Pedagogia dell’infosfera, tra Ucraina e Italia

di Raffaele Iosa

17 marzo 2022 mattina.
Sono online con Reggio Emilia ad un incontro con i dirigenti scolastici e la Provincia sul tema dell’accoglienza dei bambini e ragazzi ucraini profughi. Buone idee, molto impegno. Dico le solite cose che scrivo in questi giorni: sobrietà, empatia, poche feste e tv all’arrivo (le faremo quando torneranno a casa), no a compassione svenevole, no a domande pettegole, ma molto ascolto e comprensione, serenità e amicizia vera senza fronzoli. Prima di tutto dare continuità e connessione alla loro esperienza scolastica in patria e adesso da noi. Non devono perdere l’anno. Ma soprattutto prepararli per il ritorno, che tutti vogliono. Hanno il padre che combatte in Ucraina, l’ ansia quotidiana è la telefonata da laggiù. Qualcuno potrebbe restare orfano. A loro va quindi offerta una pedagogia del ritorno, non un’accoglienza qualsiasi.
Una preside, tra gli interventi, racconta una cosa sorprendente: due studenti ucraini da poco arrivati chiedono un orario che permetta loro di collegarsi con l’insegnante ucraina che li aspetta…per una Dad. Funziona così: un quarto d’ora prima un sms per dire che l’insegnante è pronta e poi…. Non ne sapevo nulla e mi commuovo: stupefacente, solo dopo tre settimane di guerra.
Ma c’è di più: altri sei presidi confermano che anche da loro succede così. Sta dunque accadendo qualcosa?

Riflettete, colleghi italiani: immaginate Svetlana, Olga, Katiuscia, Natasha, Irina, Pavel nascondersi nella metro o in cantina, mandare sms e poi accendere il computer. Immaginate che nell’infosfera da lì a qui passano tabelline, poesie, racconti, geografia. Soprattutto passano facce e sguardi, sorrisi e tristezze.
Si parlano, si salutano con “priviet” (ciao) e si lasciano con “dasvidanie”. Arrivederci, appunto.
Verifico, finito il webinar, e trovo conferma in altre scuole della regione. Un quotidiano racconta che a Bari succede così. Chiamo amici laggiù e confermano: molte insegnanti ucraine cominciano a collegarsi, lo fanno come possono, lo fanno spontaneamente in attesa di un accordo bilaterale.

Come non pensare che nell’ anima dei nostri colleghi ucraini stia accadendo, in forme più tragiche delle nostre, quello che è accaduto tra noi a marzo 2020, nel durissimo e lungo primo lockdown legato al COVID, in un periodo oscuro con centinaia di morti al giorno. E’ accaduto da noi e adesso da loro un evento di contatto in tutti modi con i loro ragazzi lontani: una generosità educativa che non ha atteso gli ordini. Come da noi, quindi, non didattica a distanza, ma quella che ho chiamato didattica della vicinanza, quella possibile online.

Perché di questo emotivamente e cognitivamente si tratta: ricostruire la relazione, far loro sentire che siamo vicini. Poi, nel tipico bla bla italico, nel tempo la cosa si è fatta ideologismo. Ma per quattro mesi la relazione docenti/ragazzi è stata un incanto. E ha messo in discussione i modi di insegnare.
Accade oggi lo stesso a colleghe e colleghi ucraini: in attesa che i governi si coordinino, tessono i contatti con i loro bambini e ragazzi. Lo fanno da luoghi più scomodi di noi, sotto il rumore delle bombe, senza acqua per lavarsi, col rischio di morire. Pura didattica della vicinanza.

18 Marzo 2022.
Nel sito del Ministero istruzione ucraino  trovo un settore specifico da leggere: “UA, education in wartime: international support”.
Materiali didattici via via in costruzione. In un’ ADN Kronos, ripresa su facebook da Tecnica della scuola, c’è un’intervista al ministro Istruzione Serhiv Schkarlet, che precisa la possibile collaborazione con i paesi europei per aiutare i ragazzi a non perdere la scuola, a mantenere il più possibile il loro curricolo, a preparare il ritorno.
Esattamente la continuità di cui parlo e scrivo da una decina di giorni.
Il ministro Bianchi in un comunicato racconta che il 16 marzo in una riunione del Consiglio d’Europa dei ministri istruzione assieme al collega ucraino Skharlet si è concordata una collaborazione intensa per la scolarizzazione dei ragazzi, con tutte le modalità possibili a partire da quelle online, e l’aiuto sociale e psicologico necessario. Dunque, si stanno muovendo molte cose.
E non rivelo nulla di segreto a pensare che la prossima nota del Ministero sull’ accoglienza dei ragazzi ucraini ne parlerà.
E’ per noi, quindi, il momento di darci alcuni sfondi pedagogici di riferimento per una buona accoglienza.

Penso ad una originale scuola binaria, di cui cerco di tracciare qui i principali sfondi su cui riflettere:

1. Il più possibile, fin che è possibile
Naturalmente, per quanto si possa fare, non sarà possibile offrire sempre a tutti i ragazzi ucraini accolti nelle nostre scuole ore online con le loro insegnanti in Ucraina. Dipende dalle loro condizioni di guerra, perfino dalla loro sopravvivenza. Da quello che capisco sarà più facile fare didattica della vicinanza dalla classe 5.a in poi. Ma tutte le ore online che si realizzeranno dovranno essere valorizzate, senza paturnie burocratiche su assenza/presenza dell’alunno a scuola. Nel momento online sono a scuola, eccome! Piuttosto sarebbe opportuno connettere a questo impegno il nostro parallelo impegno didattico (il binario) sul quale scorrere vicine le nostre attività. Sarà un’impresa molto interessante, anche se frastagliata.
Importante sarà comunque conoscere i curricoli e l’organizzazione della scuola ucraina, cercando le molte analogie con noi e le differenze. Forse anche imparare reciprocamente dalle differenze, bambini italiani e ucraini che si imparano vicendevolmente. Importante far notare che la presenza online delle colleghe ucraine allevia anche la questione dei mediatori linguistici se si debbano o meno utilizzare come insegnanti. Meglio forse utilizzare le madri rifugiate con i figli in Italia, se di professione e studi insegnanti.

2. Curricolo del doppio binario
Dunque, sulla base dell’online che sarà possibile realizzare, e dei materiali virtuali che i ragazzi ucraini troveranno nei siti a loro dedicati, sarà possibile costruire un curricolo breve in forma di binario. Suggerisco di pensare solo ai prossimi tre mesi, fino a giugno, inutile per adesso andare oltre. Dunque la parte italiana delle attività potrebbe essere di diversi tipi: complementari, di approfondimento, sostitutive, alternative. Banale è l’esempio dell’educazione fisica, che online non è possibile, ma anche delle discipline artistiche e creative. Importante è approfondire la lingua straniera, che può essere utile come veicolo comunicativo universale. Ovviamente il curricolo dovrà essere personalizzato secondo le diverse condizioni di ogni bambino e ragazzo.

