Non c’è via di uscita

di Raimondo Giunta

Gli insegnanti sono a scuola in nome di una società che in diverse maniere e sempre più spesso non intende riconoscere il valore e il significato del lavoro che svolgono e del ruolo che esercitano nei confronti delle nuove generazioni.
Sono stati spogliati della loro autorevolezza; un fatto che si rovescia con effetti deleteri sulla credibilità della stessa scuola e che inquina e rende difficili i rapporti con le nuove generazioni.

Alla radice del disincanto e anche dell’ostilità nei confronti della scuola e degli insegnanti va collocata l’impossibilità per la scuola di mantenere le promesse che nel passato l’hanno accreditata come un’istituzione fondamentale e imprescindibile per il funzionamento complessivo della società: buona e rifinita preparazione civica e professionale degli alunni, certificazioni indubitabili e insostituibili a garanzia di sicuri processi di mobilità sociale.
Purtroppo, proprio quando la società incomincia a definirsi e a organizzarsi come società della conoscenza, la scuola fa fatica ad avere un’adeguata capacità di individuare nuovi orizzonti, nuove prospettive che la  possano collocare al centro dell’attenzione pubblica.

La scuola oggi non ha soluzioni pronte per una società problematica, mutevole, inafferrabile nella sua complessità; può riuscire a dare, invece, alle nuove generazioni, ma impegnandosi senza limitazioni di energie, strumenti che le rendano in seguito capaci di cercare eventuali soluzioni ai problemi che devono affrontare.
Il passaggio dalle certezze alla problematicità ha messo a soqquadro lo status sociale della scuola e degli insegnanti, ferito proprio per questo da un carico di sofferenza sociale che spinge spesso la sensibilità di parte del mondo professionale della scuola verso la nostalgia del tempo passato, piuttosto che verso un confronto serrato con il proprio tempo per orientarvisi.

La via d’uscita dal disagio della scuola e degli insegnanti  va cercata nella reinterpretazione della funzione conoscitiva del sistema di istruzione e nella valorizzazione della funzione educativa della scuola.
Non ci si deve chiedere solo che cosa i giovani debbano sapere e saper fare per affrontare il mondo che cambia; ci si deve chiedere che tipo di uomo, di cittadino deve uscire dalla scuola per affrontare il mondo che cambia.
Non credo, però, che questa ultima preoccupazione interessi molto.
Anzi, anche in modi che rasentano la brutalità si incita  a lasciar perdere con la teoria,  perché le nuove generazioni  possano immergersi nell’universo infinito della pratica.

Ma è davvero fuori dal mondo la proposta di Meirieu di differire il momento della strumentalizzazione delle conoscenze e di soggiornare più a lungo nei tempi in cui si deve far provare l’avventura intellettuale di capire com’è fatto il mondo e in cui si può cominciare a gustare il piacere di conoscere e di conoscersi? Può essere questa la sfida da raccogliere per risalire la china dell’apprezzamento sociale; può essere questa l’occasione per gli insegnanti per ripensare la propria professionalità, per arricchirla di una raffinata capacità di riflessione e di ascolto, per alimentarla con dosi massicce di fiducia nei giovani e di speranza nel futuro. Il momento richiede un surplus di passione educativa e di cura delle persone e il mondo della scuola non si può permettere il lusso della rassegnazione.

 




Sulla scuola e sulla pedagogia, frammenti di riflessione

di Raimondo Giunta 

La pedagogia è l’attività di riflessione che si esercita sull’azione educativa per poterne delineare in modo persuasivo le finalità e le procedure ad esse congruenti. Riflette sull’educazione come oggetto e sull’educazione come progetto, soprattutto se e quando si vuole mettere in campo un’idea di umanità e di società che abbia come valori fondanti la libertà, la dignità e la responsabilità delle persone.
Ripensando l’azione educativa nei suoi molteplici aspetti è possibile migliorarla e renderla adeguata alle varie e diverse esigenze umane per le quali è indispensabile. Con questa necessaria e continua opera di riflessione la scuola può essere ancora un luogo di speranza per i giovani e superare le difficoltà che la stanno soffocando.

La pedagogia è l’educazione che si pensa, che si parla, che si giudica, che si progetta.
“La pedagogia è l’insieme delle strategie che l’intelligenza dispiega in una società, affinché l’arbitrarietà di un’educazione bene o mal fatta ceda il posto alla scelta di fare meglio” (E. Durkheim-1911).
La pedagogia come scienza è un tributo rituale alla cultura di tipo scientista; sarebbe peraltro una scienza senza l’onere e la responsabilità di portare le prove. . .
La pedagogia non è nemmeno l’insieme delle cosiddette scienze dell’educazione, in grado forse di rispondere alla domanda “COME”, ma non a quella “PERCHE’ ” educare.

Come ogni attività che abbia come campo d’applicazione ciò che è umano, l’attività educativa rinvia al discernimento, alla capacità di cogliere le occasioni e di decidere alla luce di conoscenze solide e con l’aiuto di tutti i mezzi disponibili nella consapevolezza dei problemi da affrontare. In quanto praxis l’educazione non può pretendere di avere fondamenta inconfutabili. Il suo discorso può essere allora più che una dimostrazione un racconto o l’esplicitazione di un “exemplum”.
Pensare l’educazione come praxis aiuta ad accettarla come incontro con l’alunno con tutte le sue difficoltà e resistenze. “L’educazione è l’insieme dei processi che permettono ad ogni bambino di accedere progressivamente alla cultura, essendo la cultura ciò che distingue l’uomo dall’animale” (O, Reboul, 1989, La filosofia dell’educazione).

