La legge 104 ha trent’anni e si vedono tutti

di Flavio Fogarolo

Ho fatto l’insegnante di sostegno negli Anni ’80, quindi prima della 104, e posso assicurare che con questa Legge i passi in avanti sono stati enormi rispetto all’organizzazione, al coinvolgimento delle ASL e dei territori, alla dotazione di risorse e altro. Ma poi tutto è rimasto uguale.
È vero che la 104 è stata spesso aggiornata, ma per quel che riguarda la scuola di fatto è sempre la stessa. Si è intervenuti più sull’università ma rispetto all’inclusione scolastica c’è stato solo il DL 66 del 2017, di fatto mai entrato realmente in vigore.

L’unico decreto attuativo approvato, dei tanti previsti, è stato il DM 182, quello sul nuovo PEI, annullato dal TAR. Varie novità introdotte che hanno modificato la L. 104, come le nuove procedure di certificazione, il Profilo di Funzionamento, i GIT, sono ancora inapplicate e inapplicabili, mentre è formalmente abrogato, creando di fatto un pesante vuoto normativo, l’atto di indirizzo del 1994 (DPR del 24 febbraio) che era alla base di molte procedure della nostra inclusione.
La 104 ha trent’anni e per quel che riguarda la scuola è quindi sempre la stessa, anche se la realtà della nostra inclusione (o “integrazione”, come si diceva allora) è profondamente cambiata.

Cominciamo dai numeri: nel 1992 nelle scuole statali c’erano circa 100.000 alunni con disabilità, 112.000 con le private, che rappresentavano poco più dell’1% della popolazione scolastica complessiva. Adesso sono oltre 300.000 (report ISTAT 2022), quindi triplicati in valore assoluto, ma, considerando che la popolazione scolastica nel frattempo è nettamente diminuita, si arriva ora in percentuale al 3,6%, con un incremento quindi assai più marcato.

Nel 1992 gli insegnanti di sostegno erano circa 50.000, adesso sono 180.000. Anche in questo caso è interessante analizzare il dato percentuale (insegnanti di sostegno sul totale degli insegnanti) e si scopre che, essendo diminuito il corpo docente complessivo, la percentuale di quelli di sostegno è aumentata di oltre 4 volte: erano circa il 6% nel 1992 (50.000 su 800.000) mentre adesso sono il 26% (180.000 su 684.000).

Ma non è solo questione di numeri.

Gli insegnanti di sostegno specializzati di cui parlava la L. 104 nel 1992 erano assai diversi da quelli di adesso. Non si vuole ovviamente colpevolizzare nessuno di loro, ma era evidente che quando il legislatore di allora diceva che “Nelle scuole di ogni ordine e grado […] sono garantite attività di sostegno mediante l’assegnazione di docenti specializzati (art. 13 c. 3)” intendeva che ci dovesse essere qualcuno che sa come si fa a insegnare ad alunni con esigenze diverse, e deve quindi leggere e conoscere il braille se c’è un cieco, comunicare efficacemente con un sordo, rapportarsi in modo adeguato con un alunno con autismo ecc.
Nel 1992 gli insegnanti di sostegno si formavano seguendo sostanzialmente gli stessi percorsi dei docenti delle vecchie scuole speciali, i corsi erano ancora biennali anche se da poco erano diventati “polivalenti”, ossia validi per tutte le minorazioni.
Poi, visto che ciechi e sordi erano pochi e la maggior parte dei docenti specializzati non avrebbe mai insegnato a nessuno di loro, si è pensato bene di eliminare tutti gli insegnamenti specifici rinviando ad altre modalità formative, di fatto mai attivate, le formazioni sulle esigenze particolari.

La 104 del 1992 dava enorme importanza al ruolo delle ASL, chiamate non solo a “certificare” gli alunni con disabilità ma a gestire assieme alla scuola (“congiuntamente” diceva il vecchio comma 5 dell’art 12, abrogato nel 2019) tutto il processo di inclusione, dalla progettazione alla verifica degli esiti.

La reale applicazione negli anni successivi è stata molto diversa, con differenze territoriali enormi per cui in certe regioni d’Italia le ASL, spesso sostituite in toto da soggetti privati in convenzione, nelle scuole non hanno mai messo piede fisicamente e di verifiche neppure a parlarne. Il legislatore nel 2017, con il DL 66 confermato nel 2019, ha pensato bene di adeguarsi a questa situazione eliminando la gestione congiunta, lasciando tutta la responsabilità alle scuole e assegnando all’ASL un generico ruolo di supporto. Di fatto mettendo in crisi il servizio anche nelle regioni dove, nonostante tutto, un supporto effettivo, a base di reali incontri, funzionava ancora.

Le differenze territoriali rappresentano oggi una delle maggiori criticità della nostra inclusione, rivelando quanto sia inattuato l’impegno ad assicurare ovunque i diritti fondamentali. Nei cinque articoli della 104 dedicati all’inclusione scolastica, dal n. 12 al n. 16, il termine “garantito”, o espressioni analoghe, è usato una decina di volte ma la realtà è totalmente diversa: oggi il nostro sistema scolastico non riesce per nulla a “garantire” un servizio adeguato di istruzione e educazione per gli alunni con disabilità, ossia a far sì che in qualsiasi situazione, in ogni scuola l’Italia, il livello delle prestazioni risponda a livelli minimi di erogazione. Ne risulta un quadro molto diversificato, anche nello stesso territorio, con scuole distanti tra loro solo pochi chilometri che possono offrire servizi radicalmente diversi, dall’eccellenza educativa e inclusiva, a forme sistematiche di ghettizzazione dell’alunno disabile e del suo insegnante di sostegno.

Dal 2014 gestisco, con alcuni collaboratori, un gruppo Facebook[1] di consulenza sulla normativa che regola la nostra inclusione scolastica, destinato a insegnanti e genitori, e mi arrivano ogni giorno tante testimonianze allarmanti, con storie di disservizi e di esclusione.

Ne riporto solo una, di pochi giorni fa:

Mio figlio rientra nello spettro autistico, asperger alto funzionamento. Doveva avere 5 ore e mezza di sostegno ma per tutta una serie di circostanze il maestro è stato presente solo il primo mese, poi sospeso ufficialmente a gennaio.
Le maestre non hanno mai seguito le indicazioni della terapista, rendendo il clima pesante… Il bambino è in continuo sovraccarico e si sono manifestati diversi comportamenti “problema” che hanno gestito con note disciplinari.
Di fronte all’ennesima giornata no, ieri all’uscita mi è stato chiesto dalle insegnanti di tenerlo a casa, in quanto la sua presenza a scuola richiede solo una sorveglianza, visto che non vuol più lavorare.
Premetto che a casa o a terapia, a parte la tensione che deriva da questo vissuto scolastico traumatico, è un bambino assolutamente diverso.
È giusta questa richiesta delle insegnanti, di non farlo frequentare? Se non lo vogliono a scuola posso chiedere almeno la DAD?

In sintesi: ci sono genitori che raccontano di un figlio con disabilità, lasciato senza sostegno ma allontanato da scuola perché nessuno lo sa tenere, che chiedono se è possibile avere almeno la DAD.
Cosa è cambiato dal 1992? Vuoi mettere: adesso abbiamo la DAD!

[1] “Normativa inclusione” https://www.facebook.com/groups/1500673850185239




A trent’anni dalla legge 104. Il contributo della mia generazione

di Paolo Fasce

La legge 104 del 5 febbraio 1992 è una pietra miliare nell’ambito della tutela dei diritti delle persone con disabilità e il giorno in cui scrivo questo contributo intellettuale, sociale e civile della generazione che ha preceduto la mia nelle responsabilità operative del paese compie trent’anni.
Quando è stata emanata, Giulio Andreotti era presidente del Consiglio dei Ministri, la maggioranza parlamentare era quella del quadripartito (DC-PSI-PSDI-PLI) e il presidente della Repubblica era, nel suo declinare, Francesco Cossiga.
Il 17 febbraio di quell’anno, Antonio Di Pietro chiedeva l’arresto di Mario Chiesa e quello che si era appena avviato quale anno del centenario della fondazione del Partito Socialista Italiano, si sarebbe sostanzialmente rivelato essere l’ultimo di quella gloriosa esperienza.

Il 5 febbraio 1992 lo scrivente non aveva ancora compiuto 25 anni, non immaginava che sarebbe diventato insegnante e poi dirigente scolastico, progettava il proprio Programma Erasmus e assisteva alla trasformazione della propria città in polo turistico grazie all’esposizione universale delle colombiadi che regalavano il Porto Antico al mondo attraverso le celebrazioni del cinquecentenario della scoperta dell’America.
Scoperta da parte del mondo occidentale, beninteso.
Questa lunga premessa al semplice fine di inquadrare il contesto storico che mostra chiaramente come questo paese abbia viaggiato su due binari.

