Competenze non cognitive: un passo verso la separazione dell’istruzione dall’educazione

di Simonetta Fasoli

La proposta di legge sull’introduzione di competenze non cognitive nei percorsi scolastici e formativi, approvata dalla Camera l’11 gennaio scorso, è approdata al Senato (disegno di legge n. 2493).
All’indomani dell’approvazione, scrissi un breve post dal tono ironico, che non intendeva certo minimizzare la questione, ma al contrario dire: “attenzione, qui c’è un problema!”.
Poiché l’iter legislativo prosegue, e come succede in questi casi è destinato, al suo compimento, a produrre effetti, sarà il caso di andare oltre la prima reazione e fare qualche affondo di merito. Partendo dalla messa in questione della materia stessa dell’iniziativa parlamentare e domandandosi anzitutto se sia fondato parlare di “competenza non cognitiva”.
Del resto, lo stesso testo del disegno di legge già all’esordio (art. 1, c.1) pone come finalità quella di “promuovere la cultura della competenza”. Affermazione che va presa sul serio.

Nei contesti di studio e di formazione in cui mi trovo ad operare, mi piace sottolineare (e argomentare) un assunto: che sia possibile e anzi auspicabile sostenere un’accezione pedagogica della nozione di competenza; nozione che, per sé presa, più parti del mondo della scuola e degli addetti ai lavori vedrebbero inficiata irrimediabilmente dalla sua origine nell’universo del lavoro e della catena produttiva. Confortata, in questa intenzione, dal fatto che il termine stesso sia stato da oltre un ventennio “sdoganato” ed acquisito nell’ambito dell’istruzione e formazione, a partire dalle norme sull’autonomia per arrivare a rilevanti documenti europei (le Raccomandazioni del 2006 e 2018 concernenti le competenze chiave di cittadinanza).
A livello di studi e di ricerche, mi piace richiamare spesso, in quei miei contesti di lavoro, una delle definizioni a mio parere più illuminanti della nozione di competenza, che suona così: “una competenza è la capacità di far fronte ad un compito, o un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto e ad orchestrare le proprie risorse interne, COGNITIVE, affettive e evolutive, e ad utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo. (Michele Pellerey, 2004).
I caratteri cubitali sono miei, utilizzati nell’ambito di questo mio intervento, con lo scopo di sottolineare quello che ora mi preme sostenere: la dimensione strutturalmente cognitiva di ogni costrutto di competenza. Dunque, a mio parere, l’ossimoro, o se si vuole, la contraddizione in termini di una formulazione come quella su cui è basato l’intero impianto del disegno di legge.
Del resto, le stesse Raccomandazioni europee, con una formula a mio avviso più generica, parlano delle competenze come di un mix di conoscenze, abilità e atteggiamenti. Giusto. Si tratta di vedere COME stanno insieme e come agiscono e interagiscono questi elementi: la definizione che ho appena citata ce ne dà un’immagine dinamica e integrata, non semplicemente giustapposta. Ma quello che qui conta è decostruire il senso della “competenza non cognitiva” e mostrarne l’infondatezza. Tutto il resto del disegno di legge di cui si sta parlando, poggiato su un presupposto errato, va radicalmente discusso e revocato in dubbio.
Ma, una volta sgomberato il campo da questo vizio di fondo, resta in piedi l’interrogativo sul significato politico-culturale dell’operazione sottostante all’iniziativa di legge. Questione non meno decisiva di quella fin qui esaminata.
Detto che nessuna norma è in sé neutrale, qual è il retroterra su cui si innesta questa di cui parliamo? Come anticipo nel titolo, si tratta di “culture politiche”, che, come vediamo dai nominativi dei primi firmatari, sono trasversali a diverse formazioni partitiche, e ben riconoscibili.
Senza peccare di dietrologia, ci sono nel testo di legge alcuni passaggi che fanno luce sul tema. Già nell’articolo 1, comma 2 ne possiamo rintracciare uno. Infatti, vi si prevede (terminata la fase sperimentale) l’emanazione, con decreto ministeriale, di “linee guida (…) che individuano (…) SPECIFICI TRAGUARDI PER LO SVILUPPO DELLE COMPETENZE E OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO, in coerenza con le Indicazioni nazionali per il curricolo (…) e con le Indicazioni nazionali per i licei e le Linee guida per gli istituti tecnici e professionali vigenti.”
Dunque, ci troviamo di fronte all’ipotesi di una vera e propria PROGETTAZIONE CURRICOLARE PARALLELA: “in coerenza”, ma distinta da quelle vigenti, e addirittura legittimata da un provvedimento formale quali sono le Linee guida ministeriali.
Ecco che prende forma, a mio avviso, un’IDEA DI SCUOLA, basata su un presupposto preciso e dal mio punto di vista discutibile: la netta separazione dell’educazione dall’istruzione, quelle due dimensioni che la scuola pubblica, come istituzione, tiene e deve tenere insieme nel suo stesso agire.
Non basta. Se incrociamo questo dispositivo con quello contemplato nell’articolo 4, comma 3, punto c, si palesa un elemento che getta ulteriore luce sull’operazione politico-culturale nel suo senso complessivo. Vi si parla, infatti, a proposito della prevista sperimentazione, di “percorsi formativi innovativi (…) di “recupero motivazionale degli studenti”, al fine di “contrastare la dispersione scolastica sia esplicita sia implicita, anche attraverso percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento o PROGETTI DI PARTENARIATO CON ORGANIZZAZIONI DEL TERZO SETTORE E DEL VOLONTARIATO” .
Sono miei i caratteri cubitali inseriti nel testo: stanno a segnalare la comparsa di soggetti che sono tradizionalmente sostenuti da alcune di queste culture politiche. E segnalano un rischio che, in combinato disposto con la netta separazione tra istruzione ed educazione di cui ho detto, appare come qualcosa di ben diverso da una semplice ipotesi da verificare.
In conclusione: quale idea di scuola si fa avanti, in una fase per di più di grande fragilità della scuola stessa, per le note vicende della pandemia e per i modi del tutto inadeguati con cui la stanno affrontando i decisori politici?
Quali insidie politiche e culturali si annidano dentro un’iniziativa che, a questo punto, mi sembra ben più gravida di conseguenze di una maldestra operazione di restyling pedagogico-didattico?
Cosa ne è della scuola pubblica, della scuola come bene comune, fattore di emancipazione e di uguaglianza sociale secondo Costituzione? Ci troviamo di fronte a una scuola che porterebbe in sé il germe della separazione tra educazione e istruzione (entrambe scotomizzate, in quanto artificiosamente separate), tra emozione e conoscenza (come se fosse possibile separare l’una dall’altra nei processi reali di apprendimento…). Una scuola che venisse meno alla sua stessa natura istituzionale, lasciando ad altri soggetti il campo di una parte sostanziale del suo mandato, insieme ad una dimensione fondamentale del suo curricolo.
Il compito della scuola è “tenere insieme”: l’unitarietà del suo sistema, la coerenza della sua azione, le professionalità che vi si esplicano, ma soprattutto le vite e le storie di chi cresce.
Pensiamoci, facciamo vigilanza attiva, anche in tempi difficili. O forse proprio per questo.




I nostri auguri a Francesco De Bartolomeis, 104 anni !

Oggi, 20 gennaio, è il compleanno di Francesco De Bartolomeis, classe 1918.
De Bartolomeis è un testimone della generazione vissuta a cavallo tra la dittatura fascista e la giovane democrazia italiana.
Grazie alla sua curiosità e alla vicinanza di un prezioso maestro come Ernesto Codignola ha saputo maturare spirito critico e di ricerca.
E’ quello spirito che nel secondo dopoguerra lo ha condotto ad essere uno dei protagonisti
del rinnovamento della pedagogia italiana, promuovendo la sua apertura al mondo delle migliori esperienze educative.
Le sue molteplici esperienze e ricerche sono tuttora un riferimento importante per le nuove generazioni di
educatori e di insegnanti. Grazie Francesco.
(Enrico Bottero)

Ho scoperto De Bartolomeis solo due anni fa e sto continuando a leggere i suoi libri e rimango folgorata dalla profondità dei concetti che esprimono e dall’assoluta attualità che essi ancora hanno.  Mi stupisco ogni volta di quanto sia stato pionieristico il suo lavoro e di come abbia visto con lucidità cose che sarebbero avvenute molti anni dopo che le aveva scritte, ad esempio quanto riferito al discorso sulla tecnologia.
Sono davvero grata per l’enorme contributo da lui offerto alla pedagogia in Italia, che offre la possibilità ad un ‘insegnante di scuola primaria come me, di poter leggere la realtà educativa sulle spalle dei suoi libri illuminanti.
All’interno della mia tesi di Dottorato appena conclusa viene riconosciuto come padre fondatore dei Laboratori nella formazione iniziale degli insegnanti a cui ricondurre la loro identità. Ancorare tali dispositivi educativi alle proprie origini può restituire solidità e spessore e trasmettere ai futuri insegnanti, con maggiore solidità, contenuti e metodologie ancor oggi molto innovativi e purtroppo non radicati nè all’Università, né nelle nostre aule scolastiche .
Propongo il 20 gennaio, data di nascita di De Bartolomeis, come giornata della didattica laboratoriale con l’augurio che non diventi il buon esempio di un giorno ma prassi didattica quotidiana!
(Federica Gaetano)

Le associazioni del Forum per l’educazione e la scuola del Piemonte [*]  festeggiano il centoquattresimo compleanno del professore emerito Francesco De Bartolomeis.
Cento e quattro anni rappresentano certamente un momento di vita straordinario, ma ancor più straordinaria è la sua volontà di continuare a studiare e di dibattere con chi si occupa di scuola, di educazione, di creatività e di produzione artistica, idee e prospettive di innovazione.
BUON COMPLEANNO PROF!!! e GRAZIE
(Loredana Ferrero e Gianni Giardiello)

[*] Gessetti Colorati aderisce al Forum

Ricordiamo il nostro rapporto con Francesco De Bartolomeis

Il nostro ebook I METODI NELLA PEDAGOGIA CONTEMPORANEA

De Bartolomeis, dai metodi alla pedagogia industriale
Intervista a Gianni Giardiello


Video-intervista a Francesco De Bartolomeis (febbraio 2018)

Incontro pubblico a Ivrea (novembre 2014)




Allarme rosso per infanzia e adolescenza

Per gentile concessione dell’autore e della Associazione Proteo Fare Sapere dal lui presieduta pubblichiamo uno stralcio di una più ampia riflessione disponibile nel sito della associazione stessa.

di Dario Missaglia

I medici, soprattutto coloro che si dedicano alla cura dell’infanzia e dell’adolescenza, la chiamano “pandemia secondaria”.

