio, ma viene separato dalla sua origine e dalla situazione storica di coloro che l’hanno elaborato.
Il sapere tecnico e scientifico è quello che maggiormente subisce questa sorte; viene strappato alla sua storia e consegnato a quello della scuola. L’ordine che viene dato ai contenuti non è quello della costruzione e della trasformazione delle teorie, ma quello dell’apprendimento.
A scuola si passa dalla ricerca del vero della ricerca scientifica all’impegno di fare apprendere. “La scuola impone al sapere una mutilazione, una distorsione e una dogmatizzazione, ma in un’ottica più ampia che potremmo chiamare antropologica; il sapere può costituirsi come tale solo all’interno della forma sociale della scrittura di cui la scuola è un tassello determinante”(B. Rey). La logica sequenziale del testo diventa quella dell’insegnamento, al quale viene imposta un’organizzazione gerarchica degli argomenti (capitoli, paragrafi etc) .

Il bisogno di trasmissione incide sul sapere insegnato frammentando una disciplina in unità compatibili col tempo degli studi (anni, trimestri/quadrimestri, settimane etc). C’è un adattamento ai tempi, ai gruppi di alunni, al loro livello, al contratto didattico in vigore, agli imperativi della valutazione. Questo fatto non è buono, nè cattivo: è soltanto necessario.
La traduzione disciplinare del sapere non è uno snaturamento, è la sua trasformazione se si vuole trasmetterlo. (Ph. Perrenoud).

“Lungi dal costituire la semplice volgarizzazione di un sapere di partenza, lontano anche dall’essere il prodotto povero di un sapere “scientifico” o utile,  sempre inattingibile, IL SAPERE INSEGNATO deve essere considerato come una creazione collettiva altamente originale, spesso secolare dell’istituzione scolastica in funzione del suo compito primario, che è quello di insegnare, di trasmettere dei saperi e dei saper fare per preparare dei soggetti adatti alla società”(B. Scheuwly).

Sui saperi scolastici si può sviluppare  un insegnamento di qualità con un lavoro di riflessione  che ne riscopra e ne utilizzi i concetti fondatori e ancora viventi,  con pratiche di sperimentazione e di osservazione,  con formulazione di ipotesi,  col confronto e con le verifiche con la realtà. Ragione per cui è una semplice, gratuita e indimostrabile affermazione quella che vuole per forza dogmatico l’insegnamento per singole discipline.  La trasmissione dei saperi per essere efficace non può essere affidata alla casualità, ma deve seguire regole di pertinenza, di adeguatezza, di rigore e di sistematicità. Si ha scuola quando l’apprendere e l’insegnare diventano attività razionalmente codificate e sono organizzati sul fondamento epistemico di ogni particolare sapere.  Le discipline sono le forme istituzionali del sapere, attraverso le quali le conoscenze diventano disponibili. Sono gli strumenti creati per rendere le conoscenze adatte all’apprendimento scolastico. Fatto di cui spesso ci si dimentica per inseguire metodologie innovative, che possono vanificare questa funzione.

Ma che cos’è allora una disciplina?  Ogni disciplina è un insieme di concetti che contiene le conoscenze di un particolare campo d’esperienza. Ha una propria storia, una propria letteratura, propri principi distintivi, schemi concettuali, metodi di ricerca, un proprio linguaggio simbolico. Consente l’intelligibilità e il senso dei fatti e delle esperienze cui fa capo. “Ogni disciplina scolastica è una costruzione intorno ad una incessante ricerca della verità, di cui si conosce il carattere sempre provvisorio”(M. Develay).
Ogni disciplina è un sistema di conoscenze dichiarative (fattuali e concettuali) e di conoscenze procedurali (cognitive, logiche, metodologiche).
“Una disciplina tende naturalmente all’autonomia con la delimitazione delle sue frontiere, il linguaggio che essa si dà, le tecniche che è portato a elaborare o a utilizzare ed eventualmente con le teorie che le sono proprie. (. . . ) Le discipline concernono la sociologia della conoscenza”(E. Morin).