Quello del malaffare emerso con Tangentopoli, e dal quale stimo non siamo mai usciti, e quello delle questioni alte, affrontate alla luce del dettato costituzionale e sulla spinta della società civile e che ha sostenuto le evoluzioni emerse in seno al pensiero scientifico, in particolare quello pedagogico, accolto e sviluppato dal mondo politico nelle commissioni parlamentari. Un paese di contraddizioni quotidiane, quindi.
Da allora sono passati trent’anni. Il panorama politico della mia gioventù è stato travolto e sostituito da altri pensieri politici e altre modalità di aggregazione che sono intervenute in tutto il mondo non solo a causa dell’avvento della tecnologia, ma anche per evoluzioni socio culturali che la realtà ci costringe ad affrontare. Spesso, lo stile è di tipo oppositivo, accondisceso e accolto da forze politiche ciniche a caccia di facile consenso, e l’uscita da logiche reattive non è facile sia per limiti personali che per l’insieme di relazioni entro le quali ciascuno di noi è inserito.
Trent’anni non sono passati invano, almeno nel mondo scolastico, e la lettura della Legge 104 effettuata oggi è significativa e istruttiva. Se da un lato è un approdo alto della “prima Repubblica”, figlio di evoluzioni che partono con la Costituzione, attraversano la scuola media unica (1962) e la chiusura delle classi differenziali (1971-1977), d’altro canto il suo lessico è oggi irritante perché quanto oggi conosciamo grazie all’ICF sembra tanto distante da quel vocabolo tante volte utilizzato: handicappati. Oggi parliamo di persone con disabilità che apprezziamo in molti campi, come ad esempio quello delle paralimpiadi, ma che continuiamo a celare per difficoltà che spesso non riusciamo a superare nel campo della disabilità mentale e comportamentale.
Nel contesto dei contributi che le generazioni successive a quelle della “prima Repubblica”, non possiamo tralasciare le linee guida sull’inclusione scolastica del 2009, né la Legge 170 sui DSA e le circolari successive che hanno introdotto il tema dei bisogni educativi speciali e non possiamo che essere orgogliosi del comma 961 della Legge 178/2020 che istituisce la formazione finalmente obbligatoria, per davvero, per tutti gli/le insegnanti con studenti o studentesse disabili, in questo caso orientata all’inclusione scolastica: “Il fondo …, è incrementato di 10 milioni di euro per l’anno 2021 destinati alla realizzazione di interventi di formazione obbligatoria del personale docente impegnato nelle classi con alunni con disabilità. Tale formazione è finalizzata all’inclusione scolastica dell’alunno con disabilità e a garantire il principio di contitolarità nella presa in carico dell’alunno stesso”.
Dico “finalmente obbligatoria” giacché il comma 124 della Legge 107 che istituiva la formazione “obbligatoria, permanente e strutturale” è svuotato di senso per il fatto che la delibera in merito alla sua attuazione è demandata al generalmente riottoso Collegio dei Docenti che, con grave danno per il credito sociale dei docenti e per la crescita professionale possibile in trenta/quarant’anni di carriera sui temi didattici e pedagogici alla portata di qualunque “ingenuo volenteroso”, si pensa più come Assemblea Sindacale che come consesso di professionisti.
Vediamo quindi quali sono i contributi che la mia generazione è chiamata a dare per restare nella tradizione alta della “pedagogia ministeriale e normativa” incarnata dalla legislazione oggi vigente, con un occhio sulla scuola e uno sulla 104.
Per quel che riguarda la prima, stante l’evidente indisponibilità sindacale a convergere verso una scuola pedagogica, giacché i contratti che questi sono disponibili a firmare sono mediazioni al ribasso centrate sulle esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori, a detrimento delle necessità dell’utenza, scaricando le contraddizioni evidenti, sui poveri dirigenti scolastici che dovrebbero essere selezionati unicamente sulle loro capacità di moral suasion, giacché raramente hanno a disposizione altri strumenti.
La soluzione di questo grave problema è chiara ed è tutta politica: occorre riscrivere il testo unico figlio dei “decreti delegati” e che nella versione vigente compirà 30 anni a breve (ma ne ha di fatto cinquanta). Tale soluzione ci è indicata proprio dalla Legge 178 che ha reso diffusamente possibile quella formazione necessaria ed elusa per molti lustri da chi non volesse esserne coinvolto.
Per quel che riguarda gli aggiornamenti della Legge 104, mi sento di indicare solo alcuni ritocchi estetici (una riscrittura in linguaggio moderno e non lesivo delle persone) e pochi sostanziali. In particolare quelli che affrontino il grave problemi degli abusi in merito ai permessi che sono tanto doverosi nei casi realmente aventi diritto, quanto osceni negli abusi che è troppo difficile fare emergere.
Fatto questo, la mia generazione potrà passare serenamente il testimone alle donne e agli uomini del nuovo millennio.




Ripensare la scuola e le sue responsabilità

di Raimondo Giunta

Le polemiche roventi scoppiate sull’alternanza/scuola lavoro, in seguito alla tragica morte di un giovane nel suo ultimo giorno di stage in un’azienda friulana, devono essere colte come una seria occasione per ripensare il rapporto tra il sistema di istruzione e formazione e la società. Una questione che deve partire per forza dalla ricognizione dei compiti e delle responsabilità del sistema scolastico alla luce di ciò che ne costituisce l’identità.

La scuola nel corso della storia progressivamente ha dovuto svolgere tutti i compiti che la società le ha dato di volta in volta per sostituire le agenzie formative che avevano portato a termine la propria missione o che non sono state più in grado di affrontarla: la chiesa, la famiglia, la bottega artigiana, le associazioni di mestiere, etc. . Compiti di cultura e di educazione; compiti di formazione professionale. Una situazione inevitabile che si è posta da sempre come condizione della sua legittimità sociale: non è comprensibile, oggi, l’esistenza di un sistema scolastico al di fuori di questa responsabilità.

Scuola e società fino all’altro ieri hanno avuto un rapporto di reciproca fiducia e di scambio alla pari: si sono sostenute a vicenda assicurando un servizio efficace e con qualche grado di qualità. Il loro sodalizio entra in crisi negli anni in cui lo sviluppo economico, le dimensioni e l’intensità dello sviluppo delle scienze e delle tecnologie creano le condizioni di un distacco sempre più ampio tra esigenze complessive della società e capacità di adeguamento della scuola. Il compito di dare una risposta alle richieste della società non è facoltativo e non può essere disatteso anche se è diventato sempre più difficile poterlo svolgere.

La logica delle riforme, quando ne hanno qualcuna, è quella di superare questa difficoltà per assicurare in mutate condizioni la conservazione del patrimonio culturale, tecnico e professionale di una nazione e la possibilità di preparare le nuove generazioni ad inserirsi nel mondo del lavoro e nella società. E’ stata ed è questa difficoltà che ha spinto a ridisegnare i compiti della formazione professionale come segmento di mediazione e di transizione tra istruzione e mondo del lavoro: non più cenerentola di momenti emergenziali, nè strumento sussidiario e subalterno al sistema scolastico in funzione della risoluzione del problema della dispersione.
Le linee di tendenza delle dinamiche sociali della società della conoscenza, nei limiti in cui sono configurabili, sollecitano ad aprire una nuova fase dei rapporti tra istruzione, formazione professionale, mondo del lavoro per tentare di costruire un circuito permanente di scambi e di servizi lungo tutta la vita, che diano risposte ai problemi di inserimento nella società delle nuove generazioni.
Questo tentativo di grande rilievo sociale impone alcune scelte ineludibili:
a) la costituzione di un sistema formativo integrato, in cui i soggetti che lo compongono abbiano pari dignità e sia possibile il passaggio da un settore all’altro;
b) la creazione delle condizioni per disegnare il sistema formativo che funzioni alla stregua del servizio sanitario: un sistema, cioè, che eroghi prestazioni per tutte le età e in ogni età delle persone.
Le tendenze prima descritte sono state al centro degli sforzi per fare della scuola un’istituzione efficace. Seppure ardui, questi compiti possono essere affrontati in una logica razionale, costante, pragmatica di evoluzione e di cambiamento dell’organizzazione del sistema formativo. Ma alla scuola non si chiede solo questo. Si chiede anche di essere un’istituzione giusta che si preoccupi di rendere migliori i propri alunni. La sfida più difficile, perché deve misurarsi con i mutamenti profondi e radicali del mondo dei valori e del costume, ambito in cui la scuola nel passato si sentiva al riparo di ogni difficoltà. Questi problemi si possono riassumere nella rottura del rapporto famiglia-scuola; nella crisi del concetto e del principio di autorità; nella costituzione di valori individualistici, spesso alternativi alla dimensione comunitaria dei valori repubblicani della Costituzione. Nella fase storica in cui è avvenuta la piena scolarizzazione delle generazioni la crisi della famiglia e di altre agenzie formative, l’incertezza dei valori pubblici costitutivi della convivenza sociale rendono difficile il compito di educare le nuove generazioni, la funzione educativa della scuola. La buona amministrazione del sistema di istruzione e formazione non consente di eludere questa responsabilità e non si riduce alla produzione continua di cosiddette riforme epocali.
E per concludere. Il peso della responsabilità professionale e conoscitiva e quello della responsabilità educativa del sistema di istruzione e formazione ricadono sulle spalle degli insegnanti, che si devono misurare con un’opinione pubblica artatamente ostile, con un’organizzazione che non premia l’impegno e l’innovazione e che si vede ridurre le risorse di cui dovrebbe disporre. La situazione richiede un alto profilo civico e professionale dell’insegnante, ma le scelte concrete dell’amministrazione hanno creato una figura professionale senza autonomia, senza spessore culturale e ai bordi di un vero declassamento sociale. Un rinnovato rapporto della scuola con la società da questi ultimi problemi deve partire e trovare slancio.




Pedagogia della cura ai tempi del Covid

di Raffaele Iosa

E’ il tempo che hai perduto per la tua rosa
che ha fatto la tua rosa così importante
Saint Exupery, il piccolo principe

Ho letto il messaggio di Dario Missaglia, presidente di Proteo,  attorno a questa terribile fase di espansione del COVID e di come la scuola sembri  aver perso il senso pedagogico del suo agire, travolta da aspre discussioni solo sulle  incertezze sanitarie, il caos gestionale, le tifoserie tra “presenza” e “distanza”,  e così via.

Condivido in pieno il suo messaggio per ri-mettere al centro del nostro impegno lo sguardo pedagogico,  che rifletta  su  come stanno i nostri bambini e ragazzi e cosa servirebbe loro  come priorità educativa in questa epoca così drammatica.

Già a settembre 2020 ho condiviso il suo Protocollo Pedagogico, rimasto per molti una vox clamans in deserto, che richiamava ad un diverso impegno per fronteggiare gli effetti psicologici, emotivi, cognitivi  dati da una scuola diventata balbettante, semiaperta o più semichiusa. Raccoglievo commenti del tipo “belle parole, ma oggi il problema è un altro”. Un “altro” che si riduceva, poi, alle sedie a rotelle, o alla Dad come fosse il demonio, scordando che spesso la mitica “presenza” è, seguendo il canone della tradizione,  noiosa aria fritta, distanza fino all’ estraneità.