Il concetto indica la vasta gamma di conseguenze psicologiche, relazionali, emotive, cognitive che risultano compromesse dal prolungarsi della pandemia.

“Secondaria” dunque, non per importanza minore rispetto alla pandemia che produce ricoveri in terapia intensiva e decessi quotidiani, ma perché conseguenza  meno tangibile, visibile e quantificabile di quella primaria che ogni giorno invade le comunicazioni ufficiali. Una pandemia che sembra sfuggire la cronaca, forse per il significato anche politicamente “eversivo” che essa contiene. A differenza infatti della pandemia primaria, la secondaria non si sconfigge soltanto con il vaccino o i farmaci ma con scelte politiche, sociali ed educative che non vediamo all’ordine del giorno del governo.

Basta scorrere i siti dedicati delle diverse associazioni, per rendersi conto che il livello di allarme è oramai altissimo e stridente con la realtà dichiarata. Perché, mentre grazie a una campagna vaccinale che si è fatta sempre più intensiva, sono diminuiti  i decessi, anche se crescono i contagi, sulla pandemia secondaria cala il silenzio delle fonti ufficiali. Ma la consapevolezza del fenomeno c’è perché oramai  innegabile. Ricerche condotte in tutto il mondo e con dovizia di dati e numeri anche in Europa (la nostra rubrica “Europanews” ne offre ampia documentazione), ci dicono che il prolungarsi di questa fase di pandemia, con il suo carico di ansie, paure, limitazioni, riaperture e nuove chiusure, ulteriori richiami di vaccino, incertezza sul futuro, sta producendo ferite gravi e profonde nel mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Solo per citare una fonte autorevole e istituzionale, l’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, nel maggio scorso ha pubblicato il  rapporto su “Covid19 e adolescenza” in cui documenta ampiamente il processo di aggravamento delle condizioni dell’adolescenza: insonnia, abuso di alcool e medicinali, chiusura in se stessi, cyberbullismo, scatti violenti, crisi del rapporto genitoriale, stati d’ansia e depressione, episodi di autolesionismo e tentativi di suicidio.

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Quando la tipografia era una tecnologia avanzata. Célestin Freinet e le scuole in rete.

di Giovanni Fioravanti

Ho voluto dare questo titolo per indicare la grande modernità del pensiero di Freinet. La riflessione pedagogica di Célestin Freinet si sviluppa tra le due guerre. Sono gli anni delle tre grandi crisi: quella della prima guerra mondiale, la crisi economica e sociale del 1929 e la seconda guerra mondiale.

Sono anche gli anni del grande fermento pedagogico che ha caratterizzato la prima metà del secolo scorso, un fermento pedagogico che non si ripeterà più, e da cui l’Italia è tagliata fuori per via del fascismo, un ritardo che pagheremo a lungo e che ancora paghiamo.

Un fermento pedagogico che nasce dalla convinzione che l’educazione è alla base della formazione di cittadini attivi, responsabili e consapevoli.

A partire da John Dewey e il suo Credo Pedagogico, da Scuola e Società, Democrazia e educazione fino a Come pensiamo, un’opera su cui Freinet rifletterà a lungo per scrivere i suoi “Essai de psychologie sensible appliquée à l’éducation

Mentre John Dewey ha la sua originalità in quanto si colloca nel contesto statunitense, diverso da quello europeo, un contesto culturale dominato dal pragmatismo, dal funzionalismo e dal comportamentismo, in Europa domina l’idealismo, la crisi profonda del positivismo, l’influenza del marxismo, la diffusione delle scoperte della psicanalisi, la fenomenologia di Husserl, l’elan vital di Bergson nonché, in Francia, lo sviluppo di una scuola etnologica e antropologica critica (Lévy-Bruhl e Marcel Mauss).

Sono gli anni dell’École nouvelle, della scuola di Ginevra, degli svizzeri Adolphe Ferrière e Edouard Claparède, Robert Dottrens, il belga Ovide Decroly, l’italiana Maria Montessori, il francese Roger Cousinet. A cui Freinet partecipa intensamente, ma da cui prende le distanze. Perché da una parte abbiamo la scuola del metodo, dall’altra la scuola delle tecniche. Per Freinet la scuola del metodo è una scuola borghese, con materiale costoso, non adatto alle scuole povere di campagna.

 La formazione di Freinet

L’esperienza della vita militare e della guerra segna profondamente Célestin Freinet.
L’esperienza della guerra è uno degli elementi che conducono Freinet a ricercare una alternativa alla società e alla scuola tradizionale.
Nel 1920 si lega in amicizia con lo scrittore francese pacifista, giornalista, attivista politico, comunista Henri Barbusse. Barbusse costituisce il nodo qualificante della cultura francese degli anni venti, più di Marcel Proust, di André Gide e di André Malraux.
Freinet collabora alla rivista Clarté della III internazionale di sinistra, a cui collabora anche Anatole France.
Nel 1920 è incoraggiato da Romain Rolland, grande figura nazionale, partigiano della non violenza. Scrittore e drammaturgo francese, dedica la sua opera e la sua vita alla diffusione di un credo umanitario di pace e di fraternità.

Freinet inizia la sua attività di maestro, di “instituteur primaire” il 1° gennaio 1920 a Bar sur Loup, in Provenza, ha ventiquattro anni, nato in una famiglia contadina, quinto di otto figli. È reduce dalla Grande Guerra.
La scuola è quella delle leggi di Jule Ferry, 1882, ministro della pubblica istruzione nella Terza Repubblica. L’insegnamento primario è pubblico e gratuito, l’istruzione primaria da 6 a 13 anni è obbligatoria, e impone un insegnamento laico. La legge prevede l’obbligo di istruzione, non l’obbligo scolastico, l’articolo 4 stabilisce che l’istruzione può essere impartita negli stabilimenti di istruzione, le scuole pubbliche o libere o dalle famiglie.

La scuola in quanto tale non è mai stata obbligatoria. Da qui si può presumere che solo i poveri andavano alla scuola pubblica i cui ingredienti sono: disciplina, ripetizione meccanica, copiatura, in particolare si leggono e si ripetono a memoria le gesta du roi Charle Magne, su un cartellone alle spalle della cattedra.
Nel 1916 è stato ferito gravemente a un polmone, ciò lo costringerà ad una lunga convalescenza e sconsiglierebbe chiunque di intraprendere la carriera di maestro nelle condizioni ambientali di quegli anni.

Ma quella di un Freinet maestro a Bar sur Loup, nelle Alpi Marittime, che pensa le tecniche didattiche, perché può parlare poco, per far fronte alla sua debolezza fisica è pura agiografia che Élise Freinet, la moglie, ci racconta in Nascita di una pedagogia popolare.
L’esperienza di Freinet si presta ad essere romanzata. Nel 1949 viene girato un film, che trovate su You Tube L’ École Buissonniere 

 L’École Emancipée

L’École Emancipée è la rivista del sindacalismo internazionalista, è la rivista bimestrale di sindacalisti e pedagogisti all’interno della Federazione sindacale unitaria. L’École émancipée è anticapitalista, femminista, antimilitarista. Vuole cambiare la scuola per renderla cooperativa, egalitaria, solidale. Tutti i bambini e adolescenti devono beneficiare della stessa educazione, nella stessa scuola. Una scuola laica che si oppone ad ogni influenza della religione sulla scuola e sugli allievi.
Nel 1920 Freinet vi pubblica un articolo, La Cultura del capitalismo, che è la traduzione dall’ esperanto di un articolo del tedesco Adolphe Röchl.

Si denuncia il carattere classista della cultura per il capitalismo, cultura che deve essere accumulata come il denaro, il cui possesso discrimina socialmente le persone.
È difesa l’idea di una pedagogia socialista. Fare solamente del socialismo senza modificare i modi di insegnamento, perpetua la pedagogia capitalista, che tratta il sapere come il denaro, invitando ciascuno ad accumularne la più grande quantità possibile.

Il 23 ottobre 1920 scrive: “Senza il cambiamento della scuola, ogni rivoluzione politica ed economica non sarà che effimera.”
Per sostenere l’orientamento di una simile rivoluzione pedagogica Freinet prende come riferimento il contenuto del Congresso degli insegnanti socialisti che fu tenuto a Gotha dal 2 al 4 ottobre 1920. Egli sostiene in particolare che l’insegnamento deve accordare il più grande spazio alla spontaneità degli allievi, solo così si formeranno dei cittadini adatti alla società che dovrà seguire alla rivoluzione.

In un articolo del 1921 Freinet precisa che la pedagogia socialista che egli vuole sviluppare non si propone di inquadrare gli alunni, né arruolarli, ma piuttosto è la proposta di pratiche democratiche che intendono formare dei cittadini.
Già nel 1921 l’essenziale dell’orientamento rivoluzionario di Freinet è disegnato. Nell’estate del 1922 visita le scuole primarie di Amburgo, note come scuole libertarie di Amburgo, sono quattro comunità scolastiche che dal 1919 al 1930 sperimentano una pedagogia antiautoritaria, create sotto la repubblica di Weimar.

È la pédagogie des « maîtres-camarades », il postulato è che bisogna “partire dal fanciullo”.

Rigettano l’idea che uno stato o una religione possano decidere quello che i fanciulli devono apprendere, rifiutano la stessa nozione di “finalità dell’educazione”. La scuola non è il mezzo per preparare alla vita, ma il luogo della vita stessa. La “gemeinschaftschule”. Una scuola solidarista, scuola comunitaria, scuola comunità, come la definì Adolphe Ferrière.

Negli stessi anni, nel 1921, prendeva l’avvio un’altra esperienza libertaria in Inghilterra la Summerhill School di Alexander Sutherland Neill.
Freinet non trova queste esperienze radicali convincenti sul piano pedagogico, troppo individualiste e troppo poco organizzate.

