Celebrare non basta: don Milani e una storia da scrivere

di Dario Missaglia

Il centenario dedicato a don Lorenzo Milani si è ufficialmente concluso.
Se abbia prevalso la dimensione celebrativa o quella dell’approfondimento e della riflessione , è compito cui potrà dedicarsi la ricerca critica con tutto il tempo necessario. Proteo per parte sua, sovente insieme alla Cgil e alla Flcgil, ha promosso incontri e dibattiti di grande interesse e prodotto materiali sui quali è aperto il dibattito[1]  e la diffusione anche in ambito universitario[2] .

Un evento tuttavia, ci richiama alla sostanza storica e politica della vicenda umana di don Milani, al quale, come è noto, fu riservato dalla Chiesa un trattamento assai lontano da quanto la nostra Costituzione garantisce a tutti i cittadini. Un dramma i cui contorni non sono ancora del tutto chiari .

Questo interrogativo è posto, con passione e partecipazione da  Paolo Landi, ex “alunno” della scuola di Barbiana, autore di saggi e riflessioni sulla esperienza vissuta a Barbiana,[3]
In occasione del Convegno Pastorale su don Milani organizzato dalla Curia fiorentina e dal Comitato per il Centenario ( Convegno Pastorale su don Milani a Firenze nei giorni 24-25 novembre 2023) , Paolo Landi torna  a denunciare una grave omissione nella ricostruzione della relazione drammatica tra don Milani e la Curia fiorentina.

Rivolge perciò un appello a tutti i responsabili presenti al convegno (tra i quali il cardinale Betori di Firenze e  Rosy Bindi, presidente del Comitato nazionale per il Centenario). Da nessuno di loro, ad oggi, è giunta una risposta, una precisazione.
Landi  ricorda molto bene che proprio mentre gravava su un don Milani, oramai molto sofferente per la sua tragica malattia , la minaccia di una sospensione a divinis per opera del cardinale  Florit, giunge a Barbiana don Bensi che consegna a don Milani un biglietto. In quel biglietto vi è un assegno di 100.000 lire per la scuola di Barbiana e un augurio per il Priore. La firma del biglietto è del pontefice Paolo VI.
Quel biglietto e quella firma chiusero in extremis ogni spazio alla incombente sospensione a divinis.

I ricordi, come è noto, non sempre  coincidono con la storia e  Paolo Landi ne è del tutto consapevole. . Egli infatti non formula giudizi ma domande a tutti i soggetti istituzionali presenti al convegno . Perchè il silenzio? Perchè questo episodio è ignorato?
L’importanza storica di questo evento è rilevante: che cosa era successo  nella curia romana in quella fase per spingere Paolo VI a un gesto così risolutorio di un conflitto che andava avanti da anni? Chi aveva lavorato dietro le quinte per sensibilizzare il Papa e convincerlo a quel gesto?  Quali equilibri si stavano modificando nella Curia fiorentina e nei rapporti tra la Curia , nazionale e locale , e il potere politico del tempo? Chi viene sconfitto negli ambienti politici più vicini al Vaticano che aveva avallato e sostenuto il trattamento inaccettabile   cui era  stato sottoposto il prete di Barbiana fin dalla sua rimozione da S.Donato ?

La risposta a queste domande non modificherà di un millimetro la storia e la testimonianza di don Milani ma potrebbe offrirci una chiave interpretativa per comprendere come l’attuazione della nostra Costituzione non sia un dato scontato, un rito , una consuetudine, ma una difficile via da percorrere con ostinazione e determinazione.
Comprendere ciò che politicamente  è accaduto nei confronti di don Milani, non è un tardiva curiosità, è la necessaria ricerca delle responsabilità politiche che hanno determinato una condizione inaccettabile ed imperdonabile per la vita di don Milani che non si può risolvere con una postuma e anestetizzante “beatificazione”.

Ciò che possiamo oggi dire e dovrebbe orientare nuovi studi su don Milani, è una maggiore attenzione e scavo sul contesto fiorentino in cui si muove la sua vita e la sua testimonianza. Tra il dopoguerra e gli anni ‘50 e‘60, Firenze è un laboratorio politico di estrema importanza.

Fulcro di questo ambiente vivace, pieno di passioni e contraddizioni, è Giorgio La Pira, il “sindaco di Dio”[4].
Un recente  studio che ci restituisce in maniera analitica la vita di questo protagonista della politica locale, nazionale ed internazionale di quegli anni, [5] ci consente di capire che è La Pira il nodo in cui si intrecciano le storie di uomini come don Milani, Bruno Borghi ( il primo prete operaio in Italia, amicissimo di don Milani) don Bensi ( che fu consigliere spirituale di La Pira nei suoi primissimi anni e poi lo sarà anche di don Milani)  e poi padre Balducci, padre Turoldo, don Enzo Mazzi, don Franzoni ecc.
Un cattolicesimo sociale molto aperto alle questioni del tempo (la ricostruzione delle città  a partire dalle condizioni drammatiche dei ceti sociali più deboli, l’affermazione della democrazia e della Costituzione, la pace nel mondo, il dialogo interreligioso e politico a tutto campo).
Don Milani è figlio di questo tempo, non è affatto un “episodio eccezionale”, sia pure con la peculiarità di una storia familiare e di una formazione culturale del tutto particolare.

La conoscenza e i contatti tra don Milani e La Pira sono documentati e molteplici. E’ La Pira che agevola la pubblicazione di “Esperienze Pastorali”[6] e quando nel 1958, la “Civiltà Cattolica” prima , il S.Uffizio e l’”Osservatore Romano” poi , attaccheranno duramente l’opera di don Milani, La Pira difende don Milani con due lettere al S.Uffizio [7] ricordando al potere vaticano che “ Firenze è una città strana”. E a monsignor D’Avack, che  aveva curato la prefazione di “Esperienze Pastorali” ( e per questo pagherà pesantamente) e raccomandava a La Pira di  stare vicino a don Milani, preoccupato degli effetti che avrebbe avuto sulle condizioni vita  il feroce attacco del Vaticano e della Curia, La Pira rispondeva con la certezza di chi ben conosceva la tempra di don Milani. Don Lorenzo, scriveva “ è fatto per spezzare la lava indurita… per spezzare la pietra…ci vogliono picconi di durissimo metallo” [8] . Non ho notizie dettagliate di cosa pensasse La Pira del pensiero educativo e pedagogico di don Milani. Colpisce il fatto che nel 1976, si reca a Barbiana per dare indicazioni e rilasciare un’intervista al regista Ivan Angeli , che girerà un film su don Milani . Il film è stato recuperato  dagli archivi storici dell’Istituto Luce e, a quanto risulta, proiettato in occasione della visita di Papa Francesco a Barbiana. In quel film, la cui visione sarebbe senz’altro utile,  lo stesso La Pira è nelle immagini.