“L’uomo non è uomo se non per l’educazione”(Kant).

Il rifiuto della pedagogia è un esercizio inutile di iattanza accademica che stride con la problematicità e la drammaticità dell’azione educativa nella società contemporanea. Istruire senza educare è un mito di stampo positivistico che non funziona più. Istruire è sempre scegliere un tipo d’uomo e di società anche quando si pensa di non farlo. Nel processo formativo ci si illude di evitare le scelte di valore e il rifiuto della responsabilità educativa è ingiustificabile in un momento in cui molti dimostrano di non volersela prendere. La pedagogia buona è quella schierata per un sapere che libera e pensa che questa liberazione si costruisca attraverso il sapere.
La pedagogia è situata all’incrocio tra educazione reale, educazione possibile ed educazione “sperata”.

La riflessione pedagogica è indispensabile per contestualizzare il discorso formativo e per poterne rinnovare le pratiche in una situazione di sovvertimento continuo dei saperi e dei paradigmi scientifici. I curricoli da realizzare a scuola devono essere aperti, flessibili e innovanti nei contenuti; non definitivi come lo sono i diversi paradigmi della ricerca scientifica, ma devono conservare una certa stabilità nelle finalità formative.
E’ il modo per mettersi in sintonia con il mondo che cambia, salvaguardando la loro funzione educativa.

L’attività educativa ha una dimensione naturale di prefigurazione, di progettualità, di futuro, di liberazione e solo per abdicazione può essere piegata ad una logica dell’adattamento alle condizioni date. Senza finalità non c’è attività educativa.
Le finalità ci conducono a scelte di valore che oltrepassano sempre quelle pragmatiche dell’efficacia e dell’efficienza, alle quali si finisce per rifugiarsi talvolta in nome di un malinteso senso di razionalità. Le finalità devono aiutarci a comprendere in quale mondo vogliamo vivere, quale avvenire speriamo per i nostri figli, quali saperi occorre trasmettere, quale tipo di cultura si dovrebbe privilegiare. La problematizzazione delle finalità educative è pedagogia.

C’è buona educazione dove e se si coltiva la libertà dell’uomo, quando ci si può costruire in libertà e dignità a partire dalle condizioni in cui ci si trova. Educare, allora, per promuovere la libertà di ciascuno e non per agire in conformità ad un gruppo di appartenenza, anche se non si possono mettere in opposizione emancipazione e integrazione sociale. Il principio di libertà è essenziale nell’educazione, se non si vuole che essa diventi manipolazione; quello di integrazione, se si vuole valorizzare la dimensione sociale della persona.
Solo in quanto soggetto, autore e attore della propria vita capace di mettersi in rapporto con altri soggetti e con le appartenenze che li caratterizzano (etnica, religiosa, politica, locale etc. ) la persona può dare un senso e una direzione alla propria esistenza. Il soggetto di cui si deve occupare la pedagogia è il soggetto che costitutivamente è posto tra gli altri.

Il buon educatore è colui che fa posto all’esistenza dell’alunno, alla sua singolarità tra programmi, regole e valutazioni e ne capisce, quando sopravvengono, le sue resistenze, le sue difficoltà, i suoi rifiuti.
L’educatore si interroga sulle resistenze dell’altro e non tenta di violarle. Per paradosso si può dire che compito dell’educatore è quello di educare gli ineducabili.
Il momento educativo si realizza nell’accettazione di un qualcuno che non si lascia dimenticare e che non vuole essere ricondotto all’anonimato di un gruppo indifferenziato (classe, istituto, ambiente).
E’ impossibile e non ha senso pensare di dominare l’irriducibilità del soggetto. Questo ci ricorda la buona pedagogia. “Andare fino in fondo all’esigenza di singolarità è darsi la più grande chance di accedere all’universalità”(P. Ricoeur).

L’educazione è una relazione asimmetrica, necessaria, ma provvisoria la cui attività deve scomparire man mano che comincia ad emergere l’autonomia del soggetto e la sua capacità di valorizzare le potenzialità, che lo distinguono.
Educare significa formare l’intelligenza e forgiare la personalità dell’alunno, accettarne l’estraneità e anche l’avversione, prenderlo com’è e rinunciare al rapporto di forza; curare l’umanità nelle relazioni pedagogiche. Proprio per questo vi è della sofferenza nel rapporto educativo, perchè ogni costrizione è una sconfitta.
Per educare bisogna avere dell’umiltà.

A scuola si deve coltivare la capacità riflessiva come requisito per esplorare il significato dei valori costitutivi della cittadinanza e per appropriarsi della dimensione sociale e problematica dei saperi. Ricondurre il sapere ai problemi che l’hanno generato è necessario per recuperarne la connotazione esistenziale, per comprendere cosa sia una “theoria” autentica. Curiosità e spirito critico sono le espressioni naturali dell’atteggiamento problematico, che occorre orientare e sviluppare: la prima naturalmente proiettata verso il futuro, il secondo alla ricerca dei fondamenti dei problemi.

L’obiettivo più alto dell’educazione è comprendere; più alto ancora di quello di riuscire. Educare perchè si impari a porre e a porsi delle domande; a pensare il rigore e la radicalità delle domande: bisogna dare gli strumenti per potere discutere e dialogare, per potere resistere al sovvertimento delle evidenze con cui quotidianamente si cerca di manipolare le coscienze. La scuola dovrebbe essere un luogo dove si può sbagliare, senza rischiare nulla (Meirieu).
“La classe è un luogo dove la verità di una parola non è relativa allo status di colui che la pronuncia”(B. Rey).
Una pedagogia aperta deve misurarsi, però, con quella parte di disordine, di negoziazione che essa comporta. In pedagogia non è possibile aprire il registro delle certezze.