Nel settembre del 1925 va in URSS e conosce la moglie di Lenin, allora ministro dell’istruzione insieme ad Anton Makarenko, pedagogista e educatore ucraino.

Un’altra idea di scuola

Freinet propone un’altra idea di scuola, a partire dalla necessità di riorganizzare l’ambiente di apprendimento, diremmo oggi, per allora si trattava solo di riorganizzare l’aula, cosa per nulla facile. L’esperienza di Freinet, maestro alle prime armi, è raccontata dalla moglie Élise nelle pagine di Nascita di una pedagogia popolare:
L’aula scolastica ove Freinet entra per la prima volta è l’aula tradizionale delle scuole pubbliche: banchi disposti in file rigide, predella per il maestro, attaccapanni fissati al muro, lavagna a cavalletto…Le finestre che si aprono sulla rustica piazza del vecchio castello,..

Ne ritroviamo eco, a circa mezzo secolo di distanza, nella Lettera a Katia con cui Mario Lodi apre Il paese sbagliato:

Eccomi dunque in mezzo all’aula. Vi dovrebbero stare, oltre all’armadio, alla predella su cui troneggia la cattedra, alla lavagna girevole e alla stufa a gas, i tavolini individuali con i relativi seggiolini, un tavolo e un mobiletto guardaroba per i bambini.

 Freinet chiama la sua pratica pedagogica “moderne”, la sua scuola è “l’École moderne”.
Non le New schools, le Scuole nuove, la Nouvelle école, ma la scuola moderna.
Il termine moderno, modernità non è così antico all’epoca di Freinet. Modernità è termine coniato da Charles Baudelaire, per indicare la vita nelle metropoli. Deriva dal latino “modus”.

Le scuole possono essere nuove, ma continuare ad essere vecchie nella concezione della loro funzione. La scuola su misura, la scuola funzionale, la scuola attiva presentano metodi per coinvolgere l’alunno in una scuola che resta quella dell’adattamento, del conformismo, dell’insegnamento.
“Moderna” perché è nuovo il modo di vivere la scuola e il ruolo della scuola al servizio di uomini nuovi per una società nuova.

Nella propria classe Freinet pone l’accento sull’attrezzatura scolastica che resterà la cura di tutta la sua vita. (Si vedano L’Education du travail e Essai de psychologie sensible, scritti vent’anni più tardi).
Freinet espone in un articolo su L’imprimerie à l’école la messa a punto della sua tecnica e l’aspetto nuovo della lettura globale con il metodo naturale. Conia il termine “pedotecnica”.
Qui si pone la differenza tra METODO e TECNICHE, la pedagogia delle tecniche. Quando parliamo di metodo facciamo riferimento ai loro autori: Decroly, Montessori, il piano Dalton, il piano Winnetka. Per Freinet i metodi sono al servizio dell’insegnamento, le tecniche sono al servizio dell’apprendimento, del libero sviluppo del fanciullo.

Le tecniche Freinet sono: la tipografia, il testo libero, il disegno libero, il giornale, la corrispondenza interscolastica, la biblioteca di lavoro, il libro della vita, che gli scolari chiamano il libro delle viti perché tenuto insieme da bulloni. Lo schedario scolastico cooperativo, la grammatica e il calcolo vivente, lo schedario autocorrettivo per l’insegnamento dell’aritmetica, lo schedario autocorrettivo ortografico.

Non più manuali scolastici! Non più lezioni! È il processo di apprendimento che occupa il primo posto.
Freinet trova una argomentazione favorevole alla Repubblica dei fanciulli, alla cooperazione scolastica in L’autonomie des  écoliers, l’art de former des citoyens pour la nation e pour l’humanité che Adolphe Ferrière pubblica nel 1921.

Nel 1923 scrive su l’Ecole Emancipée «L’autonomie des  écoliers  è un libro necessario ai compagni che vogliono far evolvere le loro classi verso la democrazia, per lo sviluppo sociale e umano di tutti i fanciulli».
Per Freinet la relazione maestro allievo è aperta. Le regole comuni non sono il risultato di una azione unilaterale del maestro. È all’interno del consiglio degli allievi che sono prese la maggior parte delle decisioni che permettono la regolare vita della classe.
L’istituzione del consiglio si aggiunge e scandisce la vita della classe.
Non voglio con ciò dire che con la tecnica della tipografia io abbia raggiunto Decroly. È stato lui che, con un lungo giro, ha riportato la scienza pedagogica al suo punto di partenza: il buon senso e la vita.” (C. Freinet, p. 35)

L’istituzione della tipografia scolastica e del giornale portano gli alunni alla lettura critica dei testi, alla loro correzione da parte dell’alunno stesso come dei compagni. Un’abitudine alla riflessione, la nozione di tâtonnement, vale a dire procedere a tastoni, per tentativi.
La pratica collettiva della produzione del giornale di classe o di una enciclopedia scolastica conducono a mettere ogni allievo in un atteggiamento riflessivo. Nella pratica gli alunni sono portati a interrogarsi sul valore di quello che fanno.

Nella scuola di Freinet gli alunni si turnano nel lavoro che li interessa. Questa è una tesi centrale dei Detti di Matteo, che è l’opera teorica di Freinet e che è ben sintetizzata dalla storia del cavallo che non aveva sete.
«Un giovane cittadino voleva rendersi utile nella fattoria dove era ospite e decise di portare il cavallo all’abbeveratoio. Ma il cavallo si rifiutava e voleva condurre il cittadino verso il prato. “Ma da quando in qua i cavalli comandano? Tu verrai a bere, te lo dico io!” e lo tira per la briglia e lo spinge malamente. La bestia avanza verso l’abbeveratoio. “Forse ha paura -pensa il giovanotto- se l’accarezzassi…? Bevi! Prendi…”Nulla da fare e il giovane urla: “Tu bestiaccia berrai ” Il cavallo storce il muso e nitrisce, soffia, ma non beve. Arriva il contadino Matteo e gli dice: “Tu credi che un cavallo si tratti così. Ma lui è meno bestia di qualche uomo, lo sai? Tu puoi ucciderlo, ma lui non berrà. Tempo perduto, povero te!” “Come fare allora?” Si vede bene che non sei un contadino. Non hai capito che il cavallo non ha sete nelle ore mattutine e ha invece bisogno dell’erba medica. Lascialo mangiare a sazietà e dopo avrà sete. Allora lo vedrai galoppare verso l’abbeveratoio. Non aspetterà che tu gli dia il permesso. Non si può cambiare l’ordine delle cose: se si vuol far bere chi non ha sete si sbaglia. “Educatori, siete al bivio. Non ostinatevi nell’errore di una “pedagogia del cavallo che non ha sete”, ma orientatevi coraggiosamente e saggiamente verso “la pedagogia del cavallo che galoppa verso l’erba medica e l’abbeveratoio.  »

Storia che Danilo Dolci doveva conoscere bene quando scrisse Ciascuno cresce solo se sognato:C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.

Nel 1944 in L’Ecole Moderne Française Freinet scrive:
«Un fosso che ogni giorno si approfondisce sempre di più, separa la scuola pubblica tradizionale al servizio della democrazia capitalistica dell’inizio del secolo, dai bisogni impellenti di una classe che sente la necessità di formare le generazioni nuove all’immagine di una società di cui si intravedono e quindi iniziano le maestose edificazion

Nel 1926 fonda la Cooperativa della mutualità pedagogica (Coopérative d’entraide  pédagogique) con la rivista L’imprimerie à l’école.
Nel 1927 crea La Gerbe che pubblica una selezione dei testi prodotti dalla corrispondenza scolastica.
Nell’agosto del 1927 durante il congresso delle Federazione unitaria degli insegnanti, che si tiene a Tours, prende parte attiva al Congresso internazionale della tipografia scolastica e partecipa alla creazione della Cooperativa di cooperazione tipografica a scuola. Nello stesso congresso Freinet con Rémy Boyau progettano due cortometraggi e decidono di creare una cooperativa per lo sviluppo di queste attività, con la creazione di una società anonima « Cinémathèque Coopérative de l’Enseignement Laïc »
Nel 1928 si trasferisce a Saint Paul de Vence e fonda la CEL, la Cooperativa dell’insegnamento laico.

Nel febbraio 1932 per la biblioteca di lavoro, Bibliothèque de travail, (BT), inizia le pubblicazioni in proprio. Nell’ottobre del 1932 esce il primo numero di l’Éducateur Prolétarien, nuovo nome dato alla rivista “La tipografia a scuola”.

 L’affaire de Saint-Paul del 1932.

Freinet è ormai conosciuto internazionalmente come un pedagogista, ma non mancano gli oppositori, non solo in seno alla cooperativa della tipografia a scuola.
È il caso di Alain, Émile Auguste Chartier – 1868-1951-, autore di Propos sur l’éducation, che Armando Armando pubblica in Italia nel 1966 con il titolo Una pedagogia di destra insegnata da un uomo di sinistra.
Alain non cita mai Freinet.  Ma non può ignorare l’esperienza di Freinet, soprattutto “L’affaire de Saint Paul de Vence”, tanto più che Simon Weil nel 1933 scrive un articolo per difendere Freinet nella rivista di Alain Libres Propos.
Del resto Freinet conosce l’opera di Alain, in una lettera del 29 marzo 1940 alla moglie Élise, chiede di inviargli al più presto i libri di Alain, il che vuol dire che già li possiede.
Alain attacca la pedotecnica di Freinet. Freinet riprende le sue parole in L’education du travail mettendole in bocca a Monsieur Long, maestro che difende come pedagogia moderna la tradizione, dialogando con Mathieu, il personaggio che personifica Freinet,

Il pensiero di Alain: «L’alunno apprende soprattutto a non pensare. La tecnica è un pensare senza parole, è un pensare delle mani e dell’arnese. È un pensiero che teme il pensiero. Un pensiero delle mani non è ancora un pensiero».
Per Freinet il pensiero di Alain è una tesi che vale la pena di discutere. “L’audacia del pensiero” per Alain è affrontare la disciplina e le difficoltà. Per Freinet è differente, è quella delle idee, delle idee adatte a servire a qualcosa. Solo quando le idee per gli allievi acquistano un valore funzionale suscitano il loro interesse.