Egli sottolineava molto il carattere di rottura di don Milani : “ una personalità tanto poliedrica..un ebreo credente, sacerdote verso la”città di domani”[9]. Un giudizio quest’ultimo sulla religiosità di don Milani che apre a uno scenario di ulteriore indagine.

Altrettanto chiaro il rapporto, molto stretto e personale tra La Pira e G.Battista Montini, poi Paolo VI. Un’amicizia che inizia nel 1944, quando per dieci giorni La Pira soggiorna nella casa di Montini a Roma per sfuggire ai nazi fascisti. Il loro rapporto si svilupperà lungo tutta la vita , fin da quando Montini è nella segreteria di Stato ed infine eletto Papa . Numerose sono le lettere e gli incontri pubblici e privati che periodicamente si succederanno nel corso degli anni. E’ dunque molto probabile che anche nella vicenda dell’assegno a don Milani, La Pira abbia svolto un ruolo.
Dove fossero gli avversari (nazionali e locali) e quanti volentieri avrebbero visto una posizione ben più dura su don Milani, deve essere ancora accertato sul piano della documentazione, E’ nota e certa l’ostilità di Gedda e dell’Azione Cattolica nei confronti di La Pira  e anche di G.B Montini che proprio per le pressioni operate da Gedda fu rimosso dalla Segreteria di Stato vaticana. Era l’inizio di quella frattura dentro la Democrazia Cristiana che avrebbe segnato gli anni 50-60. Da una parte chi era consapevole che occorreva aprire a nuove esperienze politiche , a nuove culture, per governare una società sempre più complessa e plurale; dall’altra chi riteneva che ogni apertura verso una qualsiasi forma di pensiero sociale e ancor più “socialista” , avrebbe condotto la Chiesa e lo Stato appena ricostruito verso il disastro. Dove potesse dunque fare forza il vescovo Florit, sia a livello nazionale sia nella Curia fiorentina,  non è difficile dedurlo. E’ tempo di rendere pubblici nomi e circostanze .

Quell’assegno di Paolo VI e il silenzio intorno allo stesso, così come denunciato da Paolo Landi, chiedono di aprire  una pagina di storia in cui si sono scontrate, e duramente, idee diverse di società, di libertà, di religione, di rispetto delle persone, Personaggi, ancora senza nome,  che non hanno avuto il minimo scrupolo a condannare alla sofferenza più dura un prete che aveva il sogno di una società libera, secondo Costituzione, di una scuola capace di rendere tutti “sovrani”, cioè capaci di decidere a schiena dritta con le proprie opinioni.

I denigratori attuali di don Milani ( Galli Della Loggia, Luca Ricolfi, Paola Mastrocola, ecc) non sono solo ostili verso il pensiero “ scolastico” di don Milani, sono i cantori della nuova destra che governa e che prova fastidio a dover fare i conti, malgrado il tempo che passa, con un prete che non accettava i difensori  delle ingiustizie , gli elogi  del privilegio e del merito, l’ostentazione dell’autoritarismo  fatto di voti e sanzioni .Per quel prete, bisogna ancora scrivere qualche pagina di storia

[1]       AA,VV  (2023) . , Un canto libero, antologia di saggi critici nel centenario della nascita di don Milani, Libreria Alfani Firenze . Numerosi inoltre i convegni promossi in diverse città, i cui atti sono disponibili sul sito di Proteo nazionale
[2] Fabio Bocci,Giorgio Crescenza, Alessandro Mariani ( a cura di) , Leggere don Lorenzo Milani, Pensa Multimedia , 2024
[3]     In particolare , di Paolo Landi  La Repubblica di Barbiana,la mia esperienza alla scuola di Don Milani,  Firenze LEF 2017 . Nel libro sono descritti i fatti oggetto della denuncia
[4]     Giorgio La Pira ( 1904-1977) giurista, figura di spicco della Democrazia Cristiana, fu animatore a Firenze di un cattolicesimo sociale molto aperto al confronto politico , alle iniziative per la pace e il dialogo tra i popoli. Fu esponente di rilievo della Costituente. Rieletto più volte sindaco di Firenze.
[5]     Giovanni Spinoso e Claudio Torrini, Giorgio La Pira, i capitoli di una vita,  Universty Press. Firenze 2022. Opera preziosa per ricostruire l’itinerario straordinario di questo personaggio .
[6]     Spinoso-Turrini, op.cit. pag.1108
[7]     Spinoso.Turrini, op,cit.pag 1111-1112
[8]     Spinoso-Turrini, op. cit. pag 1127
[9]     Spinos-Turrini, op.cit pag,1737




La mia generazione – professionale – ha perso…

di Marco Guastavigna

La mia generazione – professionale – ha perso…
… ma si ostina a non volerlo capire.

Cosa voglio dire?

Mi riferisco, ad esempio, all’idea della conoscenza e dell’istruzione come cooperazione. Per la mia generazione era un valore, ancora prima che un principio, e aveva una vocazione trasformativa, della realtà e dei rapporti in cui si operava, prima ancora che dell’agire didattico.
Apprendimento su base mutualistica, zona di sviluppo prossimale, lavori di gruppo erano tentativi militanti di costruzione di “un mondo” diverso, alternativo, perfino conflittuale.
Poi ci si è illusi che concepire la cooperazione come metodo, asettico e quindi generalizzabile “a prescindere” dal posizionamento rispetto al modello socio-economico, fosse una scelta evolutiva, progressiva, inclusiva, estensiva della democraticità dell’insegnamento e dell’apprendimento.

E, in un attimo, siamo scivolati in approcci la cui matrice si colloca all’opposto delle intenzioni iniziali, perché si pone come obiettivo trasversale il potenziamento dell’efficienza individuale e – al più – del team di appartenenza: gamificazione (ottimo allenamento per il lavoro taskificato in singole prestazioni e controllato dagli algoritmi), debate (discussione competiva), pitch elevator (verso l’autoimprenditorialità), escape room (non per caso apprezzata anche dai marines).

Questa accettazione poco consapevole (anzi, assai spesso negata!), di un lessico, di un campo concettuale e di una visione del mondo opposti a quelli della nostra gioventù, condita di ciò che Harari chiama la visione ingenua dell’informazione, ha avuto esiti che – a volerli cogliere – sono davvero devastanti.
Da una parte continue ricadute nella nostalgia professionale, con patetiche, rituali, celebrazioni dei fasti di un pensiero passato e autodemolitosi che ci si vuole illudere possa essere invece ancora egemone.
Dall’altra uno scontro violento e fratricida con i retro-attivisti, ovvero coloro che si illudono di portare la bandiera dell’equità e della scuola della Costituzione con l’asta giusta, senza accorgersi che il loro vessillo, invece, sventola con quello del conservatorismo e del rifiuto di ogni messa in discussione dell’assetto della scuola, accusata anzi di aver perso le sue caratteristiche imprescindibili: serietà, severità e selezione.