La scuola deve mediare tra ciò che vuole la società e ciò che vuole la famiglia: ci sono cose, però, che lo Stato per conto della società non può fare e cose che la famiglia non può pretendere; la scuola non sostituisce la famiglia, dà una propria socializzazione, che non può prescindere dalla quella familiare (che occorre conoscere e interpretare e se necessario contrastare). D’altra parte la famiglia non può pretendere che la scuola sia la semplice prosecuzione della propria cultura d’appartenenza.

La scuola si definisce in separazione dalla vita e dalla quotidianità; ci sono barriere che nessuna parola d’ordine sull’apertura può cancellare.
Andare oltre l’aula non può significare sovvertire la logica della cultura scolastica, ma superare i dispositivi tradizionali che fanno capo solo all’aula, misurarsi con la dimensione dell’attività, della riflessività, della contestualità e dell’esperienza.

Il mondo della scuola non può chiudersi nel recinto rassicurante delle proprie tradizioni e della propria identità, ma deve aprirsi al cambiamento e alla riflessione sulla propria collocazione nella società. Il vecchio paradigma formativo da cui si cerca con fatica di uscire dipendeva essenzialmente dalla qualità degli insegnanti, aveva vincoli di spazio e di tempo, era imperniato essenzialmente sul linguaggio verbale e disponeva di tecnologie limitate. Il modello formativo che lo deve sostituire evoca l’auto-apprendimento e limita il ruolo del docente; tende a privilegiare il gruppo di lavoro come comunità d’apprendimento, in modo che i discenti possano imparare interagendo e dialogando tra di loro; affianca a quelli verbali altri linguaggi e vive in ambiente tecnologico.

Uno dei compiti più difficili da affrontare oggi è quello di ricondurre i giovani cresciuti nel mondo virtuale alla serietà dei problemi del mondo reale. Rompere l’involucro gratificante dell’irrealtà per misurarsi con le fatiche quotidiane di conoscenza e di lavoro non sarà facile, ma è la nuova missione educativa della scuola e degli insegnanti.

L’educazione dei giovani è un’impresa collettiva e non il risultato casuale di contributi individuali degli insegnanti e di altre figure di adulti. Il problema è lavorare insieme, imparare l’uno dall”altro; essere una comunità professionale, dove si è reciprocamente risorsa per l’altro. Dare e ricevere aiuto non significa essere incompetenti, ma partecipare alla ricerca comune per rendere migliore l’apprendimento dei giovani.

Una buona scuola è una comunità di adulti che prende in carico una comunità di alunni, e non un guazzabuglio informe di ore di lezioni.




La dimensione teatrale nell’insegnamento: tra resistenze e sottovalutazione

di Antonio Valentino

Un contributo stimolante di Maviglia e Bertocchi per rilanciare la dimensione teatrale del mestiere dell’insegnante

Nei percorsi formativi per il personale della scuola – e probabilmente non solo – il noto studioso austriaco di leadership e apprendimento, Michael Schratz, discostandosi dalle pratiche più comuni nel suo paese (e anche dal nostro), prospetta, già dagli inizi del secolo,  un modello che prevede di partire non già dalla consapevolezza di non avere competenze adeguate, ma piuttosto dalla incompetenza non-consapevoleunconscious incompetence – (essere inconsapevoli di non avere le competenze richieste) per giungere alla prima tappa: la incompetenza consapevole  – conscious incompetence – (sapere di non sapere).
Pertanto la prima preoccupazione del formatore dovrebbe essere quella di aiutare le persone a diventare consapevoli dei propri bisogni. Solo questa consapevolezza (della mancanza e dei suoi risvolti negativi) permette di procedere verso la competenza consapevole[1].

La tesi sostenuta è che “il lavoro dell’insegnante sia fortemente intriso di teatralitàspesso agita in modo del tutto inconsapevole da parte dei docenti – anche se dentro un quadro contraddistinto da una serie di condizionamenti e aspettative. Quadro nel quale, come ben sappiamo, e nel libro si richiama esplicitamente, ogni insegnante, “recita la sua propria parte – un po’ come fa un attore – in base ad un personale copione[2], più o meno elaborato e più o meno efficace, rispetto agli obiettivi perseguiti”.
Dove il termine copione traduce il cosa e il come viene rappresentato nella classe, ben assimilabile ad una scena definita ‘educativa’ per le sue specifiche caratteristiche.
Il convincimento, esplicitato già dalle pagine iniziali della prima delle due parti, redatta da Maviglia, è che l’acquisizione di un copione più evoluto raffinato e flessibile passa necessariamente attraverso una specifica formazione; a partire dalle competenze proprie della comunicazione verbale e non verbale (tratto fondamentale del profilo docente). E ciò, nonostante gli studi e le ricerche che, almeno dagli anni ’70 del secolo scorso si sono susseguite meritoriamente nel panorama internazionale e anche nazionale[3].

Opportunamente Maviglia richiama i contributi di prestigiosi studiosi e ricercatori delle teorie dell’apprendimento (soprattutto dell’apprendimento situato e basato sulla pratica) e ne riporta, con scelte efficaci, i passaggi più significativi e illuminanti.
Quanto al senso delle riflessioni e delle proposte riportate, esso viene fatto consistere essenzialmente nel rendere consapevole l’attore-insegnante del ruolo che il comportamento verbale e quello non verbale assolvono nella scena educativa.
E questo perché, come afferma Simeone[4], in un passaggio riportato nel libro, “La comunicazione dei sentimenti e delle emozioni si avvale più frequentemente di segnali non verbali e analogici che palesano in modo più preciso gli aspetti affettivi e sociali dell’interazione”.