Le discipline scolastiche, con i loro schemi, rapporti e distinzioni, considerate nella loro genealogia storica ed epistemologica aiutano a sviluppare la comprensione della realtà e ad assimilare nuove conoscenze. Con le discipline scolastiche si aiutano le nuove generazioni a riflettere sui propri vissuti, sulle proprie esperienze e sulla propria cultura personale; a confrontarsi criticamente con i problemi della società, con i modelli sociali di comportamento, con le tendenze culturali; a dare forma razionale ai propri convincimenti e alle proprie conoscenze della realtà. Con le discipline e i saperi scolastici si danno strumenti intellettuali per dare un senso alla propria storia, per interagire con gli altri, per trovare ragioni di vita.

Le discipline educano:
1) con i contenuti;
2) col tipo di approccio alla realtà (artistico, storico, tecnologico, filosofico etc);
3) con il tipo di logica che privilegiano,
4) con i metodi e le tecniche con cui ricercano e accostano il proprio oggetto;
5) col linguaggio tipico con cui intessono la trama del loro discorso.

“L’apprendimento disciplinare finora è stato lo strumento privilegiato di rilettura e rivisitazione scientifica e antropologica della realtà e ha permesso di passare da una cultura esperita e frammentata ad una cultura intellettualmente ricostruita e sistematizzata e personalmente padroneggiata(C. Nanni).  Attraverso le discipline si è potuto conservare e trasmettere il patrimonio conoscitivo e culturale che l’uomo ha creato nell’incessante ricerca di comprensione del proprio mondo .

Le discipline scolastiche sono strumenti di semplificazione e nello stesso tempo strumenti di interpretazione e di organizzazione dell’esperienza umana. E allora visto e considerato che sono servite e ancora servono perché calunniarle? Perchè tentare di imporre l’interdisciplinarità?  L’interdisciplinarità non puo’ essere messa in atto casualmente, senza predisposizione di mezzi,  temi, tempi e senza la convinta collaborazione dei docenti.
Non può essere praticata su ogni argomento e con approssimazione.  L’interdisciplinarità non è un guazzabuglio di più discipline convocate a prescindere e forzatamente intorno ad un argomento o a tutti gli argomenti di tutte le materie. E’ il metodo a volte unico con cui un contenuto, un problema, una situazione vengono affrontati da discipline apparentate dal loro patrimonio conoscitivo, dai loro procedimenti, dalla loro prossimità epistemologica. L’interdisciplinarità non è un luogo di bizzarrie e di trovate; non è la dissoluzione delle discipline in una generica brodaglia interdisciplinare; si tradirebbe il significato più autentico di questa impostazione, che ha una valenza formativa rispettabile.

L’interdisciplinarità non puo’ essere usata come una clava per delegittimare i curricoli scolastici esistenti e le discipline, che non sono nate casualmente e che ancora devono svolgere il proprio mestiere.  Siamo eredi di una storia in cui molti sono stati i tentativi di unificazione del sapere e nessuno dei quali è andato a buon fine; la molteplicità dei saperi e dei linguaggi è per certi aspetti irreversibile.  Quando ce ne sono le condizioni il tentativo va fatto ed è quello che puo’ fornire elementi di comprensione e di valutazione critica della realtà.
La tensione verso l’unità del sapere fa vedere quali sono le zone di frontiera tra le varie discipline e il loro grado di parentela e ci ricorda come la chiusura dogmatica dentro uno specifico sapere non crea cultura, non dà intelligenza delle cose.




I metodi nella pedagogia contemporanea

 

I metodi nella pedagogia contemporanea è un piccolo libro pubblicato da Francesco De Bartolomeis nel 1963 presso l’editore Loescher.
L’autore vi sostiene una tesi che può apparire del tutto ovvia: per fare scuola è necessario avere un metodo. La conoscenza della materia non è dunque sufficiente.
L’affermazione non è così ovvia, se è vero che ancor oggi, nell’opinione pubblica e tra gli intellettuali, c’è chi, contro la pedagogia, invoca un “salutare ritorno alle discipline”.
In questo modo, però, non si rifiuta il metodo in quanto tale ma si adotta inconsapevolmente quello più consolidato nell’istituzione (insegnamento simultaneo e trasmissivo).