Occhio ai bruchi da farfalla

di Monica Barisone

L’estate è spesso mite consigliera di buoni propositi, in termini di cura della salute, di riduzione dei ritmi stressanti, di maggiore manifestazione di affetti e opinioni, o migliore gestione di emozioni e atteggiamenti. Si potrebbero definire sogni della durata di lucciole e farfalle. Eppure, potrebbe valer la pena, per una volta, mantenere vivi i ricordi estivi per affrontare questo autunno particolarmente buio.

Se si provasse, cioè, a riprendere il cammino lavorativo ricordando i successi ottenuti nei mesi precedenti, forse riusciremmo a guardare bambini e ragazzi come bruchi da farfalla e i problemi di ogni giorno come forieri di nuove soluzioni.

Se ci provo e torno indietro col pensiero, ricordo di aver concluso il periodo lavorativo con la soddisfazione delle promozioni di alcuni ragazzi disincagliati con enorme fatica, ricordo la brezza giugnola protrattasi quasi per magia fino a luglio, le piccole ma grandi conquiste dei pazienti sopravvissuti nonostante la calura, la speranza di dedicare un po’ di tempo alla scrittura, ricordo la scoperta di un germoglio di sequoia americana, ormai inaspettato, dopo mesi e mesi dalla semina.

Il tempo regala sorprese e sorrisi da non dimenticare. Certo ci vuol pazienza, aveva sottolineato il giardiniere, quando gli avevo chiesto quale terra usare per quei preziosi semi, ricevuti in dono e arrivati a me da così lontano. Pazienza, tenacia, speranza e a volte anche una leggera allerta, per scoprire i germogli in momenti e spazi insospettabili, sotto piccoli cespugli di trifogli quasi in fiore! Ci vuole tempo come la gravidanza per una nascita o il grano sotto la neve (A. Marcoli). L’esercizio della pazienza è da riscoprire, è una delle cose che vale veramente la pena di imparare.

Allora adesso, con i ricordi belli in mente, che ci guidano a vedere, con calma, potremmo porci ad osservare che cosa sta portando questa nuova stagione. Così, guardando, ho trovato in questo buio autunno, alcuni ragazzi quasi magicamente riattivatisi, così come qualche nuova tristezza realistica, ma anche il regalo di una ex paziente che è venuta a trovarmi per raccontarmi i suoi progressi, salutarmi e parlarmi del sogno che finalmente realizzerà dopo una vita: vivere in natura e tra gli animali. E voi invece cosa avete trovato?

Poi, a guardar bene, però, ho incontrato anche tanta fatica e paura, purtroppo ancora. Una paura virale di non farcela, qui! Qui, sulla terra. È una paura che fa sbandare i pensieri e il cammino, ottunde la mente, restringe la visuale. Anche la mia. Fortunatamente però ho ancora del sole nella pelle, dei bei ricordi nelle sinapsi e così inaspettatamente in me si è scatenato un putiferio, una rivolta quasi rabbiosa. La chiamerei spinta vitale di rimbalzo, ribellione o resistenza!

In altre parole, ho sentito l’urgenza di dire basta, mi sono stufata! Abbiamo vissuto per mesi e mesi, forse non del tutto consapevolmente, aspettando che precipitasse la situazione, che accadesse l’irreparabile. Forse accadrà tra non moltissimo ma nessuno lo sa con certezza! Dunque, ci toccherà vivere ancora un poco, per ora! Allora che vita vera sia!

Ho visto una di queste sere un biopic su Steven Hawkins, cosmologo, astrofisico, divulgatore scientifico, noto per i suoi studi sui buchi neri, sulla cosmologia quantistica e sull’origine dell’universo. In giovane età, nel 1963, gli prospettarono, a causa della MND[1], due anni di vita. Ne visse molti di più.

Dopo un periodo di depressione, di elaborazione della notizia ricevuta, riuscì a reagire e continuare i suoi studi, ebbe tre figli e due compagne di vita, oltre a incredibili conquiste professionali, premi ed onoreficenze. Disse, comunicando con un sintetizzatore vocale, ‘Ricordatevi di guardare le stelle e non i vostri piedi…Per quanto difficile possa apparire la vita, c’è sempre qualcosa che è possibile fare, e in cui si può riuscire’. Morì poi, a 76 anni, nel 2018.

Ecco, pensavo a questo, e cioè che, non sapendo bene come andrà, intanto, oltre a tentare di fare del nostro meglio per invertire la rotta verso l’estinzione, val la pena di vivere intensamente ogni giorno che arriva. Mia nonna a 94 anni, qualche mese prima di ammalarsi e morire, mi diceva, ‘ora ogni giorno è un regalo’. Allora che questi giorni, settimane, mesi, anni siano regali!

Basta far soffrire l’angoscia tremenda del domani ai nostri giovani! Che possano vivere forte almeno per un po’. Non so ancora come, ma occorre liberarli da questo incubo, svegliarli e permetter loro di assaporare il gusto del risveglio e inventare delle soluzioni, almeno cercarle. A noi il compito di lasciargliele realizzare, senza intralciarli. Si tratta intanto di fare un passo indietro e chiedere se e come possiamo dare una mano.

Diamo spazio a ragazzi come Daniele che si è risvegliato dall’ipnosi dei media quando ha realizzato che avrebbe potuto provare a riprendere la scuola e studiare per diventare più intelligente e fare qualcosa di buono per sé, gli altri e il mondo, fare qualcosa di buono nel suo piccolo!! Ora cerca con fatica di tenerlo a mente, perché stare nelle interazioni sociali per lui è ancora estremamente faticoso. Giorgio ha visto l’entusiasmo di suo padre, che frequenta solo d’estate, nel volergli insegnare a guidare e si è commosso! Da tempo non provava emozioni particolari e, ad ogni domanda su cosa sentisse, mi diceva ‘É indifferente’. Al ritorno dalle vacanze, si è portato a casa l’idea di prendere prima possibile la patente e dedicarsi alla scuola, perché sa che quest’anno sarà più impegnativo; ha ancora un sacco d’ansia ma la gestisce meglio e soprattutto cerca di non pensare al futuro.

Sono piccoli enormi segnali di ripresa dopo un anno o più trascorsi a ‘giocare a vegeto[2]‘, senza trovare un appiglio per vivere una vita normale!

Finché c’è vita c’è speranza, mi dico, e nel tentativo di resistere o nuotare controcorrente, una bella suggestione è arrivata dal libro Riposare è resistere di Tricia Hersey. Nel suo Manifesto, perché così lo definisce, ci mostra come, nel mondo attuale, la cultura della fatica (grind culture) sia oggi la linea guida per vivere bene, prosperare o addirittura solo sopravvivere. Ne consegue che, perennemente, viviamo in uno stato di coscienza alterato, cioè “siamo in deficit di sonno perché il sistema ci considera delle macchine, ma i nostri corpi non sono macchine…riposare è un atto radicale, perché si oppone alla bugia secondo cu non stiamo facendo abbastanza…non ci stiamo riposando per fare di più e rimetterci, più forti e produttivi di prima, a disposizione del sistema” (T. Hersey, 2024).