3. Sbirciarsi dallo schermo e condividere tutto il possibile
Eppure c’è una questione relazionale e pedagogica che sarebbe utile realizzare. Mi piacerebbe pensare che in un incontro online con il suo ragazzo ucraino, la loro Svetlana e la nostra Maria potessero almeno sbirciarsi e salutarsi. Mi piace pensare che se Maria e Svetlana non hanno una lingua da condividere, la prima faccia dei gesti per far capire alla collega che verso quel bambino noi siamo qui ad aiutarlo e che non lo molleremo mai alla tristezza o alla solitudine. Siamo loro sostituti, ci crediamo. Ma se le due potessero capirsi (es. inglese, ma molte ucraine sanno un po’ di italiano) potrebbe crearsi quel binario pedagogico di scambio e collaborazione con effetti pratici molto interessanti. Una pedagogia dello scambio mutualistico, pieno di umanità.

4. Il binario per i più piccoli
Per i bambini più piccoli, quelli della scuola infanzia e forse anche dei quattro anni di primaria, è possibile che siano meno le occasioni di connessione online. In questo caso sarà importante avere un buon rapporto con le madri per capire i loro figli e conoscere il meglio possibile i curricoli ucraini per realizzare un binario armonico e coerente anche se basato su una sola lingua. In questo caso, importante ancora di più sarà la relazione con i compagni coetanei italiani.

5. Cominciare a pensare l’estate
E poi, forse bisogna pensare presto a come organizzare la loro estate. I ”patti territoriali di comunità” con gli enti locali e le molte esperienze estive presenti nelle nostre città sono esperienze che vanno favorite e sviluppate a partire dalla scuola. Giugno arriva tra poco. Guai a lasciarli soli.
Suggerirei, infine, a non pensare per ora all’ anno scolastico prossimo. Conviene un intervento caldo e positivo per questi mesi, i più difficili. Ma meglio non anticipare troppo decisioni che potrebbero, anche involontariamente, essere premature. Si rischia altrimenti, in buona fede, di relegarli alla psicologia dell’esilio.




Apologia dell’insegnante

di Raimondo Giunta

DALL’INSEGNAMENTO ALL’APPRENDIMENTO.

Si è fatto scuola e si continua a farla con il convincimento che nel processo di formazione l’insegnante sia una figura indispensabile di mediazione tra il sapere costituito e il bisogno di apprendere dell’alunno; un bisogno che non dovrebbe essere preso a pretesto per volerne la sottomissione, come d’altronde la funzione e la posizione dell’insegnante non dovrebbero essere sostenute da alcuna pretesa di potere. Purtroppo la funzione e la posizione dell’insegnante nel processo di formazione da qualche tempo sono state sottoposte a critiche severe, alcune delle quali più suggestive che razionalmente sostenute.
Che la scuola e quindi l’insegnante non siano più nella società della conoscenza gli unici dispensatori del sapere, non c’è nessuno che lo possa negare, perché è divenuto reperibile in ogni momento e in ogni luogo.
Che non siano più gli unici, non vuol dire che non debbano più svolgere la funzione di trasmettere conoscenze o che non lo possano più fare. Vuol dire senza dubbio che la trasmissione del sapere e delle conoscenze deve essere fatta in modo diverso rispetto al passato, ma anche che con chiarezza debba essere circoscritta, indicata e valorizzata l’area specifica che in questo campo attiene alla scuola e che solo a scuola può essere coltivata. Fatto che richiede prestazioni professionali diverse, ma connaturate alla funzione magistrale dell’insegnante, alla sua responsabilità di orientamento e di direzione nei processi di formazione.
La centralità della figura dell’insegnante nel modello educativo del passato, che ad ogni buon conto non era affatto privo di preoccupazioni per la crescita equilibrata e intelligente degli alunni, si dice che debba essere sostituita da quella che deve avere l’alunno nel modello educativo che si vuole costituire. Una rivoluzione copernicana, adatta alla sensibilità attuale, in sintonia con le trasformazioni di costume, con l’espansione dell’area delle libertà individuali.
Se il ribaltamento delle posizioni di primato nelle relazioni educative è comprensibile e anche auspicabile, si deve cercare di capire quali siano le conseguenze che ne derivano. Di fatto viene messo in discussione il paradigma educativo centrato sulla trasmissione delle conoscenze e dei valori tradizionali, che ha avuto come suo interprete autorevole l’insegnante col suo sapere. Se sono un problema di prima grandezza il ruolo e la posizione che l’alunno deve avere nelle relazioni pedagogiche, certamente in queste non può sparire l’insegnante e non può sparire il sapere. Nel triangolo educativo ci deve essere spazio per i docenti, per il sapere e per gli alunni; sarà la percezione di opportunità, che i luoghi e i tempi di volta in volta stimolano, a determinare il punto di inizio e le modalità delle relazioni reciproche nel processo di formazione. Sono, però, le finalità del sistema di istruzione e formazione a stabilire come, quando e da chi debba essere occupata la scena principale dello spazio educativo.

Si dice che è cambiata la direzione dei processi formativi e che ora si deve andare dall’insegnamento all’apprendimento e se ne parla a volte, come se questo possa avvenire a prescindere dalla figura dell’insegnante, come se l’alunno possa apprendere da solo e l’insegnante col suo sapere sia un impedimento. Posizione chiaramente insostenibile, ma che a questo non si ferma in alcuni casi, perché, anche se non esplicitamente, si arriva a parlare del primato dell’apprendimento e della capacità di apprendere, ma prescindendo dal valore dei contenuti e del sapere che si possono e si devono apprendere a scuola. A quelli che sostengono queste opinioni deve essere ricordato che l’istituzione scolastica è legittimata ad esistere perché tenuta a svolgere il compito di trasmettere da una generazione ad un’altra il patrimonio di saperi, di conoscenze, di tecniche e di valori del passato e solo per questo ha un senso che in ogni scuola si incontrino studenti e docenti. La scuola non può smettere di essere luogo di trasmissione razionale e ordinata del sapere, luogo di formazione di conoscenze strutturate. Per essere in grado di partecipare alla vita sociale ed esercitare i diritti di cittadinanza, i giovani devono prima partecipare alle grandi tradizioni del sapere, fatto possibile se una persona viene istruita e riesce a portarsi all’altezza dei saperi e delle conoscenze che è necessario possedere.
Le questioni prima esposte hanno un certo rilievo e non sono tutti risolvibili nella logica delle relazioni nel processo di formazione, perché vi sono implicati temi che sono prima e dopo di esse ed è necessario ragionarvi con pazienza e attenzione. Delle innovazioni non si deve avere paura, e quando le circostanze lo richiedono vanno introdotte, ma sapendo in partenza definire i propri fattori di riuscita e quelli eventuali di insuccesso; sapendo conoscere e praticare le regole del giuoco che si vuole fare. Non si cambia per il semplice gusto di cambiare.
I modelli educativi, che sono cosa seria, variano in funzione della concezione che si ha dell’uomo, della società e delle loro relazioni e non per caso o per moda.

