La luna e il dito (lettera aperta ai ministri Bianchi e Messa)

di Cinzia Mion

Recentemente è scoppiata una grande polemica a proposito di dati divulgati da “Save the children” intorno alla percentuale dei ragazzini che alle prove Invalsi, e non solo, risulta non siano in grado di comprendere il senso di quello che leggono.
Sembra si tratti di una notizia falsa, gonfiata nei numeri. La polemica all’inizio è divampata su queste presunte fake news.
Poi, più giustamente, si è sviluppata intorno alle conseguenze che potrebbero avere queste notizie se rapportate alla interpretazione conseguente: se da tempo la scuola pubblica non riesce a colmare queste lacune che, ai fini del raggiungimento del senso completo di “cittadinanza” sono basilari, allora bisogna sostenerla dall’esterno…
Se la causa è la cosiddetta “povertà educativa” ecco pronto a farsi avanti il terzo settore, visto che ci sono in vista degli stanziamenti considerevoli del PNRR . La vecchia volpe di Andreotti diceva “a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca…!”

Un ottimo pezzo di Missaglia nel sito di Proteo illumina questa possibile deriva insistendo giustamente sul fatto che non si tratta di “povertà educativa” ma si tratta di necessario ed impellente cambiamento della scuola ma non “aggiungendo” qualcosa dall’esterno bensì “costruendo ponti e alleanze virtuose con chi è interessato davvero al cambiamento della scuola e soprattutto modificando in profondità l’assetto, il funzionamento, l’organizzazione e i contenuti della didattica”
Allora io aggiungo: carissimo Dario Missaglia , carissimi Ministri dell’Istruzione Bianchi e dell’Università e della Ricerca M.C. Messa, cominciamo dalla base. A me hanno insegnato che se qualcosa non va, il percorso va rivisto dall’inizio.

a) Sappiamo tutti che il sistema universitario frettolosamente definito “3+2” non funziona.
Interrogati singolarmente i docenti universitari lo ammettono, salvo poi ammutolire come pesci di fronte al rischio di un cambiamento “che non si sa mai se può comportare qualche rischio che non vogliono correre”.
Il primo modulo dei tre anni per la cosiddetta laurea breve fa acqua da tutte le parti. I corsi universitari con la denominazione infelice di “numeri ascrivibili a crediti” ( sarò vecchia ma questa terminologia mi fa rabbrividire) hanno ridotto le università ad esamifici. Diciamolo una volta per tutte fuori dai denti. Le dispense su cui si studia e le tesine con cui ci si laurea sono ridicole. Sono i ragazzi stessi e i loro genitori ad ammetterlo. Cosa aspettiamo a riformare questo scempio?

b)  Cosa aspettiamo ad includere nel corso di studi per la formazione iniziale la vecchia psicopedagogia, chiamata oggi “ Psicologia dell’apprendimento”, che è l’unica fonte scientifica che ci offre la padronanza della metodologia e della didattica che userò perché mi permette di acquisire le chiavi di lettura per interpretarne l’incisività, rispetto alla finalità che intendo raggiungere: è la risposta esatta o la comprensione profonda, compreso il ”senso” di quello che leggo che mi interessano?
Nel caso che stiamo prendendo in esame, tra i vari manuali serissimi e già datati, c’è un saggio fondamentale di tale disciplina più recente dal titolo “I Contesti sociali dell’apprendimento” a cura di Clotilde Pontecorvo, Anna Maria Ajello, Cristina Zucchermaglio. Vi dicono qualcosa questi nomi, ascrivibili al periodo che Dario Missaglia nomina come ricco di “energia sociale” , quello degli anni 70? (anche se il saggio in questione è del 1995).
Ricominciamo da lì!!! In questo testo si insegna cosa è per esempio “l’ Apprendistato cognitivo” e come si può utilizzare questa metodologia neovigotskiana proprio per sviluppare i processi cognitivi e metacognitivi così importanti per capire il SENSO di ciò che si legge!

c) Moltiplichiamo perciò al più presto le cattedre di psicologia dell’apprendimento prima che perdiamo “il testimone” e riformuliamo i piani di studio. Apriamo il cantiere della formazione iniziale per tutti i docenti: solo così possiamo sperare di salvare la scuola. Credo che una volta assaporato il vero “senso” di cosa significa l’insegnamento, per poter sollecitare l’apprendimento autentico per “tutti”, non sarà necessario escogitare premi e specchietti per le allodole per sollecitare il bisogno di formazione. Saranno i docenti a chiederla e senza voler essere remunerati per questo, (naturalmente potendo allora godere di uno stipendio adeguato e non di uno residuale tipico di un lavoro di seconda scelta) recuperando così la dignità della loro professione.
Tutto il resto sono pannicelli caldi.
Eppoi ragazzi, per favore, se qualcuno vi indica la LUNA, non fermatevi al DITO!




Cultura umanistica, materie umanistiche, digitale

di Stefano Stefanel

Prendiamo una grande squadra di calcio: ad esempio il Milan che ha vinto lo scudetto. Facciamo finta che, dopo il primo tempo, la squadra sia sotto di due gol per errori palesi della difesa. A quel punto l’allenatore pensa: “dato che i difensori hanno sbagliato devo mettere in difesa i più forti che ho” e così sposta due attaccanti (diciamo Giroud e Ibrahimovic) al centro della difesa. A occhio e croce dovrebbe finire sette a zero per gli avversari.  Ognuno deve giocare nel suo ruolo: se sei attaccante attacchi, se sei difensore difendi.