Ciò che sembra difficile capire oggi è il valore del riposo, come diritto e non privilegio, necessità e non lusso, aspetto imprescindibile nella manutenzione dell’uomo se si vuole evitare o ridurre burn out, infortuni, dipendenze, suicidi.

Il riposo è un diritto fondamentale di ogni lavoratore e serve a garantire il necessario recupero delle energie psicofisiche dopo lo svolgimento delle attività lavorative. In assenza di recupero il rischio di infortuni, burn out ed improduttività aumentano. È anche per questo che la normativa vigente prevede dei limiti, che i datori di lavoro dovrebbero rispettare, proprio per garantire ai dipendenti il dovuto riposo dal lavoro. Il fenomeno dell’incremento delle cessazioni del rapporto di lavoro per dimissioni sta mettendo in discussione il rapporto tra lavoro e tempo di vita, a favore del secondo e della sua qualità. “E da coloro che non possono rinunciare a un’occupazione non gradita” per questioni economiche, “è nato il fenomeno del quiet quitting: lavoratori insoddisfatti che collaborano solo passivamente, al minimo indispensabile, con buona pace delle teorie organizzative che puntano invece alla collaborazione per la qualità totale” (S.Muffo, 2023[3]).

Quindi, a fronte di una spinta esponenziale all’iperattività, che poi però non viene tollerata come disturbo negli studenti, la proposta rivoluzionaria sembra essere quella di rivendicare il meritato riposo, in un’epoca, tra l’altro, in cui l’insonnia si sta diffondendo a macchia d’olio. I giovani, che da tempo hanno scelto la notte come spazio e tempo in cui vivere liberi dagli adulti, ormai dormono pochissimo, giovano, chattano, studiano, stanno in chiamata, ballano, consumano sostanze e costruiscono dipendenze. Ma occhio ai bruchi da farfalla perché alcuni cominciano a desiderare il cambiamento e chiedono aiuto, come sanno o riescono, proprio a quegli adulti che hanno accettato, forse sin troppo rassegnati, di star fuori dai loro tempi e spazi.

NOTE
[1] Malattia degenerativa del motoneurone, probabilmente una forma rara di sclerosi laterale amiotrofica.
[2] Tratto da una battuta di Julia Roberts in Pretty Woman del 1990, “Oggi gioco a Vegeto: fermo come broccoli”.
[3] Tempo di lavoro, tempo di vita. Qualche riflessione dalla storia, in Lavoro Diritti Europa.




L’Intelligenza artificiale secondo Valditara

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Mario Maviglia
(già docente a contratto di Metodi e Strumenti per la Sperimentazione Educativa, Università Cattolica di Brescia)

Il Ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara ha annunciato nei giorni scorsi l’avvio di una sperimentazione della durata di due anni che coinvolgerà quindici classi di quattro regioni italiane (Lombardia, Toscana, Lazio e Calabria) e che avrà come focus l’affiancamento di un assistente virtuale (IA) alle attività di insegnamento.
La sperimentazione prevedere l’utilizzo di un software installato su Google Workspace, inizialmente operante sulle cosiddette materie STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) e sulle lingue straniere. Per quel che è dato sapere, sembra che le classi coinvolte siano state selezionate dagli Uffici Scolastici Regionali di competenza e si è in attesa del parere dei dirigenti scolastici e dei docenti.

Il progetto mira a personalizzare la didattica e a migliorare il livello di istruzione di ogni studente. L’assistente virtuale, con la supervisione dei docenti, rivestirà un’importanza significativa nel differenziare i percorsi di apprendimento di ogni allievo, proponendo le esperienze più adatte e adeguate ai ritmi di apprendimento e alle caratteristiche di ognuno.

Il Ministro Valditara ha affermato che questa sperimentazione si ispira, tra le altre cose, al pensiero di Benjamin Bloom, l’autore della famosa tassonomia degli obiettivi educativi e del mastery learning.
In effetti, tra i vari strumenti a disposizione del docente per favorire l’apprendimento per la padronanza, Bloom aveva indicato anche il tutor, anche se si riferiva a un supporto individuale costante mirato all’istruzione individualizzata.

Ma qui vogliamo puntare l’attenzione sul concetto stesso di “sperimentazione” utilizzato dal Ministro per definire questo progetto. Come si sa, tecnicamente, la sperimentazione consiste nell’introduzione, in un determinato contesto, di variazioni controllate di un fattore (variabile dipendente) per studiare gli effetti su un altro fattore (variabile indipendente), neutralizzando gli effetti secondari di altri fattori. La variabile dipendente rappresenta quindi l’oggetto sul quale si rilevano e si misurano sperimentalmente gli effetti delle variazioni provocate dalla variabile indipendente.
Pertanto i cambiamenti di questa variabile dipendono dalle manipolazioni che sperimentalmente vengono operate sulla variabile indipendente. Detto in altre parole, la variabile indipendente è la variabile che viene manipolata o controllata dal ricercatore, mentre la variabile dipendente è quella che subisce gli effetti dei cambiamenti effettuati sulla variabile indipendente[1].
Sotto questo profilo una vera sperimentazione è possibile solo in una situazione fortemente controllata (es. in un laboratorio) in cui si possono effettivamente studiare le relazioni tra le due variabili principali e annullare l’effetto delle altre.
In campo scolastico la realizzazione di una sperimentazione è estremamente difficile proprio perché non è possibile avere un controllo adeguato delle variabili, e per altre ragioni che vedremo.
Peraltro l’avvio e la gestione di una sperimentazione richiede un apparato concettuale e organizzativo decisamente impegnativo, e una procedura realizzativa rigorosa e continuamente tenuta sotto controllo, oltre che risorse professionali e strumentali (anche finanziarie) adeguate.

Questi sono i motivi per cui nella cultura scolastica sono pressoché ignoti i cosiddetti disegni sperimentali[2], su cu si basa la ricerca educativa controllata in senso sperimentale. Ecco perché qualche autore afferma che in campo scolastico sia preferibile parlare di esperienze controllate, più che di sperimentazione, ossia di un sapere che “riflette, organizza in modi peculiari, funge da selettore si azioni e intenti formativi”[3].

Da quel che si è fin qui detto e da quel che si sa della proposta lanciata dal Ministro appare improbabile che essa possa essere qualificata “sperimentale”, a meno che non si voglia mettere in discussione il paradigma sperimentale finora accettato dalla comunità scientifica.