A Saint-Paul-de-Vence Freinet è responsabile di una classe di 49 alunni, la scuola è in condizioni pietose e ha diversi scontri con l’amministrazione. Chiede una seconda classe con la speranza che possa essere affidata a Élise.
Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre il paese viene tappezzato da una cinquantina di manifesti che riportano i testi scritti dai suoi allievi. Viene accusato di fare dei suoi allievi dei futuri bolscèvichi. In sostanza è costretto a lasciare l’insegnamento.
Nel 1935, apre a Vence, con l’aiuto della moglie Élise ed il supporto delle organizzazioni operaie locali, l’École Freinet strutturata senza classi, con molti laboratori e soprattutto molto spazio all’aperto: una scuola privata gestita in maniera cooperativa, dove applica le idee ed i metodi di lavoro messi a punto fino ad allora.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale Freinet viene internato nel campo di Saint-Maximin e la sua scuola viene chiusa. Nell’ottobre del 1941 viene liberato; a quel punto si dà alla macchia e partecipa alla resistenza, arrivando a dirigere il maquis della Vallouise.

Finita la guerra, ritorna all’attività di educatore, che continua con impegno ed entusiasmo fino alla morte, che avviene l’8 ottobre 1966.

Occorre dire che lascerà il partito comunista francese, avendolo contro.
La scuola Freinet, de Vence, diviene pubblica nel 1991, ed è classificata come patrimonio dell’Unesco.

Freinet e l’Italia

Nel 1950 Ernesto Codignola invita a Firenze Celestin Fréinet. Il convegno di Firenze è decisivo per i giovani maestri, che entrarono in relazione con il maestro francese e tra di loro, gettando le basi del Movimento di Cooperazione Educativa.
C’era Aldo Pettini, Giuseppe Tamagnini, traduce con Dina Parigi, e scrive l’introduzione all’edizione italiana di “Nascita di una pedagogia Popolare”, edito da La Nuova Italia, la casa editrice fondata da Tristano Codignola.
Giuseppe Tamagnini insegna a Fano, è stato allievo di Giuseppe Lombardo Radice. Fano diventa importante soprattutto perché Tamagnini costruisce lì il materiale per le Tecniche Fréinet, che dal suo laboratorio artigianale viene spedito in tutta Italia ai colleghi che lo richiedono, a partire dalla tipografia per impostare l’apprendimento della lettura e della scrittura. La nascita della Cooperativa “Tipografia e Scuola” (CTS) avviene subito dopo il Convegno di Rimini (2 giugno 1951).
I punti essenziali: organizzare la cooperativa fra gli insegnanti, dotare la propria classe della tipografia, organizzare la corrispondenza interscolastica, raccogliere materiale vario in uno schedario delle materie.
In questi anni si rileva decisivo il contributo di Mario Lodi, Bruno Ciari, Gianni Rodari.
Fu in particolare l’elaborazione di Bruno Ciari e di Giuseppe Tamagnini che contribuì, sia pure parzialmente, sulla cultura del PCI in direzione di una concezione nuova dell’infanzia e dell’educazione.
Nell’estate del 1963 a Barbiana va Mario Lodi e per due giorni lui e don Lorenzo Milani parlano soprattutto dell’arte dello scrivere con i ragazzi. È così che il prete di Barbiana si innamora del testo collettivo e della sua tecnica che il maestro di Vho gli fa conoscere mentre scrivono “Cipì”, la storia costruita con i suoi alunni di quinta.
Si lasciano con l’impegno di scriversi. I primi furono i ragazzi di Vho di Piadena che inviarono una lettera in cui parlano della loro scuola.
I ragazzi di Barbiana rispondono con un testo collettivo che il loro maestro accompagna con una sua lettera. “Lettera ad una professoressa” che Tullio De Mauro considera uno dei capolavori della lingua italiana del novecento, è il frutto anche di questo incontro.
A Bologna l’amministrazione comunale chiama Bruno Ciari a dirigere i servizi educativi, si realizza una sinergia con l’Università dove operano Andrea Canevaro e PieroBertolini, promotori della rivista “Infanzia”.
A Reggio Emilia Loris Malaguzzi realizza un modello di scuole dell’infanzia studiato anche nelle università statunitensi. A Modena Sergio Neri dirige le scuole dell’infanzia e diviene direttore di “L’educatore”.
Torino rappresenta l’elemento di novità. Fiorenzo Alfieri in “Il mestiere di maestro” (1974) descrive il ruolo dell’MCE di Torino nel decennio in cui la scuola italiana farà un salto di qualità decisivo.
Insieme a Daria Ridolfi, Gianni Giardiello, Bartolo Viroglio e Marina Dina, Fiorenzo Alfieri dà vita ad un percorso dove si intrecciarono diversi elementi: la scuola elementare e la media dell’obbligo, l’avvio del Tempo Pieno con l’integrazione dei doposcuola comunali, la ricerca pedagogica e le sperimentazioni promosse in collaborazione con la facoltà di Magistero dell’Università di Torino, dove insegna Francesco De Bartolomeis, di cui molti dei suddetti erano stati allievi, si diffondono le tecniche Fréinet e lo strutturalismo delle discipline introdotto da Jerome Bruner negli USA. Sulla stessa scia Franco Passatore realizza il Teatro-Gioco-Vita e scrive “Io ero l’albero (tu il cavallo)”.

Oggi, Gianfranco Lorenzoni, con la scuola di Giove e l’esperienza raccontata in “I bambini pensano grande”, continua e rinnova l’esperienza freinetiana e del Movimento di Cooperazione Educativa.




Un film storico: L’école buissonière

L’école buissonnière

 Un film di Jean Paul Le Chanois del 1949 documenta i primi passi del maestro Célestin Freinet in un paesino delle Alpi provenzali negli anni 20. Il film è un raro esempio del neorealismo francese, abbastanza simile a quello italiano.

Nel 1926 in un piccolo villaggio in Provenza arriva a sostituire l’anziano maestro in pensione M. Pascal, un giovane maestro che ha combattuto nella prima guerra mondiale. Come educatore l’esperienza della guerra con i milioni di morti gli ha lasciato un forte bisogno di lavorare per preparare un mondo diverso reiniziando con i bambini, che sono essi stessi un inizio.  I suoi alunni però sono abituati a un  metodo autoritario che subiscono passivamente. Pascal-Freinet però li sorprende cambiando radicalmente approccio e basandosi sulla motivazione e sull’ascolto. Ne utilizza così le scoperte, li conduce a compiere osservazioni nella natura, introduce un’organizzazione didattica fondata sulla ricerca, valorizzando così le capacità e gli interessi di ognuno. Riesce così a ottenere la frequenza di Albert, orfano di guerra, un ragazzo pluriripetente che spesso si assentava dalle lezioni, descrittogli dall’autorità comunale come ‘uno scansafatiche presentato tre volte alla licenza elementare, la vergogna del paese’.

Il maestro alla battaglia della Marna è rimasto ferito ad un polmone e non può sostenere  a lungo lezioni nozionistiche, che Freinet definiva ‘la scuola della saliva’.

La metodologia che adotta ha quindi il duplice scopo di fare di un limite una risorsa e di garantire il successo formativo a tutti i suoi alunni.

Fin dal primo approccio ne stimola la curiosità: incontrando un gruppo di bambini che giocano sulla sponda di un torrente a costruire un piccolo mulino, dice loro che sfruttandolo si potrebbe produrre corrente elettrica, suscitando il loro stupore.

L’ambiente non è favorevole alle iniziative del maestro, a cui si chiede di ‘raddrizzare’ i bambini adottando punizioni severe come il maestro precedente: usando la bacchetta, chiudendo in uno sgabuzzino buio. Ci vuole ‘un uomo di polso’.

In consiglio comunale ad ogni richiesta di fondi per la scuola si risponde che ‘la scuola è una voragine in cui si perdono i soldi pubblici.’

Al vecchio maestro che gli parla di disciplina, di testi da imparare a memoria, di braccia conserte e piedi allineati, di venti righe da ricopiare ad ogni infrazione, Pascal risponde che non è con le punizioni che si conoscono i ragazzi, ognuno ha una sua personalità ed è compito dell’insegnante trovarla. Non certo con i colpi di bacchetta.

‘Non si può far bere il cavallo che non ha sete’. Frase che costituisce un passo famoso ne ‘I detti di Matteo’ sulla necessitò di creare motivazione attraverso una pedagogia del lavoro.

Il nuovo maestro non mette voti, non vuole che si reciti la lezione a memoria. Si interroga su come suscitare la sete di conoscenza.

Ogni momento della vita dei bambini è occasione per Pascal per riprendere, farli rielaborare, approfondire: il passaggio di una gara ciclistica è lo spunto per ricerche sulla bicicletta e sulla dinamo; una gara di lumache a cui gli alunni si dedicano prima dell’inizio delle lezioni dà l’avvio, attraverso la trascrizione, alla stesura di testi poetici collettivi e a una ricerca sulle lumache.

Ci saranno dei detective che faranno delle domande, dei giornalisti che scriveranno i risultati, dei disegnatori che faranno dei disegni, delle incisioni’.

Nasce l’idea di una biblioteca costituita da piccole monografie.
Nascono altre proposte, altri argomenti di ricerca: le conchiglie, i fossili, le tradizioni e le leggende popolari. C’è chi si offre di fare il narratore.
Ogni alunno si propone per una ricerca su argomenti della propria vita o che colpiscono la curiosità: la storia della calzatura, il lavoro del falegname, l’elettricità, la fotografia…
Per fare le inchieste la classe esce in passeggiata. L’ambiente offre mille occasioni di osservazione e di ricerca: la capienza di un bacino, l’estensione dei campi, lo stile della chiesa, lo sfruttamento dell’energia idrica…
Di qui il titolo del film: c’è chi in paese definisce sprezzantemente quelle uscite ‘marinare la scuola’.
Il paese si divide in due partiti, i sostenitori del maestro e dei suoi metodi e coloro che difendono privilegi secolari e accusano Pascal di manipolare i bambini instillando in loro idee rivoluzionarie.
Sono i lavoratori a sostenere Pascal: il barbiere, il calzolaio.

Pascal ha anche avviato la corrispondenza con una classe della Bretagna, all’altro capo della Francia. Lo scambio di conoscenze sui due ambienti offre la possibilità di lezioni di geografia e storia vive e incancellabili.