Ma oggi la situazione educativa, a due anni dall’inizio della pandemia,  è quanto mai peggiorata.
Dunque, è necessario il coraggio di riprendere e rilanciare un pensiero pedagogico.
Rispondo qui alla sua proposta superando d’un colpo  le mie opinioni  su quarantene, mascherine, Dad e così via. Mi soffermo invece sul cuore della scuola rimettendo  al centro la voce pedagogica. Di questo qui scrivo,  anche con alcune proposte operative.

  1. Pedagogia della cura

La relazione educativa è termine generico, registrata nelle norme scolastiche e nei contratti, ma rischia di essere una specie di insalatina di contorno alla recita del dio contenuto/disciplina, per molti  il totem della scuola italiana.  Si sente ancora dire: “a scuola si impara, non si impara a vivere; al vivere ci penserà mamma e babbo o i preti.  Al massimo l’io docente spera di trasmettere le sue simpatie, cioè che l’alunno perfetto assomigli a lui/lei”. Ma non è così.

Proviamo invece ad approfondire in modo più rigoroso: l’evento “scuola” si realizza con una relazione sempre asimmetrica tra adulti e bambini/giovani  che mette insieme certo i contenuti, ma vissuti come eventi irripetibili (di apprendimento e di vita)  entro cui le dimensioni emotive, relazionali,  affettive, di sensibilità e di identità si mescolano concretamente realizzando  lo sviluppo di ogni persona. La stessa pura “trasmissione di contenuti” avviene come un evento didattico carico di senso non solo di esito, che determina o meno interesse, passione, curiosità. Ma c’è di più: la relazione educativa avviene nel tempo reale hic et nunc  della vita di un bambino e di un adolescente, ne riflette quindi le vicende concrete del vivere in un dato momento storico. Questo attuale momento  è, inutile negarlo, del tutto dolorosamente straordinario.
Infine,  c’è una cosa più importante ancora che rende la relazione educativa centrale  nel fare scuola:  l’art. 3 comma 2 della Costituzione quando ci dice che “compito della Repubblica è di rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione della persona umana”.
La rimozione degli ostacoli in pedagogia si chiama “cura dell’altro come sé”. Cura non perché malato o poveretto, ma perché persona e cittadino. Cioè è quell’ “I CARE” che ci ha insegnato don Milano a Barbiana. Che vuol dire concretamente: ”Mi interessi, non ti mollo, faccio di tutto per te, cerco una soluzione se gli ostacoli ti creano guai”.  E’ una scuola seria, non lassista!

Se questo è vero in generale, lo è ancora di più in questa terribile fase COVID nella quale i bambini e i ragazzi vivono oggi eventi inediti, di cui non abbiamo memoria comparativa, dentro una tempesta sociale, sanitaria, ed emotiva a fortissimo impatto individuale e collettivo. Si può insegnare una qualsiasi cosa  senza tenerne conto? Anzi:  come si fa ad apprendere se dentro di noi c’è la tempesta emotiva?

La relazione educativa dunque non è semplicemente confinata da quel generico modo di dire nel profilo del docente come “competenze psico-pedagogiche”, una tra le altre competenze, ma è elemento strutturale e trasversale del lavoro  docente.

  1. La tempesta emotiva dei nostri bambini e ragazzi oggi, e i rischi iatrogeni

Le ricerche di cui scrive Dario sulle crisi emotive dei nostri bambini e ragazzi  sono cospicue:  c’è uno stato diffuso di smarrimento, di stress, di alterità, di incertezza, di solitudine, e soprattutto di incertezza sempre più forte sul domani, anche quello più vicino. Quando finirà questa tempesta?
Questo prolungarsi e  della pandemia aumenta a dismisura le crisi già presenti nel primo anno.
La tempesta produce anche  casi clinici  drammatici. In questi mesi ho seguito e raccolto storie di suicidi e tentati suicidi, di autolesionismo, di isolamento fino al fenomeno kikomori, di anoressia o bulimia. Ma questi casi sono solo la punta di un iceberg molto più vasto sotto la superfice di diversi stati emotivi, spesso più  semplici ma sempre più diffusi e ma comunque duri.

C’è oggi il rischio di pensare che ad ogni “sintomo di dolore”  basti riferirsi al medico o allo psicologo, come se per le sofferenze non servisse la relazione educativa. Il che è paradossale: nel primo periodo del lockdown (primavera 2020) si imparò nei fatti che una Dad che volesse scimmiottare online la lezione tradizionale o la “normalità dell’aula” rischiava due fallimenti: apprendimenti incerti ma anche stati d’animo più tristi, ragazzi  sperduti nella solitudine del video, cui non si chiedeva come stavano nei loro sentimenti, ma di rispondere alle domande curricolari.  Perfino con la buona fede di pensare che se si “evitava” di trattare la condizione esasperata di confinamento questo poteva essere meno doloroso. Insomma una specie di finzione amnesica.  Oggi questa contraddizione  è più importante da considerare, visto il prolungamento di questa fase pandemica “straordinaria”  (intesa come strana) con l’aumento della sofferenza.

Il rischio di una intensa medicalizzazione è elevata.  La scuola con la relazione asimmetrica adulti/ ragazzi e quella tra pari sono invece  “luoghi esistenziali” che alleviano con il   “prendersi cura”  (o sfasciano con la sua mancanza) i tanti  e diversi dolori.  Dobbiamo quindi considerare questi prossimi mesi, così ancora incerti e difficili,  come un periodo in cui lo sguardo pedagogico della cura educativa sia la base del nostro agire,  qualsiasi siano le condizioni di lavoro.

Rischiamo altrimenti  una deriva iatrogena, cioè di etichettare oltre il lecito e il giusto le diverse storie dei nostri ragazzi,  isolandoli nel cerchio della certificazione, della terapia, della “dispensa”, cioè all’assistenzialismo che produce dipendenza e abbassamento delle attese dell’io.
Penso spesso, per confronto,  a come mia mamma e mio papà erano durante la guerra. Avevano tra i 10 e i 15 anni. La guerra è passata dura nelle loro vite. Se un qualche psicologo li avesse visitati  a quei tempi avrebbe trovato molte  patologie. Eppure il dopoguerra fu un  miracolo: una generazione di bambini maltrattati dalle guerre vissero i tanto celebrati “favolosi 30 anni”.

Ci vuole dunque molta attenzione a non catastrofizzare eventi drammatici della vita. Se ne potrebbe uscire anche migliori ,con una maggiore capacità di resilienza davanti alle disavventure. E’ con questo sguardo che la nostra “cura educativa”  deve saper trovare il giusto equilibrio  tra comprendere e sollevare il dolore diffuso nello loro anime, ma anche quella di far leva nelle loro forze interiori, nei loro talenti e passioni,  nel saper dare uno scopo al dopo e al dopodomani.

  1. L’io docente nella relazione ai tempi della pandemia

Quale comportamento docente è più opportuno, in questa fase complicata, per gestire una “cura” educativamente saggia?
Trovo giusto che gli insegnanti no-vax  non insegnino  e non solo per motivi sanitari.  Il nostro paese ha scelto di adottare il principio costituzionale della priorità della salute come interesse pubblico (e quindi il vaccino). Da qui ripartiamo.
Ma ho riscontrato anche la presenza, umanamente comprensibile,   di docenti che si trovano in una fase emotivamente fragile della loro vita. Aver paura non è una colpa.
Mi raccontano a volte  di colleghi  ansiosi,  che emotivamente si isolano in una fisica e psicologica “distanza” relazionale. Penso che avremmo dovuto capire e aiutare questi colleghi.

Ma ora proviamo a precisare alcune caratteristiche di cura educativa che gli insegnanti dovrebbero, a mio avviso,  avere in questa difficile fase. Ne segnalo quattro.

Empatia.

Che, come noto non è simpatia o antipatia. E’ sentire l’altro, fargli capire che lo sentiamo, con discrezione, senza invadenza esagerata. Si può anche chiamare scaffolding, con Bruner. Uno stile relazionale dove si sta dietro non davanti all’altro,  che non si obbliga a parlare o fare, ma si incentiva ad agire, perché lui sa che se cade ci siamo noi dietro  a tirarlo su. E’ per la verità un paradigma di tutta la didattica attivistica, utile sempre, ma in questo periodo necessaria.

Equilibrio

E opportuno avere uno stile relazionale sereno, sobrio, offrendo sicurezza,  evitando eccessi sia di ansia che di superficialità. Non è un periodo facile per nessuno, ma il bambino e il ragazzo devono sentire che l’insegnante è un adulto. E solido.

Creatività e flessibilità

Le diverse e complicate situazioni di lavoro di questi mesi ci obbligano ad avere una maggiore flessibilità nell’organizzazione dell’attività scolastica. Potrebbe anche essere la volta buona di sperimentare  didattiche innovative, e soprattutto evitare che le regole sanitarie impediscano o riducano forme di didattica attiva. Forse serve una riscoperta dell’attivismo,  oggi più importante che mai perché può dare ai ragazzi una più felice pratica di  partecipazione, piuttosto che  essere passivi ascoltatori chiusi nella loro mascherina. Questa è la pedagogia della cura necessaria.

Adattamento

Questa è forse la dote più difficile da spiegare evitando equivoci. La vita a scuola è per forza di cosa diversa dal passato, e giorno per giorno possono cambiare molte cose. Significa per chi ci lavora trovare forme di adattamento positivo e flessibile secondo le diverse avversità. Un eccesso di rigidità e formalismo rende la scuola più dura per tutti, anche per chi insegna.

  1. Proposte per agire, stimoli per costruire il positivo

Ed ora, la parte che più mi interessa approfondire: cosa potremmo fare?
SI aprono sei mesi duri, con poche certezze. Potremmo avere situazioni  varie in vari periodi, dal confinamento  per positività, alla quarantena preventiva, al ricovero ospedaliero, sia per studenti che per insegnanti. Potremmo avere classi strappate a metà tra “presenza” e Dad.

Le ultime decisioni del Governo per la scuola prevedono di fatto un sistema differenziato perfino da classe a classe, cioè  non più il precedente modello del lockdown generalizzato a tutti nello stesso periodo a prescindere dalla  salute  individuale.  Questa è la novità essenziale da cui partire.