Mi è venuto in mente questo piccolo paragone dell’assurdo pensando alle modalità con cui la cultura umanistica e le materie umanistiche affrontano la questione del digitale a scuola. Il digitale è una “tigre” e, come tutte le tigri, è molto indifferente alle sue vittime. Sta nella sua natura essere interessato a sé stesso, avendo una statura, un peso e una capacità aggressiva che difficilmente si possono mitigare. Davanti ad una tigre abbiamo grosso modo due strade: la prima è cercare di addomesticarla, di non farla arrabbiare, di non impaurirla; la seconda di cavalcarla. Poi qualcuno tenta la fuga, ma la tigre è più veloce e la fuga, di solito, non riesce. La cultura umanistica e le materie umanistiche non sembra intendano “addomesticare” o “addestrare” il digitale, ma lo hanno semplicemente cavalcato, quando era necessario, ed ora non sanno come scendere dalla tigre digitale, perché gli è venuta fame e in groppa ad una tigre non si mangia.
              Il digitale è la nuova grande, inattesa e imprevista possibilità per la cultura umanistica, ma questa, invece di capirne le potenzialità, combatte il digitale dopo averlo utilizzato, per lo più per fare conferenze o lezioni frontali. La cultura umanistica italiana non sta facendo granché per capire le possibilità del digitale e si limita e produrre lunghi PDF, cioè libri di carta fotografati. Già questa questione del poter fotografare i libri è interessante, ma ancora più interessante è sapere in che modo agire con le biblioteche virtuali, ma anche con tutta la lingua scritta e pubblicata sul web, ogni giorno nuova, ogni giorno in aumento. Questo mio articolo ha una modesta possibilità di circolazione attraverso il digitale, quasi nessuna possibilità di circolazione tramite meccanismi cartacei. Fatto banale, ma evidente.

Non è mai accaduto nella storia dell’umanità che si leggesse e scrivesse tanto come oggi: si scrive e si legge dappertutto, sia dove lo si può fare (seduti su un treno, seduti su un aereo, seduti su una metropolitana, nella propria camera da letto, sul banco della scuola, in spiaggia), sia dove non lo si può fare (su un aereo quando lo si pilota, su un’auto quando la si guida, al lavoro quando si deve lavorare ecc,.), sia dove lo si può fare oggi ma non lo si poteva fare una volta (camminando, nuotando, ballando, mangiando, ecc.). Ogni giorno escono miliardi di pagine scritte da qualcuno e messe sul digitale. Dunque, la cultura umanistica dovrebbe vedere il digitale come il suo grande e possibile futuro (è comunque molto più facile mettere in rete una propria poesia piuttosto che una complessa formula matematica).

La risposta della scuola è, invece, preoccupante: dopo essersi messa mani e piedi in mano alle multinazionali e ai loro server, ora che tutto dovrebbe essere tornato normale (ma invece nulla è tornato normale) si sta accorgendo che scendere dalla tigre è un problema, ma è un problema anche restarci in groppa. Tentativi di addomesticamento non se ne vedono. Così la cultura umanistica ha pensato bene di prendere i suoi intellettuali (gli estrosi attaccanti da pochi o tanti gol, ma comunque gente che sta all’attacco) e metterli in difesa contro il digitale, i suoi guasti sulla scuola, sugli adolescenti, sul mondo. Il “ritorno alla carta”, però, avviene in un solo modo: attraverso l’adozione dei libri di testo, unico libro che entra in molte famiglie. I danni che “gli attaccanti” stanno facendo alla scuola e alla cultura umanistica sono enormi, ma nessuno pare accorgersene. Dovrebbero attaccare e convincere le persone a leggere e invece lanciano invettive contro il digitale e la sua invasività anticulturale.

E qui passiamo dalla cultura umanistica alle materie umanistiche: il digitale le contamina, le integra, le rende multi e interdisciplinari, soffre le divisioni nette. Per cui da un lato si fanno comprare alcuni chili di libri di carta e dall’altro si lascia che il web faccia scuola da solo. Come ha detto di recente il mio amico Roberto Maragliano: l’insegnante per sapere se uno studente sa o non sa deve interrogarlo, il digitale per saperlo basta che segua il modo in cui ognuno di noi (e ogni studente) lavora sul web (e – dopo averlo tracciato – valuta se ha capito o meno). L’insegnante del mattino insegna a espandere la lingua, quello del pomeriggio (lo smartphone) insegna a contrarre la lingua: quello del mattino si disinteressa di quello che fa quello del pomeriggio, quello del pomeriggio, invece, sa benissimo come combattere quello del mattino. Lo studente studia sui libri quando è obbligato, ma poi usa il web. Gli insegnanti fanno lo stesso, ma insegnano a fare altro.

Nelle scuole italiane ci sono migliaia di biblioteche che stanno facendo un immane lavoro di catalogazione per libri che pochi chiedono, pochi leggono, nessuno ruba. Chiedere, leggere e rubare non sono tre sinonimi, però al giorno d’oggi che motivo c’è per rubare un libro se non lo si vuole leggere? Io penso che se noi lasciassimo le biblioteche scolastiche aperte e sguarnite nessuno ruberebbe niente, primo perché i libri di seconda mano non li vuole nessuno, secondo perché se voglio leggere un libro me lo compro, terzo perché l’interesse a leggere i libri è diminuito. Quindi non c’è pericolo di furto e si potrebbero mettere i soldi della catalogazione in attività di sensibilizzazione alla lettura, coinvolgimento, lavoro sulla scrittura.

Invece la risposte della scuola alla crisi della cultura umanistica è una ulteriore parcellizzazione delle materie umanistiche e dei libri di testo di accompagnamento. Chi ama le materie umanistiche e la cultura umanistica dovrebbe fuggire dai libri di testo come si fugge dalle pandemie: bisogna far leggere libri “veri” non manuali, bisogna far conoscere il suono, la parola, la suggestione. Una delle cose che non ho mai compreso (tenete conto che ho fatto per vent’anni il professore di italiano, storia, geografia) è come possano appassionarsi alla Divina Commedia studenti costretti a seguire le spiegazioni di versi che, letti, nessuno capisce. E dico nessuno, senza controprova, perché ho sempre avuto il dubbio che molti insegnanti se non avessero le note o non avessero studiato il testo non saprebbero spiegare cosa Dante scriveva. Certi canti del Purgatorio e del Paradiso sono troppo complicati: che senso ha leggerli, non capire nulla ed ascoltare uno che te li spiega? La poesia è un’altra cosa e se qualcosa resta, deve restare perché ti è entrato dentro non perché qualcuno ti ha spiegato quanto è bello. Questo vale anche per le canzoni, vedi il Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan.

Stessa cosa dicasi per I promessi sposi: vanno letti, non spiegati. Vanno letti e commentati, non riassunti. E così per Leopardi, Calvino, Moravia, Ariosto e per tutta la filosofia e la cultura sociologica e umanistica in genere. Invece la scuola procede per riassunti (i manuali), come se il riassunto ti spiegasse la metrica, mentre si limita a raccontarti la storia, anche se spesso – in Hemingway sempre – la storia è molto meno bella di come ci viene raccontata dallo scrittore.