Quando arriva il primo pacco dai corrispondenti di Trégunc, in Bretagna,    contenente una copia del giornalino ‘Il menhir’, le conchiglie (‘che fanno sentire il mare’), le gallette e le crepes  bretoni, l’emozione è forte. Lo stesso postino viene coinvolto. Pascal pronuncia la frase che nella realtà è stata detta da Freinet: ‘Ragazzi miei, non siamo più soli!’.

La classe dei corrispondenti adotta evidentemente la stessa metodologia del maestro provenzale, il maestro ha trovato il contatto attraverso il circuito degli aderenti all’ICEM, il movimento Freinet francese e alla Ecole Moderne di Cannes.  Nel film Pascal accenna a una coppia di insegnanti-evidentemente i Freinet- da cui ha attinto le idee che realizza a scuola e da cui riceve incoraggiamenti e consigli.

Scorrendo il giornalino i ragazzi identificano con orgoglio lo stesso procedimento seguito da loro:  ‘erano libriccini come i nostri, scritti e stampati da tutta la classe, come facciamo noi.’

Il lavoro della classe si fa sempre più articolato grazie all’introduzione della macchina da scrivere, della tipografia, della macchina fotografica, delle tecnologie allora a disposizione.

La possibilità di stampare suggerisce di fare dei libri. Il lavoro dev’essere organizzato. Ognuno ha un compito preciso, dettare, cercare i caratteri, collocarli nel compositoio, controllare la correttezza, incidere su linoleum, inchiostrare, stampare, confezionare le copie, rilegare…

Il proprietario terriero conosciuto come l’innovatore per le migliorie che introduce nei suoi possedimenti, a cui si rivolge Pascal per un aiuto economico, respinge la richiesta: ‘Lei è un apostolo nel suo genere, un mercante di paradiso. Ma io non sono un filantropo, né un credulone. Perché dovrei dare dei soldi per insegnare ai figli dei miei contadini a diventare degli intellettuali? Io ho bisogno di contadini e operai. Un po’ di storia e geografia, le quattro operazioni, altrimenti vogliono diventare tutti dei signori.

Ma la solidarietà popolare consente di superare l’impasse: il barbiere mette a disposizione pacchi di vecchie schede elettorali sul cui retro si può stampare.

Ora in classe molti testi attendono la stampa, e Pascal chiede agli alunni di scegliere i testi da stampare giornalmente, dal momento che non tutti possono essere stampati in una sola volta. La discussione è vivace, non tutti accettano di rinunciare. Si vota.

I ragazzi si affacciano alla vita democratica, fanno esperienza di cittadinanza.

Il primo libretto è pronto e viene venduto, così da potere con il ricavato acquistare carta e inchiostro. La cooperativa della classe è installata con le sue esigenze di rendicontazione, di bilancio, di impiego oculato del denaro.

La diffusione in paese del libretto non passa inosservata ai reazionari, sindaco in testa. Viene proposta la revoca della nomina o il trasferimento di Pascal che sottrae i bambini alle famiglie e-inaudito-‘ li fa votare’.

Pascal, forte dell’appoggio dei genitori contadini e artigiani, chiede di terminare l’anno promettendo che saranno tutti promossi all’esame di licenza compreso Albert, il ‘ribelle’.

Che, sentendosi sostenuto dalla fiducia che il maestro gli dimostra, si guadagna il diploma parlando dei diritti dell’uomo di cui Pascal ha fatto cenno durante dei momenti particolarmente conflittuali con lui.

Albert ora frequenta regolarmente, ma sente su di sé tutto il peso della responsabilità. Lo deve al maestro.

Nel corso dell’esame Albert risponde positivamente a tutte le domande tranne a quelle di storia. In particolare non conosce la data delle battaglie di Azincourt e di Waterloo.  Ma il suo exploit finale sui Diritti dell’uomo, in quanto vissuto direttamente  intensamente, fa cadere le resistenze degli esaminatori (cfr. il testo alla voce ‘Cittadinanza’ in questo alfabetiere della pedagogia Freinet).

Rapporti con allievi particolarmente conflittuali e distruttivi hanno segnato la vita di tante classi, ma il modo in cui il maestro Pascal conquista la fiducia del ragazzo trattandolo come un suo pari, attribuendogli degli incarichi, facendogli avere un ruolo attivo nella classe vince diffidenze e resistenze. A fronte delle molte, troppe segnalazioni di alunni ‘ADHD’ disporre di  strategie pedagogiche  alternative ai sedativi è urgente. E’ urgente riconsegnare la pedagogia agli insegnanti.

Pascal, sospeso dall’insegnamento su pressione delle autorità del paese, grazie all’appoggio di 50 genitori e all’esito favorevole agli esami dell’intera classe,  viene riammesso. Genitori che hanno scoperto un nuovo modo di rendere la scuola attraente e attiva, una scuola del lavoro effettuato con gioia, una scuola che coglie dalla realtà circostante tutto ciò che può consentire di acquisire delle conoscenze in tutti gli ambiti, dalle scienze alla storia alla geografia all’arte, affrontando tutti gli ambiti della conoscenza umana. Una scuola moderna che supera i confini dell’aula e della scuola per avventurarsi nel mondo.

Non è in realtà andata così per Freinet a Bar-sur.Loup dove, minacciato da squadre fasciste, è costretto a fuggire per dedicarsi a costruire una propria scuola a Vence.

Freinet non fu completamente soddisfatto della realizzazione, alcune scene non lo convincevano, nonostante la consulenza e la revisione della sceneggiatura da parte di Elise ci furono tagli e inserimenti, ma considerò comunque che lo scopo era quello di far conoscere e diffondere la scuola moderna in Francia e nel mondo, quindi si trattava di un bene pìù grande a favore dei bambini e delle classi più umili e così rinunciò a rivendicazioni.

Il film, accanto ad altri che successivamente presentano le tecniche Freinet, merita di esser visto ancora oggi così come ‘Il dottor Korczak’ di A. Vajda (1990), ‘ La lengua de las mariposas’ di J. L. Cuerda (1999), ‘Anna dei miracoli’ di A. Penn del 1962, ‘Non uno di meno’ di Zhang Yimou del 1999, ‘Essere e avere’ di N. Philibert (2002), ‘L’attimo fuggente’ di P. Weir (1989), ‘La scuola’ di D. Luchetti (1985) ed altri che hanno consegnato all’opinione pubblica un’immagine dell’importanza dell’educazione e della scuola non banale e stereotipata come purtroppo altri più ‘facili’ hanno fatto.

L’école buissonnière è reperibile presso l’archivio di Rai 3 in edizione francese con sottotitoli in italiano. L’intero copione del film venne tradotto da un gruppo di insegnanti Freinet di diversi paesi durante la XXX Ridef (rencontre internationale des éducateurs Freinet) a Reggio Emilia nel 2014. La traduzione dell’intera sceneggiatura  in italiano a cura di B. Bramini, M. Geninatti, C. Marengo, N. Vretenar (MCE) può essere richiesta a Leonardo Leonetti leonardo.leonetti@tin.it. Per richiedere il numero speciale della rivista dell’associazione dedicata  al  film in occorrenza del cinquantenario della morte di Freinet  (Bulletin des Amis de Freinet et de son mouvement n. 100/2017)  scrivere all’associazione ‘Amis de Freinet’  https://asso-amis-de-freinet.org

NOTA

Célestin Freinet, a partire dagli anni ’20, da giovane maestro nella scuola primaria pubblica francese, cerca di dar vita a una scuola  non  elitaria, non selettiva, non  autoritaria: una scuola per tutti/e, laica, tesa al riscatto socioculturale del popolo.

Introduce in classe la tipografia e la stampa, avvia la corrispondenza e la cooperativa scolastica per stimolare l’autonomia,  l’espressione e la circolazione del pensiero dei bambini e delle bambine, anche  di quelli/e delle classi più umili.

Consolida i rapporti con una cerchia sempre più ampia di insegnanti con cui si confronta e con cui fonda la  cooperativa C.E.L. (Cooperative de l’Einseignement Laic ) che inizia a produrre materiali per  modernizzare la scuola del popolo.

Dà vita alla Bibliothèque de travail (collana di monografie tematiche  per  insegnanti) e fonda una Rivista, ‘L’éducateur prolétarien’.

La sua pedagogia si diffonde anche fuori dalla Francia, ma suscita la reazione delle autorità che decretano per Freinet il  trasferimento d’ufficio.

Il maestro  si  dimette, allora,  dall’insegnamento statale e nel 1935 inaugura, con la moglie Elise, una scuola cooperativa a Vence, sostenuta anche dalla solidarietà di diverse organizzazioni operaie.

 

 

 




Metodo naturale di apprendimento

di Giancarlo Cavinato

Un pregiudizio molto diffuso è quello di giudicare la bontà di un metodo dalla rapidità con cui i bambini imparano a leggere e a scrivere. Si tenga invece sempre presente che migliore non è quel metodo che fa arrivar prima a certi risultati esteriori, ma quello che fa arrivare a quei risultati attraverso una conquista interiore; e per giungere a questo non è sempre bene (anzi per me è sempre male) accelerare i tempi: al bambino bisogna lasciare il tempo per maturare secondo la propria natura. Il metodo migliore quindi è quello che fornendo a ciascuno singolarmente l’aiuto necessario, permette ad ognuno di giungere quando e fin dove la propria natura consente’
(Giuseppe Tamagnini, circol. Interna n.1, Cooperativa Tipografia a scuola, ottobre 1952)

 Perché, dopo tante ricerche ed esperienze sul primo apprendimento,  non è ancora acquisita l’idea che, essendo l’apprendimento un processo, basato su capacità logiche, relazionali e linguistiche complesse, è diverso per ogni bambino, per ogni bambina, richiede per ciascuno/a tempi diversi che la scuola non può uniformare o accelerare a suo arbitrio?