 

Eppure, già in quegli anni lontani De Bartolomeis  spiegava con chiarezza perché è necessaria una preparazione metodologica degli insegnanti all’insegna della ricerca. Il metodo così inteso non limita la libertà dell’allievo e dell’insegnante ma permette di liberare le loro energie cognitive e sociali. Le argomentazioni critiche di De Bartolomeis nei confronti della “bella lezione” di gentiliana memoria e le sue proposte metodologiche (discussione, lavoro di gruppo, ricerca, documentazione) sono  ancora più che mai attuali.
Le riproponiamo agli insegnanti, agli educatori, ai genitori, agli amministratori pubblici.

Il volume, in formato digitale, è curato dal pedagogista Enrico Bottero e sarà disponibile a partire dal 1° settembre 2021.

 




Saperi, futuro e destino umano

di Giovanni Fioravanti

L’otto luglio Edgar Morin, uno dei più grandi intellettuali contemporanei, raggiungerà il traguardo del secolo.
Troppo complesso per essere preso sul serio, lui iniziatore del pensiero complesso, della necessità di una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi a cui siamo ancora abbarbicati, semmai rivendicata come merito del passato da una scuola incapace di preparare al pensiero della complessità. La conoscenza è avventura e la scuola è parte del territorio in cui vivere questa avventura, in cui apprendere a conoscere e a ri-conoscere la conoscenza. La palestra in cui esercitarsi fin da piccoli alla metacognizione, a interrogarsi, a nutrire la curiosità, a inseguire lo stupore.
Il compito dell’istruzione non può ridursi all’angustia di formare cittadini da integrare nella società presente, né in ipotetiche società future, le categorie pedagogiche degli Stati-Nazione come le pedagogie progressive del Novecento hanno fatto il loro tempo.

Morin ci rappresenta il nostro pianeta come una nave spaziale che viaggia grazie alla propulsione di quattro motori scatenati: scienza, tecnica, industria, profitto e dove nello stesso tempo la minaccia nucleare e la minaccia ecologica impongono alla umanità una comunità di destino, non c’è possibile futuro che valga la pena costruire se non riscoprendo la centralità di ogni donna e di ogni uomo, la centralità dell’intelligenza, la centralità del pensare oggi  per il futuro. In gioco non è l’integrazione culturale nella propria comunità, in gioco per tutti, da ogni lato della Terra, è la vivibilità del futuro. L’asfittico obiettivo dei sistemi scolastici nazionali è soppiantato dal ben più impegnativo e difficile compito di attrezzare le giovani generazioni a vivere un futuro vivibile. L’Agenda 2030 dell’Onu è lì a ricordarcelo in ogni istante.

In questo orizzonte sa di anacronistico brandire la difesa dell’ora di lezione, della cattedra e delle discipline, come un Don Chisciotte che insegue i suoi fantasmi, come il soldato giapponese che non si arrende perché non crede che la guerra sia finita. Il tempo è scaduto da tempo e la conseguenza è non aver provveduto a farsi la cultura necessaria al ritorno alla realtà.

Da “Introduzione al pensiero complesso”  a “La testa ben fatta”, dal “Manifesto per cambiare l’educazione”, ai “Sette saperi necessari all’educazione del futuro”, ormai sono più di trent’anni  che Morin ci invita a riflettere sullo stato attuale dei saperi e sulle sfide che caratterizzano la nostra epoca. A richiamare soprattutto quanti hanno in mano le sorti delle future generazioni, come gli insegnanti, a prendere consapevolezza che la posta in gioco sono i nuovi problemi prodotti dalla convivenza umana, da una interdipendenza planetaria irreversibile fra le economie, le politiche, le religioni, le malattie di tutte le società umane.

Una riforma dell’insegnamento è indispensabile per poter affrontare queste sfide, a partire dalla riflessione sullo stato dei saperi frantumati in singole discipline, quando la complessità per essere indagata richiede la capacità di collegare e praticare ambiti di sapere tra loro apparentemente distanti, ma il cui dialogo, mai intuito prima, ora si manifesta prezioso per la risoluzione dei problemi, per rendere prevedibile ciò che i paradigmi precedenti ritenevano imprevedibile.
Umanesimo e scienza che ancora non siamo in grado di far comunicare,  di contaminare nei curricula dei nostri percorsi scolastici, come se i tempi di Vico non fossero mai tramontati, come se il crocianesimo continuasse ad essere radicato nel DNA dei nostri studi. Occorrevano le vicende di questa pandemia inattesa a svelare l’impreparazione della scienza a comunicare e la nostra incapacità a misurarci con le certezze “incerte” proprie della scienza.