Interazione che resta – aggiungerei – la competenza tra le più alte per sviluppare apprendimenti che sappiano caratterizzarsi anche sul versante della reciprocità.
Purtroppo però, a differenza di quanto avviene nei contesti espressivi altri – del teatro soprattutto – si evidenzia che “gli insegnanti sono stati e rimangono spesso ben lontani da una utilizzazione riflessa delle intonazioni dei gesti e della mimica”.

Un tema generale che attraversa tutto il libro – e per questo mi è parso ovvio partire per queste considerazioni dai ragionamenti di Micael Schartz – è certamente la formazione dell’attore-insegnante, opportunamente considerata necessaria, urgente e mirata.

Al riguardo vale la pena riportare, dalle ultime pagine del libro, una frase suggestiva di Rivoltella[8] evidentemente assunta, sul tema, come direzione di lavoro e, insieme, traguardo: “Occorre passare sempre più da un insegnante seduto, solo testa, che comunica verbalmente a un insegnante attore-testa corpo-cuore che comunica con il gesto, con la mimica, con la voce, con il modo di disporsi nello spazio e di muoversi in esso. Occorre recuperare cioè la dimensione attoriale dell’insegnamento, di appropriarsi di tecniche che non sono più insegnate proprio perché l’idea della professione prevalente è un’altra, quella di un impiegato e non di un ‘capo comico’ con la sua ‘compagnia’”.

La considerazione della Bertocchi nelle pagine finali rende ancora più interessante il discorso della formazione di tipo attoriale per gli insegnanti: “Conoscere e padroneggiare i vari strumenti espressivi e comunicativi non costituisce solo un potenziamento della propria professionalità ma è un atto di rispetto nei confronti dei propri studenti che ogni giorno hanno diritto di fruire di una rappresentazione ragionevole e sensata e coinvolgente”. (corsivo mio).

Considerazione quest’ultima che si accompagna alla segnalazione del Centro Teatrale Bresciano (CTB) che offre percorsi di formazione finalizzati a “rendere consapevole il docente del suo agire contestualizzato”, sviluppando capacità di autoanalisi e autoregolazione e di riflessione sulla propria esperienza.

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[2] Nella psicologia dell’apprendimento degli anni 70, copione indica – come ci ricorda Maviglia – l’insieme delle azioni che si compiono in un determinato contesto per raggiungere determinati scopi.

[3] Tra gli altri, Argyle, Schon, De landsheer e Delchambre, Wenger e Lave, Perrenoud, Goffman, Watzlawick. Tra gli italiani, soprattutto Bonfiglio, Gallino, De Bartlomeis, Rivoltella, Margiotta, Pizzorno, Riva, Simeone.

[4] Da D. Simeone, La consulenza educativa, Vita e pensiero, 2011. Cit. a p. 85.

[5] Pag. 90

[6] Trattata dal sociologo americano Erving Goffman nell’opera La vita quotidiana come rappresentazione, citata a p.15.

[7] Vengono soprattutto citati Argyle  e Corsi, i cui testi di riferimento sono riportati, rispettivamente nelle note alle pp. 17 e 13

[8] A p. 122.




L’insegnante, il sapere, l’alunno

di Raimondo Giunta

A scuola, spesso e con diverse motivazioni, l’attenzione prevalente degli insegnanti è dedicata alle proprie discipline, che di fatto finiscono per dirigere il loro comportamento e per provocare, anche per sollecitazione esterna, l’assillo di non potere portare a compimento quanto stabilito all’inizio dell’anno scolastico.
Le prescrizioni curriculari in molti casi assorbono e condizionano la didattica e le modalità delle relazioni educative. Non sono pochi gli insegnanti che ne soffrono. Vorrebbero una scuola più vicina alla sensibilità e ai problemi degli alunni. Vorrebbero una scuola aperta al mondo e invece devono sbrigarsela con una miriade di carte, che irrigidiscono la libertà di movimento di cui si nutre la buona qualità dell’insegnamento.

La scuola non riesce a trovare le parole giuste per indicare le cose, gli esseri e le relazioni che popolano lo spazio di un istituto. Ha smesso di usare quelle di una volta, ma quelle nuove nascondono la complessità della vita dei processi educativi. Avendo dichiarato la guerra a tutto il lessico etico-affettivo della dedizione, della passione, della funzione sociale del lavoro del docente per costruire l’immagine di un professionismo a 24 carati (nelle regole, nelle procedure, nel rapporto di lavoro, nel linguaggio) non si è compreso che è diventato inafferrabile il mondo su cui si lavora e per cui si lavora.

Anche se la disciplina scolastica, il sapere sono l’unica ragione che spieghi e che fondi il rapporto docente/alunno, una volta che questo viene stabilito, lo scopo di tutto non può non essere che quell’alunno, che si ha davanti con tutti i suoi tratti umani e sociali  .Il sapere  non è la divinità alla quale bisogna sacrificare in qualsiasi modo la natura indocile di qualche alunno.
A scuola gli insegnanti non sono solo gli officianti del rito quotidiano delle lezioni, ma anche le guide dei propri alunni nel loro percorso di crescita umana e professionale.