Il digitale dovrebbe essere il grande alleato della cultura umanistica e delle materie umanistiche, che però vivono l’ossessione della copiatura. Il problema non è copiare, ma saper dire precisamente da dove lo si è fatto. Nei libri che ho pubblicato ho sempre citato la fonte da cui ho “copiato” alcuni passaggi che ho virgolettato. E ho sempre citato i libri a cui ho fatto riferimento: qualcuno ha mai letto un saggio in cui l’autore non citi (copi) qualche altro autore? San Tommaso d’Aquino quando faceva un Quodlibet all’Università di Parigi si inferociva se un suo studente esponeva una tesi e non sapeva chi fosse l’autore del passato che l’aveva elaborata. Riteneva il comportamento dello studente che pretendeva di aver inventato qualcosa un affronto a Dio, che aveva dotato di saggezza alcuni uomini perché ne tramandassero il suo messaggio. Lo studente doveva saper copiare, non doveva inventare. Se leggesse i temi dei nostri studenti scritti su carta (spesso attraverso il gesto “solo scolastico” di piegare un foglio a metà e scrivere solo a sinistra) San Tommaso inorridirebbe davanti a tanta arroganza di ragazzini che sdottorano su argomenti aulici senza alcuna autorità e senza alcuna competenza. Per imparare a scrivere bisogna scrivere (perché non digitalmente?) e bisogna leggere, non fare esercizi. Perché non far comprendere la centralità della citazione? Perché non abituare gli studenti a fare abstract e montaggi di testi citati chiaramente e commentati? Perché non lasciare che scrivano consultando il web, copiando dal web, citando dal web? Scrivere quello che si sente e si sa, leggere quello che di bello è stato scritto: il web in questo è un aiuto formidabile per la cultura umanistica.

Il libro di carta sta benissimo ma è un bene di nicchia: mettere i centravanti in difesa, cavalcare l’affamata tigre del digitale, far scrivere tutto su carta al mattino (e poi nel pomeriggio nessuno lo fa più) significa condannare la cultura umanistica a chiudersi nella riserva della scuola, lasciando che la cultura scientifica la faccia da padrona nella società. Le Facoltà umanistiche dovrebbero smetterla di inventare corsi strani per rubarsi studenti tra loro e aprire spazi per studenti che cercano una strada, la scrittura del web deve essere presidiata, non è più possibile lasciarla alla didattica dello smartphone.

Se un allenatore vista la mala parata mette ottimi attaccanti in difesa cavalca una tigre da cui non scende più. Se gli intellettuali per difendere la cultura umanistica dicono pubblicamente scempiaggini su una scuola che non conoscono il tasso di analfabetismo culturale e di ritorno che vogliono combattere semplicemente aumenterà. E d’altronde sono in arrivo 800 milioni sul digitale a scuola, ma la scuola tenderebbe a vietarlo quel digitale a scuola: non tenta di addomesticarlo, ma cerca ora di scendere dalla groppa della tigre. Però, giustamente, ha paura di farlo: le fauci del digitale, più o meno, le conosce e sa che non perdonano. Ma d’altronde, come ha scritto Eschilo, “Giove acceca chi vuole perdere”.

 