Inutile negarlo: una condizione molto difficile da gestire dal punto di vista didattico, che ha bisogno di due atteggiamenti professionali e organizzativi fuori dal canone classico dell’orario scolastico standard uguale per tutti:

la flessibilità didattica, preparandosi  a gestire diverse situazioni, periodi diversi tra loro, condizioni diverse tra gli stessi alunni. Proviamo a rovesciare il dramma in opportunità: potrebbe essere il momento di utilizzare forme di flessibilità inedite che possono perfino essere più gradite e efficaci del rito lineare tradizionale. Finalmente l’autonomia didattica prevista dal DPR 275/99 potrebbe diventare simpatica e certo utile, dopo vent’anni di amnesia e di boicottaggio. Servirebbe ai bambini e ragazzi fare una scuola sui loro tempi, non sul rito lineare settimanale.

l’accomodamento ragionevole. Utilizzo qui un ben termine ripreso dalla Carta dei diritti della persona con disabilità dell’ONU del 2006, allargata a tutti i nostri bambini e ragazzi.      Adattamento è  la capacità di fare istruzione il meglio possibile nelle condizioni  date,  che ci obbligano a mettere al centro i  ragazzi più che le discipline. Ce lo chiede la loro condizione esistenziale, che ha bisogno di  opportunità di apprendere  come lievito di curiosità, coinvolgimento, desiderio,  passione.

            Ragionevole è accettare che questo non è un periodo normale, che non si può ripetere il passato in forme ristrette,. ma che conviene puntare ai saperi e alle esperienze essenziali, non pretendendo quantità ossessive ma conoscenze e competenze fluide e interconnesse.

Partendo da queste due pre-condizioni, presenterò qui alcune proposte per una buona pedagogia della cura  attraverso alcune idee-stimolo, esempi-tipo, senza pretesa di una summa, mettendo insieme una buona cura educativa e una buona ragionevole didattica.
Ovviamente sono schegge di azioni  perché mi fido della fantasia e creatività degli insegnanti, se riacquistano  l’autonomia didattica libera, pur troppo scippata in questi anni.

4.1  Il perdere tempo

I lettori più attenti si saranno chiesti perché ho posto all’inizio una frase del Piccolo Principe.

Si parla della sua relazione con una rosa cui ha dedicato molta cura e attenzione. Il valore sta in quel perdere tempo che, come si sa dalla storia, è stato tempo intenso. Nel  perdere tempo sta la mia prima proposta di cura. Significa preoccuparsi meno del calendario  e più del tempo di cura che si passa parlando, riflettendo, creando comunità di parola e di ascolto tra noi e loro.

E’ evidente che avere cura non è perdere tempo, ma anzi guadagnarlo  nello sviluppo di significati, emozioni, confronto di esperienze, saper connettere eventi ed emozioni. E’ per me una fase essenziale della cura, diversa ovviamente secondo le diverse età. Dare tempo alla parola e al pensiero sui vissuti interiori è in questo momento centrale per una relazione educativa di cura. Non serve a fare una specie di “ricognizione indiretta” dei diversi dolori , ma invece a socializzare i diversi stati e darne una ragione e un senso. Potrebbero nascere molte connessioni anche con i saperi esterni ai ragazzi,  che avrebbero al centro non un certo capitolo di un manuale ma “un interesse” reale dei nostri studenti. Dario Missaglia sostiene che questo è tempo di lavoro, che andrebbe registrato in un diario, e sono proprio d’accordo: non è perdita di tempo, ma guadagno di senso. Un tempo professionale autentico che va riconosciuto.

Il perdere tempo è una suggestione pedagogica per il brutto tempo presente che mi affascina per la sua intrinseca utilità ma anche per il valore solidaristico e civico che produce.

  • Una cura educativa al telefono

Un piccolo suggerimento-stimolo che potrebbe avere diverse varianti e che tocca un tema centrale nella cura: il saper agire verso ogni persona partendo dall’individualità.
Accadrà ancora nei prossimi mesi che i bambini e i ragazzi debbano stare a casa o perché contagiati o perché in quarantena.
Potrebbe quindi essere una buona consuetudine se l’insegnante si fa vivo con una telefonata per salutare il suo studente, sapere come sta, fare due chiacchiere. Ovviamente anche questo  è per me tempo vero di lavoro. Questo contatto diretto e individuale, perfino sorprendente per chi lo riceve,  ha un significato pregnante a fronte di un ragazzino chiuso in casa e pieno di paure. Dà il segno dell’I CARE, dell’ “io ti penso”, del sapere che non sei solo.

Quest’idea me l’ha data un bambino triste di 5.a primaria che ha scritto a maggio 2020 alla maestra un messaggino che mi ha commosso. Scrive così: “Maestra, scusami se ogni tanto ti telefono. Te dici sempre che dobbiamo essere ottimisti. Allora quando  sono nervoso ti chiamo. Sento la tua voce e mi calmo”.  Questo si aspettano i bambini da noi: l’ascolto e la calma.
Se ogni ragazzo chiuso in casa per quarantena ricevesse una telefonata dal suo prof non se la dimentica più. Forse studierà anche più volentieri al ritorno a scuola.
”Sento la tua voce e mi calmo”. La voce capite? Non le tabelline o la storia. Straordinaria lezione di quanto possiamo contare per loro.

  • Lavorare per curricoli adattati e ragionevoli: l’autonomia creativa

E’ probabile che il calendario delle lezioni verrà spesso travolto dalle varie vicissitudini del COVID.  Potrebbero essere assenti anche alcuni insegnanti.
E’ forse giunto il momento  del coraggio della flessibilità curricolare, adattata secondo le diverse condizioni,  ore utili e flessibili secondo la situazione di fatto. Questo non è difficile in una scuola primaria e facilissimo in una dell’infanzia. Ma è ora che ci provino anche le medie e superiori.  Porto qui alcuni esempi da sviluppare. 

  • pratiche di flessibilità organizzativo-didattica

Si potrebbero sperimentare curricoli con didattiche brevi aggregando più ore di una disciplina per settimana.

Si potrebbe lavorare per centri di interesse che coinvolgono più insegnamenti, in cui l’intercambiabilità dei docenti facilita il lavoro, anche con una ricerca degli snodi essenziali.

Si potrebbe lavorare più frequentemente per gruppi laboratoriali, in cui la questione presenza e distanza potrebbe essere adattata a gruppi che condividono un comune lavoro

Più in generale, è opportuno che in questo periodo si utilizzino il più possibile pratiche di didattica attiva,  in forme flessibili. Proprio la cura necessaria ci chiede di dare ai ragazzi opportunità di apprendimento come protagonisti, interagenti,  ricercatori e comunità.   Potrebbero essere moduli interdisciplinari, ma comunque (nel rispetto delle regole) momenti e eventi in cui il ragazzo fa con gli altri, non solo ascolta.

  • Pratiche di metodologica didattica attiva

Ed ora alcuni suggerimenti di carattere metodologico-didattico, tra le molte possibilità, spesso già note. Sono alcune proposte-stimolo nel vasto panorama didattico, che mettono insieme l’innovazione didattica  con una migliore “cura” della fase emotiva e sociale dei nostri ragazzi.

Tutti i suggerimenti qui proposti hanno carattere di attivismo, di comunicazione interpersonale, di ricerca e possono avere adattamenti di grande flessibilità, anche potendo realizzarsi in forme “miste” con ragazzi in presenza e contemporaneamente in Dad.

            Flipped classroom.  Cioè le classi rovesciate, dove i ragazzi si documentano e fanno ricerca su un certo tema prima che se ne parli a scuola. Poi, nell’aula virtuale o fisica, discussione e presentazione da parte dei ragazzi del loro punto di vista, con un lavoro di scaffolding socratico del docente che lievita ed alimenta la discussione   per  giungere ad una consapevolezza comune.

            I brevetti alla Freinet. attività individuali di studio-ricerca autonomamente scelte che ogni ragazzo approfondisce partendo dalle proprie passioni e interessi, che poi presenta nel gruppo di pari, come esperienza di comunicazione orizzontale, effetti di cooperazione,  e auto-valutazione possibile da parte dello studente.  Scrivendo questa proposta, mi sono ricordato della mia antica scuola media (anni 63-66) in cui il prof. faceva un po’ il Freinet, probabilmente non conoscendolo. In geografia in prima ci ha fatto scegliere una regione da far diventare ”nostra”, in seconda uno stato europeo, in terza uno extraeuropeo. Curiosa è la mia scelta: in prima il Friuli VG (terra dei miei nonni), in seconda l’Austria (perchè mio padre era andato a Vienna a veder la finale di coppa campioni Inter – Real Madrid, gol di Mazzola), la terza l’Argentina perché avevo lì uno zio prete salesiano. In tutti e tre gli anni ricordo ricerche appassionate (dai libri alle foto alle cartoline, ecc..), dall’Argentina mio zio mi scrisse una lunga lettera geo-politica e materiale. Nel lavoro d’aula ad ognuno di noi veniva chiesto di presentare “la sua” regione o nazione. Questi tre luoghi geografici mi sono ancora oggi un po’ rimaste nel cuore.

            Freedom writer. Se qualcuno ha visto il film mi capisce: una classe di ragazzi di una zona disperata della California, un’insegnante intelligente  propone loro di scrivere un diario personale con tutte le cose che gli passano nella loro tormentata mente. Ne esce un capolavoro didattico e l’incontro con…Anna Frank e il suo diario. La scrittura come comunicazione e riflessione è aspetto importante dello sviluppo, individuale e collettivo.  Vi possono essere molte varianti che oggi con la tecnologia si possono fare a prescindere dall’aula fisica e dall’orario settimanale. Penso alla corrispondenza scolastico con classi e scuole di altri luoghi. Ma potrebbe essere anche la ripresa del giornalino scolastico, che oggi i computer rendono possibile colorati e ricchi.

            la scrittura collettiva. Più seriamente, amo proporre la scrittura collettiva di don Milani e di Mario Lodi: un lavoro che parte da testi individuali, costruisce con una discussione collettiva un testo comune condiviso. Un’operazione cooperativa di grande efficacia relazionale, e di civismo.