 

Non c’ è buona didattica, non c’è buona scuola, non c’è formazione, se non c’è rispetto per l’alunno, se non si ha fiducia nell’alunno, se manca affettività nel rapporto educativo.
Cose che si devono poter sentire e che se non ci sono, possono rendere sterile tutto il lavoro che si svolge a scuola. Nel rapporto educativo non può esserci prima il professionismo e poi l’affettività, nè rendere questa strumentale all’altro.
Il professionismo da solo non funziona: è fondamentale e preliminare l’accettazione del giovane da formare e da educare. Il vuoto dell’azione formativa dei sistemi fondati sul professionismo è evidente. Il professionismo, le teorie organizzativistiche sono stati i presupposti teorici per giustificare i sistemi razionali e burocratici di reclutamento dei docenti e la loro sopravvivenza in ambiente educativo. Le appendici metodologiche, comunicazionali, sociologiche del corredo professionale, approssimativamente collegate al sapere disciplinare di un docente spesso non riescono a modificare le situazioni di stagnazione delle relazioni educative.

E’ un mestiere quello di insegnante che si può e si deve  costruire, ma che si può efficacemente esercitare solo se è vissuto come parte centrale e significativa delle propri interessi umani. Il ciclo del professionismo della funzione docente non è finito, ma fa fatica a dare risposte positive alle difficoltà attuali .

Ha accompagnato il docente nel passaggio dalla scuola d’élite a quella di massa.
E’ sembrato essere la sua emancipazione dalla cultura della vocazione, della missione, da quell’aura di sacerdozio laico che circondava la funzione docente.

La difficoltà, però, rimane sempre la stessa: riassumere in termini professionali la ricca e complessa rete di rapporti umani che scaturiscono dentro l’aula scolastica.
La contrattualizzazione di tutti i tipi di relazioni dentro la scuola è andata oltre la legittima esigenza di giustificazione di ogni scelta e di ogni fatto che si registra nella sua vita quotidiana. Ha irrigidito e impoverito la vita scolastica. Per rimediare qualcosa bisognerebbe riscoprire gli aspetti artigianali, sapienziali, genitoriali della funzione docente e accompagnarli con gli strumenti delle scienze umane (psicologia, sociologia, comunicazione etc.) Il mondo dei fini, in una parola, non è un imbarazzante e inutile peso sul lavoro dentro la scuola.
E’ la premessa da cui iniziare e il termine verso cui arrivare.




Quale legame fra modello politico e modello educativo?

di Raimondo Giunta

Il discorso funebre di Pericle per gli opliti morti in battaglia nel primo anno della guerra del Peloponneso, riportato da Tucidide, è un inno al modello politico democratico della propria città, prima di essere un omaggio a quanti erano morti per la propria patria.
Giustamente citato e riprodotto ogni volta che si vuole distinguere la democrazia da qualsiasi altro regime politico.
“Mi dedicherò, invece, all’elogio di questi caduti, ma solo dopo aver chiarito in primo luogo sulla base di quali principi di comportamento siamo pervenuti a questa situazione, con quale regime politico e in virtù di quali caratteristiche personali il nostro impero è divenuto grande” (La guerra del Peloponneso II 36, 4).
Un regime in cui tutti si trovano in una condizione di parità e si può eccellere negli onori pubblici per meriti personali e non per l’appartenenza ad un determinato ceto; un regime in cui coesistono la tolleranza nei rapporti privati e la fedeltà alle magistrature e alle leggi, soprattutto se sono state concepite per difendere le vittime delle ingiustizie. Un regime che assicura allo spirito numerose occasioni di sollievo dalle fatiche con gare di diverso genere e con feste religiose. Per quanto riguarda l’educazione, non ci sono costrizioni per pervenire al coraggio e per diventare capaci di affrontare i pericoli. Ad Atene, afferma Pericle, si ama ciò che è bello nella semplicità e il sapere senza mollezze e chi non partecipa alla vita pubblica viene considerato un cittadino inutile.
“E noi stessi esprimiamo giudizi o discutiamo come si deve sulle questioni, dal momento che non riteniamo che le parole siano un ostacolo per l’azione, ma piuttosto che lo sia il non essersi informati attraverso la parola prima di affrontare l’azione che deve essere intrapresa” (Ibidem II, 40, 2).
Pericle fa della democrazia il regime che rende liberi e che è sostenuto da uomini che vogliono essere liberi.

Nella mente di Pericle quel modello politico era consapevolmente legato ad un modello educativo: ”In conclusione affermo che la nostra città, nel suo complesso, costituisce un modello di educazione per la Grecia e che nella mia opinione i nostri uomini, presi individualmente, mostrano una personalità sufficiente a ricoprire con disinvoltura i ruoli più diversi” (Ibidem II 41, 1) .

Proprio per questo Platone, che a proposito di modelli politici e di modelli educativi aveva altre idee, del discorso del grande ateniese farà una straordinaria satira nel Menesseno, riconducendolo alle dimensioni di una rituale, anche se eccezionale, prova di retorica funebre. Riconosceva, però, in questo modo l’importanza e il significato che aveva ancora nell’Atene del suo tempo. Il grande filosofo ateniese nella Repubblica aveva espresso la convinzione che ad ogni tipo di regime politico non possa non corrispondere un tipo particolare e preciso di uomo; vivrebbero in perfetta simbiosi. Per quanto riguarda la democrazia, orgogliosamente illustrata e rivendicata da Pericle, Platone, che non l’amava affatto, non si era dilungato in notazioni favorevoli di virtù.