La rivoluzione pedagogica di Andrea Canevaro

di Maria Teresa Roda

La passione per gli alberi genealogici è sempre stata di casa nel Movimento di Cooperazione educativa: Mai abbandonare le radici, rafforzare il tronco, lasciare che i rami si espandano. A volte usavamo anche l’immagine rovesciata per rappresentare l’albero a testa in giù come lo aveva ipotizzato Platone o come lo si era pensato nel Medio Evo, le radici che tendono al cielo.
Gli anni ’50, per la scuola, per il pensiero pedagogico, per la crescita socio-economica hanno rappresentato il lento ma tenace lavoro delle radici.
L’energia e gli umori nutritizi venivano anzitutto dalla volontà di voltar pagina. La guerra agita fatta di morti confuse seminate da nemici ed alleati, di distruzioni, era comunque finita.
Giovanna Legatti, Giuseppe Tamagnini, Mario Lodi e quel pugno di maestri e maestre innovatori ed innnovatrici, per nulla al mondo avrebbero rinunciato alla domanda su come si poteva cambiare la scuola.
La strada delle tecniche divenne la via che più tardi la Pedagogia Istituzionale avrebbe chiamato “dei materiali mediatori” e della mediazione pedagogica; proprio Andrea Canevaro, saprà come reimpostare paradigmi, concezioni ed assetti del corpo compatto della scuola introducendo i principi lella Pedagogia istituzionale (Vasquesz e Oury).
Gli anni ’60 tolsero il velo al pionierismo, allargarono le sperimentazioni e lo svecchiamento, contribuirono a portare aria fresca dentro alle aule assieme a terrari, erbari, a volte animali ed arnesi disparati.
La tipografia fu davvero come la scoperta della stampa cinquecentesca. Sancì la libertà e la circolazione del pensiero, l’apertura ad altre classi. L’esclusione dei ceti più deprivati che portava il segno della negazione di tutto quanto riguardasse la materialità della vita quotidiana, assumeva, risignificandosi, la connotazione di sapere e trovava spazio dentro alla sacralità dell’aula .
Il sapere delle stagioni, dei bachi e della loro metamorfosi, della statistica dei giorni piovosi o sereni era finalmente compreso e fatto convivere con il sapere dei libri . Tutto questo è descritto con dovizia di particolari da Mario Lodi in “C’è speranza se questo accade al Vho”. Dice bene Mario; è apparsa una fetta di luce che filtra proiettandosi sul pavimento, quando si socchiude la porta. Rodari osserva le luci e le ombre delle nuove pratiche, ne riconosce l’enorme spinta simbolica, la possibilità che, passando per un tocco di surrealismo, si potesse leggere il reale scherzandoci su, ironizzando, rovesciando sensi e giocando con le parole, spingendo l’azzardo fino ad una nuova concezione etica del vivere e dell’organizzazione sociale. Facendo quello che Calvino fece, in modo più amaro e disincantato, con i racconti sui Marcovaldi che si perdevano nella finzione dell’abbondanza a portata di mano.
La scuola si sprovincializza, ci sono fermenti che la scuotono, che la attraversano, che la rinnovano, che mettono ferocemente in discussione il suo carattere selettivo ed autoreferenziale. Il testo collettivo delle nuove metodologie Freinet serve a don Milani che aveva accettato la lezione ed era entrato in questo corto circuito, per mettere a punto “Lettera ad una professoressa”, una invettiva senza peli sulle responsabilità di un’Istituzione che perde molti, troppi/e, per strada.
Un “j’accuse” politico perfettamente intonato ai tempi e ad una coscienza nuova dei diritti fondamentali. La pedagogia traballò come disciplina, l’Istituzione scuola fece argine e contenne il fiume in piena.
Nacque la scuola media unica. Ma ragazzi e ragazze continuarono e continuano a perdersi nel bosco.
Lo ha capito bene Andrea Canevaro. Lo hanno capito molti insegnanti animati dal migliore degli spiriti innovatori ma avversati dalla sindrome del Don Chisciotte.
Lo hanno vissuto molte famiglie che avevano gioito per lo statuto dei lavoratori (1970) ma dovevano lasciare i loro figli in scuole speciali o ancora nascosti in casa perché la scuola non ha potuto accoglierli, in quanto diversi, fino al 1975, anno del primo esito/pubblicazione del documento Falcucci e poi il 1977 con la 517 che sancì la possibilità di frequenza scolastica a tutti gli alunni con disabilità.
Una conquista normativa enorme ma costellata di innumerevoli difficoltà. Fu una seconda rivoluzione copernicana ed Andrea Canevaro divenne per il mondo della scuola e per il Movimento di Cooperazione educativa uno dei punti di riferimento imprescindibili assieme alla sua facoltà, ai suoi collaboratori, al Ceis di Rimini, al lavoro di ricerca sull’autismo e sulle infinite gamme di problemi che assommiamo dentro la parola “diversità” o handicap. Con l’ingresso degli alunni ed alunne con (dis) abilità, non era la normalità che imprimeva i ritmi alla diversità ma era la diversità che chiedeva che cambiasse la collaborazione tra alunni ed alunne, il modo di fare i gruppi di lavoro, di disporre i banchi, di sistemare l’ aula, di distribuire i tempi. Fu necessario che gli strumenti venissero ridiscussi, moltiplicati, riadattati. Forse, in nome della prima rivoluzione delle tecniche, questa rivoluzione, controversa, è passata più in sordina, accompagnata da un dibattito spesso leguleio sul ruolo dell’insegante di sostegno.
L’Istituzione ha continuato ad essere una casamatta, un baluardo che per riprodursi ha dovuto in parte conservare le sue regole totalizzanti e rigide e con queste le stanze a sé per momenti di eccessivi e spesso prolungati esilii di alunni ed alunne in difficoltà e/o socialmente svantaggiati.
Del resto ancor oggi la ricreazione suona alla stessa ora nelle 19 regioni italiane e la scansione oraria segna il ritmo del tempo a dispetto di tutti gli orologi solari che alunni ed alunne hanno studiato e progettato e a dispetto della naturalità dei ritmi biologici.
Alla cosichiamata “resilienza”, termine a me molto inviso, la scuola ha sempre risposto con una parte di limite roccioso di irriformabilità.
Questo limite, questa muraglia è stata spesso oggetto di analisi e di studio tra noi ed Andrea tanto da spingere Andrea a riflessioni estreme sugli universi concentrazionari per capire come la memoria offesa dei campi di concentramento possa essa stessa divenire forza di resistenza, di re-esistenza.
Andrea ha offerto al Movimento un aiuto costante.
Nel 1992, ero in Segreteria nazionale ed avevo l’esonero da scuola. A dicembre avremmo celebrato il convegno nazionale di Siena che avrebbe dovuto segnare una svolta ed un rilancio del Movimento: “Dalla pedagogia popolare nasce un progetto educativo per una società interculturale e multietnica”.
Non saprei ricontare le ore che spendemmo per fabbricare questo titolo. So che erano arrivati anche se non in forma massiccia, i primi alunni stranieri e ci stavamo preparando ad una crescita del fenomeno migratorio e ci eravamo seriamente posti il problema di come conciliare il concetto di “popolare” con altre culture. L’allora segretario Natale Scolaro (morto molto giovane), tuonava che ci saremmo giocati, in quel convegno tutto il nostro lustro pedagogico.
A me venne affidata la relazione di apertura ma anche una parte del coordinamento dei relatori, cosa da far tremare le vene ed i polsi. Poi mi disse che l’intero impianto andava mostrato ad Andrea che era nel Comitato scientifico assieme a Fiorenzo Alfieri, Paola Falteri ed altri.
Ottenemmo il patrocinio del Presidente del Senato, allora Spadolini. Mi pare fosse settembre del ’92, Andrea ci dette un appuntamento a Bologna. Ero molto ansiosa, come andare ad un esame. Cercai di tranquillizzarmi pensando che avrei lasciato parlare Natale. In realtà Andrea ci venne incontro con un sorriso così conciliante che mi sparirono tutte le paure, andammo a prendere qualcosa ad un bar e lì discutemmo un’oretta,
Andrea ci rassicurò molto e si sarebbe incaricato, se non ricordo male, di fare alcune telefonate. Fu un incontro come pochi, anche gli ostacoli più rilevanti sembrarono rimpicciolirsi. Nei mesi successivi misi insieme, limandolo mille volte lo scritto e battendolo in un mac 128k poco più grande del formato cartolina. Andai da Luisa Tosi, una capostipite della scuola trevigiana, con mac a seguito e le chiesi se potesse andar bene quanto scritto, mi rispose laconica , come era Luisa: “Dignitoso”. Perché, non crediate, ma anche dentro il MCE gli esami non finivano mai !
Fu così che affrontai Siena con lo spirito aleggiante dei due angeli custodi (Andrea e Luisa) anche se nulla mi impedì dopo la relazione di sciogliermi in bagno in un buon pianto liberatorio. La figura di Andrea era stata tuttavia, una sorta di talismano a cui ricorrevo quando la difficoltà mi pareva insormontabile, perché il carattere di Andrea era così, e per prima cosa ti chiedeva come stavi non dimenticando nulla dei racconti passati e di chi eri.
Il pacioso parlare di Andrea non ci può far ingannare sulla seconda rivoluzione dell’innovazione pedagogica, quella che parte dalla diversità.
Se Tamagnini, Legatti, Nora Giacobini, Lodi, Rodari, Tonucci e molti altri, sono stati gli esploratori della prima ora , non possiamo disgiungere il secondo passo di cui Andrea Canevaro è stato artefice seminando in Italia e nel mondo principi e riflessioni psicopedagogiche che hanno consentito di dire: “C’è speranza se questo è successo in Italia nella scuola, nelle cooperative, ad opera di un uomo discreto instancabile e profondamente umano tanto da fare dell’umanità la scienza dell’inclusione ”




Le scuole parallele

di Giovanni Fioravanti

Non c’è niente di più costituzionale dell’istruzione per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, eccetera, eccetera. È l’istruzione, dunque, che può fare la differenza. Eppure, nonostante il ministero dell’istruzione, di istruzione si parla poco nel nostro paese, come se l’istruzione fosse un accidente e su tutto dovesse prevalere l’educazione, che resta termine ambiguo e non identificato.