            La cura  tra pari.  In questa fase la relazione con i compagni di classe e di scuola è già di per sé un evento di cura. Dunque, sia che siano a scuola sia che siano a casa, si devono favorire forme di comunicazione, di solidarietà  e di auto-aiuto tra compagni di classe come forma comunitaria  di uscirne insieme. Sarebbe anche un eccellente modo di sostituire quelle cose orrende dette “recuperi”  con pratiche di apprendimento dove ci si aiuta a vicenda.

            Questo è il momento di rovesciare la sventura del COVID con una nuova avventura pedagogica, che non solo aiuti i ragazzi, ma dia anche un senso di cambiamento  positivo per gli insegnanti. Anche loro hanno bisogno di passare dalle isole separate per discipline a comunità realmente educanti, non a parole.

  1. Non dimentichiamo la disabilità

Gli alunni con disabilità hanno pagato i diversi lockdown e le restrizioni legate al COVID molto più di tutti gli altri compagni di classe. Su di loro una pedagogia della cura deve essere ancora più attenta e di adattamento ragionevole.
Nella crisi complessiva dell’inclusione nelle nostre scuole, il COVID ha reso ancora più isolati e soli questi bambini e ragazzi. Sarebbe grave se si tornasse a circolari ministeriali  che rendevano possibile il loro ritorno a scuola “da soli”, tanto per fare badantato,  o magari (se la scuola è buona) con alcuni altri bambini o (peggio) con altri disabili . Cioè l’anticamera delle scuole speciali.
Molte delle proposte-stimolo sulla flessibilità didattica sopra presentate possono facilitare l’accoglienza dei nostri studenti con disabilità, ognuno titolare di un pensiero, di desideri e passioni, ma anche dolori.  Perché l’accoglienza diventi invece un’appartenenza a pieno titolo.
Questi sei mesi sono importanti per costruire  azioni di una nuova gruppalità solidale tra pari. Ne hanno bisogno tutti, anche gli altri.  Perché la solidarietà serve a tutti reciprocamente, aiutare e aiutarsi. Perché, come sempre, sortirne insieme è la Politica.

Qui mi fermo. Non parlo qui del futuro più lontano dei prossimi sei mesi. Mi pare già tanto provare a non perdere o sfasciare la scuola  in questo breve periodo. Breve ma delicatissimo, perché la crisi COVID rischia di lasciare troppi segni  permanenti. E’ adesso l’ora di reagire e di ripensare al pedagogico. La pedagogia della cura è il nostro orizzonte  attuale.




Linguaggio, dialogo e debate per far crescere una comunità di ricerca

Stefaneldi Annalisa Filipponi

 Il futuro non è mai stato così aperto e incerto e così condizionato dalle scelte individuali di ciascuno di noi.[1] Il contesto attuale prevede un forte richiamo alla responsabilità personale già nei bambini e nei ragazzi, in particolare richiede una loro inedita responsabilità sociale nelle relazioni, con un inevitabile superamento della prospettiva individualista ed autoreferenziale consueta nei decenni precedenti alla crisi economica prima, e a quella pandemica poi.

Le relazioni tra pari si sono frammentate e utilizzano sistemi comunicativi diversi, che si sviluppano attraverso nuovi linguaggi, in primis quello dell’immagine che scorre fluida e viene rapidamente sostituita da altre e diverse immagini. Le storie, che stabiliscono le relazioni e determinano la comunicazione peer to peer, raramente offrono il tempo alla rielaborazione delle forti emozioni che suscitano. Le dinamiche causa-effetto non stanno alla base di questa nuova narrazione e le visibili conseguenze nei nuovi legami amicali che si stringono- in particolare nella fase preadolescenziale ed adolescenziale- danno segnali preoccupanti. Le amicizie che si sviluppano nel mondo virtuale, possono essere vissute in modo intenso, ma appartengono a quel contesto e spesso non sono trasferibili ad un contesto altro. Soprattutto non sono automaticamente trasferibili dal contesto virtuale a quello reale.

Due persone che insieme vanno” come descriveva Omero un legame di amicizia, presuppone la condivisione di esperienze vissute nel mondo reale per crescere insieme ed imparare a tenersi per mano nei difficili sentieri del percorso di maturazione e crescita personale. Gli adolescenti di oggi stanno crescendo più soli, anche se supportati da molti like virtuali che spesso però mascherano un grande vuoto emotivo. I segni di disagio, conseguenti ad un contesto di crescita condizionato anche da isolamenti causati dall’emergenza sanitaria non ancora superata, sono molteplici e allarmanti.

Di conseguenza i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze vanno aiutati a ridefinire alcuni aspetti della loro identità individuale e sociale. Richiamerei qui una bellissima frase di Papa Francesco: “In una società che fatica a trovare punti di riferimento è necessario che i giovani trovino nella scuola un riferimento positivo” .

Una Proposta di didattica innovativa: il recupero del valore metacognitivo del linguaggio in contesto curricolare

“Dagli alberi cadono foglie gialle
Danzano con leggerezza
Sembrano foglie d’oro
Si posano per terra
Ed ecco non sono più nulla:
vengono calpestate come le mie opinioni.”
Laura, 9 anni

In un contesto classe tradizionale – sia esso in presenza o in virtuale – a scuola viene dato poco spazio alla comunicazione orale non finalizzata alla trasmissione di contenuti veicolati dagli insegnanti o dallo studio. A scuola non si dialoga tra pari in forma libera e viene dato poco reciproco ascolto alle riflessioni spontanee stimolate anche da contenuti o esperienze curricolari.

Non possiamo non tener conto del grande e inatteso cambiamento che ha travolto il sistema scolastico tradizionale dando una forte accelerazione ad una trasformazione digitale, da tutti ritenuta necessaria, ma che stentava a decollare nelle nostre scuole. Oggi la repentina trasformazione digitale ha modificato l’ambiente di apprendimento rendendo all’improvviso obsolete vecchie forme di controllo quali, ad esempio, il divieto dell’uso del cellulare in classe.[2] Si è resa così evidente l’urgenza di andare verso una nuova direzione in cui devono essere create innovative occasioni di apprendimento e di dialogo.

Ci si deve dunque interrogare sul perché della necessità di recuperare l’oralità nella dimensione scolastica.  Emergono- non solo nei discenti- sempre più evidenti incertezze nelle competenze trasversali quali: leggere, selezionare contenuti, individuare i collegamenti all’interno di un ragionamento e di un testo. Sono documentabili in ogni contesto comunicativo difficoltà nell’ascoltare, nel mettere in discussione i propri pensieri per crescere, nel trasformarsi, nel comunicare in modo autenticamente dialettico. Emergono, in contesto scolastico, incertezze crescenti nel sapersi esprimere – trovare occasioni e relazioni dialogiche – nel narrare un fatto, nel costruire un ragionamento collettivo, nel riferire un pensiero proprio o di un gruppo, senza ripetere solo un riassunto di contenuti trasmessi da altri. Dialogare, riferire i propri dubbi e i propri pensieri senza lo scopo di essere valutati è esperienza tanto rara, quanto potenzialmente preziosa. “Cosa ce ne facciamo dei ragazzi che prendono 10, 9, 8 a scuola quando non sono in grado di intervenire quando viene fatto del male ad un compagno? Quando hanno delle prestazioni eccezionali, ma non hanno strumenti per aiutare un loro amico e riconoscere un bisogno? così ha mirabilmente sintetizzato Piero Angela in una frase che è diventata virale.

Ritengo di fondamentale importanza recuperare la spontanea attitudine dei bambini e dei preadolescenti alla problematizzazione, a quei tanti preziosi perché dei più piccoli che sono tesi alla ricerca metacognitiva di un preciso significato lessicale e concettuale delle esperienze e del linguaggio stesso. E’ necessario occupare uno spazio didattico all’interno del quale sviluppare l’oralità attraverso la metodologia del Dialogo euristico peer to peer in Comunità di ricerca


Dalla Classe alla Comunità di ricerca

 Dentro questo quadro è fondamentale che ogni progetto abbia una sua chiara trasferibilità educativa e valoriale per la costruzione di un apprendimento significativo. La problematizzazione è una competenza profonda, che deve essere costruita con attenzione dal basso e non considerata come un requisito che uno studente acquisisce, quasi per caso, con la crescita. Il dialogo euristico peer to peer, che si sviluppa nel gruppo classe trasformato in una Comunità di ricerca, mette il pensiero al confronto con la complessità delle esperienze attraverso un metodo pedagogico e didattico (preciso) che punta alla formazione di un pensiero complesso e alla costruzione di un pensiero critico[3]. Nella classe intesa come Comunità di ricerca, i discenti riflettono sul pensiero, si allenano ad un reale ascolto attivo, esercitano alcuni processi complessi quali la dialettica argomentativa. Si sviluppa così un processo cognitivo in cui l’interazione tra l’ascolto attivo e la rielaborazione dinamica dei contenuti del proprio pensiero, permette l’acquisizione di abilità trasversali e il graduale sviluppo di un pensiero critico.

La trasversalità della metodologia

L’esperienza dell’attività correlata ad un Progetto didattico acquisisce una dimensione educativa/valoriale trasferibile in contesto altro (apprendimento significativo) se rielaborata attraverso il linguaggio in un gruppo classe trasformato in una Comunità di ricerca (capacità di ricercare, identificare, definire, valutare, organizzare, riutilizzare…) dove venga dato spazio al dialogo euristico peer to peer per la scoperta di nuovi significati e la rielaborazione, con il conseguente arricchimento, dei propri pensieri.