La riforma dell’insegnamento è il nodo che ancora non abbiamo sciolto. Un nodo che richiede di non cessare di interrogarsi, perché la complessità non ha risposte semplici e meno che mai risolutive, l’avvento della pandemia ha certo aiutato a sgombrare le menti da ogni dubbio.
Eppure quando si innalzano peana a celebrare l’afflato erotico che abbatte le distanze tra cattedra e banco, tra docente e discente, l’impressione è di vivere in un paese in cui intellettuali e sistema formativo sono fermi al passato, non siano in grado di comprendere il presente e, tanto meno, di leggere il dopo.

Morin ci propone di porre alla base della riforma della scuola, del mestiere della scuola che è l’istruzione, il pensiero complesso, une tête bien faite. Qualcosa di più difficile, di complesso, appunto.
Insegnare a vivere. Dovevamo attrezzarci per far apprendere ai nostri studenti come si vive, ma non qui ed ora, bensì nel luogo che ancora non c’è. Una sfida da capogiro, di fronte alla quale ci siamo ritirati, trastullandoci con i banchi a rotelle e con la Dad che non è scuola. Ripiegati sui noi stessi, rispecchiati nelle certezze del passato, ci è scomparsa la cognizione del futuro, che chi ha creature da crescere non dovrebbe permettersi di perdere, ma questo è quello che è accaduto. Il dopo delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, la loro vita futura come uscirà attrezzata dalle nostre scuole? Piena dell’ira d’Achille, degli atri muscosi e dei fori cadenti, ma vuota dell’imprevedibile, del novus che è sempre stato il modo del “moderno”.
Da sempre la missione dell’educazione è insegnare a vivere, ma è un conto farlo per vite già confezionate, altro per vite ancora da confezionare.

Morin ci suggerisce di porci una domanda che non ha spazio nei nostri programmi d’insegnamento e che riguarda ciascuno di noi: che cosa significa essere umano?
Si tratta di permettere a ciascuno di sviluppare al meglio la propria individualità, il legame con gli altri ma anche di prepararsi ad affrontare le molteplici incertezze e difficoltà del destino umano.
E qui entra in gioco il sistema di conoscenze e dei saperi di cui le nostre scuole sono depositarie. Altro che centralità della lezione, quella lezione rischia di divenire tossica, perché a fronte della realtà che le nostre ragazze e i nostri ragazzi si troveranno a vivere il sistema delle conoscenze che le nostre scuole trasmettono è ancora troppo debole. E se debole non aiuterà certo i nostri giovani a cogliere le carenze dei loro pensieri, i buchi neri della loro mente che rischiano di rendere invisibile la complessità del reale.

Il pericolo è che dalle nostre scuole escano giovani costretti ad affrontare il futuro a mani nude.
Da questa pandemia abbiamo appreso che non è solo la nostra ignoranza ad aver ostacolato la comprensione di quanto è accaduto, ma soprattutto l’inadeguatezza delle conoscenze di cui disponiamo. I buchi neri nella nostra mente confermano che il nostro sistema di saperi e di pensiero non è in grado di rispondere alle sfide delle complessità.
Allora non abbiamo bisogno di docenti e di intellettuali che sottoscrivono manifesti, ma di intellettuali e professionisti della cultura in grado di promuovere una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi presente nella nostra epoca e che sia capace di formare insegnanti e studenti a pensare la complessità.

Siamo in ritardo e il tempo non attende, il futuro imprevedibile è in gestazione oggi.

 

 




Io, disciplina e carisma: la “nuova scuola” che sognano i nostri intellettuali

di Giovanni Fioravanti

Non conosco gli estensori del “Manifesto per la nuova scuola” sottoscritto  da uno stuolo di intellettuali che vanno da Alessandro Barbero a Chiara Frugoni, da Vito Mancuso a Massimo Recalcati, da Tomaso Montanari a Gustavo Zagrebelsky che, ovviamente, non potevano mancare.
“Nuova scuola” sta a significare che questa che abbiamo è la “vecchia scuola”, diversamente non si comprenderebbe la necessità di un manifesto.
Le “buone scuole”, “le offerte formative” tutto tempo sprecato, inquinamenti nell’esercizio principe della trasmissione del sapere, come nel lontano 1994 il Testo Unico aveva decretato consistere la funzione docente.