Lo Stato, invece, una sua idea di istruzione ce l’ha, avendo per dettato costituzionale (art. 117, com.1, lett. n) legislazione esclusiva relativamente alle norme generali dell’istruzione. Questa idea è addirittura prescrittiva ed organicamente sancita dalle Indicazioni Nazionali relative al Primo Ciclo e al Secondo Ciclo dell’Istruzione.

Per fare solo un esempio il nostro Stato ritiene prescrittivo che al termine del primo ciclo di istruzione le nostre ragazze e i nostri ragazzi, in uscita dalla terza media, siano in grado di leggere testi letterari di vario tipo (narrativi, poetici, teatrali), di scrivere correttamente testi di tipo diverso (narrativo, descrittivo, espositivo, regolativo, argomentativo) adeguati a situazione, argomento, scopo, destinatario. Di produrre testi multimediali, utilizzando in modo efficace l’accostamento dei linguaggi verbali con quelli iconici e sonori.
Di padroneggiare e applicare in situazioni diverse le conoscenze fondamentali relative al lessico, alla morfologia, all’organizzazione logico-sintattica della frase semplice e complessa, ai connettivi testuali; di utilizzare le conoscenze metalinguistiche per comprendere con maggior precisione i significati dei testi e per correggere i propri scritti.

È tutto scritto nei Traguardi per lo sviluppo delle competenze al termine della scuola secondaria di primo grado.

Se non basta, sempre a mo’ di esempio, prendiamo le Indicazioni Nazionali  per i Licei, dopo tredici anni di scuola. Ci sta scritto, caso mai qualcuno non le avesse mai lette, che “Al termine del percorso liceale lo studente padroneggia la lingua italiana: è in grado di esprimersi, in forma scritta e orale, con chiarezza e proprietà, variando – a seconda dei diversi contesti e scopi – l’uso personale della lingua; di compiere operazioni fondamentali, quali riassumere e parafrasare un testo dato, organizzare e motivare un ragionamento; di illustrare e interpretare in termini essenziali un fenomeno storico, culturale, scientifico.

L’osservazione sistematica delle strutture linguistiche consente allo studente di affrontare testi anche complessi, presenti in situazioni di studio o di lavoro. A questo scopo si serve anche di strumenti forniti da una riflessione metalinguistica basata sul ragionamento circa le funzioni dei diversi livelli (ortografico, interpuntivo, morfosintattico, lessicale-semantico, testuale) nella costruzione ordinata del discorso.”

Se qualcuno ha un’idea di qualità dell’istruzione migliore si faccia avanti. Per il momento questa è la qualità che lo Stato legislatore esige dalle sue scuole, e a me sembra di tutto rispetto. Tralascio le competenze matematiche per non appesantire il lettore.

Allora viene da chiedersi come mai sia possibile che al termine di un ciclo scolastico durato 13 anni, non raggiungono un livello accettabile di competenze, definito in ambito internazionale come livello 3, il 51% dei diciannovenni italiani in matematica e il 44% in lettura, con percentuali che sfiorano il 70% in alcune regioni del Sud per quanto riguarda la matematica.

Lo Stato è prescrittivo in materia di competenze e di livelli di apprendimento da raggiungere, ma poi come ci si arriva è affare dell’autonomia scolastica (quella del DPR n.275 dell’8marzo 1999) e della libertà di insegnamento riconosciuta ai docenti dall’articolo 33 della Costituzione.

Lo Stato avvisa che le sue sono “Indicazioni”, dunque non “Programmi”, perché lo Stato fissa i traguardi ma non i percorsi, lo Stato non ha alcun modello didattico-pedagogico da dettare. La strada che porta all’istruzione di qualità, ai livelli di apprendimento è lastricata di sperimentazione, di scambio di esperienze metodologiche, del ruolo dei docenti e delle autonomie scolastiche nella scelta delle strategie e delle metodologie più appropriate a raggiungere il successo formativo.

Nel 2013 l’indagine Talis (Teaching and Learning International Survey), incentrata sull’analisi degli ambienti di apprendimento, metteva in luce come, a giudizio degli stessi docenti intervistati, l’Italia sia il paese dove è maggiormente diffusa la strategia didattica trasmissiva, nella quale lo studente ha quasi sempre un atteggiamento passivo, il “vaso da riempire” di pedagogica memoria.

Ancora più negativi i risultati relativi alla capacità degli insegnanti di personalizzare le pratiche di insegnamento, prestando attenzione alle differenze fra gli studenti e sostenendo i loro bisogni emotivi: quasi l’80% dei docenti osservati non compie alcuno sforzo di adattare le attività in classe alle diverse esigenze degli studenti.

Emerge un’organizzazione dell’insegnamento “blindata”, in cui la maggior parte dei docenti è più preoccupata di garantire una trasmissione di contenuti che di sviluppare l’autonomia nell’apprendimento dei ragazzi.

Da un lato l’Istruzione normata sancita dalle Indicazioni dello Stato, dall’altro l’istruzione reale praticata quotidianamente nel rumore d’aula.

Due scuole parallele che non si incontrato. L’una disegnata dal legislatore, l’altra che si trascina pigramente, perché si è fatto sempre così, si faceva prima quando si sedeva dietro i banchi, si fa ora che si siede dietro la cattedra. Un modo di insegnare che ha avuto i suoi rinforzi negli anni di frequenza dell’Università. Semmai non si sono neppure mai lette le Indicazioni Nazionali relative al grado di scuola in cui si insegna, preferendo seguire i libri di testo e le guide didattiche.