Ma vi sono altri motivi che rendono, sul piano sperimentale, molto debole la proposta.
Il Ministro parla del coinvolgimento totale di 15 classi su tutto il territorio nazionale, scelte tra quattro diverse regioni, come detto sopra. Nell’a.s. 2023/2024 hanno funzionato (dati ufficiali MIM) complessivamente 76.656 classi di scuola secondaria di primo grado e 124.871 di scuola secondaria di secondo grado; se – come sembra di capire – il progetto riguarda le classi seconde di scuola secondaria di primo grado e le classi prime e quarte delle scuole secondarie di secondo grado (sempre tenendo conto di 15 classi come campione nazionale), approssimando il totale nazionale delle classi seconde della secondaria di primo grado e il totale nazionale delle classi prime e quarte della secondaria di secondo grado, abbiamo un campione che dai numeri forniti dal Ministero è così quantificato: classi prime di secondaria di primo grado 0,05% rispetto alla popolazione; classi prime e quarte di secondaria di secondo grado 0,03% rispetto alla popolazione.
Da un punto di vista tecnico il problema più delicato in questo caso è quello della rappresentatività del campione rispetto alla popolazione considerata. Detto in altre parole, e sempre in senso tecnico, il numero di scuole prescelte (campione) “dovrebbe rappresentare adeguatamente la popolazione [di riferimento], nel senso che l’informazione ottenuta esaminando [il campione] dovrebbe possedere lo stesso grado di accuratezza di quella che avremmo ottenuto esaminando l’intera popolazione”[4].
Altrimenti, se la dimensione del campione non è adeguata, osserva Bailey, “il ricercatore ha un campione, ma un campione di che cosa?”[5]
Il progetto “sperimentale” del Ministro Valditara presenta proprio questa pecca, o meglio non è dato sapere quanto le 15 classi siano rappresentative delle classi italiane e se il principio di rappresentatività non viene soddisfatto viene meno anche la possibilità di generalizzare i risultati, ossia di estenderli a tutta la popolazione di riferimento.

I medesimi problemi riguardano la scelta del gruppo di controllo, ossia il gruppo che presenta le medesime caratteristiche del gruppo sperimentale ma che non viene sottoposto a sperimentazione e che funziona da termine di confronto rispetto al gruppo sperimentale: con quale criterio viene individuato? Da quanto detto dal Ministro non è dato sapere; anzi, non se ne fa alcun cenno. Viene solo detto che se dopo i due anni di sperimentazione, dal confronto dei risultati delle 15 classi “sperimentali” con quelli delle altre classi (genericamente intese), misurati sulla base degli esiti Invalsi, questi risultati dovessero risultare positivi, l’utilizzo dell’IA verrà esteso a tutte le classi a partire dal 2026.
Ma chi garantisce che i risultati positivi siano da ascrivere all’assistente virtuale e non ad altri fattori non tenuti sotto controllo dalla procedura sperimentale ma che possono esplicare effetti più significativi rispetto all’IA? Ad esempio, la non rappresentatività del campione (e del correlativo gruppo di controllo) può portare a scegliere unità di analisi[6] (i singoli individui del campione) che per le loro condizioni di partenza e le loro caratteristiche potrebbero ottenere risultati comunque sovra o sottodimensionati con la conseguente impossibilità di fare alcuna generalizzazione.

Non è un caso che nel campo della letteratura scientifica si affermi esplicitamente che “non è facile condurre bene una ricerca sperimentale”[7]. Dubbi, questi, che non sembrano sfiorare il Ministro.

Si possono, conclusivamente, fare due considerazioni:

  1. sconcerta la disinvoltura con cui vengono utilizzati termini (come sperimentazione) che nel campo della ricerca educativa, e non solo, rimandano a protocolli e procedure rigorosi e fortemente controllati;
  2. è facile immaginare che l’impostazione così smaccatamente ideologica più che tecnico-scientifica di questa “sperimentazione” porterà sicuramente – da qui a due anni – a risultati inconfutabilmente positivi e tali da giustificare l’introduzione generalizzata dell’IA in tutte le classi. Ma se questo è l’obiettivo finale (e non può che essere questo data l’assenza di ogni traccia di disegno sperimentale) tanto vale introdurre da subito l’IA nelle classi in quanto scelta politica (come di fatto sembra essere), senza nascondersi dietro improbabili paraventi “sperimentali”. E senza scomodare Benjamin Bloom, il cui rigore metodologico viene incautamente accostato a un progetto che – allo stato dei fatti e per quel che si sa – appare tanto rigoroso quanto i ragionamenti deliranti e sconclusionati di Lars Hertervig, il protagonista del romanzo di Jon Fosse, Melancholia, Premio Nobel per la Letteratura 2023.

[1] R. Viganò, Pedagogia e sperimentazione. Metodi e strumenti per la ricerca educativa, Vita e Pensiero, Milano, 2002
[2] L. Calonghi, I disegni sperimentali nella ricerca scolastica, in E. Becchi, B. Vertecchi (a cura di), Manuale critico della sperimentazione e della ricerca educativa, Franco Angeli Editore, Milano, 1988
[3] E. Becchi, Disegni sperimentali e esperienze controllate, in M. Maviglia (a cura di), La sperimentazione nella scuola dell’infanzia, Edizioni Junior, Bergamo, 1995, p 13; E. Becchi, Sperimentare nella scuola, La Nuova Italia, Firenze, 1997.
[4] K.D. Bailey, Metodi della ricerca sociale, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 7
[5] Ibidem
[6] Ibidem
[7] E. Gattico, S. Mantovani (a cura di), La ricerca sul campo in educazione. I metodi quantitativi, Bruno Mondadori Editore, Milano, 1998, p. 64




Il Censis indaga sui compiti a casa

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Maurizio Parodi

Molto opportunamente, il CENSIS ha inviato ai dirigenti scolastici un questionario che ha lo scopo di acquisire elementi di valutazione sugli effetti dei “compiti a casa”.
L’indagine muove da una drammatica constatazione:

Le prove invalsi 2004 ribadiscono il quadro di una scuola delle disuguaglianze (territoriali, per genere, ecc.)”, evidenziando come i compiti a casa possano esserne una concausa: “i compiti a casa possono essere particolarmente gravosi per gli studenti svantaggiati. Potrebbero non avere un posto tranquillo dove studiare a casa o tanto tempo per fare i compiti a causa delle responsabilità familiari e lavorative; i loro genitori potrebbero non essere in grado di guidare, motivare e sostenere i propri figli mentre fanno i compiti a causa di obblighi lavorativi, mancanza di risorse e altri fattori, I compiti a casa potrebbero quindi avere la conseguenza involontaria di ampliare il divario prestazionale tra studenti provenienti da contesti socioeconomici diversi.
Dalle indagini internazionali inoltre emerge che a un numero più elevato di ore dedicate allo studio a casa non è associato un rendimento migliore: non si fa riferimento in questo ai “troppi” compiti a casa, ma al fatto che gli studenti in difficoltà e che, magari, non sono aiutati dai genitori, impiegano un numero di ore eccessivo per fare i compiti loro assegnati. Fattore che può causare stress e frustrazione.