Nuova scuola e non “scuola nuova”, forse perché agli estensori risuonava un po’ come le “scuole nuove”, il movimento di rinnovamento scolastico dei primi del novecento sorto per rispondere ai bisogni di una mondo in rapida trasformazione.
Le trasformazioni del mondo non sono cura di cui prendersi per i promotori del nostro manifesto, perché la nuova scuola in esso disegnata è atemporale, fuori dallo spazio e dal tempo, un’entità dello spirito, un tabernacolo del sapere dispensato dai suoi sacerdoti. Un ritorno allo spirito di Hegel e di Croce tanto bistrattati dal materialismo dei tempi della scienza e della tecnica.

Una scuola senza storia, senza prima e senza dopo, senza ricerca, senza un propria cultura accumulata nel tempo, senza conflitti, anzi una scuola dall’identità violata, sfregiata dalle riforme e dagli interventi legislativi che si sono succeduti negli anni, che ne hanno deturpato la sua vera natura di otia studiorum.
Se qualcuno mai avesse pensato che fosse finalmente giunto il tempo di porre fine alla pratica dell’insegnamento ex cathedra, dell’insegnamento trasmissivo, di un sistema scolastico cattedracentrico, per gli estensori del manifesto è bene che si metta il cuore in pace.

Restituiamo  centralità all’ora di lezione, alle discipline, ad ogni singola disciplina senza alcuna contaminazione, alla trasmissione del sapere. Le competenze sono nemiche del sapere e di ogni dimensione “integralmente umana” è scritto nel manifesto. Le competenze come lo sterco del diavolo, asservite al mercato.

Pensiero inquietante, perché suggerirebbe che neppure chi siede in cattedra è fornito di competenze, quelle necessarie a illuminare gli studenti della luce della sua disciplina. E cosa mai possederà al loro posto? L’ispirazione dello spirito santo? Avremo nella “nuova scuola” i docenti pentacostali?

Nessuna contaminazione con il lavoro, più che mai con l’insensata alternanza scuola lavoro, via ogni orpello dalla scuola, dal digitale all’autonomia scolastica, niente offerte formative, ma centralità del docente in cattedra. Gli unici ammessi  all’aulica scuola i mediatori linguistici per gli studenti stranieri e gli psicologi dello sportello d’ascolto per rimuovere eventuali interferenze prodotte dall’età evolutiva delle ragazze e dei ragazzi, che potrebbero ostacolate l’attenzione che è necessaria ai distributori del sapere in pillole, ai performer dell’ex cathedra.

Questo è il catechismo del manifesto, non avrai altro docente al di fuori di me, ma in questo manifesto gli studenti non ci sono, se ci sono sono schierati nei banchi, attoniti ad ascoltare la voce del maestro, affascinati dal suo eloquio e dalla sua padronanza della disciplina perché, come premette il manifesto, bontà sua: “..quello tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un “rapporto umano”. Grazie tante!

Ma quell’articolo “la” determinativo della nuova scuola non offre alternative al mondo fermato nell’ipostasi del sapere, della cattedra, semmai con la predella come auspicava tempo fa Galli della Loggia, dell’aula e della classe, degli orari e dei programmi, unico universo della nuova scuola.

Preoccupa che questi signori scrivano di scuola, intanto perché è evidente che non di tutta la scuola si occupano, la loro enfasi cattedratica rimanda ad un grado di scuola prevalentemente secondario. Sarebbe da brividi per bimbette e bimbetti la scuola che prospettano con maestri saputi che propinano pillole di sapere già confezionato come quelle di Rodari, almeno per l’epoca che viviamo e per la cultura che sull’infanzia ci siamo anche a fatica conquistati, sarebbe davvero preoccupante. Forse agli estensori del manifesto sarebbe consigliabile prenotare qualche seduta con qualche epigono del dottor Freud.

Restituire centralità allo studente che apprende, che in autonomia costruisce le sue conoscenze sarebbe lesa maestà.
La “nuova scuola” è in realtà la scuola di ieri, come se il mondo si fosse fermato a quando  sui banchi sedevano gli autori del manifesto. La scuola è tale solo se immobile, fotografata al tempo dello loro infanzia e adolescenza, dopo, solo la rovina, il degrado, l’imbarbarimento.
La “nuova scuola” è esattamente quella già scritta da Gentile, essersene allontanati per adeguarsi ai tempi, a nuovi bisogni educativi è stato per gli autori del manifesto un’eresia che richiede oggi una pubblica abiura.