“A parer mio, la democrazia si instaura quando i poveri hanno la meglio, e quelli della fazione opposta, in parte vengono sterminati, in parte esiliati. Coi rimanenti vengono equamente divise le cariche e i poteri, il più delle volte estraendoli a sorte”(557 A)”; ”Dunque, ripresi, questi e altri simili sono i tratti tipici della democrazia, la quale certamente HA TUTTA L’ARIA di essere una forma di governo civile, non autoritaria e pluralista, che sa diffondere un certo principio di uguaglianza agli uguali e ai disuguali”(558 C)L’anima dell’uomo democratico è una fortezza “vuota di nozioni, studi elevati, e di validi ragionamenti, i quali nella mente degli uomini prediletti dagli dei, costituiscono i più strenui guardiani e difensori”(560 C). I democratici sono persone ”che mettono al bando il pudore, chiamandolo stoltezza, che espellono la temperanza coprendola di insulti e dandole il nome di viltà; e così pure danno il benservito all’equilibrio e alla parsimonia nelle spese presentamdoli come spilorceria e rozzezza, grazie anche alla complicità di molti insidiosi desideri”(560 D); ”Chiamano buone maniere la prepotenza, libertà l’anarchia, munificenza la dissolutezza, coraggio la sfrontatezza. Non è forse questo il modo in cui un giovane da una formazione che fa leva sui desideri necessari passa alla più totale libertà e rilassatezza nel concedersi a desideri non necessari e niente affatto utili?”(561 A); e così via seguitando ”Hai fatto, disse lui, un quadro perfetto della vita dell’uomo tipico dello Stato in cui la legge è uguale per tutti”-(561 E)

Pericle e Platone hanno idee molto diverse sul modello di polis e sul modello di educazione, ma concordano sul fatto che il modello educativo debba corrispondere al modello di società; propongono un legame organico tra i valori e i principi che regolano un particolare regime politico con quelli che devono regolare l’educazione dei giovani. Nel convincimento siffatto emerge il proposito che la formazione del giovane debba essere funzionale alle condizioni della società in cui dovrà assumere il proprio ruolo di cittadino e di lavoratore. Non ha respiro un’educazione che non si proietti nello spazio pubblico e che in fin dei conti non abbia vita lunga e significativa. Problema serio; ogni società si aspetta un’educazione conforme ai propri valori e alle proprie necessità; non concede molto spazio e autonomia al proprio sistema di istruzione ed educazione, se pretende di elaborare valori e principi alternativi; in una parola alla pedagogia non si concede molta libertà in questo compito, perché in altre sedi vorrebbero occuparsene.
Sicuramente per quanto spazio si voglia e si possa dare alla funzione conoscitiva di trasmettere saperi e conoscenze, per come funziona oggi la società, per come funzionano le famiglie la scuola non può sottrarsi alle proprie responsabilità educative.
La pretesa di farla corrispondere in via esclusiva ai bisogni del mercato del lavoro non copre lo spazio che il sistema di istruzione e formazione di fatto viene ad occupare nella società. L’organicità tra progetto educativo e regime politico, che spicca nei modelli della Grecia Antica, dopo le esperienze drammatiche del Novecento nessuno ha l’ardire di proporla, anche quando ci si rende conto dell’insufficienza di processi formativi centrati solo su competenze professionali. E questo anche in regimi che di fatto o nominalmente si dicono democratici. L’educazione deve essere pluralistica, aperta, inclusiva, ma inflessibile su alcuni valori . Nei regimi democratici l’educazione deve tenere conto della società e deve tenere conto dei diritti della persona, i cui bisogni educativi non si risolvono interamente nella collocazione in un ruolo della società. In questa bivalenza e nell’autonomia della persona dalle ingiunzioni, che possono essere prevaricatrici della società, la pedagogia conquista la sua autonomia e si emancipa dagli obblighi istituzionali. E’ questa la sfida odierna; il sistema di istruzione non può non darsi un progetto educativo e questo deve essere aperto, rispettoso dei diritti della persona.




La scuola perde colpi, è troppo autoreferenziale, Don Milani e il ’68 non c’entrano nulla

di Giovanni Fioravanti
(per leggere altri interventi dell’autore vai al suo sito Istruire il futuro)

Pare che le ricette per cambiare l’istruzione non manchino al pensiero ben pensante. Azzerare tutto e portare indietro la macchina del tempo, c’è chi invoca cattedre e predelle e chi il ritorno al riassunto nell’epoca degli abstract. Ben pensanti che neppure si preoccupano di visitare il sito della Fondazione Agnelli dedicato alla Scuola, giusto per tentare di aggiornare i loro archetipi al fine di diradare le nebbie che offuscano la loro navigazione.

Scrivere di istruzione richiederebbe di disporre di una buona cultura almeno in scienze dell’educazione, quelle che in tutto il mondo da decenni hanno soppiantato la pedagogia. Bisognerebbe conoscere la psicologia dell’apprendimento, un po’ di docimologia, un po’ di ricerca educativa, sempre di scarso interesse nel nostro paese persino per la formazione dei docenti dalle scuole medie in su.

Immaginare di trattare più di mezzo secolo di storia del nostro sistema formativo come se il tempo, il mondo, la società fossero stati pietrificati intorno ad esso, denuncia una concezione della scuola come corpo a se stante, come tempio incontaminato, come luogo degli otia studiorum che non si sporca le mani con le cose prosaiche come il lavoro e le altre necessità materiali. Chi osa aprirne le porte come pretenderebbero di fare l’Invalsi e le indagini Pisa dell’Ocse altro non è che un profanatore del tempio e dei suoi sacerdoti.