Già la premessa risulta oltremodo significativa per più ragioni.

Primo spunto

Si ipotizza che i compiti a casa siano particolarmente gravosi per gli “studenti svantaggiati” e che possano “ampliare il divario prestazionale tra studenti provenienti da contesti socioeconomici diversi”.
Invero è facile constare come il giorno dopo i compiti chi sia svantaggiato lo sarà un po’ di più, perché non ha gli strumenti per poterli affrontare, in caso di deficit cognitivo, perché non ha energie sufficienti per sostenere un impegno insopportabilmente gravoso e deprimente, se necessita di più tempo per svolgerli o se impegnat* in attività familiari e lavorative (problema, questo, che non si pone per chi sia avvantaggiat*, nelle famiglie benestanti o agiate), perché non ha un luogo adatto che permetta di concentrarsi, se la famiglia è indigente e magari bisognosa anche del suo contributo: non solo “stress e frustrazione”, ma dolore, pianto, rigetto.

Dal manifesto “Basta compiti!
I compiti a casa sono dannosi: procurano disagi, sofferenze soprattutto agli studenti già in difficoltà, suscitando odio per la scuola e repulsione per la cultura, oltre alla certezza, per molti studenti “diversamente dotati”, della propria «naturale» inabilità allo studio.

Secondo spunto
Si riconosce che i “genitori potrebbero non essere in grado di guidare, motivare e sostenere i propri figli”.
Ciò significa che lo svolgimento dei compiti richiede “guida, motivazione e sostegno” esterno, cioè un compito (un altro) del tutto impropriamente assegnato alle famiglie che si finge di presumere siano formate da genitori colti, presenti, solleciti (stile “Mulino Bianco”), ma che così non sono quasi mai, e dalle quali non si può pretendere alcun tipo di “supplenza”rispetto a compiti (altri ancora) cui deve attendere la scuola giovandosi della competenza professionale dei tecnici dell’istruzione, i docenti, appunto; senza contare la tendenza, molto diffusa ad appaltare parti sempre più consistenti del curricolo (il programma rispetto al quale si è sempre “indietro”) allo studio personale, ovvero al singolo e alla sua famiglia.

Dal manifesto “Basta compiti!
I compiti a casa sono impropri: costringono i genitori a sostituire i docenti; senza averne le competenze professionali, nel compito più importante, quello di insegnare a imparare (spesso devono sostituire anche i figli, facendo loro i compiti a casa).

Terzo spunto
“Dalle indagini internazionali inoltre emerge che a un numero più elevato di ore dedicate allo studio a casa non è associato un rendimento migliore”

Vi sono scuole di eccellenza, come quella finlandese, dove i compiti, nel “primo ciclo di istruzione” non di danno proprio, e, fino a 7 anni, bambine e bambini, a scuola, giocano, quando nelle nostre scuola dell’infanzia si fa uso sempre più abbondante di “schede” (pre-scrittura, pre-lettura, pre-calcolo). Se la quantità di compiti assegnati fosse garanzia di risultato, non avremmo, in Italia, che eccelle, invece per la mole spropositata di “lavoro domestico” di studentesse e studenti, il livello, indecente, di analfabetismo funzionale che si registra a ogni rilevazione tra gli stessi diplomati.

Dal manifesto “Basta compiti!

I compiti a casa sono inutili: le nozioni ingurgitate attraverso lo studio domestico per essere rigettate a comando nel corso di interrogazioni e verifiche, hanno durata brevissima; non “insegnano”, non lasciano il “segno”, si tratta di un sapere usa e getta: dopo pochi mesi restano solo labili tracce della faticosa applicazione.

Alcune cose che al CENSIS non sanno.

  • Ogni docente assegna i propri compiti come fossero i soli da svolgere; i docenti non si coordinano, non si preoccupano del carico cognitivo complessivo imposto ai loro studenti e alle loro studentesse; ignorano il problema o non se ne curano.
  • Questa sorta di persecuzione inizia fin dai primi anni di scolarità: la sciagurata secondarizzazione della scuola primaria, con la parcellizzazione precoce e insensata dei saperi e la corrispondente proliferazione dei docenti “disciplinari”, ha determinato l’esplosione del fenomeno.
  • Si danno compiti anche nelle scuole a tempo pieno, a bambini e bambine di 6-10, dopo otto ore di immobilità forzata in ambienti chiusi, non sempre confortevoli, di rado gioiosi e giocosi, tutti i giorni, nei fine settimana e per le vacanze (accanimento morboso che rasenta la crudeltà mentale).
  • Si danno, appunto, i “compiti per le vacanze”, ossimoro logico e pedagogico, e si nega il diritto al gioco e al tempo libero, cui si dovrebbero dedicare le vacanze che non sono dei e delle docenti, loro hanno le ferie; altro paradosso: i soli a godere delle vacanze di bambini/e e ragazzi/e sono coloro che ne impediscono il godimento a chi ne ha diritto.

    Al CENSIS non lo sanno, i dirigenti scolastici dovrebbero averne contezza: si vedrà.




Contenti così, perché sbagliando si impara

di Monica Barisone

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

Qualcosa ci turba, ogni mattina, al risveglio.
Si tratta forse di unansietta[1] infingarda, di una piccola peste iperattiva che si diverte a prefigurare solo scenari negativi che affollano tutti insieme la nostra mente e affannano il nostro cuore?
Da dove sia arrivata e come si sia accumulata in noi è, più o meno, chiaro a tutti: scenari apocalittici da un lato e ricerca della perfezione prestazionale, assoluta, dall’altro; fattori, entrambi, estremamente ansiogeni.

Possiamo partire dal fatto che da diversi anni, ormai, si susseguano eventi rilevanti dal punto di vista delle ricadute negative sulla nostra immagine reale e virtuale di finanza, occupazione, salute, clima, vita civile, vita sociale e scolastica; e che da questa rappresentazione della vita derivi quasi linearmente una percezione di precarietà costante e catastrofe imminente. Vissuti di tal fatta, protratti a lungo nel tempo, non possono che attivare reazioni e meccanismi difensivi di egual portata.

Ricordo d’aver seguito un corso di aggiornamento[2] in cui si indicavano, tra gli effetti collaterali delle pandemie e delle catastrofi di origine naturale o umana, gli atteggiamenti e i comportamenti complottisti. Recenti ricerche (Bowes et all., 2023) evidenziano infatti, come, l’adesione alle teorie complottiste, sembri motivata soprattutto dalla necessità di esercitare controllo e dare significato agli eventi confusi o poco compresi. Queste teorie fornirebbero, in altre parole, una spiegazione alternativa capace di offrire sicurezza e senso di controllo rispetto all’ambiente.