Alcuni presupposti sulla lingua

  • Fra tutti gli apprendimenti scolastici, quello linguistico è quello in cui la scuola gioca e interviene solo in piccola percentuale ( ruolo dei condizionamenti socio-culturali, del background)
  • L’apprendimento linguistico è progressivo e circolare, non è lineare e cumulativo
  • L’apprendimento dipende dal contesto e dal clima di classe
  • L’apprendimento è frutto di maturazione e di costruzione progressiva, non di modelli esterni ( ogni nuovo termine non è un’etichetta che si aggiunge, ma comporta una ristrutturazione complessiva del sistema). Il linguaggio è legato alla maturazione del pensiero e alle capacità logiche.
  • La concezione della LINGUA da parte dell’insegnante è determinante ( quale idea di lingua parlata e lingua scritta e della loro interazione reciproca, quale idea di modello o di stimoli, di norma e di errore,..)
  • Si lavora non su apprendimenti normativi ma sulla COSTRUZIONE DI COMPETENZE sull’uso della lingua e sulla lingua in uso
  • L’apprendimento è socio-costruttivo, il significato non è conquista e possesso solo del singolo ma viene convenzionato nella comunità linguistica e si gioca nel contesto
  • Il significato non è nel testo ma nella testa di chi lo costruisce ( ruolo delle rappresentazioni mentali) e lo si  negozia  con gli altri.

Le categorizzazioni

Ci sono bambini che rischiano di essere etichettati come dislessici mentre la loro difficoltà nell’apprendimento della scrittura può essere originata da aspettative eccessive di genitori o insegnanti (  l’effetto alone) , o da condizionamenti legati a una lunga tradizione. Sentirsi addosso il peso di aspettative e di ansie eccessive (“a Natale dovrebbero saper scrivere” “come mai fa ancora tanti errori?“ “nell’altra classe sono più avanti…” “e se avesse qualche problema…”) può inibire i delicati processi messi in atto nell’apprendimento. Chi è incoraggiato a cercare e vede i suoi tentativi seguiti con interesse e le momentanee inadeguatezze come normali manovre di avvicinamento alla conquista della competenza ha molte più chances di chi è costretto a adeguarsi a un modello e ha continuamente timore di essere inadeguato e di sbagliare.

Essere etichettati, considerati “indietro”, “lenti”, “disattenti”, “probabilmente con qualche problema” ha sempre effetti secondari di non poco rilievo: timore, ansia, fuga dal compito… L’angoscia di un bambino che sente giudicati come “errori” i suoi tentativi aumenta, egli diviene teso, irritabile, si concentra su piccoli dettagli, teme sempre più di sbagliare.

Spesso essere preso in carico in un centro specialistico per la riabilitazione non contribuisce, quando si è al di fuori del centro, a ridare la fiducia necessaria a leggere con fluidità, senza la quale non vi è comprensione. Spesso il continuare a non rispondere alle aspettative, nonostante la terapia logopedica individualizzata, produce grande confusione, sfiducia in sé e frustrazione per non riuscire a rispondere adeguatamente alle aspettative.

Assistiamo oggi a una moltiplicazione spropositata di diagnosi di dislessia, di preoccupazioni delle famiglie, di indicazioni e controindicazioni agli insegnanti, alla produzione di una normativa dettagliata, alla demonizzazione del povero ‘metodo globale’, quasi assente dalle nostre scuole.[1]

Lettori o decifratori?

Le difficoltà di apprendimento della lettura possono essere risolte, almeno parzialmente, o, viceversa, rinforzate a seconda delle strategie che si adottano.

Parliamo di lettura vera, ossia di costruzione di significati a partire da un testo (la pedagogia Freinet e il metodo naturale propongono di  lavorare su testi ricchi di significato fin dal primo apprendimento)
Dice Freinet che un buon metodo non è né esclusivamente analitico né esclusivamente globale: è, appunto, naturale., perché accompagna i processi di ciascuno, le modalità di elaborazione  ricerca scoperta.

I processi che entrano in gioco nella lettoscrittura sono  complessi e in larga misura  indipendenti dalla capacità di decifrazione e di oralizzazione (lettura ad alta voce). Eppure i controlli e le diagnosi di dislessia si rifanno, spesso, a questo solo aspetto, il meno significativo e profondo.
Si è a lungo trascurato di ricercare su quale componente del processo di lettura entra in causa nella dislessia.

Smith, Foucambert e altri ricercatori osservano che il lettore dispone di due canali percettivi per accedere al significato della parola scritta: una via ‘visiva’, in base alla quale la forma scritta della parola è esplorata per trovare il significato utilizzando indizi che fanno leva sulla memoria, sul contesto, sullo spazio, su somiglianze e differenze percettive, su conoscenze pregresse, su rappresentazioni mentali, su ipotesi e anticipazioni, sull’evocazione.  L’altra via è quella ‘fonologica’, tramite la quale la parola scritta è convertita in una rappresentazione sonora a partire dalla quale si perviene al significato. per alcuni, con fatica, e non sempre.
Smith, Richaudeau, Foucambert [2] e altri ricercatori hanno indicato che la via visiva garantisce con maggior forza la lettura efficace; essi concludono che la dislessia non è, come da più parti si afferma, effetto dell’insegnamento con metodi globali o naturali ( molto poco  diffusi), ma, viceversa, si rafforza e si incista insistendo troppo, ed esclusivamente, sulla padronanza della corrispondenza grafema-fonema.

Quanto sia illusorio tale presupposto è facilmente dimostrabile: possiamo conoscere la corrispondenza segno-suono di un alfabeto  greco, latino, sanscrito, inglese, basco, ecc., ma se non conosciamo  le  forme delle parole-referenti non approdiamo al significato di quanto possiamo sonorizzare. Sonorizzare non è conoscere, capire.

Chi sa leggere veramente legge con gli occhi, non con le labbra.
Legge per campate, per ‘salti’ dell’occhio, per inferenze e completamenti, cerca relazioni fra i significati se è stato abituato a pensare che in ogni testo ci sono dei significati da scoprire.

Allenandosi poco a poco si costruisce dei punti di riferimento, che è nostro compito conoscere e rinforzare. I punti di riferimento sono personali: spaziali,  temporali, relazionali, collegati ad attività, agli scritti collocati alle pareti e nella realtà circostante.
Nel caso dell’apprendimento della lettura e della scrittura invece,  troppo spesso la cura del processo, il rispetto dei tempi, l’intervento sul contesto per renderlo stimolante e motivante (non si impara a leggere e a scrivere se non si fa l’esperienza delle straordinarie possibilità che questi mezzi offrono), l’osservazione delle strategie personali e di gruppo   vengono sostituiti dall’intervento specialistico che tronca la ricerca e evidenzia come “errori” le inevitabili incertezze del cammino.

E’ più che mai necessario, oggi,  curare il momento del primo apprendimento, riscoprire le potenzialità del Metodo Naturale (qualcosa di ben diverso dal metodo globale, che propone tappe predefinite) un metodo non-metodo che rispetta i percorsi individuali di ciascuno, diversi nei tempi e nelle modalità:

Punti di attenzione

1- La lettura silenziosa

Lo scritto è un linguaggio per l’occhio che l’attività di lettura, che è attività di ricerca,  struttura progressivamente.
Occorre superare l’insistenza esclusiva sull’insegnamento dei suoni per dare spazio alla formazione di strategie ideovisive. L’educazione del lettore  è, infatti, qualcosa di diverso e di ben più complesso dell’addestramento del decifratore; anche se il decifratore procede velocemente nella sonorizzazione, non significa che ne consegue automaticamente  la comprensione del significato.
Bisogna scegliere tra metodologie e percorsi che portino alla  produzione di senso e che non si limitino alla  produzione di suoni.

La lettura silenziosa permette di andare direttamente al significato senza dover passare per la decifrazione e l’oralizzazione: il circuito è più breve, va dall’occhio al cervello; sonorizzando, il circuito è occhio-bocca/orecchio- cervello. Richiede quindi uno sforzo maggiore che rallenta e, per i più ‘deboli’, si risolve in uno sforzo notevole, che fa sì che non vadano oltre il livello della decifrazione, senza arrivare a costruire il significato.
Perché scegliere di “controllare” la lettura secondo una procedura (la lettura ad alta voce) che rende più complesso il percorso?

Nell’oralizzare è vietato saltare una parola, indovinare (anche se l’anticipazione di senso è sufficiente a capire).
Lettura silenziosa è andare direttamente all’informazione (e all’emozione ad essa sottesa) in meno tempo di quello che occorre per dirla.
Che cosa impedisce che la lettura silenziosa prenda maggiormente piede nella scuola?
Forse la lettura ad alta voce rassicura di più l’adulto che in questo modo ha l’impressione di conservare il controllo?

2-  La ‘ginnastica dell’occhio’

Ricerche neurofisiologiche hanno dimostrato che un lettore ‘esperto’ legge con successo trentamila parole in meno di un’ora, perché scorre velocemente la pagina concentrandosi sul significato invece che sulla sequenza di suoni. Un ‘decifratore’ nello stesso tempo ne legge meno di duemila.
L’occhio scorre sulla pagina scritta e si sofferma cogliendo delle ‘campate visive’, parti di parole o espressioni,  all’incirca di 10-15 segni, es.: ‘una porta verde’, ‘il rumore del vento’.
Mentre passa da una campata all’altra, spostandosi, l’occhio non vede, ma il cervello ha il tempo di istituire delle connessioni; quando si sofferma su una campata, l’occhio guarda, riconosce, invia il messaggio al cervello. Il quale può anche fare ipotesi e anticipazioni. Ad es. guardando ‘hanno giocato una part….’ si può ipotizzare, completando, che si tratti di una partita.

Il nostro compito è di favorire questo tipo di lettura, in cui si diventa progressivamente più abili  ampliando le campate attraverso una mobilizzazione degli occhi. Si può aiutare ad acquisire abilità in questa lettura ‘visiva’ proponendo vari ‘giochi’:  leggere a specchio, dall’alto al basso e viceversa, in cerchio, in diagonale, da sinistra a destra e da destra a sinistra, presentando gruppi di parole su diversi cartelli che vengono via via tolti e a cui ne succedono altri incentivando così  una lettura ‘a colpo d’occhio’.

  1. i processi di gruppo

La lettura, inoltre, è un’attività sociale e intersoggettiva, si leggono messaggi scritti intenzionalmente da un emittente per dei destinatari, che devono ricostruirne il senso. Ma il significato non può essere attribuito arbitrariamente in modo individuale, è frutto di un patto sociale, di una convenzione; quindi  se non c’è confronto, negoziazione, condivisione, non c’è costruzione del significato e la lettura è un’attività meccanica vuota di senso.
E’ attraverso esperienze di gruppo ( la ‘cooperazione interpretativa’) che si struttura la competenza.