Non è la scuola progressista che ha aumentato le disparità, ma la convinzione dura a morire che insegnare corrisponda alla propria idea di istruzione, costruita sulla base della propria esperienza scolastica. Se è andata bene per me perché non dovrebbe andare bene anche per gli altri. Così nel nostro paese si fa scuola a prescindere dalle scelte del legislatore destinate a cadere nel vuoto delle nostre aule.

Indicazioni nazionali e Autonomia scolastica sono le strutture portanti del nostro sistema formativo, entrambe sono il prodotto della migliore riflessione  e ricerca nell’ambito delle scienze dell’educazione e in campo amministrativo che questo paese abbia saputo produrre. Costituiscono la fortezza Bastiani da difendere e da realizzare. Questi sono i bastioni su cui fondare la lotta contro la povertà educativa e gli impegni presi con il PNRR, dalla formazione dei docenti all’edilizia scolastica.

 

 

                                                                

        

 




Concetto di identità: cos’è la teoria Gender

di Giuliana Sarteur

 Nella società c’è un gran bisogno di classificare i comportamenti sessuali e ricercare il senso della così detta normalità. Identità sessuale è un concetto recente ed è un concetto in evoluzione in ogni singolo soggetto a seconda dell’età: deve tener conto della psiche e del modello del tempo in cui vive. L’identità sessuale quindi non e un concetto statico, ma evolutivo e dinamico: parte dalla fase pregenitale per giungere alla genitalità, dinamico perché anche quando l’identità è raggiunta non resta mai eguale. E’ infatti soggetta a tutti i cambiamenti del nostro corpo, informazioni che la nostra mente assimila, a tutte le relazioni che si interrompono e si costruiscono nel corso della vita. Il partner è lo specchio per raggiungere una identità sessuale certa.

I pilastri fondamentali per la costruzione dell’identità sono due: la figura dell’accudente ( relazione con la madre ) e il pilastro dell’autonomia, cioè saper fare scelte e saper costruire il proprio essere sessuato. Questi pilastri devono essere molto solidi e se uno dei due è debole l’altro deve sopperire.
La base di partenza è indicata dal corredo cromosomico – XX o XY – l’arrivo è diversificato e non prevedibile e si chiama IDENTITA’.

Quindi potremmo definire una identità biologica, identità di genere, identità di ruolo che non sempre coincidono, tutto quello che la persona fa o dice per indicare a se stesso e agli altri il grado della sua femminilità o mascolinità o ambivalenza.

Come più volte esplicitato, intorno ai due anni di vita i bambini sanno attribuire correttamente abiti e oggetti che competono al modo di vivere ai maschi e alle femmine; successivamente ai tre anni l’identità di genere viene espressa dalla assunzione di aspetti esteriori, stereotipi del sesso maschile e femminile e solo dopo i quattro anni sono in grado di differenziare il sesso dalle manifestazioni di ruolo per cui a indossare i pantaloni non è necessariamente un maschio e cucinare non significa essere donna. A cinque anni manifestano di appartenere stabilmente ad un determinato genere assumendo anche la consapevolezza di essere portatori di genitali diversi. Parallelamente andranno tipizzandosi i comportamenti con predilezione per giochi di movimento e atteggiamenti di dominanza ed aggressività, verso il più discreto agire delle femmine con maggior propensione alle attività verbali e comportamenti collaboranti.

Nel complesso queste caratteristiche saranno derivate dal contesto sociale e dall’orientamento educativo dei genitori, ma non sembrano estranee le influenze ormonali comprese le anomale androgenizzazioni in fase prenatale.
In questi ultimi anni abbiamo spesso sentito parlare di teorie del Gender attribuendole un significato negativo. A questo punto del nostro discorso dovrebbe essere chiaro che il processo di evoluzione del proprio corpo, delle propensioni o degli intrappolamenti in corpi inadeguati al genere di attribuzione non è pilotabile o imponibile, può però essere ostacolato o deviato dalle relazioni con la scuola, con la società tutta durante il percorso dell’intera vita. L’aspetto psicologico dell’appartenenza ad uno dei due sessi non è correlabile al solo cariotipo in quanto altro dinamiche fisiche e psicologiche intervengono a modellarlo; esistono differenziazioni attitudinali date dalle diverse attività degli ormoni maschili e femminili che interagiscono con elementi culturali, sociali, storici ed antropologici.

Il sospetto è che non si debba parlare di semplici cromosomi bensì di più geni che ci definiscono.
Quindi sarebbe più corretto parlare di genere e non di sesso: il termine pangender mutuato dall’inglese non è un neologismo assoluto, ma già utilizzato in altre culture. E’ evidente che non è possibile in alcun modo condizionare lo sviluppo di identità se non in uno stereotipo di genere, imporre regole secondo canoni estremamente rigidi, ruoli utilizzati in forma costrittiva ammantata di moralismo cui viene attribuito un senso etico e che viene spesso imposto con la forza.
I miti della genesi raccontano che Dio creò un uomo ed una donna; la scienza medica dopo la scoperta del DNA e dei relativi cromosomi ha ritenuto che i generi fossero due e che il rapporto sessuale fosse legato all’istinto di sopravvivenza e quindi procreazione. La mitologia e le tradizioni del popolo nativo-americano Lakota esprimono figure two spirits ( due anime) in grado di leggere le psicologie femminili e maschili rispetto a chi vive in una sola delle “dualità”.

L’identità individuale è una faccenda complessa: è ciò che ci distingue nella nostra unicità, all’interno di una comunità.
In molte scuole italiane, da non molto tempo, è possibile dichiarare ed essere riconosciuti ed identificati dal nome proprio scelto.