Se qualcuno l’ha dimenticato, a scuola si va con il corpo e la mente, il primo dovrebbe trovarsi a suo agio, la seconda andrebbe impiegata in un continuo allenamento. Raffaele Simone, il linguista, alcuni anni fa nel suo libro “Presi nella rete. La mente ai tempi del web” ha sottolineato come la tecnologia, modificando il nostro modo di comunicare, ha trasformato il nostro modo di usare il corpo e la mente.

Il libro è del 2012 come le “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione”, che sono legge dello stato. Ci sta scritto che lo scenario è così cambiato che l’apprendimento scolastico altro non è che una delle tante esperienze di formazione che bambini e adolescenti vivono e che spesso per acquisire competenze specifiche non vi è bisogno dei contesti scolastici. C’è anche scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende (vedi: corpo e mente), non dagli insegnanti e dai programmi, ma dal piccolo o dall’ adolescente in carne ed ossa che hai di fronte, con cui dovresti stipulare un patto formativo per garantirgli l’originalità del suo percorso individuale come prescritto dalle stesse “Indicazioni nazionali”.

Dewey ci ricorda che il fine dell’istruzione è quello di andare incontro alla società: «Ogni qualvolta ci proponiamo di discutere un nuovo movimento nell’educazione, è particolarmente necessario mettersi dal punto di vista più ampio, quello sociale».

È mettersi dal punto di vista sociale che il nostro sistema di formazione non sa fare. Quando la società e con essa gli individui cambiano e l’istruzione resta immutata in se stessa, allora si crea il cortocircuito con i diritti delle persone, in particolare delle nuove generazioni, correndo il rischio di vendere merce avariata ai nostri giovani, come dimostrano le indagini nazionali e internazionali sul nostro sistema formativo.

Se i giovani escono dalle nostre scuole impreparati non è colpa né della media unica né di Barbiana né delle lettere alle professoresse, ma del fatto che nel corso degli anni si è accresciuto il distacco tra il nostro sistema di istruzione e lo sviluppo della conoscenza, due funzioni sociali che si muovono a velocità differenti.

La scuola ha perso sempre più terreno rispetto alla rivoluzione spettacolare prodotta dalle nuove tecnologie della comunicazione e dallo sviluppo impetuoso della mediasfera.

L’abbiamo toccato con mano con l’emergenza della didattica digitale, della didattica a distanza. Tenersi al passo con un’evoluzione tecnologica e cognitiva inarrestabile è un enorme impegno. Come conseguenza la scuola risponde guardando al passato, limitandosi a trasmettere un pacchetto ben delimitato di conoscenze, pochi ben definiti saperi, tenendosi alla larga da due meccanismi che oggi sono invece essenziali: il veloce processo di accrescimento della conoscenza e la diffusione di metodologie di accesso ai depositi della conoscenza. Invece di essere il luogo dell’incontro con la conoscenza e della sua prima elaborazione, la scuola si ripiega su se stessa difendendo cattedre, discipline e trasmissione del sapere, per proteggersi dalla conoscenza, dal suo fluire, dal suo accrescersi che preme alle sue porte.

Siamo un paese di retori e di retorica, di buone oratorie ma di pessime cattedre. Non sappiamo pensare al nostro sistema scolastico in termini moderni, un sistema di istruzione che ormai da troppo tempo accusa una crisi profonda nei suoi moduli organizzativi e nelle sue strutture. Se ne discetta da decenni, ma non abbiamo ancora chiarito per quale idea di scuola debbano essere formati gli insegnanti, per quali finalità dell’istruzione sono chiamati a lavorare.

In giro per il mondo gli argomenti che hanno preso il centro della scena trattano di come i giovani imparano meglio nel 21° secolo, di come rendere le scuole i catalizzatori del loro impegno per il sapere e la cultura, di come i giovani possono scegliere di imparare, di quanto la motivazione e l’amore per l’apprendimento significano nel contesto della scuola, di come dare più enfasi al coinvolgimento degli studenti nella scelta e nelle modalità dei loro percorsi formativi.

Siamo tornati al divorzio tra scuola e società, non si tratta di una distanza di classe come nel passato, ma della distanza tra bisogni culturali diversi che determina una nuova forma di discriminazione tra chi può soddisfarli e chi no.

La scuola si è chiusa in se stessa, nella sua autoreferenzialità. Il rischio è di rimanere stritolati tra la tentazione di un ritorno al centralismo amministrativo per insipienza, l’assordante silenzio di una classe docente senza spessore sociale e professionale, e le ricette di intellettuali ben pensanti che finiscono per accumulare la loro supponenza all’ignoranza che la scuola è oggi accusata di produrre.




La scuola dannosa e gli ultimi difensori della fortezza Bastiani

di Giovanni Fioravanti

Ormai la letteratura sulla crisi del nostro sistema scolastico è sterminata, ognuno ne analizza le cause da diverse angolazioni ma la conclusione è sempre la stessa, la nostra scuola resta la “grande disadattata” di cui scriveva Bruno Ciari negli anni ’70 del secolo scorso. Istat, Invalsi, Ocse e tutti i rapporti di Education at a Glance ormai da decenni denunciano i mali di cui soffre il nostro sistema formativo a cui mai nessun governo ha però pensato di porre seriamente rimedio.