4- la struttura del codice

Le ricerche di E.Ferreiro e A. Teberosky [3] hanno evidenziato che il codice scritto viene via via strutturandosi a seguito della progressiva scoperta e sistematizzazione di tanti aspetti: che c’è una dimensione minima e una massima delle parole, che le stesse sono separate (differentemente dal flusso del parlato), che il sistema di scrittura ha una direzione, che traduce con segni appositi gli aspetti paralinguistici e prosodici del parlato che i termini sono convenzionali e arbitrari e frasi e testi si costituiscono in base ad operazioni di selezione e combinazione, che il codice ha una duplice articolazione, sono tutti aspetti che verranno sistematizzandosi per tentativi esplorazioni confronti osservazioni. non si apprendono per somministrazione di regolette.

5 –  La lettura dell’adulto

la lettura di buone storie da parte dell’adulto è fondamentale. ‘Insegna’ le tonalità, le emozioni, le pause, il respiro delle parole, affascina, fa godere la bellezza data dalla  coerenza e completezza nella vicende narrate. Introduce a mondi. E’ questo il tramite per appassionare alla lettura
Chi ascolta qualcuno che legge, in particolare una narrazione, è già, in qualche modo, un lettore, perché compie alcune operazioni fondamentali identiche a quelle che sono necessarie nella lettura autonoma: coglie sequenze di parole costruendo un significato, che non è dato dalla somma dei significati delle singole parole; tiene a mente le varie sequenze di significati per costruire e ricostruire via via il significato complessivo; mettendo insieme gli indizi, formula ipotesi sul seguito della vicenda che sta seguendo; a volte confronta la sua ipotesi con ciò che sente successivamente ed è costretto a modificarla; scopre, a volte, che gli stessi elementi vengono nominati con parole diverse (la volpe, l’animale, l’imbrogliona…); coglie il ritmo, l’intonazione, le pause, come elementi del significato; costruisce immagini; conserva nella memoria immagini e vicende che possono essere ricostruite e riformulate con parole diverse; reagisce agli stimoli con risposte emotive: piacere, repulsione, empatia con un personaggio, sospensione, paura, soddisfazione…

6 – La comprensione del significato

Perché un testo venga compreso è necessario che il lettore abbia alcune  conoscenze di base:
anzitutto una qualche conoscenza della situazione di cui si parla. Per capire un racconto ambientato nell’antica Roma, ad esempio, in cui si parli di templi e vestali, di senato e di terme, di schiavi e di bighe, sono necessarie alcune informazioni sulla vita quotidiana di quel tempo e di quella città.

E’ necessario, poi, che sia conosciuto  il significato della maggior parte dei termini, (Foucmbert dice che occorre che di un testo inizialmente siano noti l’80% dei termini,  diminuendo via via questa quota) avendo l’accortezza, quando si lavora con bambini e anche con giovani studenti, di tener conto del fatto che spesso risultano sconosciuti anche termini per noi semplici e scontati. Perché ci sia comprensione  bisogna graduare, nei testi,  la presenza di termini lontani dall’esperienza orale.

Ma ci sono altri “scogli” che rendono difficile la comprensione.
Ad esempio i coreferenti, cioè le parole diverse che, di volta in volta, in un testo, possono indicare lo stesso elemento (ad esempio un personaggio famoso della letteratura viene  indicato, di volta in volta, come ‘la monaca’, Gertrude’, ‘la poveretta’, ‘la sciagurata’ … si tratta sempre della stessa persona ed è scontato per un lettore esperto, non è lo stesso per un lettore inesperto o per un bambino, spesso in difficoltà anche  di fronte a testi semplici, se un insegnante attento non stimola la riflessione.

Ci sono poi le  espressioni che rinviano ad altre parti del testo, e costringono a compiere operazioni non sempre facili di collegamento: ad esempio se leggo  ‘glielo aveva detto ’ devo chiedermi chi aveva detto cosa e a chi richiamando alla memoria sequenze narrative lette in precedenza.

Possiamo trovare, inoltre, in particolare nei dialoghi, elementi deittici, cioè espressioni che rinviano ad una  situazione extra testuale (ad esempio ‘pensava che si sarebbero incontrati lassù’).
E’ importante allenare a una lettura attenta finalizzata alla comprensione, ponendo anche dei problemi per la cui soluzione sia necessaria la rilettura. Un problema interessante è, ad esempio, la richiesta di una lettura inventariale, cioè di elencare i personaggi, i luoghi dove si svolge la storia e i tempi. La rilettura è una pratica quanto mai utile.

Altre operazioni che aiutano la comprensione  sono la parafrasi (ricostruire usando parole diverse) e la sintesi, che costringe a individuare le informazioni importanti.

Lavorare in gruppo, con la possibilità di confrontarsi e di prendere in considerazione diverse ipotesi e soluzioni è certo la strategia migliore. Si può ‘mettere in gioco ’ la ricostruzione del testo di partenza: la sintesi costruita da un gruppo viene passata a un gruppo che non conosce il testo originale e che ha il compito di espandere. Al termine si confrontano il testo di partenza, la sintesi prodotta e l’espansione individuando i ‘salti’ di informazioni che si traducono in interpretazioni parziali e in ricostruzioni diverse. Per esigenze di sintesi, il gruppo si trova a dover cercare le strategie più economiche per evitare ridondanze e dare le informazioni essenziali.

Un tipo di sintesi interessante è la nominalizzazione, ossia la sintesi di una vicenda fatta usando solo sostantivi, cioè termini più astratti rispetto agli originali, (es.: invece di scrivere ‘il cacciatore si perse nel bosco’ un gruppo può trovare la formula ‘perdita nel bosco’, invece di ‘alla fine il bambino fu ritrovato’, si può scrivere ‘il ritrovamento del bambino’).

Un’altra attività che aiuta la sintesi e la comprensione è la  divisione in sequenze  (si può fare in molti modi diversi, concordando i criteri, non è mai opportuno imporre modalità rigide) e la titolazione delle sequenze ( o la ricerca di titoli diversi per un testo): il titolo è la massima sintesi possibile, la ricerca del titolo è un’operazione logica complessa e molto utile)

Una lettura attenta al significato permette di compiere inferenze, di dedurre, cioè, informazioni che nel testo non vengono dette esplicitamente.
La capacità di compiere inferenze che va opportunamente stimolata, permette anche di ipotizzare, in base al contesto, il significato di singoli termini non conosciuti.

7 – I punti di riferimento personali

In particolare nella fase del primo apprendimento, ma anche successivamente, è importante, per favorire la memorizzazione e il reperimento di significati, evidenziare le caratteristiche visive del testo.
E’ importante che siano ben evidenziate le varie parti, le pause tra una parte e l’altra, le eventuali parti dialogate…
Il tipo di carattere, il colore diverso, la spaziatura (si può andare a capo ad ogni unità di significato), la presenza di immagini, la posizione di un testo sulla parete (nel caso venga esposto), …  costituiscono altrettanti punti di riferimento che aiutano la memorizzazione e l’apprendimento.
Ogni bambino ha però i propri punti di riferimento personali, cioè gli elementi su cui  si appoggia per costruire il significato, e può essere incoraggiato a indicarli. Possono essere il colore, la forma, la lunghezza delle parole, la collocazione in un libro o sulla parete, il ricordo del momento in cui il testo è stato prodotto o collocato,  il riconoscimento di ‘pezzi’ già trovati in altri testi…
L’apprendimento viene facilitato se si tiene sempre presente che la scrittura è linguaggio per l’occhio  e che  sequenze significative vengono memorizzate meglio di sequenze o segni privi di significato, per i quali non ci può essere alcuna motivazione ad apprendere.

8 – I giochi di ipotesi e anticipazioni

Si può giocare su inizi, finali, con cloze test ( testi con parole mancanti da ‘indovinare’); molti sono i modi per incentivare una lettura non lineare e sequenziale ma fatta di salti, andirivieni, percorsi dentro il testo, suscitando interrogativi ed evitando lo spreco di energia che comporta una faticosa lettura lineare di lettere e di sillabe.
La lettura di storie, favole, racconti da parte dell’adulto abitua a ‘sentire’ se si tratta di una favola, di una cronaca, di una filastrocca, …; riconoscere di che testo si tratta, riconoscere la tipologia testuale aiuta nella formulazione di  ipotesi e nella comprensione. Con l’interiorizzazione di una varietà di situazioni narrative si acquisiscono copioni, schemi di riferimento, sequenze.
Anche l’abitudine  a leggere le immagini contribuisce a strutturare la capacità di leggere in modo avvertito. Storie a disegni in sequenza, con o senza didascalie, da proiettare o appendere alle pareti, creano un’abitudine all’analisi, al collegamento, a immaginare il seguito.

9 –  La pratica della lettura funzionale

Non tutti i testi si leggono allo stesso modo. Non usiamo la stessa strategia per leggere un romanzo, le istruzioni per l’uso di un elettrodomestico, una ricetta, l’orario ferroviario….
Si scorrono con ritmi e velocità diverse testi diversi in base a che cosa si cerca, e per leggere bisogna avere un progetto su ciò che si va a cercare ( divertimento, emozioni, ricerca di una precisa informazione, indicazioni per  confezionare o utilizzare qualcosa, …)
In base al progetto la lettura può essere analitica o globale, lenta e accurata o veloce e superficiale, con ritorni indietro o in successione… a seconda dei testi che si utilizzano. Sono tutte situazioni di lettura funzionale, cioè di lettura finalizzata a qualcosa di preciso, pratiche, quindi, di autentica lettura, che dovrebbero  avere cittadinanza nella scuola, al posto di ‘allenamenti’ privi di significato. Opportune situazioni di gioco possono familiarizzare ulteriormente con la pratica della lettura funzionale: scoprire il contenuto di biglietti, regolamenti, consegne, consegne da scorrere silenziosamente eseguendo poi quanto viene richiesto lasciando che gli altri indovinino cosa c’era scritto, sono tutte attività di uso funzionale dello scritto.
Come pure può essere di grande utilità l’abitudine a leggere le indicazioni per costruire un oggetto, per eseguire un gioco o un’attività.