Ma viene da chiedersi se il manifesto è il manufatto di docenti che quotidianamente vivono il rumore d’aula o il risultato piuttosto di pensieri subliminali frutto di frustrazioni che non si è più in grado di gestire e che la pandemia ha finito per esasperare.
Sconcerta che professionisti della cultura, come ogni insegnante dovrebbe essere, dimostrino di essere privi di una solida cultura scolastica, psicologica, pedagogica, didattica, ripiegati come sono nell’angustia della loro disciplina, senza considerare che ormai non esiste disciplina che non viva dell’apporto delle altre. Non si nasce insegnanti, e non è sufficiente essere esperti di una disciplina per essere dei bravi docenti. Essere docenti richiede quel molto di più di cui il manifesto non parla, perché l’unica idea su cui regge tutto il manifesto è la nostalgia del carisma. Io, disciplina e carisma, si potrebbe dire. Una visione narcisistica dell’insegnante artigiano del sapere, ma non tutti sono dei poeti e se uno il carisma non ce l’ha non se lo può inventare. Socrate e peripatetici restano confinati alle pagine dei manuali di storia della filosofia, bisogna farsene una ragione.

Di fronte alla restaurazione proposta da questa millantata “nuova scuola” anche il pensiero del buon Dewey agli albori del secolo, quando nelle scuole del nostro paese prendeva corpo l’idealismo gentiliano, suona eretico nel suo pragmatismo, ma noi vogliamo concludere citandolo da Scuola e Società: “È la nostra un’educazione dominata quasi interamente dalla concezione medioevale del sapere. Essa si rivolge in gran parte soltanto al lato intellettuale della nostra natura […] non già ai nostri impulsi e alle nostre tendenze a fare, a costruire, a creare, a produrre sia per scopi utilitari sia per scopi artistici. […]  Ne consegue che noi scorgiamo dovunque intorno a noi la divisione fra persone “colte” e “lavoratori”, la separazione della teoria dalla pratica”.

La “nuova scuola” del manifesto non è certo la “scuola nuova” di cui hanno necessità i nostri giovani per vivere in questo millennio, per affrontare le sfide che attendono loro e non certo chi oggi siede in cattedra a cui competerebbe la responsabilità di attrezzarli per il futuro, un futuro che non consente di guardare indietro, di rifugiarsi nel passato, solo perché è l’unica coperta di Linus che si possiede di fronte alla nostra impotenza intellettuale e culturale.




I Bimbisvegli di Serravalle d’Asti raccontano la loro storia

di Giampiero Monaca

Siamo la comunità educante della Scuola Primaria Statale di Serravalle d’Asti.
Scriviamo per raccontarvi una piccola storia felice chiedendovi di unirvi a noi per trovare una soluzione agli inevitabili inciampi che si presentano sul sentiero di chi ama camminare e si mette in cammino senza aver paura delle salite.

Fiduciosi, chiediamo che questa modalità didattica possa essere accolta nella sua sostanza e riconosciuta per il suo valore, da organi istituzionali di ricerca o di valorizzazione delle avanguardie educative, in modo tale da tutelarne l’impianto pedagogico e le sue specificità didattiche e metodologiche.
Chiediamo che a settembre 2021 si possa tornare a far scuola serenamente, vedendo pienamente riconosciuto Bimbisvegli come progetto praticabile, senza dover costantemente temere nuove avvilenti limitazioni, affinché non vada perduta questa opportunità di didattica che ha come unico scopo il benessere delle generazioni future ed un contributo allo sviluppo di una società cooperativa e solidale
Siamo seriamente preoccupati per la sopravvivenza del progetto Bimbisvegli all’interno di questa Piccola Scuola di frazione che amiamo, ritenendo la scuola un bene comune prezioso e prioritario.
Vi aspettiamo fiduciosi