ARTEFICI DEL PROPRIO APPRENDIMENTO

Nel paradigma che si vuole sviluppare ed estendere l’iniziativa dell’apprendimento viene affidata all’alunno e l’insegnante da mediatore privilegiato del sapere si trasforma in un organizzatore di situazioni di apprendimento. A soccorso di questa innovazione vengono chiamate le diverse formulazioni del costruttivismo, secondo le quali l’apprendimento è visto come attività di chi apprende, sia individualmente sia in una comunità di apprendimento. Le concezioni costruttivistiche sottolineano la centralità del soggetto apprendente che attivamente e intenzionalmente costruisce la propria conoscenza e riflette sul proprio modo di apprendere.
Sono teorie che intendono creare un quadro di intelligibilità delle pratiche didattiche, anche se non ne privilegiano qualcuna in particolare e stimolano a precisare le intenzioni pedagogiche e a determinare meglio le procedure più adeguate per gli scopi che si vogliono realizzare. Sono un quadro di riferimento, non modelli da applicare ciecamente. Per cui fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire“ le loro conoscenze, non sarà per nulla facile perché comporta un lavoro di innovazione di un certo rilievo e soprattutto perché non viene mai meno il compito dell’insegnante di convincere studenti, che spesso non mostrano particolare attenzione e interesse per tutto quello che si fa a scuola, del valore e dell’importanza degli argomenti che vengono affrontati nelle attività didattiche. Altrimenti sarebbe difficile vederli all’opera; a spingerli a lavorare non sarà la propria autonomia, ma il convincimento di fare cosa buona e giusta.
Ad ulteriore chiarimento va detto che se si possono modificare gli ambienti di apprendimento per dare spazio all’attività del soggetto apprendente, l’epistemologia dei saperi da apprendere non cambia affatto. Le strutture del sapere sui quali devono essere edificate le competenze non sono nella libera disponibilità degli alunni e dei docenti e non è una buona idea non educare gli alunni a misurarsi con i vincoli di questa necessità. Per possedere certi saperi è una necessità apprendere quel che va appreso, quale che sia il modo di apprenderlo.
Per consentire ai giovani di accedere a particolari professioni e a determinate occupazioni è assolutamente indispensabile che il tenore dei contenuti, la loro progressione debba essere stabilita da chi dirige il sistema di istruzione; responsabilità delegata alle singole scuole e agli insegnanti e che non può essere nè negata, nè trascurata, nè arbitrariamente modificata.
L’insegnante non sparisce e non può sparire; si tende a cambiargli i connotati, per trasformarlo in gestore delle interazioni socio-cognitive e comunicative e tutto questo perché il valore fondante del nuovo modello pedagogico è l’autonomia dell’alunno che in tanto è possibile formare e sostenere, in quanto viene messa alla prova nelle relazioni del processo formativo, nelle modalità di sviluppo delle procedure didattiche. Autonomia, si spera, come “capacità di autodeterminazione e di autoregolazione, secondo un adeguato senso di responsabilità verso se stessi, verso gli altri, la comunità, l’ambiente sociale e naturale” (M. Pellerey)
L’autonomia dell’alunno è una finalità di alto profilo, ma sarebbe incomprensibile che per essa si voglia alleggerire l’insegnante della responsabilità di trasmettere i contenuti della sua disciplina, per insistere sulla sua attitudine ad ascoltare gli alunni e ad incoraggiarli.
Non è scritto da nessuna parte che l’apprendimento debba essere noioso; è scritto che ci si debba preoccupare di renderlo interessante e anche piacevole, se fosse possibile.
E’ scritto soprattutto che debba essere solido e duraturo. E a proposito di iniziativa e di autonomia dell’alunno in quali campi possono essere esercitate? Sulla scelta degli argomenti? Sulle modalità del lavoro scolastico? Sulla valutazione dei risultati di apprendimento? Sulla tipologia delle prove? ”Un processo costruttivo che voglia essere valido e fecondo implica che chi lo mette in pratica abbia a disposizione un progetto chiaro e puntuale nelle sue varie componenti, sintetizzabili nella questione; perché e come. Ma è ben difficile che nel caso dell’apprendimento di nuove conoscenze il progettista e il capocantiere possa essere lo stesso studente”(M. Pellerey).

Si tende a definire l’educazione a partire dal soggetto, dallo sviluppo e dalla cura delle sue attitudini e capacità e a fare dell’apprendimento degli alunni l’unico problema della scuola: un problema dai risvolti individuali.
La scuola, però, è un’istituzione pubblica e il suo dovere è quello di trasmettere il sapere collettivo di una comunità, i suoi valori e le sue regole, di integrare nella comunità le nuove generazioni. Non si può ridurre il compito dell’educazione a quello dello sviluppo delle capacità individuali, dimenticando di indicare le finalità di interesse pubblico che vanno raggiunte. Si rischierebbe di far perdere al sistema di istruzione e formazione la sua dimensione sociale e collettiva.
E’ importante, poi, solo apprendere ad apprendere o anche apprendere anche qualcosa? Qualcosa che serva per il lavoro? Qualcosa che serva per la società ? Qualcosa che serva per la vita?
Se così non fosse tutto si ridurrebbe a metodologia del conoscere e dell’apprendere; si resterebbe in una dimensione soggettiva e quasi pre-valoriale; si svaluterebbe il sapere costituito, che è civiltà, che è tradizione, che è ambiente, che è società.
Tra conoscenze apprese e saperi c’è qualche differenza che non sempre viene tenuta presente.
”La conoscenza è individuale, mentre il sapere è collettivo. La conoscenza è relativa alla persona che la “costruisce”, il sapere è fissato da un gruppo sociale che lo ha codificato. La conoscenza appartiene alla persona; i saperi sono determinati socialmente e descritti in codici scritti, orali, etc. La conoscenza è definita dalla proprietà della cognizione, il sapere dagli attributi del codice per conservarlo e utilizzarlo (sintassi e semantica). I saperi appartengono alla logica della disciplina alla quale appartengono e alle pratiche sociali che li hanno generati”(Ph. Jonnaert).
E’ proprio perché le conoscenze sono individuali e i saperi sono collettivi viene da dire che impropriamente e ingiustificatamente il come si apprende eccede in valore su ciò che deve essere appreso come futuro lavoratore e come futuro cittadino.