Nella scuola intesa come luogo di ascolto e di rispetto, l’insegnante ASCOLTA il pensiero di tutti i bambini/ragazzini non solo a scopo valutativo, ma perché ogni pensiero è degno di essere ascoltato e insegna qualcosa. Nella classe trasformata in Comunità di ricerca gli allievi ‘’si insegnano’’ tra loro e l’insegnante svolge il ruolo di coordinatore direzionale e non direttivo della discussione. Il Dialogo euristico[4] in Comunità di ricerca educa il pensiero al confronto con la complessità delle esperienze attraverso un metodo pedagogico e didattico (preciso) che punta: al recupero dell’intuizione spontanea (domande); allo sviluppo di competenze comunicative in forma dialogica e dialettica (domande/risposte/domande); alla formazione di un pensiero complesso con raccordi transdisciplinari; alla costruzione di un pensiero critico in una esperienza di ricerca fondata sul dialogo per favorire l’esperienza del pensiero attraverso l’uso del linguaggio.[5]

Obiettivo di questa esperienza non è la soluzione di problemi, ma la loro definizione (domande, curiosità intellettive etc.) tramite lo sviluppo e la ricerca di definizioni precise (recupero lessicale) come base di argomentazioni correlate tra loro da connettivi logico argomentativi che si sostanziano nell’esperienza stessa. L’ apprendimento funzionale diventa così un processo metacognitivo: non basta il fare, è necessario riflettere e rielaborare attraverso il linguaggio in una dimensione dialogica peer to peer– L’esperienza è una fase importante dello sviluppo dell’apprendimento significativo in quanto permette l’acquisizione di informazioni attraverso l’interazione sensibile con la realtà circostante. Leggere, ascoltare, osservare, intervenire, sperimentare, cooperare etc. sono tutte esperienze che sostanziano le fondamenta dello sviluppo di un pensiero dinamico in ogni età della vita. La fase successiva, che sviluppa l’attività cognitiva comprendente la costruzione di concetti e asserti, è la rielaborazione dell’esperienza attraverso il linguaggio. Ricordare, comprendere, applicare, analizzare, valutare, ideare etc. diventano i tasselli attraverso i quali gradualmente si costruisce un pensiero critico e dinamico. E in questo passaggio tra il fare e il rielaborare, si colloca l’esperienza del dialogo euristico tra pari in una Comunità di ricerca.

Dalla Comunità di ricerca al Debate

Favorire lo sviluppo del Debate all’interno delle Istituzioni Scolastiche, quale fondamentale momento di reale innovazione didattica curricolare e progettuale, rappresenta un importante passaggio verso il recupero dell’oralità nel contesto scolastico.[6] Una spinta in tal senso viene certamente dall’introduzione dell’Educazione civica in forma obbligatoria nella scuola italiana che ha aperto un largo dibattito e molta attività formativa nella scuola italiana su argomenti sostanziali e non formali. Il primo articolo della legge è estremamente significativo proprio in riferimento al pensiero argomentativo e ai suoi esiti pratici: “L’educazione civica contribuisce a formare cittadini responsabili e attivi e a promuovere la partecipazione piena e consapevole alla vita civica, culturale e sociale delle comunità, nel rispetto delle regole, dei diritti e dei doveri. L’educazione civica sviluppa nelle istituzioni scolastiche la conoscenza della Costituzione italiana e delle istituzioni dell’Unione europea per sostanziare, in particolare, la condivisione e la promozione dei principi di legalità, cittadinanza attiva e digitale, sostenibilità ambientale e diritto alla salute e al benessere della persona”. Come si può notare gli obiettivi della legge sono di tipo sostanziale e non formale e costituiscono un banco di prova importante per lo sviluppo delle competenze argomentative funzionali all’acquisizione di un corretto senso civico.

L’esperienza del Debate permette di veicolare in modo attivo e condiviso conoscenze disciplinari e interdisciplinari con modalità didattica innovativa e promuove in modo responsabile, ordinato e ragionato abilità di ricerca e analisi di contenuti utili ad un Dibattito attorno ad un tema dato (Topic o Mozione) Il Debate promuove inoltre l’ascolto attivo e il piacere di esprimersi oralmente in modo corretto e, per gli allievi più adulti, autonomamente documentato, permette anche di raccordarsi con le competenze trasversali di cittadinanza e con le competenze chiave europee (Competenza alfabetica funzionale, Competenza personale, sociale e capacità di imparare ad imparare; Competenza sociale e civica in materia di cittadinanza; Competenza imprenditoriale; Competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali.)[7]

Nel contesto scolastico contemporaneo – anche precedentemente all’acuirsi delle problematiche conseguenti all’emergenza pandemica non ancora superata – sono evidenti e documentati[8] forti elementi di criticità, quali ad esempio la poca autostima di troppi studenti che, assieme ad una carenza di motivazione in una parte di loro, causano dati allarmanti di dispersione scolastica. Tutto il tema delle povertà educative collegato alle povertà materiali e sociali è esploso facendo emergere preoccupanti prospettive per il futuro.

In un percorso didattico curricolare, stretto tra condizionamenti derivanti da consuetudini programmatiche e didattiche non ancora superate e contesti classe sempre più complessi – ora fortemente condizionati anche da eventi esterni alla scuola – emerge inoltre la mancanza di occasioni per valorizzare gli studenti e le studentesse con talenti di livello eccellente che potrebbero emergere e trainare il contesto classe attraverso metodologie didattiche innovative e trasversali. Come scrivevo poco sopra l’Educazione civica apre uno spiraglio di possibilità anche perché ha acquisito la dignità di disciplina da valutare in forma trasversale.[9]

Il Debate inserito in forme graduali e diverse nel percorso didattico curricolare disciplinare o trasversale di ogni ordine di scuola, rappresenta un’importante opportunità per promuovere, attraverso il suo modello applicativo, la strutturazione di un pensiero dinamico derivante dallo sviluppo di capacità logiche ed argomentative arricchite da spontanee connessioni trasversali e interdisciplinari.[10] La ricerca documentale su cui si fonda la costruzione delle linee argomentative PRO e CONTRO di una Mozione data, promuove la comprensione storica e critica del proprio tempo attraverso la proposta di tematiche attinenti alla contemporaneità. Ne consegue la sedimentazione di atteggiamenti sociali positivi utili allo sviluppo dell’identità personale quali: curiosità, tensione positiva verso l’apprendimento, ascolto attivo, capacità di organizzare e comunicare un pensiero autonomo. La Mozione e la sua ricerca sono dunque un momento fondamentale e fondante per permettere uno sviluppo ordinato, chiaro e competente del dibattito. E’ fondamentale che la Mozione non entri in campi troppo delicati e divisivi, ma attraversi, con una definizione chiara e perfettamente comprensibile, il campo di ricerca, prima ancora di quello delle argomentazioni.

L’ attitudine alla problematizzazione e al pensiero complesso, derivanti da un’esperienza didattica motivante e strutturata quale c’è il Debate, offre un importante contributo all’innovazione metodologica disciplinare, interdisciplinare e trasversale, grazie al potenziamento delle capacità di comunicazione orali e scritte e all’apertura verso idee nuove tramite l’allenamento all’ascolto attivo e alla rielaborazione contenutistica. Risulta fondamentale per il recupero del co-protagonismo cognitivo, il potenziamento della motivazione del singolo tramite la collaborazione del lavoro in team e il nuovo approccio verso i nuclei fondanti disciplinari che diventano occasioni di arricchimento per lo studente e per il docente.  L’attenzione verso fonti documentali articolate, complesse e verificabili (non solo trasmissive) promuove infine la formazione di quella cittadinanza attiva e responsabile (esperenziale ed extraesperenziale) che fonda le basi di un processo di sviluppo del senso civico che diviene vero civismo spendibile in contesto altro

Un ponte tra la conversazione libera attorno ad un argomento e la gara di Debate , senza essere giudicati e dichiarati vincitori o perdenti

Prima di giungere al Debate-gara (che si sviluppa attorno a precisi indicatori, dai quali deriva una dichiarazione netta di vittoria o sconfitta degli oratori) ritengo che gli i discenti debbano allenarsi ad esprimersi oralmente, a dialogare in contesto non competitivo, per essere protagonisti dello sviluppo processuale di un pensiero dinamico pronto ad accogliere anche le sollecitazioni che giungono dai pensieri dei compagni.

Attraverso percorsi didattici appositamente predisposti, il/la docente potrà così condurre gradualmente il gruppo classe verso il Dibattito, dapprima inteso come libero confronto di idee, poi come dialogo semi-strutturato/strutturato con ruoli definiti, fino al Debate inteso come gara con regole precise da rispettare.

Questo passaggio-ponte tra il contesto scuola trasmissivo e il Debate – inteso solo come gara competitiva – è a mio avviso necessario per sviluppare negli studenti il piacere di esprimersi tramite il linguaggio orale e di dialogare in modo sereno, senza essere giudicati e dichiarati vincitori o perdenti.

[1]I due riferimenti principali che voglio indicare sono

Learning to become with the world: education for future survival (Imparare a cambiare con il mondo: educazione per una sopravvivenza futura), UNESCO, 2020. Scaricabile da https://unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000374032?1=null&queryId=N-EXPLORE-5e0571f5-9523-4e9a-8e25-a40a2cdd9e38. UNESCO per l’educazione, la scienza e la cultura

Learning to be: the world of education today and tomorrow (Imparare ad essere: il mondo dell’educazione di oggi e domani), UNESCO 1972. Scaricabile in https://unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000223222.

[2] Il concetto di BYOD (Bring You Our Device – Usa lo strumento di tua proprietà) è ormai entrato nel linguaggio comune, sia per essere inglobato nella curricolarità ordinaria, sia per esserne respinto. Non è cosa da poco che uno strumento linguistico così complicato sia entrato nel linguaggio comune.

[3] Una base solida per il Debate: apprendere in “Comunità di ricerca”, www.gessetticolorati.it, www.edscuola.it del 10 dicembre 2019. Il problema era stato affrontato in una ricerca universitaria di largo respiro. Educazione al pensiero complesso attraverso la Kinderphilosophie in una comunità di ricerca, Progetto BRI, in www.uniud/cird.it. 2001, ora in Ricerche nella pratica didattica per la formazione degli Insegnanti. Le quindici ricerche del progetto Borsa di Ricerca per insegnanti a Udine, a cura di Marisa Michelini, Forum, Editrice Universitaria Udinese, Udine 2003.

[4] Il dialogo euristico. Orientamenti operativi per una pedagogia dell’ascolto nella scuola, a cura di Laura Parigi e Franco Lorenzoni, Ricerche Indire, Carocci editore, Roma 2019.