La “potenza” della psicologia dell’apprendimento per la professionalità docente

di Cinzia Mion

Più volte ho raccontato che la mia salvezza professionale come docente la devo all’incontro con il Movimento di Cooperazione Educativa al mio secondo anno di ruolo.
Non intendo ora riprendere l’elogio delle tecniche Freinet ma sottolineare il fascino incredibile che ha esercitato su di me l’approccio con la PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO (o dell’educazione che dir si voglia) che sarebbe la riformulazione della vecchia PSICOPEDAGOGIA. Non va confusa con la Psicologia dello sviluppo (chiamata un tempo “psicologia dell’età evolutiva) e nemmeno con la Pedagogia. Sono stata iniziata a questa avvincente avventura cognitiva da Lydia Tornatore. Sulla scia poi ho continuato con la prof.ssa Metelli di Lallo, all’università di Padova, poi con Piero Boscolo che è subentrato dopo di lei , e via via con Clotilde Pontecorvo , Anna Maria Ajello, e il loro gruppo fino al recente Wiggins con la sua intrigante progettazione finalizzata alla COMPRENSIONE PROFONDA E DURATURA.
Naturalmente la strada era stata aperta dal grande Bruner cui mi sono abbeverata fino alla fine delle sue produzioni. Il pensiero che “va oltre l’informazione data (! )” e “le idee strutturali delle discipline”, definite più recentemente come “impianti epistemologico disciplinari”, sono stati i suoi pilastri, insieme alle “motivazioni intrinseche “ verso l’apprendimento, che nessun altro come lui ha saputo rendere più coinvolgenti. Ecco, credo che quelli che altre volte ho definito “brividi mentali” io li abbia provati anche alla lettura di Bruner , dopo aver capito che ciò che da allora mi ha contraddistinto è stata una motivazione fortissima alla CURIOSITA’ EPISTEMICA che, come una febbre benigna e stimolante , non mi ha più lasciato.

Ho colto subito che queste ricerche mi permettevano di rendermi conto che la didattica non è mai neutra. Risponde ad un modello soggiacente di psicologia dell’apprendimento che privilegia o sottovaluta o addirittura esclude quel fenomeno magico che coincide con la funzione mentale della “COMPRENSIONE”.
Quella comprensione che va oltre alla risposta esatta e che qualche volta addirittura viene deviata dall’immediatezza di tale risposta che potrebbe essere un automatismo, perché noi sappiamo che si apprende anche per “stimolo/risposta/rinforzo”: un apprendimento automatico, spesso per imitazione, indispensabile per la sopravvivenza, ma non illuminato dalla luce della mente che produce quella meraviglia che si chiama PENSIERO RIFLESSIVO.
E’ per questa serie di ragioni, che ho cercato qui di riassumere che, leggendo il DECRETO-LEGGE N°36 all’articolo 44, dove si affronta l’argomento della formazione iniziale e continua dei docenti della scuola secondaria (ma questo che andrò a dire vale anche per la primaria!) sono rimasta prima basita, poi delusa alla fine arrabbiata. Al secondo capoverso , lettera a) (dove si enumerano le competenze indispensabili per una formazione iniziale dei docenti) si elencano quelle: culturali, disciplinari, pedagogiche, didattiche e metodologiche, specie quelle dell’inclusione, rispetto ai nuclei basilari dei saperi e ai traguardi di competenza fissati per gli studenti….
Non si accenna minimamente alla PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO.
Ma come è possibile che si possa pensare di formare un professionista dell’INSEGNAMENTO, consapevole e RIFLESSIVO (come si auspica da tempo) se non gli si forniscono gli strumenti, le chiavi di lettura, per cogliere l’incisività o meno degli stimoli che va a proporre agli studenti attraverso la sua didattica, al fine o meno di sollecitare quelle che VYGOTSKIJ chiamava le funzioni mentali superiori? Perché è questo che la scuola deve sollecitare, altrimenti diventa un APPRENDISTATO banale e poco significativo. Queste chiavi di lettura le può dare solo la PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO.
Prima di preoccuparmi della carriera dei docenti (argomento sia pure interessantissimo ed urgente ) io mi preoccuperei dei fondamentali del futuro docente vero professionista, della sua motivazione a scegliere questa professione, di quanto risulta contagiato (per poter a sua volta contagiare gli studenti) dalle “motivazioni intrinseche” ( della CURIOSITA’ EPISTEMICA e del DESIDERIO DI COMPETENZA) oppure impermeabile alle stesse, per cui per continuare a formarsi ha bisogno di essere pagato!!!
La formazione continua non dovrebbe nemmeno essere definita “obbligatoria”, dovrebbe essere un BISOGNO VITALE. Ve lo immaginate un medico che non si aggiorna? un paziente può rimetterci la vita. Nel nostro caso avviene quella che un tempo chiamavamo la MORTALITA’ SCOLASTICA…. (oggi declassata alla più mite , ma non meno deleteria, DISPERSIONE SCOLASTICA ; oppure alla consapevolezza dello scadimento della competenza degli studenti a” comprendere” ciò che leggono….)
I docenti italiani hanno diritto tutti ad uno stipendio decoroso, non come quello percepito ora, ma VANNO FORMATI MEGLIO INIZIALMENTE E IN ITINERE E SCELTI CON PIU’ ATTENZIONE . La Scuola non è una agenzia di collocamento. Non mi stancherò di dirlo. Deve essere una prima scelta (vedi anche Tuttoscuola).
La Scuola ha bisogno dei migliori e di quelli motivati, se vuole recuperare i problemi che si stanno verificando.
Dobbiamo superare, caro Ministro, quel patto scellerato al tempo della DC per cui il messaggio implicito fu ”Ti pago poco, ma ti chiedo poco”. (è stato allora che i docenti maschi hanno disertato la scuola, con grave ripercussione sulla maturazione dell’identità di genere sia di maschietti che di femminucce: l’identità infatti è il frutto di dinamiche sia di identificazione che di differenziazione!).
Ora i docenti vengono pagati poco ma si chiede loro molto sul piano dell’ arida ed ingombrante burocrazia, come a riempire un vuoto di “senso”. Burocrazia che depotenzia ogni eventuale passione residuale!
Ci vuole un atto di coraggio! Ora o mai più….
Raccomando inoltre alle varie lobby che esistono all’interno delle Università di lasciar perdere interessi di categoria. Qui è in ballo non solo la Scuola ma il Paese.
E se viene indicata la LUNA, vi prego non fermatevi al DITO. Se succede significa che siete miopi o non avete chiavi di lettura per “distinguerla”….




Il corpo va a scuola. Specialisti di educazione motoria alla primaria

di Giovanni Fioravanti

Si fa fatica a frequentare la scuola con il corpo, pare che non si sappia dove metterlo. Prima c’erano i banchi e i compagni di banco, corpo a corpo silenziosi. Poi vennero i tavolini mono posto, ognuno per sé. Comunque in classe il corpo deve stare seduto. Poi c’è l’ora di educazione fisica, oggi motoria, in cui appunto educare il fisico che in sostanza è il  proprio corpo.
Il corpo, tradizionalmente ignorato nelle nostre classi, improvvisamente ha rivendicato la sua presenza, la sua considerazione quando con la didattica a distanza ci si è accorti della sua assenza, come vicinanza necessaria, vale a dire come relazione.