IL MAGISTERO DELL’INSEGNANTE

Le ricerche di John Hattie sull’efficacia delle metodologie didattiche hanno messo in evidenza la funzione centrale del docente nei processi di formazione e che quando manca la sua direzione gli approcci didattici innovativi, ai quali si affidano molte speranze, non danno i risultati sperati. I metodi meno direttivi favoriscono gli alunni migliori, mentre danneggiano i più deboli, perché per loro è più pesante il carico cognitivo per fare fronte alle responsabilità loro assegnate. Le procedure di insegnamento diretto, contro le quali si continua a schierarsi, danno migliori risultati.
”Quando l’insegnamento esplicito è chiaro e il docente mette in luce i passaggi fondamentali e le variabili critiche di quanto espone, evidenzia i percorsi e gli schemi mentali che debbono essere utilizzati e l’appropriato vocabolario che deve essere padroneggiato, egli rende visibile ed esplicito quanto potrebbe rimanere nascosto e implicito. ”(M. Pellerey).
Se un alunno deve affrontare un contenuto nuovo e di un certo spessore culturale e teorico, il buon senso dice che è opportuno che venga introdotto nei concetti che lo costituiscono e che venga guidato nelle pratiche messe in campo per acquisirne le abilità essenziali. Solo dopo che avrà acquisito gli elementi fondamentali e li ha conservati ben strutturati nella sua memoria può essere indirizzato a svolgere in autonomia le proprie ricerche o a risolvere i problemi che gli vengono assegnati. L’insegnamento esplicito e diretto, che nella lezione, ha uno dei modi di realizzarsi, non toglie nessuna iniziativa all’alunno, non ne menoma il compito e l’impegno di apprendere, anzi facilita questa avventura intellettuale, perché toglie di mezzo tanti ostacoli superflui. Sono il significato e la funzione che si danno a questo tipo di intervento a determinare il grado di autonomia che viene lasciato all’alunno e che si dà alla sua attività di apprendimento. Lasciato a se stesso non è detto che l’alunno eserciti la sua autonomia nel modo migliore e più efficace. L’insegnamento diretto non si riduce chiaramente alla lezione frontale, e tutti gli altri modelli didattici non possono fare a meno della direzione e della guida culturale dell’insegnante.
Solo svolgendo la sua funzione magistrale l’apprendimento dell’alunno potrà essere costruttivo, stabile, significativo e fruibile. Il suo compito non si colloca dopo l’apprendimento dell’alunno, ma prima e accanto e non è ragionevole e in alcun modo giustificato ridimensionarne l’importanza. Certamente l’alunno apprende da sè e nessun altro può farlo al suo posto, ma appoggiandosi sul sostegno e l’esperienza dell’insegnante. Per apprendere l’alunno ha bisogno di incontrare situazioni di comunicazione, di scambio e di confronto con chi ha esperienza e conoscenza.
Con questo non si vuole dire che il sapere dell’insegnante debba essere replicato dall’alunno, ma che è necessario per fare comprendere la distanza tra esperienza personale e sapere costituito, la complessità dei contenuti ai quali ci si deve avvicinare, le difficoltà per conquistarli, l’inestinguibilità del dovere di conoscere. La sua salvaguardia è la salvaguardia del rilievo culturale e scientifico delle discipline di cui sono responsabili e del curriculum in cui si sostanzia la funzione conoscitiva ed educativa della scuola. Il loro sapere serve per fare apprendere e se utilizzato bene per fare comprendere. Insomma l’insegnante non è un tecnico di laboratorio e nemmeno uno psicologo. Nessuno mette in discussione che ci sia bisogno di una diversa relazione educativa tra docente e alunno; una relazione da instaurare sul principio del valore intrascendibile della persona dell’alunno, che ha tutto il diritto di sapere, di capire e di farsi sempre una propria idea; perché solo la sua partecipazione attiva al processo di formazione renderà solido l’apprendimento. Nessuno mette in discussione che per fare crescere in autonomia e in libertà l’alunno, bisogna interpellarlo, aiutarlo a problematizzare, coinvolgerlo in attività di elaborazione di senso, dargli fiducia, Nessuno, se tutto ciò viene fatto, ha bisogno però di escogitare nuovi primati nelle relazioni educative.
”Certo anche nelle altre classi si insegnavano molte cose, ma un po’ come s’ingozzavano le oche. Si presentava loro un cibo pre-confezionato e si invitavano i ragazzi ad inghiottirlo. Nella classe del signor Bernard per la prima volta in vita loro sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo” (A. Camus).




Divagazioni e frammenti di riflessione sulla scuola e sui giovani

di Raimondo Giunta

• Per apprendimenti significativi e duraturi ci vuole del tempo e della pazienza, ma a scuola si ha sempre fretta e ci sono tante scadenze, tanti impegni da onorare; tanti progetti da portare a compimento. Al posto della riflessione regna sovrana la concitazione.
E’ forse questa la causa che impedisce di prestare la dovuta attenzione ad ogni alunno; è forse questo il motivo per cui è ancora alta la dispersione. Ma su questo problema non mi pare che si abbia voglia di capire e di andare fino in fondo.

• Una scuola è davvero scuola di democrazia, se non lascia nessuno indietro e se gli insegnanti si impegnano, affinchè tutti gli alunni posseggano i saperi indispensabili per orientarsi nella vita. Lavorare per raggiungere questo scopo non significa abbassare il livello delle esigenze, ma scegliere la condivisione, piuttosto che la discriminazione; significa volere il successo di tutti e non quello di una minoranza. Gli alunni in difficoltà, come dice Meirieu, rendono un servizio immenso agli insegnanti e ai compagni, perchè li rendono consapevoli dei problemi che bisogna affrontare per crescere e andare avanti. E molti alunni a scuola sono in difficoltà, perchè spesso sono arbitrarie le mete che si dovrebbero raggiungere, arbitrari i livelli da superare, non adeguati i metodi di insegnamento.
• Educazione buona, oggi, significa porre attenzione alle dimensioni affettive e spirituali della persona. A molti ragazzi manca l’affettività della famiglia, ma non dovrebbe mancare quella della scuola. Bisogna preoccuparsi della formazione degli alunni, ma anche dei problemi della loro esistenza. Il mondo è talmente cambiato che i giovani devono reinventarsi tutto (M. Serres)e non possono essere lasciati soli.• Senza la voglia di imparare non si produce apprendimento; non c’è in giuoco , però, solo l’elemento intellettuale, cognitivo e la mancanza di motivazioni nello studio non è solo un problema pedagogico -scolastico. Bisognerebbe essere capaci di trasformare gli scopi della formazione in interessi presenti e quotidiani.
• Bisogna allenare i giovani a sapere utilizzare l’immenso capitale culturale parallelo ed esterno a quello della scuola; farli diventare capaci di discernimento e di selezione delle informazioni. L’educazione e l’istruzione sono oggi una sfida difficile, ma sono le uniche alternative alla stupidità e alla violenza, alla seduzione dei media che non danno conoscenza. La scuola sia per i giovani, che vivono immersi nella realtà virtuale, l’incontro con le cose, le persone, le tradizioni e i valori del mondo circostante. Senza farsi molte illusioni. Lo sviluppo delle sole qualità intellettuali può non avere alcuna influenza sui tratti morali di una persona.
• Si richiedono ai giovani capacità di iniziativa, attitudini al lavoro di gruppo e alla collaborazione, senso di responsabilità; ma come possono acquisirli se in classe si crea un clima competitivo individualistico e si lavora con una didattica autoritaria?
D’altra parte l’educazione al senso di responsabilità non compete solo alla scuola, perché se dovesse appartenere solo alla scuola, non si andrebbe molto lontano con tanti cattivi esempi nelle istituzioni e nella società.
• Il mondo giovanile che riempie la scuola è diventato complesso e a volte indecifrabile a motivo della sua sempre più frastagliata composizione sociale, della sua diversa provenienza nazionale, della sua molteplice appartenenza religiosa. Nella società multietnica e multiculturale è improponibile un solo modello indiscutibile di razionalità, di cultura e di umanità; a scuola non ci dovrebbero essere mondi da civilizzare; l’etno-centrismo delle nostre tradizioni scolastiche non è un fattore di integrazione e andrebbe seriamente discusso.
• E’ cresciuta in modo esponenziale l’insofferenza giovanile verso la scuola, perchè molti non sono preparati a vivervi dentro e ad accettarne regole e ritmi.
E’ cospicua la parte dei giovani che abituati a casa ad un regime di vita di assoluta libertà, a scuola non riescono a trovarsi a proprio agio e ad accettare quelle limitazioni che consentono di potere svolgere regolarmente le attività di formazione. A scuola è necessario che tutti si riconoscano vincolati, per potere stare insieme, da quei principi che consentono nello stesso tempo di rispettare le altrui esigenze e le proprie; gli altrui convincimenti e i propri e che lo spazio comune di convivenza sia gelosamente delimitato e difeso.
• Bisogna chiedersi che tipo d’uomo e di società si vuole. Il primo dei compiti della scuola è quello di dare gli strumenti ai giovani per costruire il proprio progetto di vita, per potere partecipare alla vita democratica. Non si diviene umani da soli, ma con l’educazione che ci rende membri di diritto, eredi consapevoli del patrimonio di conoscenze e di valori della società a cui si appartiene ed oggi persone accoglienti, dialoganti, aperte alla comprensione e all’accettazione delle diversità. Le differenze vanno capite, rispettate, ma non coltivate. Bisogna trovare una comune visione del futuro.




Le invarianti nella pedagogia Freinet

di Giancarlo Cavinato

Il congresso di Caen dell’ICEM, Institut coopératif de l’Ecole Moderne, movimento francese della pedagogia Freinet, tenutosi a Caen, in Normandia, nell’agosto del 2013, era dedicato all’invariante n. 1 ‘il bambino è della stessa natura dell’adulto’.

‘E’ come un albero che non ha ancora ultimato la sua  crescita ma che si nutre, cresce e si difende esattamente come l’albero adulto. Il bambino si nutre, sente,  soffre, ricerca e si difende esattamente come voi,  solamente con dei ritmi diversi che sono dovuti alla sua debolezza organica, alla sua ‘ignoranza’, alla sua inesperienza, ma anche dal suo incommensurabile potenziale di vita, spesso pericolosamente compromesso dagli adulti. Il bambino agisce e reagisce in conseguenza, e  vive esattamente in base ai vostri stessi principi. Fra voi e lui non c’è una differenza di natura ma solo di grado. Di conseguenza: prima di giudicare un bambino o di sanzionarlo, fatevi soltanto la domanda: ‘se fossi al posto suo, come potrei reagire? E come agivamo quando eravamo come lui?’”  ( C.Freinet)

Nel cortile dell’università di Caen un cassonetto era simpaticamente dedicato ai presupposti fondamentali  stilati da Freinet con la scritta ‘je récicle toutes les invariantes’
Un pannello invitava i partecipanti nel corso del congresso  a commentare l’invariante n° 1 su dei cartelloni a disposizione.


Questa invariante, scelta come filo conduttore del congresso, è stata assunta come criterio per interrogarsi sugli effetti della pedagogia Freinet a livello del bambino ( desiderio di conoscere, apprendimenti scolastici e sociali, ruolo nella scuola e nella società, comprensione del mondo e dell’umanità,..), a livello dell’adulto ( sguardo e accoglienza del soggetto nella sua singolarità,  funzione dell’educatore, lavoro d’équipe, trasformazione della scuola,…).

Le invarianti sono trenta, raggruppate in paragrafi:

  1. La natura del bambino ( invarianti 1-3)
  2. Le reazioni del bambino ( invarianti 4-10)
  3. Le tecniche educative ( invarianti 11-30)

Le prime tre invarianti recitano, a seguire alla prima, ‘Essere più grande non significa necessariamente essere al di sopra degli altri’ ( n° 2); ‘Il comportamento scolastico di un bambino è funzione del suo stato fisiologico, organico e costituzionale’ ( n° 3).

Nelle invarianti Freinet esprime ottimismo e fiducia nella vita ( vitalismo).
Fra le più significative anche oggi:

Le reazioni del bambino:

Invariante n°4: Nessuno – il bambino come l’adulto- ama essere comandato d’autorità

Invariante n°6: A nessuno piace essere costretto a fare un certo lavoro, anche se questo lavoro non dispiace particolarmente. E’ la costrizione che è paralizzante.

Invariante N°8: Nessuno ama girare a vuoto , agire come un robot cioè fare degli atti, piegarsi a dei pensieri che sono iscritti in meccanismi ai quali non si partecipa.

Invariante n°9: Bisogna motivare il lavoro.

Invariante 10bis: Ogni individuo vuole riuscire. La bocciatura è inibitrice, distruttrice dell’andatura e dell’entusiasmo.

Le tecniche educative:

Invariante 11: la via normale dell’acquisizione non è affatto l’osservazione, la spiegazione e la dimostrazione, processo essenziale della scuola, ma il tatonnement sperimentale, approccio naturale ed universale.

Invariante 13: le acquisizioni non si fanno , come talvolta si crede, tramite lo studio delle regole e delle leggi , ma con l’esperienza. Studiare anzi tutto queste regole e queste leggi, in francese, in arte, in matematica, in scienza, è mettere il carro davanti ai buoi.

Invariante 14: L’intelligenza non è, come l’insegna la scolastica, una facoltà specifica che funziona come un circuito chiuso, indipendente da altri elementi vitali dell’individuo.

Invariante 15: La scuola coltiva solo una forma astratta d’intelligenza, che agisce, fuori dalla realtà viva, tramite le parole e le idee fisse della memoria.

Invariante 16: Il bambino non ama ascoltare una lezione ex-cattedra.

Invariante18: Nessuno, né bambino né adulto, ama il controllo e la sanzione che sono sempre considerati come una offesa alla sua dignità, soprattutto se esercitati in pubblico.

Invariante 19: I voti e le classificazioni sono sempre un errore.

Invariante 21: Il bambino non ama il lavoro gregario al quale l’individuo deve piegarsi. Ama il lavoro individuale o il lavoro d’équipe in una comunità cooperativa.

Invariante 24: La vita nuova della scuola presuppone la cooperazione scolastica, cioè la gestione da parte degli utenti , educatori compresi, della vita e del contesto scolastico.

Invariante 27: Si prepara la democrazia di domani con la democrazia a scuola. Un regime autoritario a scuola non può essere formatore di cittadini democratici.

Invariante 30: Alla fine un invariante che giustifica tutti i nostri tatonnements e autentifica la nostra azione: è l’ottimistica speranza sulla vita.

(Freinet C., Les invariants pédagogiques– Oeuvres pédagogiques- Seuil-Paris-1994-vol2 pp383-413) (traduzione Alain Goussot)

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Educazione alla sessualità: non è mai troppo presto

di Giuliana Sarteur

L’educazione sessuale è un processo che inizia precocemente nell’infanzia e continua durante l’adolescenza e la vita adulta; mira a sostenere e proteggere lo sviluppo sessuale, fornisce informazioni, competenze e valori positivi per comprendere la propria sessualità e goderne, intrattenere relazioni sicure e gratificanti, comportandosi responsabilmente rispetto a salute e benessere sessuale proprio e altrui.
In questi termini il focus principale, quale elemento positivo , è la sessualità intesa come potenziale umano e fonte di gratificazione e di piacere, mentre la necessità di conoscenze e di abilità nel prevenire problemi di salute sessuale viene al secondo posto, pur rimanendo un diritto assoluto. A quale livello dobbiamo attivare questo lungo percorso?


Il primo approccio, i primi quesiti vengono posti in famiglia e si tratta di quella che potremmo chiamare educazione informale, basata prevalentemente sull’esempio di ruolo dei propri familiari: secondo le teorie dell’attaccamento, i primi mesi, i primi anni di vita saranno fondamentali nel predire le future relazioni anche scolastiche: il modello di comportamento strutturato potrà essere sicuro, ansioso oppure evitante.
In un secondo tempo la necessità di una educazione strutturata sarà compito del legislatore e delle strutture scolastiche preposte e finalizzate, con personale preparato ed integrato in materie di insegnamento già esistenti: scienze biologiche, etica, filosofia.
Un programma di educazione sessuale dovrà però essere condiviso con varie attività educative rivolte alla famiglia e alla opinione pubblica al fine di scoraggiare miti ed incomprensioni: l’educazione sessuale non è uno strumento che induce ad una sessualità agita precoce.
I ragazzi hanno fonti di informazione spesso inaffidabili, scorrette e pericolose. La pandemia ha prodotto giovani intossicati dal digitale: sui social imparano un sesso dominato dalla logica della prestazione ed una sessualità femminile sottomessa con forme spesso brutali.
Il porno è fantasia possibile, non va demonizzato, ma non è educazione, ci si aspetta un rapporto veloce senza corteggiamento, senza emozioni e ragazze sempre disponibili con corpi perfetti. Una sessualità scissa dalla relazione.
E’ necessario rendere i bambini ed i ragazzi più consapevoli e meno vulnerabili rispetto ai possibili abusi: la facilità di accesso ai siti pornografici o peggio pedo-pornografici rende questi ragazzi bisognosi di attenzione e di risposte affinché non siano dipendenti e vittime.
In questa dimensione educazione ed informazione sessuale sono gli aspetti di una stessa medaglia, attiviamo la conoscenza del corpo sia anatomica che sensoriale con le dovute differenze nel maschile e nel femminile, imparando a capire ed indirizzare i messaggi del corpo. I dati epidemiologici purtroppo evidenziano ancora un alto tasso di natalità tra i minori, ricorso elevato alla contraccezione d’emergenza e gravidanze indesiderate, malattie sessualmente trasmesse compreso HIV.




Il paese sbagliato, per ricordare Mario Lodi chiediamoci che scuola vogliamo

Stefanel

di Giovanni Fioravanti

Non c’era solo Mario Lodi nel paese sbagliato, ma anche Bruno Ciari maestro a Certaldo e Albino Bernardini maestro nella borgata romana di Pietralata.

Poi c’eravamo anche noi, giovani maestri vincitori di concorso a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Mandati a insegnare nelle classi di “risulta”, quelle “difficili” con 35 alunni tutti ripetenti, adolescenti condannati alle elementari.

Il primo giorno che arrivai a Comacchio, la sede che mi fu assegnata ai primi di dicembre del ’69, mi trovai di fronte una madre venuta a protestare perché la supplente aveva tirato la cimosa contro un alunno il quale per tutta risposta aveva lanciato una seggiola alla volta dell’insegnante, fortunatamente senza colpirla.

Il giorno dopo per raggiungere la mia classe confinata nella sala mensa dell’ECA (l’allora Ente di Assistenza Comunale, sede del Patronato Scolastico), passai davanti ad un’aula buia, pensando che fosse vuota, così avrei potuto trasferirmi lì con i miei alunni, accesi la luce e mi ritrovai di fronte a trenta alunni lasciati tutti in ginocchio, alla mia domanda cosa facessero in quella posizione la risposta fu che erano in punizione e che la loro maestra era dal direttore.

Non è che la scuola elementare ai Cappuccini di Comacchio fosse un’ eccezione, era la normalità del massimo oscurantismo educativo che aveva trovato la sua espressione pedagogica nei programmi Ermini del 1955, con l’insegnamento della religione cattolica a “fondamento e coronamento” di tutta l’educazione impartita dalla scuola pubblica.

Venivo dalle lezioni di Guido Petter sul Piaget, recuperato vent’anni dopo che nel 1945 era fallito, per via dei problemi economici del nostro paese, il tentativo dello Washburne di mandare alcune maestre e maestri all’università di Ginevra per apprendere la lezione dello psicologo di Neuchâtel.

Questo era il paese sbagliato dove ho incominciato a insegnare, dove l’insofferenza per cattedre, banchi, lavagne, per quelle giovani vite impacchettate nei grandi scatoloni delle nostre aule mi portò a studiare, a ricercare fino a scoprire la pedagogia popolare di Célestin Freinet, la cooperazione educativa, il Movimento di Cooperazione Educativa, maestri come Lodi, Ciari, Bernardini le cui esperienze erano da leggere e imitare, perché avrebbero cambiato “il mestiere del maestro” come scriverà nel 1974 un altro compagno di strada: Fiorenzo Alfieri.

Si trattava di contrapporre a una pedagogia reazionaria che sprigionava ancora miasmi di idealismo fascista, una pedagogia rispettosa della centralità e particolarità di ogni bambina e bambino, ragazza e ragazzo. Di applicare nella didattica quotidiana le tecniche didattiche di cui scriveva Bruno Ciari, le esperienze del giornalino “Insieme” di Mario Lodi, la sua biblioteca scolastica, con l’abolizione dei voti, dei libri di testo, la scrittura dei testi liberi e la tipografia per stamparli, il calcolo vivente. La conoscenza di un’infanzia “operatoria” come ce l’aveva descritta il Piaget, lo strutturalismo pedagogico di Jerome Bruner, tutta una cultura di attrezzi pedagogici a cui la scuola italiana contrapponeva ignoranza e resistenza.
Era anche una battaglia politica che facevamo contrapponendo ad una scuola autoritaria e antidemocratica i principi di una pedagogia socialista ispirata agli studi di Dina Bertoni Jovine, al Poema Pedagogico di Makarenko, a Giuseppe Lombardo Radice, alla Riforma della Scuola, pubblicata dagli Editori Riuniti.

Se oggi la nostra scuola primaria può essere presa a modello lo dobbiamo a loro: Mario Lodi, Bruno Ciari, Albino Bernardini, alle tante maestre e ai tanti maestri del Movimento di Cooperazione Educativa come Franco Lorenzoni, che hanno posto giorno dopo giorno uno sopra l’altro i mattoni dell’ innovazione didattica e attraverso essa della liberazione dell’infanzia dall’oppressione scolastica.
È una battaglia che non è finita, che richiede una vigilanza quotidiana contro i tentativi di restaurazione.
Ora tutti corrono a celebrare la figura di Mario Lodi straordinario maestro e scrittore, ma se vogliamo parlare di Mario evitando le celebrazioni, parliamo della nostra scuola, da dove è partita la strada tracciata dal maestro di Vho di Piadena, come ha attraversato le nostre classi, quali segni ha lasciato. Se nelle nostre aule, nel fare scuola di ogni giorno si riconosce la mano, il pensiero di quel maestro. Dove è arrivato e dove ancora non è arrivato, e perché.

Diversamente evitiamo di ricordare Mario Lodi con le parole, perché abbiamo bisogno che Mario Lodi sia presente ogni giorno, dal nord al sud, da est a ovest nelle aule dove crescono le nostre bimbe e i nostri bimbi. Abbiamo bisogno di aule che brulichino di vita, di fermento pedagogico, di innovazione, di creatività, del fare e dell’inventare. Non abbiamo bisogno di aule con banchi che contengono corpi con i loro grembiuli, di lavagne per dettare i compiti a casa, di sussidiari da studiare da pagina a pagina. Abbiamo bisogno di laboratori attivi, di maestre e maestri operosi, imbevuti di spirito innovativo, di intelligenza pedagogica, capaci di suscitare curiosità, fantasia e sogni di bambine e bambini, di fargli scoprire il mondo non dalle finestre delle aule, neppure dalle finestre dei libri di testo o dagli schermi  dei loro laptop, ma per le strade dei loro paesi e delle loro città, dialogando con pari dignità con gli adulti e il loro mondo.

Nella quarta di copertina della prima edizione, 1970, di “Il Paese Sbagliato” l’editore Einaudi sintetizza l’opera del maestro Lodi con queste parole: “Distruggere la prigione, mettere al centro della scuola il bambino, liberarlo da ogni paura, dare motivazione e felicità al suo lavoro, creare intorno a lui una comunità di compagni che non gli siano antagonisti, dare importanza alla sua vita e ai sentimenti più alti che dentro gli si sviluppano…”.

Quattro anni dopo Einaudi pubblica “Insieme” il giornale di una quinta elementare del maestro Lodi. Nell’introduzione scrive il maestro: “A scuola, rifiutare il piccolo potere della cattedra e gli strumenti passivizzanti della scuola autoritaria è già vivere, o essere pronti a vivere, in modo alternativo e coerente; è cambiare se stessi nel profondo e tradurre questo cambiamento nelle scelte quotidiane, in un processo di costruzione della persona che i “rivoluzionari della parola” rifiutano perché costa. […] Non è facile per un maestro rinunciare al ruolo di trasmettitore di un “sapere” in scatola come quello condensato nei libri di testo e mettersi alla pari degli alunni per capirne i problemi e aiutarli a ragionare senza chiusure ideologiche, su quanto accade nel mondo.”

Cinquant’anni dopo quanto di tutto questo costituisce il patrimonio della cultura professionale di chi entra per lavorare nella scuola? Quanto è praticato nelle scuole di ogni angolo del paese, da quelle dei piccoli a quelle dei grandi, dalla primaria all’ultimo grado della secondaria?

Il modo migliore per ricordare Mario Lodi, insegnante di bambine e bambini, è interrogarsi onestamente e realisticamente, senza inventarci giustificazioni, alibi e argomentazioni, su che scuola siamo, dalla primaria alla secondaria superiore, su che scuola vogliamo diventare, se ne abbiamo maturato un’idea, masticando di Lodi e Montessori, o ancora se siamo destinati ad arrabattarci in una scuola sbagliata di un paese sbagliato.




Inclusione e dintorni, a 30 anni dalla legge 104

di Cinzia Mion

Il mio caro amico Reginaldo Palermo, direttore di PavoneRisorse, mi ha posto una domanda cruciale e difficile, cui vorrei provare a rispondere. Mi ha chiesto : come mai in Italia con una storia dell’inclusione che arriva da lontano – con la L.118/1971, ma soprattutto nel 1977 con la famosa L.517 eppoi con la L.104/92 e successive ‘manutenzioni’ – oggi la situazione sta peggiorando invece di migliorare?
La domanda mi sollecita ricordi professionali a bizzeffe ma mi trattengo dal dare loro la stura e cerco di soffermarmi sull’essenziale .
Ricordo degli anni 70 il fervore ideale e l’entusiasmo fermentativo intorno alle grandi discussioni, tra cui la dialettica tra il concetto di normalità/diversità che approderà, nel mondo civile, alla famosa Legge 180/1978, chiamata legge Basaglia, che ha destrutturato l’ospedale psichiatrico di Trieste. Riporto, per chi non avesse vissuto quegli anni , le innovazioni scolastiche che cercheranno di realizzare i dettati costituzionali: in primis l’articolo 3 sull’uguaglianza, stella polare per ogni impegno politico/istituzionale ma nel nostro caso per la Scuola.
Riassumo : la scuola media unica (1962), la legge 820/1971, istitutiva del Tempo Pieno contro lo svantaggio socio-culturale, la legge istitutiva della scuola materna statale (L.444/1968).
La pubblicazione di Lettera a una professoressa di don Milani aprì poi la critica sociopolitica alla ‘valutazione scolastica sommativa tradizionale’ e il Movimento studentesco del ’68 fece da cassa di risonanza a tale critica sottolineando che, se la valutazione scolastica emarginava ed escludeva le fasce più deboli (figli dei contadini e degli operai ), fasce per cui la Costituzione aveva creato il Diritto allo Studio, allora era meglio che non valutasse….
Fu la Legge 517/77 che affrontò sia il problema della valutazione, offrendo l’idea rivoluzionaria della Valutazione formativa, (puntualmente sconfessata fino quasi ai giorni nostri, ma questa è un’altra storia!) sia l’attenzione ai più fragili, con il dettato legislativo che parla non più solo di inserimento nelle classi comuni della scuola dell’obbligo – come fa la L.118/1971 che si riferisce ai soggetti con invalidità lieve, invalidi o mutilati civili, senza però accennare alla didattica speciale – ma si parla di vera e propria attività di integrazione degli alunni con forme di handicap (art.2) abolendo nel frattempo le classi differenziali.

Dall’integrazione all’inclusione.

La legge 517, con l’individuazione di modelli didattici flessibili, l’auspicio delle classi aperte e soprattutto l’arruolamento degli insegnanti specializzati, ha permesso l’affacciarsi lentamente di un progressivo cambiamento dal semplice inserimento all’integrazione. A quel tempo l’integrazione dei soggetti portatori di handicap (definiti successivamente ’diversamente abili’, ora ‘persone con disabilità’) ha costituito un miglioramento rispetto a tutti i bambini, per quanto attiene la formazione dei docenti nei confronti degli aspetti psicopedagogici e didattici. Uno di questi è stata l’attenzione agli stadi di sviluppo piagetiani, precedentemente solo incontrati nei libri, utilizzata per decodificare i dati delle diagnosi. Un altro aspetto è stato l’attivazione dell’attività psicomotoria, precedentemente destinata solo ai bambini disabili, estesa invece in alcuni istituti a tutti i bambini. Questo è avvenuto per esempio nelle scuole del secondo circolo di Conegliano, nel cui territorio sorgeva l’Istituto ‘La nostra Famiglia’, circolo di cui dall’anno 1974 all’anno 1994 sono stata direttrice didattica.


L’integrazione è una parola ‘grossa’ ed impegnativa che ha impiegato molto tempo per realizzarsi. Ha ricevuto pieno riconoscimento dalla L.104/1992 la quale ha promosso l’integrazione per tutti e per ogni ciclo, compresa l’Università. E’ stata questa legge a far intravedere la diversità come valore – a dire il vero già i Nuovi Programmi per la scuola elementare del 1985 avevano sottolineato che le ‘diversità andavano valorizzate, a patto che non fossero a rischio di ‘disuguaglianza’- ed inoltre aveva anche fatto la sua comparsa la necessità che ogni soggetto con disabilità diventasse protagonista della propria vita.

L’INCLUSIONE

La grande novità però è avvenuta con le ‘Linee guida’ sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (4/8/2009). Compare qui infatti il termine INCLUSIONE. Si afferma, a proposito del ruolo del dirigente scolastico, che la riorganizzazione del sistema in funzione di tale finalità rappresenti un’occasione di crescita per ‘tutti’. L’inclusione diventa perciò un valore fondativo, un nuovo assunto culturale. Tralasciamo quelle che sono state le sollecitazioni che sono scaturite da tale importante documento (ICF, progetto di vita, coinvolgimento di tutta la scuola non solo dell’’insegnante di sostegno, ecc) da cui sono scaturite a cascata le altre disposizioni legislative successive(L.170, BES, formazione referente BES, attivazione PAI, ecc).
Il senso profondo del processo di ‘inclusione’ ha fatto man mano però fatica ad affermarsi secondo le intenzioni del legislatore.
Affinchè i processi di tale aspetto valoriale diventassero modalità in grado coinvolgere tutta la comunità educativa del contesto, definita da Coleman ‘capitale sociale’ (famiglie, EELL, associazioni culturali del territorio, ecc) dovevano essere presenti alcune condizioni che vedremo un po’ alla volta invece evaporare.
Si pensava infatti che i processi di inclusione autentica, caratterizzati da una didattica considerata terreno fertile, in grado di far crescere uno spazio di vera e propria educazione alle differenze, valorizzazione solidale e incentivo al raggiungimento delle pari opportunità in tutti i sensi, potesse trasformare, attraverso cerchi concentrici, tutti gli altri sistemi sociali a partire dal sistema scuola (Brofenbrenner). [1]
Proprio qui invece il sistema ha dovuto incontrare molte difficoltà.
Non mi soffermo sull’aumento abnorme delle certificazioni e dei posti di sostegno, sulla progressiva medicalizzazione delle difficoltà di apprendimento di cui molti si sono già occupati in modo egregio. Desidero affrontare il problema delle ‘derive sociali’ che hanno cominciato a depotenziare la spinta verso l’inclusione ed anzi hanno dato il via a strategie di stampo furbesco, diseducative e, direi, soprattutto regressive.

L’individuo senza passioni

Così recita un famoso testo di Elena Pulcini [2] ,la filosofa fiorentina mancata prematuramente, portata via dal Covid. Una delle derive sociali, cui facevo riferimento, è infatti un diffuso individualismo regalatoci inopinatamente da una sbornia di neoliberismo che ci sta affiggendo da quasi trent’anni. Naturalmente questo sfacciato individualismo, accompagnato da altrettanta dilatata indifferenza verso l’altro, non può che portare a ripiegarsi su se stessi, attraverso un autocompiacimento definito narcisismo, come hanno dichiarato recentemente sia Canevaro che Iosa. Per non parlare dell’aumento dell’intolleranza, del razzismo e dell’omofobia. Ce n’è abbastanza per connotare una società di cui tutto possiamo dire tranne che sia benevola, solidale e in grado di stemperare le disuguaglianze, portandoci verso quella che ci stavamo augurando fosse la direzione di una sana inclusione.
Pensavamo che la scuola potesse diffondere all’esterno i suoi valori costituzionali e sta avvenendo invece il contrario. Le derive sociali stanno permeando la scuola che non è più in grado di frapporre una diga, dei filtri, per depennare la responsabilità educativa degli adulti tutti, chiamati in causa senza scusanti . Tutti : genitori e docenti, dirigenti scolastici e tecnici. La responsabilità è di tutti. A partire dai vertici che procedono come se in periferia la situazione corrispondesse alle norme varate. Poi di chi avrebbe il compito ‘istituzionale ed intenzionale’ di educare le giovani generazioni ai valori costituzionali (magari sono gli stessi che in classe predicano l’educazione civica!).
Nessuno può far finta di non sapere che, alla faccia dell’inclusione, sono tornate le classi di serie A e di serie B (per le quali negli anni 60/70 ci siamo battuti tanto!). E non ditemi che non è vero: Dirigenti che si vantano che nei loro Istituti non frequentano né stranieri né disabili! Tutti sanno che la scuola ormai è ritornata una scuola di classe [3] e non solo a partire dall’Orientamento. A partire dall’Inclusione tradita.
Troppo difficile? Certamente. Nessuno ha mai promesso e certificato che fare l’insegnante oggi sia una professione facile. E’ una professione molto difficile ma vivificante. Chi la intraprende deve saperlo. Alcuni tutor universitari, che seguono i docenti per la formazione al sostegno, garantiscono che questi escono preparati a puntino per lavorare per l’Inclusione….Sono gli altri che, contrariamente a quello che ci si aspetta da anni, non hanno ricevuto la formazione iniziale ed in servizio adeguata ad accompagnare questa innovazione .
Che accade infatti? Si afferma che Il sistema si pone come uno schiacciasassi che rimane inesorabilmente impermeabile. Tranne qualche eccezione che per fortuna esiste e che però fatica a poter perseverare ..
Dario Janes, che da sempre si interessa di inclusione, afferma che bisognerebbe rompere gli schemi: del curriculum a tutti i costi, dell’orario, dei ruoli, delle aule…Nemmeno con l’autonomia didattica, approvata nel 2000, calata nella realtà di un sistema scuola con scarsa presenza della cultura progettuale e senza una seria formazione di tutti i docenti, è cambiato molto. L’inclusione dei disabili rimane una cosa separata. Il PAI è accanto al PTOF. La normativa è rimasta solo illusoriamente inclusiva, nei fatti è rimasto un sistema duale, nel quale convivono il modello di scuola per tutti e quello ‘in perenne sperimentazione’ per gli alunni con disabilità. Avere una quantità di risorse dedicate ai disabili, non sempre aiuta l’inclusione, perché, aggiunge Janes, “spesso è proprio l’insegnante di sostegno che si autoesclude dalla classe”. Qualche volta per sopravvivere.

[1] Brofenbrenner U.,(1979)Ecologia dello sviluppo umano, Il Mulino.
[2] Pulcini E., (2001)L’individuo senza passioni. Individualismo moderno
[3] Romito M., (2016)Una scuola di classe. Orientamento e disuguaglianze nelle transizioni scolastiche,Guerini Scientifiche.