[5] Ritengo fondamentale il rimando a Lev Semënovič Vygotskij e al suo socio costruttivismo. Benché il suo nome sia legato ad un altro momento storico, la teoria dell’apprendimento favorito dallo sviluppo prossimo mi sembra ancora attualissima. Molte anche le traduzioni italiane dei suoi scritti tra cui citerei Immaginazione e creatività nell’età infantile, Roma, Editori Riuniti, 2010, Il processo cognitivo, Torino, Boringhieri, 1980, La Teoria delle emozioni, Roma, L’Albatros 2015.

[6] Legge n° 92 del 20 agosto 2019: Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica. Questa legge ha reso obbligatoria l’educazione civica per almeno 33 ore annue per classe. L’Educazione civica ha una valutazione paritaria rispetto alle altre materie del curricolo.

[7] Un testo di riferimento è certamente Il Debate. Una metodologia per potenziare le competenze chiave, di Letizia Ciganotto, Elena Mosa, Silvia Panzavolta, Ricerche Indire, Carocci, Roma 2021

[8] I dati INVALSI in Italia e le ricerche internazionali annuali che appaiono nella pubblicazione dell’OCSE Education at a Glance sono molto significativi di una tendenza in atto molto preoccupante per una parte significativa della popolazione giovanile europea.

[9] La trasversalità dell’Educazione civica dal punto di vista didattico e da quello valutativo ha messo in evidenti difficoltà quei segmenti di scuola che hanno fatto del disciplinarismo spinto una ragione esistenziale.

[10] Il Debate si sta molto sviluppando in Italia con la duplice scansione di attività didattica spinta verso l’innovazione e l’argomentazione e attività di tipo “sportivo”. Si veda Una nuova Accademia di Debate in Friuli (a cura di Gian Paolo Terravecchia), La Ricerca, Loescher, 27 dicembre 2019 in cui, sollecitata da Gian Paolo Terravecchia, analizzo la questione del presidio culturale e territoriale del Debate. Rimando al sito : https://www.accademiadeadebatefvg.it/ in cui sono contenuti molti materiali didattici e culturali sul Debate sviluppato in funzione didattico-formativa, anche in funzione di possibili competizioni.




Dalla alternanza scuola/lavoro ai PCTO (percorsi per competenze trasversali e per l’orientamento)

di Raimondo Giunta

All’alternanza scuola/lavoro sono subentrati con il comma 785 dell’art. 1 della legge 145 del 30 dicembre 2018 i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento.
Diciamolo.  Nel primo caso ci si trovava di fronte ad una pia illusione, perché di alternanza si può parlare quando i tempi tra attività formative ed esperienze di lavoro si equivalgono; nel secondo caso ci si trova nel campo controverso delle competenze trasversali.
La vecchia formulazione straripava in termini di spazio e di obbligatorietà e finiva per stravolgere in alcuni indirizzi la regolarità delle dovute attività curriculari; il nuovo indirizzo per i tempi più ristretti (per fortuna) non può andare oltre una pratica di orientamento al lavoro e alla cultura del lavoro, dignitosa in sè e non bisognevole dell’ addobbo delle competenze trasversali. Trattasi, infatti, di uno stage, che bisogna sapere organizzare bene dal punto di vista didattico se si vuole che fruttifichi qualcosa.
E a proposito che cosa sono le competenze trasversali? A cosa devono cotanto fascino?

Il fascino indiscreto delle competenze trasversali

A partire dagli anni ’90 le ricerche e i contributi dell’ISFOL hanno fatto emergere, accompagnato e consolidato in Italia la cultura delle competenze e un linguaggio che le significava per gli usi che si incominciavano a fare nelle attività della formazione professionale.  Un ruolo particolare veniva assegnato alle competenze che venivano chiamate trasversali (diagnosticare, relazionarsi, affrontare); le altre venivano distinte in competenze di base e in competenze professionali.

Le hanno proposto come elemento cruciale dell’approccio per competenze, decisive della sua fecondità e necessarietà.
Nel modello ISFOL diagnosticare, relazionarsi, affrontare rappresentano tre macro – categorie di competenze trasversali, caratterizzate da un alto grado di trasferibilità a compiti e contesti diversi e da un ampio spessore, cioè da un’estensione notevole che comprende numerosi elementi subordinati e di dettaglio crescente.
Il modello ISFOL aiuta a comprendere la natura della competenza e a render conto di questa a partire dalla sua logica, che è quella implicita nel concetto di soggetto al lavoro.  Recepisce l’evoluzione del contesto lavorativo che ha spinto a spostare l’attenzione dalle caratteristiche dei compiti alla centralità della persona, in quanto risorsa strategica in contesti ad alta variabilità ed incertezza.  (R.  Frega).
Con le competenze trasversali ci si sposta dall’ambito lavoristico e dalla pratica formativa per e sul lavoro al campo dell’agire umano nella sua varietà e complessità.
“Il grado di padronanza da parte del soggetto dell’insieme di queste competenze, non solo modula la qualità della sua prestazione (…),  ma influisce sulla qualità e sulla possibilità di sviluppo delle sue risorse,  attraverso la qualità dell’informazione che è in grado di raccogliere,  delle relazioni che sa instaurare,  dei feed-back che riesce ad ottenere e di come sa utilizzarli per riorganizzare la sua conoscenza”(G.  Di Francesco).
Nell’ambito delle competenze trasversali vengono inserite,  secondo le varie scuole di pensiero: operazioni mentali come comprendere,  dedurre,  coordinare,  applicare,  analizzare,  trasferire,   interpretare,  valutare;  saper-fare metodologici come prender nota,  strutturare un discorso,  manipolare dei concetti,  padroneggiare dei processi d’astrazione;  attitudini del sapere essere come collaborare,  partecipare,  realizzare progetti personali e/0 professionali,  sapere ascoltare e dialogare,  parlare in pubblico,   sapersi destreggiare.
In genere con il concetto di competenze trasversali vengono indicate capacità e abilità di carattere generale, relative ai processi di pensiero e di cognizione, alle modalità di comportamento nei contesti sociali e di lavoro, alle attitudini della persona di riflettere e a quelle di utilizzare strategie di apprendimento e di auto-correzione della propria condotta.  Hanno uno statuto di generalità che le distingue dalle altre competenze, tutte contestualizzate, e che le rende applicabili a un gran numero di situazioni anche inedite.

Trasversalità delle competenze o competenze trasversali?

La cura delle attitudini al sapere-essere e al sapere agire,  in cui confluiscono le competenze non legate ad una particolare area professionale,  sollecita ad avere uno sguardo diverso sull’attività di insegnamento,  sui contenuti del curriculum,  ma non alla costituzione di uno specifico settore di insegnamento.  Uno studioso come B.  Rey,  che sulle competenze trasversali ha scritto pagine fondamentali,  afferma: “Trovo vana e vanitosa la pretesa di insegnare agli allievi a osservare,  a comparare,  a pensare,  a dedurre,  ad adottare delle strategie riflessive etc,  etc.  Che essi apprendano,  piuttosto, un po’ di matematica,  un po’ di letteratura,  un po’ di storia,  un po’ di biologia,  un po’ di lingue straniere etc”.
Si rischia non solo lo svuotamento dei contenuti e della scuola, ma anche in alcuni ambiti l’indottrinamento e la manipolazione.
La formazione delle competenze del sapere-essere(le soft-skills), senza la dovuta consapevolezza critica,  rischia di piegarsi alle richieste imperative di quanti si adoperano per chiudere ogni possibile frattura tra carattere individuale della persona ed esigenze dell’organizzazione del lavoro nel mondo delle aziende.  In questo caso non avremmo con le competenze del sapere essere la formazione dell’autonomia personale, ma una surrettizia pratica di addomesticamento.
Avremmo l’adattabilità senza riflessione: quella che conduce a rinunciare a comprendere e che induce ad accettare tutto, senza interrogarsi su niente.
A proposito di un possibile autonomo spazio delle competenze trasversali bisogna vedere in che cosa consista e per prudenza è opportuno prendere in considerazione gli avvertimenti di Le Boterf : “La competenza si realizza nell’azione.  Non gli preesiste (. . .  ) Non c’è competenza se non nella competenza in atto.  Non può funzionare a vuoto, al di fuori di ogni atto, che non si limita ad esprimerla, ma che la fa esistere”.
Se questo vale per le competenze che chiamiamo di base o professionale, vale soprattutto per le competenze trasversali.
“La competenza risiede nella mobilitazione delle risorse dell’individuo (sapere teorico e procedurale, esperienziale e sociale) e non nelle risorse stesse.” Come dire che tutte le competenze sono competenze perché sono traversali e che si ha trasversalità, perché c’è mobilitazione delle risorse dell’individuo.
La mobilitazione non appartiene alla categoria dell’applicazione, ma a quella della costruzione delle soluzioni.  “Mobilitare non è soltanto utilizzare o applicare, ma anche adattare, differenziare, integrare, generalizzare o specificare, combinare, orchestrare, coordinare;  in breve condurre un insieme di operazioni mentali complesse che,  quando le si connette alle situazioni,  trasformano le conoscenze, piuttosto che limitarsi a spostarle e trasferirle”(Ph.  Perrenoud).
Secondo questo autore la metafora della mobilitazione delle risorse cognitive è più feconda di quella del trasferimento delle conoscenze.
“Il concetto di mobilitazione prende in conto tutti i funzionamenti cognitivi all’opera nell’identificazione e risoluzione dei problemi”.  Il suo inquadramento concettuale,  però,  non è un’operazione semplice e sono molti e rilevanti i problemi che ancora restano aperti.
B.  Rey parla di intenzione trasversale più che di competenza trasversale, mettendo in questo modo in evidenza l’esercizio cognitivo del volere.
Il concetto di intenzione trasversale tende a superare quello di competenza, come possesso di procedure automatizzate, perché il soggetto non è una rete di automatismi, ma potere di scelta nell’attenzione alle cose.  L’intenzione non è un sapere, ma uno stile di inquadratura delle situazioni, una delimitazione di ciò che è degno di interesse, un principio di selezione.  La capacità di trasferire appartiene all’intenzione trasversale, alla soggettività volente e significante.
Solo l’intenzione è per natura trasversale, il motore della mobilitazione.
“Non basta che l’allievo apprenda competenze intellettuali, procedure, operazioni logiche, regole d’ogni tipo; bisogna anche che decida di vedere il mondo sotto una certa angolatura e precisamente nell’ottica in cui esso appare come possibile ambito di applicazione di queste competenze.  E’ questa a nostro avviso la condizione fondamentale affinchè ci sia trasversalità”(B.  Rey).
E altrove: “E’ più importante il significato che il soggetto dà agli oggetti, alle situazioni,  e alle proprie attività,  piuttosto che i meccanismi mentali oggettivi che la scienza esplora”.
E’ allora inutile fare un discorso specifico sulle competenze trasversali?  Non proprio.  E’ vero che per definire le competenze ci sono più metafore che concetti, che ci si muove in un campo segnato dalla complessità e dalla provvisorietà; è vero anche che non ci si muove nel vuoto e che gran parte delle operazioni e dei processi di pensiero sottostanti alla mobilitazione delle risorse delle competenze o all’intenzione trasversale, di cui parla Rey, sono identificabili per poterci lavorare sopra.
La trasversalità, ad ogni buon conto, è qualcosa di più di un desiderio dei pedagogisti.  L’esperienza ci dice che essa si realizza sia nel campo specifico delle attività professionali, sia nei diversi ambiti dell’agire umano.
La difficoltà di una sua concettualizzazione comune a tante altre usate nozioni pedagogiche non contraddice la percezione che ne abbiamo di fronte a comportamenti improntati sia alla sicurezza del sapere specifico, sia alla fertilità delle soluzioni trovate di fronte a situazioni inedite.
“La trasversalità è una capacità metacognitiva in grado di orientare l’esercizio delle competenze tutte specifiche e operative; la trasversalità è un portato della metacognizione, dell’attività del soggetto sulle proprie pratiche.  Non è attributo delle” cose”(le competenze), ma del soggetto.  Messa in discussione come attributo delle competenze,  è invece attributo essenziale dell’agire competente”(R.  Frega).  Senza trasversalità l’agire umano sarebbe meccanico, irriflessa ripetizione di procedure d’azione.
Se tutto quello che è stato detto ha un senso, questo ci porta a dire che il punto di partenza per la formazione di competenze pregiate e raffinate come sono quelle trasversali è sempre il possesso articolato, profondo, problematico dei saperi, la consapevolezza dei loro rapporti con la realtà delle esperienze umane oltre che della loro specifica storia.
“L’insistenza esclusiva sulla trasversalità, nel senso dell’interdisciplinarietà o della non-disciplinarietà impoverisce considerevolmente l’approccio per competenze.  (. . .  ) La preoccupazione dello sviluppo delle competenze non ha niente a che vedere con la dissoluzione delle discipline in una generica brodaglia trasversale.  (. . .  ) Il tutto trasversale non conduce più lontano del tutto disciplinare” (Ph.  Perrenoud).