Che la macchina dell’istruzione, oggi, contro le sue intenzioni, sia diventata un formidabile amplificatore delle diseguaglianze per saperlo non avevamo certo bisogno del tempismo editoriale della Nave di Teseo che in occasione del salone del libro di Torino pubblica “Il danno scolastico”, con il sottotitolo significativo: “La scuola progressista come macchina della diseguaglianza”. Opera a quattro mani del sociologo Luca Ostillio Ricolfi e signora, l’ex professoressa Paola Mastrocola.

Una operazione commerciale che porterà vantaggio alle casse della casa editrice, ma che nulla aggiunge alle riflessioni necessarie per risollevare dal disastro il sistema formativo del nostro paese.
Anzi, i topos sono sempre gli stessi di quella cultura nostalgica che non riesce a distogliere gli occhi dal passato e che non sa guardare avanti.

La rovina della scuola avrebbe avuto inizio nel lontano 1962 con il governo Fanfani IV e con Aldo Moro ministro dell’istruzione.  Da lì nasce il vulnus della scuola media unica, quella senza latino, vulnus alla scuola severa e rigorosa, alla scuola delle bocciature, alla scuola dei maestri e dei professori di una volta (per non parlare della zia Ebe di Ricolfi), quelli che erano autentici formatori, di cui si è persa ogni traccia.

Poi è stato tutto un precipitare attraverso il ’68, don Milani e Barbiana, l’abolizione del maestro unico, Luigi Berlinguer fino ai giorni nostri, senza salvare nulla e nessuno.

E tutto questo si vuole ora dimostrare fornendo i dati della ricerca sociologica. Viene il sospetto che i nostri autori in questi anni abbiano vissuto dentro la bolla delle loro convinzioni, senza mai affacciarsi fuori per cui non si sono accorti che ben altri dati assai drammatici andavano disegnando lo stato critico del nostro sistema formativo.

Così nell’intervista rilasciata al Giornale in data 15 ottobre il sociologo Ricolfi si dimostra disarmato, la china è talmente scesa in basso che è impossibile risalirla, sostiene, ormai  non resta altro che lo strumento della provocazione.

È che la scuola progressista non c’è, non c’è mai stata, la vedono solo Ricolfi e sua moglie nelle loro allucinazioni. Di Barbiana ce n’è stata una sola e la scuola statale ha continuato a funzionare inalterata nel suo impianto che risale ai tempi della legge Casati e della riforma Gentile, con i licei, gli istituti tecnici, fino agli istituti professionali ricettacolo di ogni fallimento scolastico e sociale. Un convivere di vecchio e nuovo, con il vecchio che non è mai scomparso e il nuovo che non è mai diventato nuovo. La scuola dell’ ibrido, organizzata per ordini, direzioni, cattedre, discipline e scrutini, radicata nel passato ma sempre precaria come il suo personale.

E del resto lo stesso Ricolfi, docente universitario, lo riconosce implicitamente  quando sostiene che: “Però ci sono delle regolarità: se uno studente prende un voto alto, ma non 30 e lode, posso solo indovinare che quasi certamente non ha fatto né il liceo sociopsicopedagogico né il liceo linguistico. Se prende 30 e lode, invece, vado a colpo sicuro: ha fatto il classico.”

È vero però che la nostra scuola dell’inclusione, grande conquista degli anni ’70, non è in grado di colmare gli svantaggi, che il successo formativo è ancora un fallimento, perché spesso alle promozioni non corrispondono le competenze. Ma le cause non sono quelle sostenute da Ricolfi e Mastrocola, non sono dovute a una classe docente non più severa perché sopraffatta dalla cultura progressista e dai suoi slogan: “la scuola dell’obbligo non può bocciare”, il “diritto al successo formativo” che hanno trovato negli studenti e nelle famiglie (nonché nei media) un terreno fertilissimo su cui prosperare”.

Le cause sono la povertà storicamente cronica delle nostre scuole, lasciate senza risorse per combattere gli svantaggi, per consentire i recuperi, per lottare contro la dispersione, per garantire la formazione continua degli insegnanti. Risorse finanziarie, umane, di mezzi, di strutture e di spazi a causa di quella stessa cultura dei Ricolfi e Mastrocola che ha governato il paese per oltre vent’anni, dalla Moratti alla Gelmini, anche loro però accusate dai nostri autori di aver ceduto al virus del progressismo educativo. Ognuno ha il suo deserto dei Tartari, la sua fortezza Bastiani da presidiare.

Infatti l’ipotesi della scuola progressista dannosa in quanto produttrice di diseguaglianze, la cui dimostrazione Paola Mastrocola affida ai dati della Fondazione Hume del marito Ricolfi, ha un solo obiettivo, sempre quello: dimostrare il fallimento della scuola statale.

La scuola dello Stato è alla deriva, ormai non è più recuperabile, non resta che la soluzione prospettata vent’anni fa, nel lontano 8 febbraio 2001, da Giuseppe Bertagna, Dario Antiseri e Ferdinando Adornato tra i sottoscrittori dell’appello per la scuola della società civile: “Una scelta decisiva e non più rinviabile …consiste nell’abbandonare il modello statalista ancora dominante nel nostro Paese, per fare spazio ad un nuovo assetto fondato sulle espressioni più vive e dinamiche della società civile. In tal senso va favorito il passaggio del sistema dell’istruzione e della formazione da organismo dello Stato a strumento a servizio della società civile”.

Pare però che in tutti questi anni i nostri intellettuali si siano dileguati e in buona compagnia di Ricolfi e Mastrocola non si siano accorti che siamo entrati in un secolo del tutto nuovo e che le loro ricette della nonna o della zia per i nostri figli non sono buone neppure per farci un solo giorno di scuola.