Del resto, il nostro corpo è quella fisicità che ci consente di socializzare, quelli che noi con estensione anglosassone chiamiamo “social” non hanno nulla di sociale, appunto perché mancano della corporeità, della fisicità delle persone. I nostri social sono popolati da ectoplasmi, da entità senza corpi, da spiriti liberi che assumono nickname e le sembianze di un avatar.
I corpi non girano più, non si muovono, seduti a scuola come nelle stanze di casa a compulsare la rete digitale.

Del resto i dati Istat non mentono, in Italia circa 2 milioni 130 mila bambini e adolescenti di età tra 3 e i 17 anni sono in eccesso di peso e quasi 2 milioni non praticano sport né attività fisica.
Allora dovremmo accogliere con favore la decisione, entrata nella legge di bilancio, di introdurre l’insegnante di educazione motoria nella scuola primaria a partire dalle classi quinte il prossimo anno e dalle quarte con l’anno dopo.

La storia dell’educazione fisica nella scuola primaria, un tempo elementare, ha a che fare con la considerazione sociale del corpo. Nei programmi del 1955, quelli del ministro Ermini, l’educazione morale, civile e fisica costituiva un unico paragrafo: “L’educazione fisica si consideri connessa all’educazione morale e civile come mezzo che induce l’alunno a rispettare e a padroneggiare il proprio corpo, a ordinare la tumultuaria esplosione delle energie, tipica della fanciullezza, e come tirocinio all’autocontrollo, all’autodisciplina e alla socievolezza”. Il corpo è una bomba pericolosa soprattutto nella “tumultuaria fanciullezza” e quindi sia “disciplinato”, “ordinato” dall’educazione morale, civile e fisica.
Così è stato per trent’anni nelle nostre scuole elementari, fino all’avvento dei programmi del 1985, sinossi di tutte le novità psico-pedagogiche che fino ad allora erano state lasciate fuori dalla porta della scuola ufficiale.

Il capovolgimento è totale, scompare l’educazione morale, civile e fisica, per restituire cittadinanza alla “tumultuaria esplosione delle energie” affidata ad un’accogliente educazione motoria “integrata nel processo di maturazione dell’autonomia personale”, rivendicando “l’affermazione nella cultura contemporanea dei nuovi significati di corporeità, di movimento e di sport.”

Nel 2012 con le Indicazioni Nazionali per il Primo Ciclo di Istruzione ritorna l’Educazione Fisica, ma questa volta con la fisicità del corpo che a scuola, sta scritto, deve star bene.
L’educazione fisica come educazione a star bene con se stessi “contribuisce alla formazione della personalità dell’alunno attraverso la conoscenza e la consapevolezza della propria identità corporea, nonché del continuo bisogno di movimento come cura costante della propria persona e del proprio benessere.” Non solo corpo, attenzione, ma anche “identità corporea”.

Dieci anni dopo, la legge di bilancio 2022 introduce nella scuola primaria la figura dell’insegnante di educazione motoria per “promuovere nei giovani, fin dalla scuola primaria, l’assunzione di comportamenti e stili di vita funzionali alla crescita armoniosa, alla salute, al benessere psico-fisico e al pieno sviluppo della persona, riconoscendo l’educazione motoria quale espressione di un diritto personale e strumento di apprendimento cognitivo“.

La prima domanda che viene spontaneo porsi è chiedersi fino ad oggi chi ha insegnato alle bambine e ai bambini dai sei ai dieci anni l’educazione fisica o motoria che sia? Non erano le maestre e i maestri che avrebbero dovuto farlo? E se l’hanno fatto finora perché improvvisamente non sono più in grado di farlo? E se non sono più in grado di farlo perché non formarli a farlo, allora? Che figura professionale è quella dell’insegnante di scuola primaria?

Domande elementari come la scuola elementare.
Sono domande destinate a rimanere senza risposta perché chi dovrebbe fornirle non le sa formulare. Perché questo paese manca di una visione sull’istruzione, di come deve essere la scuola del futuro. Avere una visione di insieme, in prospettiva è troppo faticoso, la storia ormai ci insegna che è politicamente ingestibile. Ognuno ha la sua idea di scuola, la Destra e la Sinistra, la Confindustria, la Fondazione Agnelli, i Sindacati, la Chiesa.
Così tutto resta sempre come prima e i ministri di turno provvedono per aggiunte o sottrazioni a seconda dei problemi che di volta in volta emergono.
I giovani mancano di senso civico? E allora aggiungiamo a Cittadinanza e Costituzione l’Educazione civica. I bambini sono obesi e non si muovono? Ecco pronto l’insegnante di educazione motoria da aggiungere ai maestri. C’è il disagio adolescenziale allora introduciamo nelle scuole il pedagogista, l’educatore professionale, lo psicologo, costruiamo le scuole polo del disagio psico-sociale, come una volta c’erano le scuole speciali. Tutto senza aumenti di spesa e con un eccesso di ignoranza scolastica gratuita.
Con il rischio che, considerato il crescente calo demografico, un giorno nelle aule ci saranno più adulti che alunni.

Che intorno alla scuola oggi sia necessario costruire la rete di un sistema formativo integrato è vecchia questione, che oggi riemerge sottesa al susseguirsi di frequenti richiami alle comunità educanti e ai patti educativi territoriali.
L’autosufficienza della scuola non è mai esistita e la necessità della sua continua interazione con “il più ampio ambiente sociale” è qualcosa che non può essere delegata agli organi collegiali. Chiama in causa la vivacità del territorio nell’offrire opportunità formative in grado di arricchire il curricolo e l’offerta formativa delle singole scuole attraverso le sue strutture e la messa in gioco di differenti attori, dalle istituzioni culturali all’associazionismo.
La scuola chiusa in se stessa, autoreferenziale che moltiplica le figure professionali rischia di implodere, mentre la natura della scuola è curricolare. La scuola che scorre nel territorio, che nel territorio si vivifica e che vivifica di sé il territorio, perché ogni territorio  è significativo per i destini formativi delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi.