Contro la meritocrazia e per la giustizia a scuola

di Raimondo Giunta

La giustizia a scuola è oggi l’unica ragione della sua esistenza.
La scuola pubblica deve formare cittadini uguali, con uguali chances di partecipare alla vita pubblica, economica e sociale.
Il problema della giustizia a scuola è quello dell’accesso libero e paritario al sapere e alla conoscenza da parte di tutti i giovani.
Il sapere, il patrimonio collettivo di esperienze e conoscenze consegnatoci dalle generazioni precedenti è al servizio di tutti e non di pochi privilegiati. La conoscenza e il sapere sono, devono essere un bene pubblico e un bene pubblico per definizione non può essere posseduto da pochi.
E questo postulato non si deve dimostrare, altrimenti non si capisce perché si debba mantenere e finanziare un sistema pubblico di istruzione.
Contro l’ideologia del merito ci si deve battere, perché a scuola si possano ancora fare scelte di giustizia.

Ne cito qualcuna:
1) Ogni giovane, qualunque sia la sua origine sociale, deve riuscire ad affrontare gli altri su un piano di parità
2) La scuola deve offrire ad ognuno la possibilità di realizzare il suo potenziale umano per vivere secondo il principio di dignità
3) Nessuno deve restare indietro. Nessuno deve uscire dal sistema scolastico, senza il bagaglio necessario di competenze per non essere emarginato e vivere una vita dignitosa
4) La scuola non deve contribuire ad aumentare le differenze di riuscita tra individuo e individuo
5) Quelli che sono allo stesso livello di talento, di capacità e hanno lo stesso desiderio di utilizzarli devono avere le stesse prospettive di successo senza tener conto della loro posizione sociale.
Per trattare le persone in modo uguale, per offrire una vera uguaglianza di opportunità, la società e la scuola devono consacrare più attenzione agli svantaggiati, quanto ai doni naturali, e ai più sfavoriti socialmente per nascita.
“Un’eredità ineguale di ricchezza non è intrinsecamente più ingiusta di un’eredità ineguale di intelligenza” (J.Rawls).
Per essere giusto un sistema scolastico dovrebbe contrastare le disuguaglianze che conducono alla marginalità sociale.

PER ALTRI ARTICOLI SUL TEMA DEL MERITO VAI ALLA PAGINA DEDICATA




Educazione del lavoro

di Giancarlo Cavinato

Gioco e lavoro: una contrapposizione?

La polemica di Freinet è rivolta a una concessione eccessiva  alla vita dell’infanzia a un gioco totalmente gratuito libero da ogni responsabilità. Una fase della vita diversa da ogni fase successiva, in cui esercitare la propria ‘fantasia’ senza obblighi e compiti.

Ai nostri tempi eravamo integrati, fin dalla più tenera età, nel lavoro ambientale. […]Il lavoro si trovava al centro della nostra vita mentre il gioco era solo un accessorio e questa realtà aveva inevitabilmente la sua risonanza sullo stesso lavoro scolastico. La trasformazione è stata totale nel corso di questi ultimi decenni. Non c’è più il pericolo che si chieda ai bambini qualche servizio prima che partano per la scuola. Gli abbiamo preparato le fettine imburrate; li facciamo perfino mangiare il fretta. Li vestiamo; gli infiliamo il cappottino e i genitori li portano a scuola in auto. Quando usciranno, non avranno altra preoccupazione che quella di giocare, aspettando il pranzo. Anche nelle famiglie meno agiate non sempre si chiede ai ragazzi di aiutare a lavare i piatti[…]E da questi ragazzi che sono stati formati a giocare, che hanno disimparato il lavoro a tutto vantaggio di una pericolosa e passiva facilità, si esigerà, quando la porta della scuola si sarà chiusa, che lavorino tutta la giornata, senza sapere perché si trasformino così, bruscamente, le regole di vita di cui avevano beneficiato.[…] Ascoltate le lamentele dei professori della secondaria: “I ragazzi non sono abituati a lavorare; sono  incapaci di iniziativa e di decisione .”.Essi sono ciò che han fatto una società e una scuola che hanno disimparato il lavoro.[1]

L’analisi di Freinet si concentra sul valore di socialità che il lavoro contribuisce a formare, sulla responsabilità, sul senso del bene comune in uno spazio pubblico dotato di laboratori, centri di produzione, ‘con gli arnesi necessari per un lavoro serio.’[2]

Freinet non mette in discussione le fondamentali analisi sulla funzione dell’immaginario e del gioco come anticipazione della vita adulta, così come le fondamentali conquiste dell’eliminazione del lavoro minorile, ma la dissipazione del tempo del bambino che si è venuta produrre nelle nostre società limitando lo sviluppo di una personalità sociale.

Le stesse riforme scolastiche che prevedono stage formativi e alternanza scuola-lavoro (con tutte le controindicazioni per la tutela dallo sfruttamento e la sicurezza) prevedono soluzioni individuali a un’organizzazione dei tempi di vita e di lavoro che deve essere sociale. Creare collaborazione, solidarietà, accordando al lavoro un posto  nella formazione di ciascuno. Costituire quello che Primo Levi nella ‘Chiave a stella’ definiva il laboratorio come  ‘cervello collettivo’. Tutt’altra cosa che una concezione di una ‘preparazione al lavoro’ in strutture esterne, ognuno con percorsi diversi. Una lettura distorta della necessità, a lungo rivendicata dalla pedagogia, di un rapporto organico fra pratica e teoria per una formazione unitaria degli individui, in realtà tradottasi in una subordinazione della scuola al mercato del lavoro.

In Freinet una componente decisiva della vita scolastica è costituita dalla cooperazione, alternativa alla competizione. Nei ‘Detti di Matteo’[3] Freinet paragona gli alunni ai corridori del Tour de France. Per la maggior parte dei corridori, non è la classifica finale che conta, eccezion fatta per alcuni privilegiati. ‘O i corridori prendono in qualche momento la testa del corteo e si classificano in un buon posto, o abbandonano. La corsa non ha per loro senso se non permette, almeno per un istante., di riscaldarsi al sole del successo e della gloria.[…] Che ciascuno dei vostri alunni possa anch’esso prendere a un dato momento la testa della squadra ed eccellere i n uno dei molteplici compiti che la scuola moderna offre ai suoi alunni…Vi sarà facile trovare trenta funzioni significative per i vostri trenta bambini…’

La pedagogia Freinet non sottovaluta la necessità dell’emulazione nel lavoro e dell’autovalutazione e della valutazione sociale, grazie a una serie di dispositivi di  organizzazione del lavoro, socializzazione del pensiero dei bambini, tecniche di riproduzione e diffusione del pensiero, ricerca.

Una scuola che si organizzi su questi criteri è una scuola di laboratori, di classi aperte per il lavoro di gruppo e la diffusione di una pluralità di messaggi, una scuola del lavoro che sa articolare momenti diversi e stimoli diversi in cui ciascuno si sperimenti con le proprie risorse e sperimenti compiti e funzioni diverse sottoponendosi a una disciplina di gruppo.  

Una evoluzione positiva di una scuola che non si fondi soltanto sulle eccellenze e sul merito a scapito del successo scolastico di tutti non può non tener conto del necessario superamento della divisione rigida tempi di vita-tempi di lavoro. Come rivendicano i NATs’ (niňos y adolecentes trabajadores), sindacati dei bambini lavoratori dell’America Latina,  ci vuole un tempo per l’educazione e la cultura, un tempo per il lavoro e le condizioni di una vita dignitosa, un tempo per il relax e il riposo.

Come introdurre nella scuola un autentico rispetto dei bisogni, degli interessi, dei diritti dei ragazzi e nello stesso tempo garantire condizioni l’assunzione di forme di responsabilità e di cura del bene comune? Dice Freinet: ‘Organizzate il lavoro in maniera cooperativa, suddividendo i vari compiti e, soprattutto, adottate la pratica del giornale murale e della riunione cooperativa del fine settimana.[4]

Usando quali oggetti organizzatori e di pianificazione delle attività la conversazione, il consiglio di cooperativa. il testo libero, l’assemblea. Diversificando attività tempi ritmi uso degli spazi così da aprire la scuola alla realtà dove si svolgono attività funzioni e si risponde ad esigenze diverse, in cui non vige l’omogeneità continua.

L’esigenza è quella giungere a una disciplina del lavoro così come viene praticata in tantissime scuole moderne dove gli alunni, attratti da un lavoro che s’inserisce nella loro vita, prendono coscienza della necessità di una disciplina funzionale che non è né licenza né oppressione, bensì realizzazione di  un modo di vivere individuale e collettivo quasi ideale.’ [5]

NOTE

[1][1] Freinet C. La scuola del fare (2002), Junior, Bergamo, pp. 29-32 ‘Insegnare il lavoro’
[2] Op. cit.
[3] Freinet C., I detti di Matteo, (1956), La Nuova Italia, Firenze
[4] Freinet C. La scuola del fare, p. 260
[5] Freinet C. op. cit., p. 122




La centralità dell’insegnante, dall’insegnamento all’apprendimento

di Raimondo Giunta 

Nel processo di formazione l’insegnante svolge opera necessaria di mediazione tra il sapere costituito e il bisogno di apprendere dell’alunno; un bisogno che non può essere preso a pretesto per volerne la sottomissione, perché la funzione e la posizione dell’insegnante non possono essere sostenute da alcuna pretesa di potere sugli alunni. Ciò nondimeno, anche sgombrate da ogni forma impropria di autoritarismo la funzione e la posizione dell’insegnante, da qualche tempo e da più parti sono state sottoposte a critiche severe, alcune delle quali più suggestive che fondate.

Si sa che la scuola e quindi l’insegnante non sono più nella società attuale gli unici dispensatori delle conoscenze, divenute ormai reperibili in ogni momento e in ogni luogo.
Che non siano più gli unici, non vuol dire che non debbano più svolgere la funzione di trasmetterle o che non lo possano più fare. Questo comporta che con chiarezza debba essere circoscritta, indicata e valorizzata l’area specifica che in questo campo attiene alla scuola e che solo a scuola può essere coltivata. Fatto che richiede specifiche prestazioni professionali, connesse necessariamente alla funzione magistrale dell’insegnante, alla sua responsabilità di orientamento e di direzione nei processi di formazione.

Da più parti si afferma che la centralità della figura dell’insegnante, come si constatava nei modelli educativi del passato, debba essere sostituita da quella che deve avere l’alunno nel nuovo modo di fare scuola.
Una rivoluzione copernicana, in sintonia con le trasformazioni di costume, con l’espansione dell’area delle libertà individuali e con gli orientamenti di alcuni filoni della psicologia. Significativa, perché esalta anche il dovere di attenzione e di cura, trascurato a volte per lo spazio esclusivo assegnato al compito di trasmettere saperi e conoscenze. Bisogna, allora, cercare di capire quali siano le conseguenze che ne derivano, se questa tensione etico-pedagogica metta in discussione il primato della conoscenza goduto nel passato e che ha avuto come suo interprete autorevole l’insegnante con la sua cultura. Se sono un problema di prima grandezza il ruolo e la posizione che l’alunno deve avere nelle relazioni pedagogiche, certamente in queste non può sparire l’insegnante e non può sparire il sapere.

Sul piano gnoseologico il nuovo modello educativo propone per una maggiore efficacia di dare spazio maggiore, se non esclusivo, all’apprendimento.  Una proposta che può destare qualche perplessità, se si vuole lasciare intendere che in questo ribaltamento l’alunno possa apprendere da solo e l’insegnante col suo sapere sia un impedimento.  Il primato dell’apprendimento ad ogni buon conto non può prescindere dal valore dei contenuti e dai saperi che si possono e si devono apprendere a scuola.  Il sistema scolastico è legittimato ad esistere, perché tenuto a svolgere il compito di trasmettere da una generazione ad un’altra il patrimonio di saperi, di conoscenze, di tecniche e di valori del passato e solo per questo ha un senso che in ogni scuola si incontrino studenti e docenti.
La scuola non può smettere di essere luogo di trasmissione razionale e ordinata del sapere, luogo di formazione di conoscenze solide e strutturate. Per essere in grado di partecipare alla vita sociale ed esercitare i diritti di cittadinanza, i giovani devono portarsi all’altezza dei saperi e delle conoscenze che è necessario possedere.

Delle innovazioni non si deve avere paura, e quando le circostanze lo richiedono vanno introdotte, ma sapendo in partenza definire i propri fattori di riuscita e quelli eventuali di insuccesso; sapendo conoscere e praticare le regole del giuoco che si vuole fare. Non si cambia per il semplice gusto di cambiare. I modelli educativi, che sono cosa seria, variano in funzione della concezione che si ha dell’uomo, della società e delle loro relazioni e non per caso o per moda.

 

ARTEFICI DEL PROPRIO APPRENDIMENTO

 

Nel paradigma che si vuole sviluppare ed estendere l’iniziativa dell’apprendimento viene affidata all’alunno e l’insegnante da mediatore privilegiato del sapere si trasforma in un organizzatore di situazioni di apprendimento. A soccorso di questa innovazione vengono chiamate diverse formulazioni del costruttivismo, secondo le quali l’apprendimento è visto come attività di chi apprende, sia individualmente sia in un gruppo di pari. Le concezioni costruttivistiche sottolineano la centralità del soggetto apprendente che attivamente e intenzionalmente costruisce la propria conoscenza e riflette sul proprio modo di apprendere. Sono teorie che intendono creare un quadro di intelligibilità delle pratiche didattiche, anche se non ne privilegiano qualcuna in particolare e stimolano a precisare le intenzioni pedagogiche e a determinare meglio le procedure più adeguate per gli scopi che si vogliono realizzare.

Sono un quadro di riferimento, non modelli da applicare ciecamente.
Per cui fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire” le loro conoscenze non sarà per nulla facile, perché comporta un lavoro di innovazione di un certo rilievo e soprattutto perché non viene mai meno il compito dell’insegnante di convincere gli studenti, che spesso non mostrano particolare attenzione e interesse per tutto quello che si fa a scuola, del valore e dell’importanza degli argomenti che vengono affrontati nelle attività didattiche.  Altrimenti sarebbe difficile vederli all’opera; a spingerli a lavorare non sarà la propria autonomia, ma il convincimento di fare cosa buona e giusta.

Ad ulteriore chiarimento va detto che se si possono modificare gli ambienti di apprendimento per dare spazio all’attività del soggetto apprendente, l’epistemologia dei saperi da apprendere non cambia affatto. Le strutture del sapere sui quali devono essere edificate le competenze non sono nella libera disponibilità degli alunni e dei docenti e non è una buona idea non educare gli alunni a misurarsi con i vincoli di questa necessità.  Per possedere certi saperi è una necessità apprendere quel che va appreso, quale che sia il modo di apprenderlo. Per consentire ai giovani di accedere a particolari professioni e a determinate occupazioni è assolutamente indispensabile che il tenore dei contenuti, la loro progressione debba essere stabilita da chi dirige il sistema di istruzione; responsabilità delegata alle singole scuole e agli insegnanti e che non può essere né negata, né trascurata, né arbitrariamente modificata.

Il valore fondante del nuovo modello pedagogico è l’autonomia dell’alunno, che in tanto è possibile formare e sostenere, in quanto viene messa alla prova nelle relazioni del processo formativo, nelle modalità di sviluppo delle procedure didattiche. Autonomia, si spera, come “capacità di autodeterminazione e di autoregolazione, secondo un adeguato senso di responsabilità verso se stessi, verso gli altri, la comunità, l’ambiente sociale e naturale” (M. Pellerey)

L’autonomia dell’alunno è una finalità di alto profilo, ma sarebbe incomprensibile che per essa si voglia alleggerire l’insegnante della responsabilità di trasmettere i contenuti della sua disciplina.

Non è scritto da nessuna parte che l’apprendimento debba essere noioso; è scritto che ci si debba preoccupare di renderlo interessante e anche piacevole, se è possibile.
E’ scritto soprattutto che debba essere solido e duraturo.  E a proposito di iniziativa e di autonomia dell’alunno in quali campi possono essere esercitate? Sulla scelta degli argomenti? Sulle modalità del lavoro scolastico? Sulla valutazione dei risultati di apprendimento? Sulla tipologia delle prove?

”Un processo costruttivo che voglia essere valido e fecondo implica che chi lo mette in pratica abbia a disposizione un progetto chiaro e puntuale nelle sue varie componenti, sintetizzabili nella questione; perché e come. Ma è ben difficile che nel caso delll’apprendimento di nuove conoscenze il progettista e il capocantiere possa essere lo stesso studente”(M. Pellerey).

 

IL MAGISTERO DELL’INSEGNANTE

 

Le ricerche di John Hattie sull’efficacia delle metodologie didattiche hanno messo in evidenza la funzione centrale del docente nei processi di formazione e che quando manca la sua direzione gli approcci didattici innovatori, ai quali si affidano molte speranze, non danno i risultati sperati. I metodi meno direttivi favoriscono gli alunni migliori, mentre danneggiano i più deboli, perché per loro è più pesante il carico cognitivo per fare fronte alle responsabilità loro assegnate. Le procedure di insegnamento diretto, contro le quali si continua a schierarsi, danno migliori risultati.
”Quando l’insegnamento esplicito è chiaro e il docente mette in luce i passaggi fondamentali e le variabili critiche di quanto espone, evidenzia i percorsi e gli schemi mentali che debbono essere utilizzati e l’appropriato vocabolario che deve essere padroneggiato, egli rende visibile ed esplicito quanto potrebbe rimanere nascosto e implicito. ”(M. Pellerey).

Se un alunno deve affrontare un contenuto nuovo e di un certo spessore culturale e teorico, il buon senso dice che è opportuno che venga introdotto nei concetti che lo costituiscono e che venga guidato nelle pratiche messe in campo per acquisirne le abilità essenziali. Solo dopo che avrà acquisito gli elementi fondamentali e li ha conservati ben strutturati nella sua memoria può essere indirizzato a svolgere in autonomia le proprie ricerche o a risolvere i problemi che gli vengono assegnati. L’insegnamento esplicito e diretto, che nella lezione, ha uno dei modi di realizzarsi, non toglie nessuna iniziativa all’alunno, non ne menoma il compito e l’impegno di apprendere, anzi facilita questa avventura intellettuale, perché toglie di mezzo tanti ostacoli superflui. Sono il significato e la funzione che si danno a questo tipo di intervento a determinare il grado di autonomia che viene lasciato all’alunno e che si dà alla sua attività di apprendimento. Lasciato a se stesso non è detto che l’alunno eserciti la sua autonomia nel modo migliore e più efficace. L’insegnamento diretto non si riduce chiaramente alla lezione frontale, e tutti gli altri modelli didattici non possono fare a meno della direzione e della guida culturale dell’insegnante. Solo svolgendo la sua funzione magistrale l’apprendimento dell’alunno potrà essere, stabile, significativo e fruibile. Il suo compito non si colloca dopo l’apprendimento dell’alunno, ma prima e accanto e non è ragionevole e in alcun modo giustificato ridimensionarne l’importanza. Certamente l’alunno apprende da sé e nessun altro può farlo al suo posto, ma appoggiandosi sul sostegno e l’esperienza dell’insegnante. Per apprendere l’alunno ha bisogno di incontrare situazioni di comunicazione, di scambio e di confronto con chi ha esperienza e conoscenza.

Con questo non si vuole dire che il sapere dell’insegnante debba essere replicato dall’alunno, ma che è necessario per fare comprendere la distanza tra esperienza personale e sapere costituito, la complessità dei contenuti ai quali ci si deve avvicinare, le difficoltà per conquistarli, l’inestinguibilità del dovere di conoscere. Il sapere degli insegnanti serve per fare apprendere e se utilizzato bene per fare comprendere. Insomma l’insegnante non è un tecnico di laboratorio e nemmeno uno psicologo. Nessuno mette in discussione che ci sia bisogno di una diversa relazione educativa tra docente e alunno; una relazione da instaurare sul principio del valore assoluto della persona dell’alunno, che ha tutto il diritto di sapere, di capire e di farsi sempre una propria idea; perché solo la sua partecipazione attiva al processo di formazione renderà solido l’apprendimento. Nessuno mette in discussione che per fare crescere in autonomia e in libertà l’alunno, bisogna interpellarlo, aiutarlo a problematizzare, coinvolgerlo in attività di elaborazione di senso, dargli fiducia, Nessuno, se tutto ciò viene fatto, ha bisogno però di escogitare nuovi primati nelle relazioni educative.

”Certo anche nelle altre classi si insegnavano molte cose, ma un po’ come s’ingozzavano le oche. Si presentava loro un cibo pre-confezionato e si invitavano i ragazzi ad inghiottirlo. Nella classe del signor Bernard per la prima volta in vita loro sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo”(A. Camus).

 




Dispersione scolastica, qualcosa si può fare

di Raimondo Giunta

Nei giorni che precedevano l’inizio delle lezioni, finchè sono stato in servizio, impegnavo il collegio dei docenti e i gruppi di coordinamento a discutere sui risultati dell’anno precedente e in modo particolare su quelli che fanno parlare di dispersione scolastica. Il proposito era quello di vedere come e se era possibile contenerla. Trasmettevo ai miei docenti la preoccupazione e l’amarezza di vedere tanti giovani perdersi e perdere le occasioni per istruirsi, per andare avanti, per impossessarsi degli strumenti che sono indispensabili per diventare cittadini e lavoratori all’altezza dei tempi.

La definizione degli insuccessi scolastici come dispersione non mi è mai piaciuta e non mi piace ancora. Sembra quasi che si tratti di un fenomeno naturale, che si verifichi a prescindere dalle decisioni degli uomini, dalle scelte fatte dagli uomini. Una volta con più precisione si parlava di selezione, ma il termine era ed è sovraccarico di molteplici significati contrastanti e pro bono pacis non lo si usa più, tranne negli articoli di quegli intellettuali che nei quotidiani la reclamano ad alta voce per dare prestigio alla scuola e al sapere e anche per darsi un alto contegno…

Che la dispersione scolastica (ci atteniamo alla vulgata ministerial-pedagogica. . ) continui a verificarsi nonostante le lotte che le sono state dichiarate è un fatto grave sul quale è giusto soffermarsi a ragionare. Senza dimenticare che nel fenomeno della dispersione oltre agli abbandoni bisogna includere ripetenze e scarso livello di conoscenze e competenze

A determinarla nelle proporzioni che vengono messe in luce dalle statistiche ministeriali non sono solo le scelte di parte sempre minoritaria del corpo docente, ancora arroccata a difesa di procedure di valutazione che non hanno alcun valore pedagogico e docimologico; a determinarla contribuiscono la disarticolazione dei rapporti tra enti locali e istituzioni scolastiche, ma anche e in modo preponderante la stessa scuola come sistema. La scuola come istituzione con le sue regole, con la sua organizzazione, con i suoi codici di valore, con la sua identità culturale non è priva di responsabilità in questo campo.

L’apertura della scuola e il sostegno economico, ma sempre in crescente riduzione (esenzione tasse, libri gratis, borse di studio, trasporto gratuito) non hanno realizzato le condizioni perché tutti potessero godere pienamente del diritto allo studio e avere le stesse chances di successo. I pierini fino a qualche anno di studio si trovano accanto i gianni come compagni di classe, ma i primi concludono gli studi, fanno carriera si inseriscono nel mondo del lavoro, gli altri si disperdono, incespicano e a parità di talento fanno meno strada.

A scuola non si riesce a compensare lo squilibrio del patrimonio culturale ereditato dagli alunni; non ci si riesce perchè alla fine non si comprende il meccanismo, la logica che impedisce l’integrazione dei “nuovi “alunni con la scuola e quali nodi della struttura scolastica vadano sciolti per consentirla.

Il problema non è di facile soluzione perchè non si dà una sola ipotesi interpretativa di questo fenomeno sociale, e non c’è una sola causa di inconciliabilità tra istituzioni scolastiche e nuova popolazione scolastica, peraltro accresciuta dalla presenza di centinaia di migliaia di ragazzi di famiglie di recente immigrazione.

Sono varie le forme di disagio, scaturite dai contesti umani e culturali di provenienza degli alunni che si riversano sulla scuola e con cui si dovrebbero fare i conti. E’ importante considerare (e questo lo fa dire l’esperienza diretta della vita scolastica)che ad una certa età scolare, per lo più dopo il biennio delle superiori, non è tanto il possesso di specifici saperi di famiglia a determinare un migliore rendimento scolastico, ma la percezione del valore sociale dell”investimento in cultura, la conoscenza della profittabilità del sapere in tutto l’arco della vita, la pratica quotidiana dell’importanza delle competenze, della professionalità nella vita. .

Nel processo di formazione il giovane che conosce il guadagno ricavabile dallo studio è in grado di sostenere la sfida quotidiana tra soddisfazione immediata e sacrificio, di intendere cioè il senso dello scambio tra sacrifici attuali ed eventuali vantaggi futuri.

Questo tipo di alunni conoscono le ragioni più rilevanti che motivano nello studio, conoscono i tempi, i ritmi e le difficoltà del percorso da compiere. Questo sapere esperienziale che la scuola possiede non sempre viene messo a disposizione di quei gruppi consistenti di giovani, che dal proprio ambiente non riescono ad avere questo importante sostegno.

Vi è, inoltre, un problema di corrispondenza tra comportamenti individuali, acquisiti in ambienti sociali deprivati, e regole interne della scuola.
La formalità dei comportamenti esigiti per assicurare un regolare svolgimento delle attività didattiche contrasta con le abitudini di molti alunni, soprattutto nella scuola dell’obbligo, molto vicine all’ indisciplina e questo impedisce spesso l’accettazione della scuola e del suo mondo.

Il gruppo più numeroso di problemi è costituito, però, dal contrasto forte tra le procedure naturali di apprendimento e i processi di astrazione, di formalizzazione delle procedure d’apprendimento richieste dai saperi scolastici e dai linguaggi in cui questi si esprimono.
In una parola dal contrasto tra cultura giovanile e cultura scolastica. Rendere il processo di apprendimento attraente per le nuove generazioni è la sfida più impegnativa da affrontare a scuola.

In questa contraddizione si concentrano gli insuccessi, i ritardi; si forma la consapevolezza della propria incapacità e matura molto spesso la decisione di abbandonare.
E allora quali saperi? Quali metodi? Quali tempi ? Quali metodi di valutazione? Come recuperare?

La scuola non può essere ritagliata su misura del primato logico-linguistico o peggio ancora sulla particolare figura di studente, estratta dall’ambito sociale che sul possesso del codice linguistico, ampio e ricco ha fondato e legittimato le proprie posizioni sociali. La scuola si deve misurare con la pluralità dei linguaggi, dei saperi e delle intelligenze e dare a questa complessità il rilievo che merita e trarne le conseguenze.

Per gli alunni che si sentono fuori casa, estranei nel mondo scolastico è importante partire dai problemi che danno un senso al sapere che bisogna acquisire. Bisogna adottare metodologie attive e realistiche che lancino un ponte con le pratiche sociali in cui gli alunni sono immersi. Bisogna tentare, nei limiti in cui è possibile, andare oltre l’aula per ritrovare tutti gli elementi possibili di contiguità tra saperi scolastici e i processi della vita quotidiana.

Non si recupera lo svantaggio che denunciano molti alunni con l’aggiunta di ore di attività, che ripetono quelle che l’insuccesso hanno determinato, ma col cambiamento delle relazioni docente-saperi-alunno; con l’implementazione del patrimonio linguistico, chiave di accesso ai saperi; con metodologie dove il parlare abbia la stessa importanza del fare, il muoversi la stessa importanza dello stare fermi.

L’aula non è un auditorium e la cattedra un palcoscenico dove qualcuno recita la parte del sapere; l’aula deve essere un laboratorio che deve impegnare tutte le energie degli alunni, suscitare emozioni e il piacere della scoperta personale, attivare l’immaginazione. L’alunno deve rapportarsi al sapere con spirito amichevole e curiosità (D. Nicoli).

Bisogna lavorare con dibattiti, con situazioni-problema, con esperimenti, con progetti di ricerca; bisogna dare spazio al dialogo, alla negoziazione, alla riflessione. Non si può avere paura di attivare processi di partecipazione e di coinvolgimento

A scuola si deve lavorare senza rassegnarsi ai dati acquisiti della “dispersione” come se fossero naturali e immodificabili.
La scommessa è quella di condurre i giovani alla conquista del sapere; una scommessa che va fatta ogni giorno e in ogni lezione. Ma senza amore, senza passione per il sapere e per il proprio mestiere non può essere vinta. Testimoniare concretamente l’amore per il sapere che si vuole far possedere agli altri è la regola aurea per superare a scuola molte difficoltà nel lavoro di insegnamento.

Lunga è la vita dei precetti; corta e infallibile quella degli esempi (Seneca).

 




Il digitale nell’apprendimento

di Franco De Anna

Una considerazione generale

Se guardiamo alla Storia con lo sguardo della “lunga durata”, e dunque per transizioni e fasi di secoli, non possiamo non riscontrare una permanenza critica ad ogni passaggio che investa le forme della comunicazione, ed in particolare di quella destinata all’apprendimento e alle nuove generazioni.
Si ricorda la critica e la diffidenza di Platone verso la “parola scritta” rispetto alla interazione dialogica diretta.

Ma quanti secoli dovettero passare per misurarsi con la disponibilità diffusa della parola scritta attraverso il libro come strumento essenziale nella riproduzione della cultura, la cui diffusione di massa è legata alla invenzione della stampa? Anzi della tecnologia della stampa a caratteri mobili. Potremmo continuare gli esempi: ma ciò che conta è la consapevolezza che lo sviluppo delle ICT corrisponde ad un passaggio storico che ha portata simile a quelle transizioni citate, e dunque sfida radicalmente la nostra capacità di interpretare, decostruire, ricostruire significati connessi alla comunicazione sociale.

D’altra parte, non mancano certo sensate elaborazioni e pensieri sui problemi che nascono dalla intersezione tra sviluppo delle ICT, formazione ed apprendimento. Non solo, anche se specialmente, per le nuove generazioni. Un pensiero preoccupato per tanti adulti e finanche pensionati hikikomori maturi. In questa elaborazione cercherò di esaminare tali processi per i riflessi che essi hanno sulla organizzazione della scuola, tenendo conto ovviamente delle diverse elaborazioni ed esperienze sviluppate in proposito in questi anni. (Mi preme sottolineare il riferimento al rapporto con l’“organizzazione” della scuola . I cambiamenti indotti dal digitale nei processi di apprendimento vanno proiettati sulla dimensione di “sistema organizzato della istruzione e dell’apprendimento”.)

Non si tratta (solo) di rapporti precettore-allievo

Non ostante la sempre in agguato pericolosa dislocazione di “apocalittici e integrati” di Eco, che, come tale, è assolutamente paralizzante su entrambi i fronti, il dibattito è ampio. Rimane il fatto che la questione si accompagna ad interrogativi radicali, in particolare rispetto alle competenze dei docenti; non “tecniche” ma in campo psico socio pedagogico. Anzi direi: filosofico e antropologico.

Voglio fare solo un esempio

(Che credo sintetizzi molti significati di ciò che dirò in seguito)

Siete un docente “creativo” che usa le tecnologie e i loro dispositivi per sfruttarne le potenzialità (ah! se li aveste avuti a disposizione quando eravate studenti!!!). Dopo opportuno inquadramento storico-culturale avete dato un compito operativo ai vostri ragazzi. Per esempio: dopo spiegato (e capito…) cosa intendesse Duchamp disegnando i baffi alla Gioconda, proponete loro di fare altrettanto con altre opere “rinascimentali”

Che so? Mettere neri ricci ad una Venere che sorge … dei cerotti ad un San Sebastiano… degli occhiali ad una Santa Lucia… Gli strumenti che hanno a disposizione tra le loro mani rendono possibile realizzare il compito senza grande sforzo … Si selezionano le immagini in rete… ci si misura con semplici taglia-incolla e correttore di immagini… si ricava rapidamente ciò che altrimenti avrebbe reso il lavoro su carta proibitivo …

(Certo altra cosa è comprendere a fondo il senso della provocazione Duchamp, ma credo che tale operatività aiuti anche ciò). Osservateli al lavoro, e provate a pensare alla tipologia di problemi che avete di fronte, se appena riuscite a prender distanze dalla soddisfazione dei risultati. La cosa che immediatamente balza agli occhi è l’accorciamento drastico del circuito stimolorisposta…

Trovano una immagine, tagliano, adattano… buttano… ricominciano. Più volte e fino a quando non siano soddisfatti del “prodotto”. A volte, in realtà, avete l’impressione che si interrompano solo per un impulso esterno (la campanella, l’intervallo…) come se il “risultato mai” e invece “iterazione perpetua”.

CLICCA QUI PER LEGGERE L’INTERVENTO COMPLETO




Bambini di Ukrajna in Italia. Oltre lo sconcertante silenzio sulla pedagogia del ritorno

di Raffaele Iosa

Ho aspettato fino alla riapertura delle scuole, sperando che qualcosa si dicesse. Capisco la complicata situazione italiana di questi ultimi tre mesi, dal caldo torrido, alla crisi di governo, al rincaro delle bollette. Capisco tutto,  ma il silenzio del Ministero Istruzione sui bambini e ragazzi ucraini accolti nelle nostre scuole da marzo scorso  è sconcertante. Per carità, non sempre è necessario che il Ministero dica qualcosa perché le scuole lavorino con buon senso (anzi!), ma toccano a lui gli accordi internazionali con il governo ucraino per eventuali collaborazioni pedagogiche sul destino dei ragazzi da noi accolti, in attesa del ritorno.

E’ dunque per me necessario risollevare la questione, per comprendere se il neologismo  “pedagogia del ritorno”,  condiviso da molti come chiave  di questa accoglienza, fosse ancora vivo o se si pensasse che ormai, da questo autunno, si dovesse accoglierli come emigranti definitivi o peggio lasciarli in un limbo.

Un doveroso promemoria

Facciamo prima di tutto il punto sulla situazione ucraina,  con le notizie di questi ultimi mesi.
Si conferma che questi bambini e ragazzi (e le loro mamme) si sentono solo di passaggio dal fatto che un buon numero è tornato a casa in estate, soprattutto se provenienti dal zone nord e ovest ucraino, e dal 1 settembre sono tornati a scuola, magari in locali di fortuna se le scuole sono state distrutte.
L’arrivo di nuovi profughi ucraini si è fermato. Resta quindi non elevato il numero di scolarizzati in Italia, già basso a primavera perché preferivano fermarsi  in paesi confinanti  (in primis la Polonia).
Anche questo un segno del desiderio del ritorno.
Il nostro governo ha prestato a tasso zero all’Ukrajna circa 200 milioni di euro per pagare gli insegnanti ucraini. Un buon segno che il nostro paese non invia lì solo armi.

Intanto ci arrivano notizie dure dalle aree ucraine di sudest ancora occupate militarmente dai russi. Sono stati licenziati molti insegnanti locali, sostituiti da “colleghi” russi; dal 1 settembre i ragazzi iniziano le lezioni  con l’alzabandiera bianca blu rossa di Mosca, hanno libri importati dalla Russia con le “cose giuste” da insegnare e si parla-scrive rigorosamente solo in russo.  Ma c’è di più: alcune migliaia di orfani sociali degli internati  sono stati deportati (altro termine non trovo) in Russia in modo forzato. Uno dei tanti modi che ha la terra di Putin di sopperire al suo deserto demografico. Penso con dolore a questi bambini, spesso con babbi e mamme fragilissimi e poveri ma viventi. Bambini portati via dagli orfanotrofi senza rispetto, con fratture esistenziali  lancinanti. E ancora: non si sa più nulla di centinaia di preadolescenti portati con la forza in Crimea durante l’estate (le vacanze “coatte”) e non più tornati. Nelle zone di campagna tornano i cd. besprizornye,  ragazzi randagi  che vivono alla macchia. Un lascito noto nella storia sovietica che si ripete,  nato nei primi anni della rivoluzione d’ottobre, di cui ci resta memoria in “Poema pedagogico” del pedagogista ucraino Makarenko e della sua colonia Gorky.

Si rifletta su cosa voglia dire essere bambini e ragazzi da quelle parti in questo settembre: se non si muore per le bombe, si sopravvive in un contesto allucinato col rischio del negarsi la memoria e l’identità. Effetti non collaterali ma voluti di una guerra che non è solo distruzione materiale, ma esistenziale.

Ricapitoliamo ora la nostra memoria sull’Italia. Sono uscite in primavera tre note del Ministero italiano sull’accoglienza dei ragazzi ucraini.

Una prima nota di marzo 2022 li chiama erroneamente “esuli” e invita ad accoglierli, seguendo le solite regole  amministrative  e di collaborazione a livello locale tra servizi.
La seconda nota n. 576 del 24 marzo li chiama finalmente “profughi” (come sono), e invia ottime riflessioni di carattere pedagogico.  Si suggerisce accoglienza mite, riconoscimento dell’ identità di bambini e ragazzi “di passaggio” con il forte desiderio del ritorno, un impegno di ascolto rispettoso della loro condizione esistenziale. Notevole è l’idea di “cura pedagogica” non diversa dall’ Y CARE donmilaniano, operando con una pedagogia che aiuti al ritorno. Appunto, il ritorno. Finalmente un respiro alto.
La terza e ultima nota, invece, la 781 del 14 aprile, scade in uno sconcertante formalismo. A fronte del “canone” scolastico italico sul rito valutativo e curricolare (altro che autonomia scolastica) si suggerisce  di considerare questi ragazzi come BES stranieri appena arrivati,  quindi con dispense e compense, consolando i buro-pedagoghi del formalismo cartaceo. Ma c’è di peggio: circa la questione della loro straordinaria Dad che, nonostante la guerra, i loro insegnanti coraggiosamente realizzato da marzo a giugno da laggiù (con immensa gioia dei ragazzi che si sentono così un po’ a casa), la terza nota suggerisce con un linguaggio senz’anima di considerarla come “eventuale arricchimento  dell’offerta formativa” in aggiunta (solo in aggiunta) alle tradizionali lezioni italiche, e sempre che i docenti italici vogliano. Dunque, la più straordinaria avventura pedagogica di questi mesi (la Dad sotto le bombe) non trattata per il giusto rango di un’esperienza educativa arricchente tutti, in primis  loro, e con la quale iniziare un dialogo pedagogico tra colleghi coinvolti qui e lì, ma un mero accessorio transitorio.

Questa sconcertante nota mi ha fatto sospettare una sottovalutazione della fase in un’attesa astratta di cosa sarebbe accaduto della guerra, lasciando ad un indefinito tempo il trattare cosa fare dal settembre.

E infatti sul che fare da settembre il più allarmante silenzio. Il nulla.

Ricordiamo infine che i  nostri amici ucraini accolti sono stati in tutto circa 30.000 (molto meno del previsto),  che i mesi da marzo a giugno sono stati una sorta di accoglienza d’attesa, la migliore possibile. Adesso, invece, con un anno scolastico intero davanti, le cose si fanno ben più serie.

Restiamo in attesa, o ripartiamo con l’autonomia?

Ricevo numerose telefonate  da colleghi e scuole di diverso tipo che mi chiedono cosa fare adesso. Ho scritto molto in primavera sulla pedagogia del ritorno e svolto affollati webinar, quindi molti mi conoscono. I loro racconti non sono sempre felici: ci sono bambini e ragazzi ancora scossi dagli eventi, qualcuno in estate è diventato orfano, di un buon numero di loro non si sa se è rimasto o no. Fortunatamente l’accoglienza racconta anche segni di umanità e solidarietà. Ma le domande sull’oggi sono molte, soprattutto (e non è un caso) sulla loro Dad ucraina: continua o no? Come e se collegarla alle lezioni italiane? Ricevo anche richieste sulla dimensione pedagogica delle relazioni e sul tema della guerra. L’incertezza è anche nelle famiglie ucraine che chiedono notizie alla scuola italiana.

Finchè non arriva la notizia che scuote le famiglie ucraine e che l’Italia non ha ancora dato: le scuole ucraine intendono proseguire anche quest’anno con la loro Dad sia sincrona che asincrona, in tutti i modi possibili e per il miglior tempo possibile. E quindi prendono contatto virtuale con i singoli bambini e ragazzi di cui hanno un indirizzo telefonico o elettronico. Insomma, non intendono  perderli.

Ho fatto un giro di telefonate a colleghi ucraini con cui ho ancora contatti e confermano: “si riparte, non li abbandoniamo. In tutti i modi possibili e nei tempi possibili”. Ma chiederebbero, anche, di sapere un po’ di più su cosa accade ai loro ragazzi in Italia. D’altra parte ho rarissimi racconti di contatti tra colleghi italiani e ucraini in primavera: è sembrata a molti un’esperienza quasi “privata”, di cui non si è sempre colto il valore educativo e anche un’opportunità solidaristica su cui meritasse costruire rapporti. Se poi il Ministero italiano aggiunge che la loro Dad è solo un “accessorio”, lo scadimento  nella banalità è naturale.

Proposte realistiche e rigorose: per un curricolo binario

Non è  necessario, come dicevo all’inizio, che il Ministero mandi per forza chissà quali norme o stringenti indicazioni operative. Le scuole hanno (avrebbero) ampi spazi di autonomia didattica e organizzativa per poter costruire ognuna una propria positiva pedagogia del ritorno. Basta volerlo e crederci.

Per queste ragioni, rompo lo sconcertante silenzio romano  con alcune proposte di lavoro aperte a diverse soluzioni, per offrire alle scuole una proposta pedagogica per far crescere con quest’esperienza solidale la capacità di farsi soggetto progettuale libero e creativo.

Suddivido queste proposte in quattro passi, con un passo zero necessario.

  1. Niente BES

Una premessa necessaria. Si eviti di trattare questi ragazzi nella categoria BES, anche per i rimandi simbolici che questa determina con frequenti effetti iatrogeni e di abbassamento delle attese.
Sono infatti bambini e ragazzi come i nostri, ce n’è di bravi e meno bravi, di più sicuri e più timidi, di più aperti e più chiusi, con  mamme e  papà non tutti eguali. Vivono il dolore del profugo in diversi modi.
Li lega però l’uno all’altro il fatto che sono dentro una tragedia più grande di loro,   stanno vivendo una grande incertezza sul futuro, nell’ansia che il padre non muoia in guerra.
Hanno voglia di tornare a casa e voglia di vivere. Desideri terribilmente normali.
Guai a noi farne una categoria generale psico-pedagogica di sindrome da profuganza educativa di guerra.  Non hanno bisogno di insegnanti di sostegno post-traumatico, né di sacerdoti scientifici del trattamento obbligatorio del trauma. Hanno invece bisogno di vicinanza educativa, di rispetto, di ascolto. E soprattutto di riprendere a  credere nel futuro, per il quale un pezzo di scuola fatta bene anche in Italia  è un primo mattone utile per ricostruire. Non cura pietosa ma speranza. La stessa speranza che esprimono i nostri coraggioso colleghi ucraini che non abbandonano i loro ragazzi sparsi per l’Europa, ma stanno loro dietro in tutti i modi possibili. Possiamo scindere in modo autistico le ore di scuola in Italia dal loro encomiabile impegno via etere? A me pare una bestemmia . Ecco perché la pedagogia del ritorno.

  1. Un necessario dialogo scuola-genitori di prospettiva

In questo primo mese di scuola è  importante che vi sia un colloquio riflessivo e serio tra i nostri insegnanti e le mamme o i parenti che accolgono il nostro alunno o studente ucraino.
E’ un momento necessario per fare il punto di come va la scolarizzazione e di cosa fare a scuola, soprattutto comprendendo la prospettiva in cui si sta muovendo la famiglia per il ritorno in Ukrajna.
Ci sono mamme che pensano di tornare per capodanno: il babbo sta mettendo a posto la casa (Kjiv).

Ci sono mamme rimaste vedove che pensano di tornare dai genitori-nonni  in campagna a rifarsi una vita l’estate prossima (Karkiv). Ci sono mamme ancora per aria perché la loro città è  distrutta (Mariupol) e attendono dove risistemarsi. Storie molto diverse tra loro, fatte spesso di molti se…allora, che senza morbose curiosità dobbiamo condividere per tarare bene quale sia la più corretta scolarizzazione per questo anno e quali elementi della pedagogia del ritorno siano da perseguire.

Soprattutto dobbiamo sapere dalle mamme di Kjiv, Karkiv, Mariupol, ecc.. se prevedono per il loro figlio/la loro figlia la prosecuzione del contatto Dad con gli insegnanti ucraini, quanto e come.
Quest’ultimo aspetto è decisivo per armonizzare la nostra offerta educativa. So infatti  di numerosi casi in cui i genitori ucraini, magari  all’oscuro delle offerte della nostra scuola, preferiscono tenerli a casa e fare tutta la scolarità via Dad. Perdendo così quegli elementi di socialità, relazione, apertura culturale che invece potrebbe dare la frequenza nelle nostre aule,  convivendo con bambini e ragazzi italiani senza perdere il filo della loro carriera scolastica in patria.
E’ ovvio che i diversi obiettivi di vita per le diverse situazioni rendono diversa la domanda educativa. Una buona pedagogia del ritorno non può che considerarli centrali per il nostro impegno.

  1. Il contatto con la scuola ucraina

Nel caso (frequentissimo dalla classe 4 alle 11/12) di desiderio dei ragazzi e delle loro famiglie di mantenere la Dad  ucraina è opportuno che la scuola cerchi il più possibile un contatto con i nostri colleghi ucraini.
E’ molto meno difficile di quanto si pensi. So peraltro che sarebbe molto attesa: gli insegnanti ucraini vorrebbero  entrare in un circuito collaborativo. Lavorare insieme, insomma. Nella speranza del ritorno.
Quasi tutti gli zvitelky (insegnanti) ucraini parlano bene l’inglese, un buon numero anche l’italiano (meno bene), ma hanno tutti skype e la mail, a volte gli manca solo l’elettricità.  Pensate alla loro condizione e alla solitudine di avere le scuole vuote e distrutte, pensate al desiderio di rivedere i loro ragazzi. Pensate all’epoca delle passioni generose nel primo duro lokdown italiano di primavera 2020, in cui migliaia di insegnanti italiani senza aver bisogno del Ministero hanno creato spontaneamente un qualche intenso contatto con i loro ragazzi, anche loro chiusi in casa. In modo ancora più drammatico, sotto le bombe e con le case sfasciate, lo stesso spirito educativo  muove i colleghi ucraini, non i comandi  ministeriali. Non prendono una grivna in più per la Dad, ma nessuno si è tirato indietro. Almeno chi è ancora vivo.

A cosa serva questo contatto tra docenti e scuole è perfino superfluo spiegare: condividere  un comune programma di lavoro, spartendosi un possibile curricolo e soprattutto creando anche ai ragazzi l’emozione di sapere che (Italia o Ukrajna che sia) gli insegnanti si pre-occupano di loro con dedizione e collaborazione. Le straordinarie potenzialità del digitale sono in questo terribile caso, un evento straordinario di pedagogia attiva. Un’esperienza che matura scambi professionali di avvincente valore formativo anche per gli adulti. E fa sentire i genitori dei nostri ragazzi anche loro meno soli in un paese straniero.

  1. Il curricolo binario

Chiamo “curricolo binario” il possibile esito di questo “dialogo professionale” tra colleghi italiani e ucraini. Può realizzarsi anche se saranno difficili i contatti. Il sito del Ministero ucraino abbonda di materiale virtuale, e potrebbe essere seguito da professionisti ucraini in Italia.

Nella logica della pedagogia del ritorno, visto che ai ragazzini ucraini vengono offerte in contemporanea due opportunità curricolari,  tanto vale  non separarle o ignorarsi l’un l’altra. Nei casi più felici, si potrebbe quindi immaginare, caso per caso (i ragazzi non sono nella stessa classe in Italia) cosa potrebbe fare l’insegnante ucraino e cosa l’italiano. Va tenuto conto che chi è in difficoltà (anche materiali) sono loro, non noi. E dunque, buona cosa a partire dalle disponibilità della Dad ucraina, costruire con flessibilità e intelligenza un curricolo personale di Alioscia, Dimitri, Eugenj, Katiuscia, ecc.. nel quale si possano sviluppare alcune attività curricolari in lingua ucraina e altre  nella scuola italiana. Le opzioni sono le più vaste e differenti tra loro. Facciamo alcuni esempi per capirci.

Non c’è dubbio che l’insegnamento della lingua ucraina sia basilare che continui. Qualche ora di ucraino alla settimana sarebbe solo salutare. Sulla storia e geografia forse un insegnamento misto sarebbe interessante, sia per i ragazzi ucraini che italiani, perchè aprirebbe la mente alla scoperta di altri mondi, altre storie, altri luoghi, come de-centramento dal nostro comune solipsismo. Potrebbe invece essere meno significativo l’insegnamento dell’inglese perché più o meno si fa simile sia qui che lì, ma merita eventualmente confrontare le metodologie e gli obiettivi previsti di anno in anno. Per quanto conosco le scuole post-sovietiche penso che l’insegnamento della matematica potrebbe essere affidato alla scuola ucraina, che ha una lunga eccellente tradizione. Il che non vuol dire non mescolare eventualmente i metodi, che potrebbero persino essere utili ai nostri italiani.

Forse le discipline artistiche potrebbero essere meglio affidate alla scuola italiana. Ma non voglio dire di più, perché ogni scuola e ogni classe è diversa, e credo nella creatività e sensibilità degli insegnanti.

  1. Bagatelle formali

Naturalmente un curricolo binario apre questioni “formali” di cui la nostra scuola italica abbonda per eccessi burocratici spesso inventati. Ricordo a chi mi legge che l’art. 4 del DPR 275/99 Regolamento Autonomia prevede esplicitamente la flessibilità didattica, che l’art. 8 dello stesso DPR prevede il curricolo locale, che sempre l’art. 4 prevede forme particolari di valutazione diverse da scuola a scuola. Cose presenti e legittime ma dimenticate nel noioso tran tran di una scuola che non cambia mai.

Per quanto riguarda la valutazione,  ricordiamo che i ragazzi ucraini desiderano diplomarsi in patria, non in Italia, e che la nostra valutazione deve diventare nel tempo un aiuto alla scuola collega quando torneranno a casa, non a fare scale e misure formalistiche. Quindi anche su questo un dialogo con i colleghi ucraini sarebbe quanto mai utile per crescere reciprocamente.

Infine, una questione delicata  riguarda la classe di frequenza dei nostri ragazzi, perché in primavera si sono fatti molti pasticci per la fretta e per la non conoscenza della loro scuola. Sempre nella logica della pedagogia del ritorno, dobbiamo tener conto che la loro scuola primaria termina alla classe 4 e che dalla classe 5 alla 9 c’è una lunga scuola media unitaria.  Poi ci sono 2/3 anni di scuola superiore. Tutti questi 11/12 anni obbligatori. Quindi i ragazzi ucraini hanno l’obbligo fino a 17/18 anni ed entrano all’università un anno o perfino due prima dei 19 enni italiani.  Possiamo farli rallentare solo perchè sono in Italia? Per questo ho suggerito spesso di utilizzare con lucidità quello che le norme italiane sugli studenti stranieri al loro accesso in Italia prevedono: che siano inseriti anche o in una classe prima o in una dopo dei cicli tradizionali italiani.  In particolare per quanto conosco delle loro scuole e dei diversi curricoli, penso che sia delicata la situazione dei bambini di classe 5, che in Ukrajna  è la prima classe della serednja skola (scuola media) e da noi invece è ancora nella primaria.  L’esperienza mi ha fatto proporre spesso un “salto” in avanti di un buon numero dei nostri arrivati in primavera, perché palesemente adeguati ad inserirsi nella nostra prima media. Ogni caso va visto a sé, anche questo è tema da considerare con le loro famiglie.

Lascio qui altre questioni, per esempio quella dei mediatori linguistici se sono o meno necessari (ovviamente dipende), o se sia possibile utilizzare studenti universitari (o insegnanti anch’essi profughi) ucraini per svolgere il curricolo binario qui proposto come adattamento della loro scuola in Italia nel caso non sia possibile un qualche collegamento con la scuola ucraina. Caso che può essere residuale visto l’impegno dei nostri colleghi  laggiù.




L’alternanza Scuola-lavoro e il binomio Capire/Riuscire

di Cinzia Mion

Rispetto alla problematica che sta focalizzando l’attenzione delle scuole secondarie di secondo grado in questi ultimi tempi, io penso che- per capire fino in fondo l’opportunità di sostenere, con i dovuti aggiustamenti da ambo le parti, l’autentica connessione tra scuola e lavoro- bisogna rendere plasticamente accessibile il CAPIRE  insieme al RIUSCIRE, intrecciando perciò sempre queste due dimensioni, rendendole quasi simultanee o comunque “contemporanee”.

Per poter tentare di rendere più chiaro il mio pensiero devo fare riferimento all’intelligenza connettiva, termine coniato da Derrick de Kerchove. Il  noto pensatore allude con questa espressione alla connessione digitale di vari soggetti che pensano, si esprimono e condividono insieme un sapere diffuso. Essi mantengono le varie individualità ed anche le differenze, essendo però in grado di costruire una comunità di conoscenza. De Kerchove però non prende in considerazione la declinazione di Gardner delle intelligenze personali, che si articolano in interpersonale ma anche in intrapersonale: egli focalizza infatti soltanto quella interpersonale tanto è vero che, secondo Nicholas Carr, sottovaluta l’influenza negativa della digitalizzazione sulla nostra intelligenza connettiva intrapersonale. Carr infatti lamenta che la digitalizzazione depotenzia il pensiero critico e riflessivo, che ci permette di creare autonomamente le connessioni mentali, in cambio di un click che “connette” al posto nostro.

Io allora intendo fare riferimento con questo mio contributo proprio alle connessioni mentali non soltanto interpersonali ma anche intrapersonali, che si mettono in moto quando un soggetto cerca di creare legami, correlazioni  tra i dati a disposizione, anche se a prima vista questi possono apparire sconnessi.

L’intelligenza connettiva, sia personale che collettiva, allora, si sviluppa perché il nostro cervello funziona organizzando il sapere attraverso la ricerca di analogie e differenze, sviluppando competenze essenziali di elaborazione e riflessività. Il pensare autentico consiste in fondo nel creare nessi e relazioni tra i dati, gli elementi, le esperienze, vale a dire la pratica illuminata dalla teoria, e la teoria dalla pratica, per ricondurre il discorso al tema di apertura.                                                                                                                                                  Il filo rosso allora che intendo afferrare è quello dato dal binomio Capire/Riuscire, e viceversa, partendo da alcune riflessioni dei grandi pensatori del secolo scorso. Se Piaget infatti aveva superinvestito il termine capire di energia speculativa, tanto da pretendere che nel capire fosse inclusa la competenza dello spiegare, Bruner invece connotava il capire da una forza conoscitiva tesa al comprendere profondamente. Per questo motivo egli avrebbe suggerito a Piaget di sollecitare la “verbalizzazione durante l’azione” in riferimento, per esempio, ai suoi esperimenti sulla conservazione, individuando nel linguaggio, che “narra” l’azione, la chiave di volta per catturare il processo mentale congruente. Riassumendo: l’azione riconducibile al RIUSCIRE, descritta attraverso la narrazione, fa scaturire la mentalizzazione del CAPIRE.                            Bruner azzarda che in questo modo gli esiti degli esperimenti piagetiani sarebbero stati ben diversi.

D’altro canto il paradigma culturale della complessità, come ci insegna Edgar Morin, ci induce a coniugare logiche diverse, anche contrapposte. Siamo noi, con le nostre radici culturali immerse nel paradigma della linearità, che obbedisce alla logica binaria (o vero o falso, o capire o riuscire,ecc.) che facciamo fatica ad attivare l’operazione logica della “coniugazione”. Teniamo però presente che i ragazzi che occupano le nostre aule oggi  abiteranno domani una cultura ancora più complessa.

Anche il metodo “dell’apprendistato cognitivo”, impregnato di didattica vigotskiana, descritto molto bene nella raccolta “I contesti sociali dell’apprendimento” a cura di C.Pontecorvo, A.M.Ajello, C.Zucchermaglio, offre un esempio incomparabile di riuscire-capendo ma anche di capire-riuscendo. Il riferimento, per quanto attiene la competenza della comprensione del testo scritto, trasversale ed essenziale per ogni disciplina, è  alle ricerche di  Brown e Palincsar che utilizzano l’insegnamento reciproco insieme all’espediente di pensare a voce alta. La strategia infatti descritta dagli autori suddetti utilizza le quattro fasi vigotskiane dell’apprendistato tradizionale (modellamento, assistenza, sostegno, progressiva diminuzione dell’aiuto) ma le  rielabora ponendo l’enfasi sui processi cognitivi e metacognitivi che, attraverso appunto la funzione del pensiero a voce alta, non rimangono taciti e nascosti nella mente del docente, dotato di expertise, ma vengono messi a disposizione dell’allievo apprendista.

Scorrendo l’indice del testo in questione troviamo inoltre il saggio interessante della Resnick “Imparare dentro e fuori alla scuola”. Dice la Resnick: Ho identificato quattro tipi generali di discontinuità tra l’apprendimento a scuola e la natura dell’attività cognitiva fuori della scuola. In breve, la scuola si concentra sulla prestazione individuale, mentre il lavoro mentale all’esterno è spesso condiviso socialmente. La scuola è finalizzata a incoraggiare il pensiero privo di supporti, mentre il lavoro mentale fuori della scuola include abitualmente strumenti cognitivi. La scuola coltiva il pensiero simbolico, laddove l’attività mentale fuori della scuola è direttamente coinvolta con oggetti e situazioni. Infine la scuola ha il fine di insegnare capacità e conoscenze generali, mentre all’esterno dominano le competenze specifiche per la situazione”.

La prima osservazione da fare è che se la scuola utilizzasse più spesso attività laboratoriali e progettasse, insegnasse e valutasse “competenze”, e non solo conoscenze generali e capacità, già si avvicinerebbe a colmare il  gap tra apprendimento a scuola e fuori dalla scuola.

Se poi, come affermavo più sopra, a scuola si utilizzassero metodi come l’apprendistato cognitivo, allora si può pensare che la preparazione a trarre beneficio mentale ed operativo dall’alternanza scuola-lavoro, diventerebbe più accessibile ed efficace. Nell’apprendistato cognitivo infatti l’autoefficacia che sperimenta l’allievo nel cimentarsi attraverso l’imitazione nel compito sollecitato, dopo aver assimilato i processi riportati, corrisponde al passaggio dialettico tra CAPIRE/RIUSCIRE.  Bisognerebbe che anche nell’esperienza  lavorativa gli studenti venissero accompagnati da un tutor, formato ad hoc, vale a dire in grado di sollecitare la riflessione sull’esperienza, man mano che questa viene affrontata, rielaborata, ne viene colto il senso, viene collegata con i saperi già acquisiti e con altri di cui eventualmente si avverta la necessità di approfondimento.

Anche nell’acquisizione della competenza le Indicazioni per la scuola dell’infanzia chiedono “la riflessione sull’esperienza” come modalità paradigmatica dell’avviamento di tutte le competenze in genere, su cui poi dovrà avvenire l’attività dell’allenamento. Che cos’è questo se non riuscire/capire?

Il nostro sistema scolastico è sempre stato caratterizzato da una grave scissione: da una parte la scuola del capire, i licei, dall’altra quella del riuscire, gli istituti tecnici e quelli professionali. Secondo me l’obbligo di organizzare l’alternanza scuola-lavoro in tutti gli ordini di scuola secondaria di secondo grado va nella direzione di attenuare questa scissione a tutto vantaggio dell’apprendimento e della formazione delle nuove generazioni e della sfida che si sta parando davanti alla scuola. Sfida che il nostro sistema scuola, organizzato intorno alle conoscenze ed alla lezione trasmissiva, fa fatica ad accettare, rischiando di non tenere il passo con i tempi e di non assumere in debita considerazione i nuovi bisogni formativi dei nostri giovani.

Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi?,Cortina, 2011
De Kerckhove DerricK, La rete ci renderà stupidi?, Castelvecchi, 2016
Pontecorvo C.,Ajello A.M.,Zucchermaglio C.(a cura di), I contesti sociali dell’apprendimento,LED, Milano, 1995