Uno spettro si aggira per la scuola: le Non Cognitive Skills

di Giovanni Fioravanti

La Camera ha approvato, l’11 gennaio scorso, pressoché all’unanimità, la proposta di legge relativa all’introduzione dello sviluppo delle competenze non cognitive nei percorsi scolastici.

L’organizzazione degli studi nel nostro paese resta grossomodo la stessa dai tempi di Croce e Gentile, per non dire di Casati, ma la priorità che ora scopre coralmente il nostro Parlamento, con sfoggi culturali da Dewey al Costruttivismo, sono le competenze non cognitive (NCS), vendute come scoperta anglosassone e come panacea per migliorare il successo formativo, prevenire l’analfabetismo funzionale, la povertà educativa e la dispersione scolastica.

La sindrome da bonus edilizia deve avere contagiato i membri dell’intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà fautori della proposta, i quali evidentemente pensano che siano sufficienti alcuni ritocchi alla facciata e i problemi della nostra scuola sono risolti. Si sperimenta per qualche anno e poi si vede, allo stesso modo di come si sta procedendo con la sperimentazione dei licei quadriennali. È la scuola a due velocità, da una parte si sta fermi un giro lasciando tutto inalterato, dall’altra si prova l’ebrezza del nuovo, salvo che non si tratti invece dell’usato riciclato, com’è costume storico nella nostra scuola.

La cosa strabiliante è che la proposta di legge in questione vorrebbe sperimentare l’insegnamento delle life skills, così sono definite dagli economisti le competenze non cognitive, senza indicare in alcun modo cosa siano e quali siano.

La confusione regna sovrana. Per capirci qualcosa bisogna leggere gli ordini del giorno che accompagnano l’approvazione della proposta in Parlamento. In essi si dice che le competenze non cognitive sono le Soft Skills, quelle cioè che rappresentano una risorsa fondamentale per l’accesso al mercato del lavoro come coscienziosità, apertura mentale, autodeterminazione, mentalità dinamica e resilienza. Si evoca il premio Nobel per l’economia nell’anno 2000, James Heckman, per il quale le competenze non cognitive sono l’affidabilità, capacità di lavorare in gruppo, la perseveranza e l’impegno nel processo di apprendimento e nel lavoro.

A nessuno è dato sapere come si raggiungerà e come sarà misurata la “competenza” nelle competenze non cognitive. È comunque importante iniziare fin dalla fase prescolare e dalla prima scolarizzazione, lo suggeriscono il professor Heckman, noto per la sua ricerca empirica in economia del lavoro e, in particolare, per quanto riguarda l’efficacia dei programmi di educazione della prima infanzia. E poi c’è Martin Seligman, psicologo statunitense, fondatore della psicologia positiva, autore di molti best seller come Imparare l’Ottimismo, Come Crescere Un Bambino Ottimista e La Costruzione Della Felicità.

Quando si evocano le competenze non cognitive come un corpo a se stante, specie nella scuola, è difficile non pensare alla teoria del doppio legame della pragmatica della comunicazione e all’ingiunzione divenuta famosa: “Sii spontaneo!”. Sarà interessante verificare gli esiti dell’apprendimento: “essere spontanei”.

In definitiva non sono sufficienti le linee guida dettate dal MIUR per i PCTO, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, occorre una legge in modo che fin da subito i piccoli siano esercitati alle competenze non cognitive. Non è più una questione di competenze chiave per l’apprendimento permanente come richiesto dall’Europa, ma ne va della capacità di resilienza ed autodeterminazione dei nostri figli.

Ora, cognitivo e non cognitivo rischiano di tradursi in una sorta di dubbio amletico, di rompicapo cinese, come scindere il cognitivo dal non cognitivo, quando in realtà si vuole, almeno nelle intenzioni degli estensori della proposta, che a scuola il cognitivo si accompagni al non cognitivo, che conoscenze ed emozioni, ammesso che siano non cognitive, si intreccino durante le ore di lezione.

Noi non le chiamiamo character skills, perché non siamo anglosassoni, ma il nostro sistema scolastico, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, ha come obiettivo la formazione  della persona e del cittadino. Nelle indicazioni curricolari per le nostre scuole sta scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni  persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato.

C’è un’idea di interezza della persona dello studente difficilmente scindibile in mano destra e mano sinistra, in corpo e mente, in cognitivo e non cognitivo.

Dunque non siamo una scuola prussiana che addestra alla disciplina generazioni di alunni. Quindi attenzione ad imporre per legge l’addestramento delle emozioni, delle competenze non cognitive in nome della comunità educante il cui progetto non è detto che concordi con gli “orizzonti di significato” delle nostre bambine e dei nostri bambini, delle nostre ragazze e dei  nostri ragazzi, dei nostri adolescenti.

Mentre Mastrocola e coniuge denunciano il danno scolastico prodotto da una scuola pubblica progressista, i nostri parlamentari invece pensano che è giunto il momento di porre fine alla scuola tutta hard skills e poco soft skills, tutta abilità di calcolo, verbali, logiche, capacità di memorizzazione senza lasciare spazio a motivazione, coscienziosità, positività, estroversione, proattività, stabilità emotiva, eccetera.

Il fatto è che i dati dell’Ocse Pisa e quelli Invalsi ci dicono che le nostre scuole, da nord a sud, neppure per le hard skills brillano.

L’impressione è che intorno al capezzale del malato si agitino maghi della pioggia, improvvisatori, spesso a zero come preparazione rispetto alla cultura che sarebbe necessaria per tentare di guarire il paziente.

Sembra che intorno alla scuola si coagulino tutti i fallimenti a partire da quelli degli adulti nei confronti dei giovani. I comportamenti dei giovani sono sfuggiti di mano, ora bisogna recuperarli e siccome l’educazione famigliare e sociale hanno fallito non rimane che rifugiarsi nella scuola e commissionarle tempo fa l’educazione civica, ora l’educazione della personalità, plasmarne le character skills per correre ai ripari prima che sia troppo tardi, per evitare di crescere adolescenti dalle condotte socialmente destabilizzanti.

E poi il fallimento del mercato, che non sa cosa farsene delle competenze cognitive dei nostri giovani che quando possiedono le hard skills devono andarsene all’estero perché il sistema delle imprese nel nostro paese è arretrato di almeno vent’anni. Infine il fallimento della politica che non conosce la scuola che pretende di governare, che non possiede cultura della scuola e non sa progettare l’istruzione per il futuro.

Viviamo in un mondo controverso, il XXI secolo si è aperto come il secolo della conoscenza, con il tema del cognitivo ingigantito dalla crescita delle conoscenze e dallo sviluppo delle tecnologie, di fronte a questa montagna la nostra scuola ha continuato a fare la parte del topolino. Chi sta attrezzando i nostri giovani a vivere in questo mondo, ad abitare questo secolo senza sentirsi troppo piccoli, senza doversi tirare indietro?

Nel giro di pochi anni siamo passati dal secolo della conoscenza al secolo della resilienza. La preoccupazione di addestrare i nostri giovani alle competenze non cognitive fa sorgere l’inquietante  sospetto che li si voglia preparare a saper reggere l’urto di una annunciata pesante sconfitta nell’incontro con il futuro.