Comincia così la lettera aperta scritta ed inviata all’attenzione del ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi e al dirigente USR del Piemonte Fabrizio Manca, alla dirigente USP di Asti ed Alessandria Pierangela Dagna nonché alla dirigente scolastica del 5 Circolo Astigiano, Graziella Ventimiglia.
In tale lettera accorata si preannuncia una iniziativa inconsueta: l’abbraccio ideale di una piccola scuola frazionale, da parte di una intera comunità educante , fatta di famiglie con bambini, insegnanti, abitanti del paese, simpatizzanti di questa modalità didattica che da oltre 15 anni sembra riscuotere un discreto successo nel panorama scolastico astigiano e non solo.
Siamo seriamente preoccupati [prosegue la lettera] per la sopravvivenza dell’approccio didattico denominato “Bimbisvegli“, attuato dall’equipe degli insegnanti, all’interno di questa Piccola Scuola di frazione che amiamo; ce ne occupiamo, ritenendo la scuola un bene comune prezioso e prioritario e, a partire da venerdì 28 maggio con orario 9,00 – 22,00, ci riuniremo in un’ assemblea permanente, (negli spazi pubblici davanti alla scuola stessa, nel pieno rispetto delle norme) cui vi invitiamo, insieme alla società civile, per discutere di scuola, aperta cooperativa e felice ed insieme trovare la soluzione a tutela definitiva di questa realtà, al di là di difficoltà burocratiche o idiosincrasie personali, per agevolare chi, quotidianamente, lo vive e chi lo dirige, per il bene supremo che è rappresentato dai bambini di oggi e delle generazioni future , affinché i nostri bambini e bambine, possano continuare ad apprendere per comprendere e per per essere cittadini e cittadine felici, solidali, critici, impegnati a rendere il mondo un po’ più bello e giusto.
Cinque anni fa, questa scuola, appartenente al 5 circolo didattico di Asti, ha attraversato, come molte altre realtà scolastiche del Paese, una profonda contrazione in termini di opportunità didattiche e soprattutto di numero di iscritti.
Sin dal primo anno di insediamento nella scuola di Serravalle, “Bimbisvegli”, grazie alla fiducia delle 18 famiglie che hanno scelto di trasferirvisi insieme ai loro insegnanti che già da anni insegnavano con tale metodologia, ha invertito la tendenza: con i primi 18 Bimbisvegli , il plesso raggiunse i 37 iscritti, attualmente gli insegnanti di tutte le classi adottano tale metodologia e ad oggi gli iscritti a Serravalle sono 53.
La pratica educativa Bimbisvegli nasce dalla costante osservazione, sperimentazione empirica e verifica di quelli che sono i bisogni e le caratteristiche, sia del gruppo classe che dei singoli bambini con i quali gli insegnanti condividono il percorso di educazione co-empatica, privilegiando le didattiche ludico-esperienziali attraverso le quali accogliere i bisogni espressivi della loro fantasia, emotività, corporeità ed empatia.
Bimbi: si sostengono negli alunni tutti i diritti basilari dell’infanzia, tutte le caratteristiche delle tappe evolutive che ognuno di loro attraversa , ponendo in essere attività prevalentemente basate su un approccio empatico, affascinante, coinvolgente, sensoriale. Ricordandoci della specifica tappa evolutiva in cui si trovano i bambini di età 6-11 anni, molte attività saranno introdotte con il gioco: fare tutto con il gioco ma niente per gioco.
I bambini, piccoli individui in formazione, vengono accolti nel loro bisogno di esprimere la loro fantasia, emotività, corporeità, empatia.
Svegli: si riconosce ai bambini, futuri adulti, giovani cittadini del mondo di oggi, l’ importanza e il diritto a porsi domande, trovare e proporre soluzioni, esprimersi.
Per sostenere e favorire questa inclinazione a coinvolgersi per il bene comune e diventare futuri cittadini, solidali, critici e attivi, si coinvolgono i bambini nella maggior parte delle decisioni di classe: si leggono notizie d’attualità si presentano personaggi del passato e del presente che con il loro esempio e con il coraggio di scelte coerenti hanno saputo illuminare e rendere il mondo più bello e giusto.
In questo modo si cerca di procedere, adulti insegnanti e bambini alunni, ricercando costantemente l’equilibrio tra le rassicurazioni del riconoscimento delll’età infantile che i bambini stanno attraversando e la prospettiva dell’età che verrà con le potenzialità di interazione e di coinvolgimento nella società