Ne abbiamo avuto ampio riscontro a livello individuale, sociale, civile. Il rebound è arrivato sino alla diade della coppia sentimentale o amicale. Tant’è che, tutto ciò che non ci è chiaro del comportamento dell’altro, oppure sembra contraddittorio, si traduce, abbastanza frequentemente, in micro-complottismo di coppia. Nella lettura del comportamento tra coniugi e compagni, ritroviamo situazioni tali per cui, a fronte di un buon livello affettivo, ciò che viene frainteso si traduce ad esempio in assunti del tipo ‘non vuole più stare con me ma mi iper controlla’, oppure ‘mi agita con le sue pseudo patologie per tenermi in scacco’.
Tra amici, soprattutto ‘migliori amici’, è in incremento l’aspettativa dell’esclusività di rapporto, unicità peraltro, come sempre, difficile da garantire. Gli errori di comunicazione, altrettanto fisiologici e frequenti, si traducono allora in tradimenti insanabili e fratture di difficile ricucitura.

A questa grande sfiducia nell’altro, si affianca l’ansia di non venirne a capo, un senso diffuso di impotenza relazionale e prestazionale.
Il dover stare in vetrina per piacere agli altri e dimostrare d’essere al top, d’essere perfetti nel fisico, nella mente e nelle relazioni, accerchiati dagli infiniti specchi dei social, rischia in realtà di paralizzare ogni nostra azione.

Daniele scrive nei suoi appunti: ‘Passo le giornate a guardare video su come vivere, a leggere libri o a guardare serie, ma non mi sembra di imparare o di migliorare’ e così viene a mancare ogni motivazione a provare a vivere. La necessità, anche indotta, di essere apprezzati sfocia in un grande senso di inadeguatezza e debolezza che spinge ancora più a identificare come valore ‘un’immagine ideale eccezionale, possibilmente perfetta. Ed ecco che questa immagine esterna così forte, potente, invulnerabile, invincibile, viene interiorizzata e diventa la guida e il motore che ci conduce, rischiando di travolgere noi e chi ci sta vicino. Perché è un’immagine falsa, priva di vita, morta in quanto nega … l’importanza dell’errore, che è l’esperienza fondamentale della vita nell’imparare … tutto quello che facciamo è stato acquisito per tentativi ed errori’ (Marcoli, 1999).

Suggestive, a questo punto, le riflessioni che sono derivate dalle dichiarazioni e reazioni di alcune atlete e atleti durante le Olimpiadi di quest’estate, contente e contenti anche nel perdere, nell’arrivare ad un soffio, perché neppure lo si sperava! ‘Ma guarda che meraviglia, siamo di fronte a una generazione nuova, finalmente non competitiva: non avvelenata dal desiderio di primeggiare, di nuova sintonica con lo spirito olimpico, importante partecipare’ (C. De Gregorio, Repubblica 04/08/24).
Daniele ci arriva con un altro percorso, altrettanto suggestivo: ‘Pensavo che, se cominciassi ad approvare me stesso, non avrei più un desiderio estremo dell’approvazione altrui’.

Ciò che bisogna rifuggire allora sembra essere la sensazione costante di insoddisfazione, romantica aspettativa che si possa ottenere quel qualcosa di più, quel quid che forse potrebbe finalmente sanare le nostre mancanze. E anche chi, per sua natura, in realtà, si sentirebbe anche già abbastanza contento di quello che ha e vorrebbe provare a goderselo, si ritrova accerchiato da ansie, paranoie e insoddisfazioni altrui. Bisogna stare molto attenti però perché…

A forza di respirarne
l’insoddisfazione altrui
entra dentro
contamina la tua gioia
di vivere
nonostante tutto[3]

Come sfuggire o, meglio, gestire tutte queste emozioni, sensazioni o sentimenti negativi?
Le ricerche (S. Canali 2021) ci dicono che non è sbagliato provarle, ma è preferibile controllarle, cioè, elaborarle e reagire in modo sano e utile. Suggeriscono diverse strategie: fermarsi e riprendere il controllo di sé, prendere il controllo del respiro, provare a rilassarsi o visualizzare un luogo sicuro. Quest’ultimo esercizio risulta particolarmente efficace e di facile applicazione, anche nelle sessioni dedicate ai bambini. Prediligono alcuni angoli della propria casa, tra cui lo spazio sotto il tavolo, e molti raccontano con entusiasmo della casa dei nonni, come zona franca, rifugio sereno.

Visualizzare un posto sicuro mi riporta ad un’espressione che ha accompagnato una buona parte del lavoro di ricerca di molti anni fa.
Il prof. Oddone[4], medico e psicologo del lavoro, con cui mi laureai e collaborai per una decina di anni, utilizzava il termine indovarsi[5], per riferirsi, nel suo lavoro, alla necessità di mappare le nocività per la salute del lavoratore. Il prof. Soro[6], con cui collaborai negli anni successivi invece aveva scoperto, studiando i Direttori delle grandi Orchestre Sinfoniche, il valore ristoratore, motivante e ricostruttivo in termini di benessere psicofisico, del rifugiarsi, com’era solito fare ad esempio il Direttore Gianandrea Noseda[7], in luoghi fortemente connotati in termini di familiarità e emozionalità. A partire dall’uso dantesco e poi medico, se ne è costruito, cioè, uno più psicologico, quasi la risposta ad una necessità salutare.

Vi sarà capitato di tornare in luoghi natii o comunque frequentati durante l’infanzia, o luoghi in cui vi sentiate bene, sicuri, come a casa. Ecco mi riferisco proprio a quelle sensazioni di benessere e agio, sicurezza e padronanza!
Alcuni luoghi di vita non sono abbastanza confortanti e sicuri per molteplici motivi; per le scarse competenze genitoriali o le difficoltà sociali, o in alcuni casi eccessive attese, standard troppo elevati come ricercare la bellezza assoluta o controllare l’incontrollabile, dimenticando invece che sbagliando si impara!

[1] Inside Out Due, 2024
[2] Emergenza sanitaria da nuovo coronavirus SARS CoV-2: preparazione e contrasto, 2020.
[3] Contaminata, M. Barisone, 2024
[4] Nato nel 1923, medico, precursore della medicina del lavoro. Ancora studente in medicina quando era entrato nelle file della Resistenza ligure col nome di battaglia “Kim”. A lui Italo Calvino dedica il suo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno. Dopo la Liberazione si laureò brillantemente. Esercitò la professione con grande impegno e, dopo essersi affermato presso l’Ospedale Molinette di Torino, insegnò psicologia del lavoro all’università.
Negli anni ’60 con un gruppo di operai di Mirafiori creò la “Dispensa sull’Ambiente di Lavoro”,  tradotta poi in quasi tutte le lingue ed è ancora molto attuale.
[5] Collocarsi, porsi in un luogo: Veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova (Dante), in qual modo, cioè, vi trovi il suo luogo. Il verbo, noto soprattutto per questi versi di Dante (Par. XXXIII, 137-138), è oggi di uso molto raro, tranne che nel linguaggio medico, per indicare collocazione di solito non precisata: tumefazione che può indovarsi in varie parti della superficie del corpo
[6] È stato docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università di Torino, Presidente del Biennio di laurea magistrale in Competenze relazionali e del Master in Competenze relazionali per insegnanti di alunni con bisogni educativi speciali.
[7] Gianandrea Noseda (Sesto San Giovanni, 1964) è un direttore d’orchestra italiano. Ha studiato pianoforte, composizione e direzione d’orchestra al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano perfezionandosi poi con Donato Renzetti, Chung Myung-whun e Valery Gergiev.