In conclusione, leggere è, anche, selezionare, mettere a fuoco ciò che serve e saltare ciò che non interessa, saltare, a volte,  la parola che non si capisce per inferirla dal contesto.
Tutt’altro, dunque, che un’operazione meccanica.

[1]  Ferruccio Deva in un articolo  su ‘Scuola e città’  descriveva una ricerca quantitativa compiuta su 1025 classi prime elementari nell’a.s. 1984/1985, da cui risulta una assoluta prevalenza dei cosiddetti ‘metodi misti’ o analitico-sintetici (67,08%), seguiti dai metodi sintetici o fonico-sillabici ( 21%) e da un’esigua percentuale di metodi analitici o globali (9,6%).

[2] Foucambert J., ‘Come si diventa lettori’ (1978) Emme, Milano

[3] Ferreiro E., Teberosky A., ‘La costruzione della lingua scritta nel bambino’ (1985), Giunti, Firenze




Variazioni sul “tema”

di Maurizio Parodi

A scuola si scrivono soprattutto temi: il docente detta un breve testo nel quale sono riportati gli argomenti, e talvolta indicazioni o esplicite richieste di sviluppo, che gli alunni dovranno trattare, ognuno per conto proprio, in un tempo dato. Pratica diffusissima, prevalente anche nelle prove d’esame, così come in molti concorsi, ma non per questo meno irrazionale; un’inveterata abitudine (pseudo)didattica che non ha fondamento pedagogico alcuno, per la quale non è possibile rivendicare nemmeno una qualche legittimazione di natura istituzionale.

Già i Programmi della scuola elementare del 1985 erano, in proposito, molto chiari: la scuola deve offrire al bambino la possibilità e l’occasione di scrivere, deve cioè consentirgli di scoprire che la scrittura è utile, interessante, divertente persino; un’occupazione stimolante e piacevole, e non una preoccupazione più o meno assillante, l’esercizio di una facoltà portentosa e creativa, e non una esercitazione più o meno tediosa.
L’alunno deve essere sollecitato all’attività di scrittura in relazione alla gamma più ampia possibile di funzioni, senza ricorrere a pratiche riduttive che mortifichino le sue scelte linguistiche. È essenziale, comunque, che, fin dal primo anno della scuola elementare, si propongano stimoli e occasioni realmente motivanti il fanciullo a scrivere.

Non dissimili le Indicazioni nazionali per il primo ciclo del 2012.
In particolare, l’insegnante di italiano fornisce le indicazioni essenziali per la produzione di testi per lo studio (ad esempio schema, riassunto, esposizione di argomenti, relazione di attività e progetti svolti nelle varie discipline), funzionali (ad esempio istruzioni, questionari), narrativi, espositivi e argomentativi. Tali testi possono muovere da esperienze concrete, da conoscenze condivise, da scopi reali, evitando trattazioni generiche e luoghi comuni.

Ebbene, nonostante la chiarezza e l’apparente ovvietà delle indicazioni richiamate, duole constatare come in molte classi lo scrivere rappresenti soltanto un “obbligo scolastico” del quale il tema costituisce l’espressione più emblematica.
Sorprende la longevità di questa peculiare forma di scrittura. Il tema è il testo scolastico per antonomasia; nessuno sfugge a cotanta prova: le fortune e le disgrazie (non solo scolastiche) di moltissimi studenti sono affidate innanzitutto alla capacità di svolgere correttamente un tema. Di qui il precoce addestramento (i “pensierini”), coincidente, quasi sempre, con la semplice “esposizione” (all’errore).

Si pensi invece allo scarso impiego delle tecniche ideate e sperimentate da Célestin Freinet: il testo collettivo, la corrispondenza o il giornale; luoghi (laboratori) di costruzione, di affinamento e di socializzazione delle capacità espressive e comunicative degli “apprendisti scrittori”. Testi strutturalmente diversi che sollecitano abilità cognitive e metacognitive destinate, altrimenti, a sclerotizzarsi, accomunati dal riferimento a uno “sfondo”, a un “ambiente di apprendimento” significativo per l’alunno, impegnato non in “compiti” sterili e imponderabili, ma nella realizzazione di progetti necessitati da esigenze, bisogni e (finanche) desideri autenticamente condivisi. La lingua si concreta nei suoi diversi usi e nei suoi diversi scopi; e ogni scopo determina la forma del testo – non più lo scrivere in astratto, il “tema” generico, senza senso, oltre quello di produrre comunque qualche paginetta.

Forse la ragione dell’immarcescibile successo del tema è più di natura ideologica che tecnica, e risiede nel carattere simbolico dell’impegno. Non è mai stato dimostrato, infatti, che la mera ripetizione di questo esercizio e le correzioni episodiche, spesso lapidarie, talvolta sferzanti, annotate dal docente sugli elaborati, contribuiscano a migliorare la qualità della scrittura. Non si impara a scrivere collezionando freghi più o meno variopinti, annotazioni occasionali, valutazioni sommarie, voti: in questo modo, semmai, si impara a non scrivere, si mortifica la scrittura. Non aiutano a scrivere meglio le stesse note di plauso e le espressioni di apprezzamento di cui possono fregiarsi i più dotati, coloro che comunque scriverebbero in modo corretto e magari “personale”, che dalla ripetizione dell’esercizio (di acclarate capacità) non traggono giovamento alcuno, e tutt’al più manifestano, per mancanza di stimoli adeguati, un indebolimento della motivazione e dell’interesse (disinteressato) a scrivere.

È invece palese il carattere irriducibilmente individuale della prestazione richiesta. Ognuno scrive per proprio conto (non possiamo dire “per sé”, dal momento che esistono forme di scrittura, molto personali ma non meno pregevoli, che hanno per destinatario proprio chi scrive, come il diario o l’autobiografia, che sarebbe improprio associare a una scrittura di greve sapore burocratico), incurante, per dettato magistrale, dei compagni, pur impegnati, tutti, nel medesimo compito: guai a interessarsi all’altro; ogni forma di scambio e collaborazione è bandita. Né d’altra parte si può ragionevolmente presumere la disponibilità degli scolari in tal senso (anche se non di rado si verificano episodi di solidarietà clandestina, a dimostrare il forte impulso alla cooperazione naturalmente presente tra i pari), dato il contesto nel quale operano, improntato alla competizione, all’affermazione del singolo (“su” e non “con” gli altri).

Va poi evidenziato come il tema sia una tipica attività autoreferenziale perché la comunicazione è scarnificata, non ha ragion d’essere, si risolve in se stessa. Funziona solo nella e per la scuola. In essa lo studente aliena le proprie facoltà espressive, costretto a realizzare un prodotto il cui “valore d’uso”, inesistente, è sacrificato al “valore di scambio”: l’elaborato in cambio del voto, il solo valore istituzionalmente riconosciuto. Una sorta di mercificazione del pensiero, alla quale lo scolaro si dispone consapevole che tutto ciò che scrive (di “sbagliato”) potrà essere usato contro di lui; così vi attende non disdegnando espedienti anche deplorevoli, senza farsi scrupolo di ricorrere a meschini sotterfugi e squallidi imbrogli (legittimati dalla natura, appunto, estorsiva dell’operazione), praticati dagli stessi studenti divenuti ora insegnanti, perciò perseguiti con accanimento oppure blandamente tollerati, senza che ci si interroghi sulla miseria, innanzitutto pedagogica, di una scrittura mercenaria, sulla mortificazione, spesso definitiva, di una delle più eminenti attitudini umane.

Forse per queste ragioni, ancora oggi, lo svolgimento del tema è un rituale considerato irrinunciabile, un adempimento canonico universalmente invocato e prescritto… nonostante tutto; nonostante l’inammissibilità didattica del tema convenzionalmente inteso sia stata asserita con chiarezza nei Programmi dell’85, evidentemente inapplicati, come sempre avviene, quando la prescrizione contraddica pratiche inveterate e indiscutibili.
Dettare alla classe un argomento quale spunto per alunni a svolgere la loro composizione scritta non è pratica didattica accettabile se, preventivamente, non ci si sarà adoperati a far convergere su quell’argomento l’interesse degli alunni medesimi, provocando l’emergere di una non artificiosa motivazione del fanciullo a comunicare per iscritto gli stati d’animo, le osservazioni, le riflessioni, i giudizi che egli è venuto maturando.

La circostanza, ritenuta da molti (docenti) attenuante, che gli argomenti trattati nei temi siano presentati e approfonditi prima dello svolgimento (cosa che per altro non sempre avviene), risulta dunque del tutto ininfluente: adoperandosi in tal senso si può, forse, «far convergere su quell’argomento l’interesse degli alunni», ma nel caso del tema il requisito della autenticità della comunicazione («l’emergere di una non artificiosa motivazione del fanciullo a comunicare per iscritto…») viene necessariamente meno, per il semplice motivo che non vi è comunicazione, mancandone i requisiti essenziali: lo scopo e il destinatario. Sempre che non si voglia assumere a “scopo”, quello di superare la prova imposta dall’insegnante, “destinatario” esclusivo (obbligato e fittizio) di un testo impersonale, scritto per forza e in assenza di un interlocutore vero.

Il testo sui Saperi essenziali (1998) aveva ripreso, pur tra molte cautele, la medesima impostazione.
Bisogna preparare tutti i giovani alle tecniche della scrittura e della lettura, fornendo loro capacità fondamentali che oggi risultano compromesse (nonostante i molti temi svolti a scuola – n.d.r.).
Si impone quindi fin dall’inizio del percorso scolastico la necessità di valorizzare i metodi idonei a dar padronanza della lingua italiana ai giovani, e a farne comprendere la struttura. Andranno ridisegnati metodi di analisi del discorso, di sintesi e parafrasi testuale, e di controllo della parola nelle diverse modalità enunciative. Soprattutto nelle prime fasi scolastiche occorre provvedere alla sostituzione, almeno parziale, di alcuni sistemi legati alla didattica tradizionale: il “tema” come composizione retorica in molti casi non è idoneo agli scopi ora indicati.

Quando uno scolaro scrive un tema, scrive a nessuno, per nessuna ragione (che non sia il dovere di farlo), tanto meno per sé, mentre, come ci ricorda Tullio de Mauro, l’educazione linguistica non si fa solo lavorando in astratto su parole, forme, tipi di testo, ma comporta l’esperienza del commercio con gli altri esseri umani.