Ponte tra FUORI e DENTRO tra società e vita dei piccoli, cerniera e cardine, l’Ambiente, inteso anche in senso relazionale, strutturale, non solo ecologico, è utilizzato in modo funzionale, strumentale e educante.
Da sempre lo studio e la l’immersione in natura sono stati molto importanti per l’approccio Bimbisvegli, ma dal suo insediamento a Serravalle, area rurale a 4 km dal centro città, le attività outdoor sono diventate un formidabile strumento per motivare, sostenere e incentivare l’apprendimento cooperativo , pratico ed esperienziale.
Crediamo in una scuola aperta e pienamente inserita nella comunità, coinvolta nel sociale, fulcro per attività culturali a disposizione della città, empatica, accogliente, cooperativa, impegnata per contribuire al percorso educativo dei giovani, felici di apprendere per comprendere, che si impegnano a farlo per rendere il mondo un po’ più bello e giusto.
Fare scuola in questa ottica è l’unico modo che concepiamo.
Negli anni questa metodologia è stata studiata ed osservata e riportata in 4 tesi di laurea, presentata in seminari e conferenze pubbliche, ha riscosso interessamento da parte di Piccole Scuole di INDIRE, è apparsa in diverse pubblicazioni scientifiche ed in trasmissioni televisive e documentari su pedagogia innovativa, telegiornali nazionali, divenendo anche oggetto di ricerca da parte dell’Università di Macerata, i cui dati sono stati presentati in convegno UNIMC coordinato dalla prof, Nicolini, introdotto dalla allora Ministra, prof. Lucia Azzolina.
Dopo anni di scuola felice, le attività didattiche all’aperto sono ora limitate nel loro raggio di azione e nella tipologia di attività autorizzate, la preziosa interazione con la comunità migrante è stata resa, di fatto, impossibile, piccoli ma importanti accorgimenti per il benessere del corpo e la cura degli ambienti come il cambio scarpe all’ingresso diventano un problema, scelte pedagogiche ponderate e consolidate vengono messe in discussione senza però addurre motivazioni plausibili, la rigidità normativa sembra prendere il sopravvento sulla pedagogia sulla didattica, sulle esigenze educative dei bambini e sui canali di apprendimento specifici per questa età evolutiva.
Così facendo, si sta ottenendo il risultato di annichilire un progetto di scuola aperta, diffusa, impegnata, cooperativa, accogliente, in cui i bambini imparano con piacere, per interpretare il proprio ruolo di giovani cittadini coscienti e critici per una società migliore, in cui apprendere significa comprendere davvero, in cui si impara per sviluppare, ciascuna e ciascuno, il proprio sé migliore e, insieme agli altri, contribuire a rendere il mondo più bello e giusto .
Vi confidiamo dunque la nostra fatica, che volge oggi allo sconforto ed alla grande preoccupazione , temendo che tutto questo possa essere giunto ad una malaugurata fine.
La fine di questa realtà – da alcuni definita innovativa – non costituirebbe soltanto una delegittimazione del percorso formativo degli alunni ed alunne attualmente coinvolti/e.
L’approccio didattico offerto da “Bimbisvegli” attrae, infatti, decine di famiglie anche da centri abitati distanti diversi chilometri. Questo ha garantito la sopravvivenza ed il rilancio del plesso, cosa succederà quando la maggior parte delle famiglie che hanno scelto questa scuola per lo speciale approccio didattico saranno deluse?
I rapporti con la comunità locale, negli anni si sono fatti intensi e proficui, e nessuno tra noi mette in conto l’eventualità di un trasferimento del progetto in altro plesso. Se si ritiene che il Progetto BimbiSvegli abbia una validità, allora esso, rimanga e continui a svilupparsi a Serravalle d’Asti.
Pertanto ci rivolgiamo, accoratamente, a Voi, Illustri Rappresentanti della Scuola Pubblica in cui crediamo, affinché poniate in essere qualsiasi forma di protezione istituzionale per questo progetto, così da poter fornire strumenti efficaci per una serena e funzionale alla direzione di un circolo in cui possano serenamente coesistere due modelli di istruzione distinti.
Vi aspettiamo con fiducia
La comunità educante della scuola primaria statale di Serravalle d’Asti