Pensieri intorno ad uno smartphone cacciato di scuola

di Giovanni Fioravanti

Come volavo con la mente fuori dall’aula, oltre la finestra! Là, fuori, c’era la vita, quella vita che lì, dentro alla scuola, restava sospesa tra le mura della classe. Una vita che brulica, che vive. A scuola si va per imparare la vita, ma la vita resta sempre fuori, la vita che si impara a scuola non è quella viva, ma quella già morta da molto tempo.

A scuola bisogna astrarre la mente dalla vita, concentrarsi sulla sua rappresentazione senza alcuna distrazione, se no non si impara. Eppure è strano perché prima di mettere piede a scuola quello che ci siamo imparati ce l’ha insegnato lei direttamente, la vita, semmai senza tanti riguardi, ma da lei abbiamo appreso quello che siamo.
Si sa, alla scuola quello che siamo non gli va bene, la scuola deve formare, raddrizzare le storture, educare, condurci fuori da noi stessi assimilando il verbo docente, il verbo passivo delle parole ascoltate o lette per essere imparate, mandate a memoria, ritornate alle orecchie dell’insegnante così come sono state confezionate per la nostra mente, per la nostra età, che non siano indigeste e storte, che non vadano di traverso, ma ritte e perfette.

Perché la scuola è per carattere riservata, non ha mai amato confondersi con il succedersi degli avvenimenti di fuori, perché il sapere a scuola ha una sua aristocrazia, tramandata di generazione in generazione e più è tramandata più il sapere è nobilitato. Non esistono i quarti di sapere, qui la nobiltà è del casato a cui il sapere appartiene, ognuno con le sue arme, sono discipline, sono materie d’antiche discendenze, già dai Trivi e dai Quadrivi.

Spazio e tempo mutano ritmo e dimensione. Lo spazio è tra il banco e la cattedra, tra le entrate e le uscite, come la vita, anche spazio e tempo restano là fuori. Il tempo si scandisce per suoni di campanelle, per il succedersi di figure alla cattedra, le durate sono ore che, sebbene non siano le ore piene, fanno gli orari quotidiani, settimanali per riempire l’orario e il diario, congiunzione tra dies e orario.
Un tempo usava dire se non studi vai a lavorare, poi anche il lavoro è mancato e ora a non studiare si rimpingue la schiera dei Neet.
Non so come l’avrebbero interpretata gli antichi per il quale lo studio era ozio dai negotia, attività improduttiva, di regola per pochi privilegiati.
Ora non è più un privilegio ma un sortilegio, una sorta di divinazione, un’estrazione a sorte della vita, se la scuola che hai scelto di frequentare ti riserverà più sorprese che delusioni, se sarà un lungo parcheggio o una palestra d’addestramento, se il tuo cervello sarà spento o tenuto sveglio.

Pare che al privilegio sia subentrato il merito. Giusto, democratico! Se non fosse che al merito manca proprio il merito, cioè cosa sia merito e cosa non lo sia. Certo studiare a scuola è merito, mancherebbe altro, è merito dalla notte dei tempi, e dalla notte dei tempi a scuola il merito si misura con i voti. Ma attenzione, qui ci sta l’inganno, o l’equivoco. Perché non è vero che il merito riguarda lo studiare, il merito riguarda solo quello che possiamo definire il risultato dello studio, che a scuola si chiama profitto, il quale deve passare al vaglio delle interrogazioni, dei compiti in classe, o delle verifiche come oggi si usa dire, e degli esami. È il merito della riuscita, della produttività, come a quel merito si arriva conta poco, poco interessa, ciò che pragmaticamente conta è il risultato. E perché il risultato non sia truccato e, dunque, il merito immeritato, a scuola è severamente vietato suggerire e ancor più copiare.

E poi il merito è condotta. Da piccolo la parola condotta l’avevo sentita usare in casa mia solo a proposito del medico, che poi non era condotta, ma condotto, il medico condotto. La condotta era il contratto che i comuni stipulavano col medico, non era una questione di comportamento come a scuola, che del resto anche la condotta dell’alunno è come un contratto stipulato con la scuola a cui corrispondono compensi e sanzioni in voti e provvedimenti.

Ecco la questione del merito, sempre quella vecchia che non cambia con il mutare delle epoche, sempre di premi e di punizioni si tratta.
E allora accostare l’istruzione al merito è come riesumare la pratica della lode e del castigo, arnesi vecchi qualunque sia il restyling a cui si ricorre per rinverdirli, per non dare ascolto ai soliti vecchi sociologi radicali alla Pierre Bourdieu, per i quali la scuola favorirebbe i favoriti e sfavorirebbe gli sfavoriti.

Mentre ci si propone di inculcare le vecchie virtù se ne perdono per strada altre da sempre trascurate. Tipo imparare ad amare lo studio, perché bello, coinvolgente, interessante, indispensabile come l’aria che si respira. Sapersi assumere le proprie responsabilità, apprendere a comportarsi a prescindere dal merito, dai premi e dai castighi. Spogliarsi dalla cultura del peccato a cui deve far seguito l’espiazione, cultura tutta chiesastica che ancora intride le nostre scuole dei suoi miasmi.

La cultura dell’individualismo, a ciascuno il suo banco, la postazione da cui ognuno deve condurre la propria battaglia, ciascuno per sé, compagni ma estranei. Non la cooperazione ma la separazione, non il laboratorio ma l’obitorio in cui sono conservati ed esposti alla classe i cadaveri del sapere.
Quest’anno sono cinquant’anni dalla nascita dei decreti delegati della scuola, quelli con cui si pensava di dare alla scuola “il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica” (DPR del 31 maggio 1974 n. 416, art. 1).

Comunità che interagisce, attenzione bene ! non comunità che regredisce in se stessa.

Sarebbe il caso di farci su una riflessione, semmai chiedersi anche che fine ha fatto quella spinta al rinnovamento, da quale esaurimento e inversione di senso sia ora affetta, dove risieda il virus che la minaccia.
Nel frattempo, in attesa che di questo qualcuno si preoccupi, pare che ogni tipo di connessione sociale via smartphone sarà radicalmente bandita a partire dall’inizio del nuovo anno scolastico, perché a scuola interagire è sempre complesso, scrivevamo più sopra che la scuola, per carattere, è riservata!