Disciplinarismo e pedagogia

di Stefano Stefanel

Il dibattito sulla valutazione formativa, i richiami alla valorizzazione del merito, l’idea che lo studente migliore è quello che studia sulla carta e solo se autorizzato va sul web, il concetto di apprendimento inteso come forma guidata di conoscenza, i miliardi riversarti sul digitale ma collegati ad una cultura proibizionista sull’uso dei dispositivi di proprietà, il concetto vago di divari territoriali collegato ad azioni di recupero finanziate prima ancora di essere decise, la richiesta di finalizzare il sapere al proprio futuro anche se nessuno sa indicare quale sarà sono tutti elementi dell’attuale contemporaneità che cozzano contro lo scoglio da aggirare: la pedagogia.

In teoria disciplinarismo e pedagogia dovrebbero essere strettamente collegate: se voglio insegnare qualcosa devo avere a che fare con un contenuto e questo contenuto sta per forza dentro una disciplina, che, a sua volta, richiede un determinato metodo per essere insegnata, cioè la pedagogia dovrebbe servire per transitare contenuti (e abilità e competenze che ne seguono) dalla mente di un sapiente alla mente di un non sapiente. Difficilmente vado ad imparare qualcosa che già so, difficilmente qualcuno mi insegna ciò che pensa io sappia o ritenga io debba sapere (i prerequisiti).

Da oltre cento anni la pedagogia è stata considerata una “materia” a sé stante, non necessariamente collegata al suo compito: far apprendere. Infatti, in alcune scuole si studia la pedagogia come una forma di pensiero filosofico minore, interessante, ma con valore più storico-sociale che metodologico. Il problema, però, è un po’ più complesso e va a toccare le discipline così come sono state codificate e così come si sono imposte, le uni a scapito delle altre. Da questo punto di vista Le parole e le cose di Michel Foucault ha dimostrato che le discipline sono strumenti di potere (politico) e che talune hanno preso il sopravvento, mentre altre vivono nell’ombra. In Italia questa evidente stortura ha dato vita al costrutto artificiale delle “classi di concorso”, una struttura di sapere che è diventata struttura di potere con un valore economico molto forte, strettamente collegato ai posti di lavoro che è in grado di farsi riconoscere.

L’ostilità dei disciplinaristi nei confronti dell’educazione civica sta tutta qui: l’educazione civica è una disciplina chiara e obbligatoria che non ha prodotto nuovi posti di lavoro. Quindi la sua trasversalità va abbattuta. Finora non ci sono riusciti, ma chi ha pazienza vedrà presto nascere le cattedre di educazione civica con tanto di abilitazione. Il disciplinarismo ha alcune caratteristiche molto marcate, che si possono riassumere in tre modalità didattiche.

La trasmissività vista come l’elemento base della disciplina: io ti racconto, ti spiego, ti argomento quello che devi imparare, tu studi e lo impari. La trasmissività impone la conferenza, la cultura del contenuto, la spiegazione anche di ciò che è già chiaro, la meta-spiegazione artigianale (la lezione in classe) di quello che è oscuro, il riassunto virtuoso, la chiacchiera diventata orazione.

Il manuale o il libro di testo in cui è codificato il riassunto di tutto lo scibile disciplinare, in fascicoli da compulsare e leggere annualmente, visto che tutto è diviso per annualità e prevede una chiara spesa da sostenere come base per accedere a quel sapere codificato, stantio e immobile, ma comunque certo, almeno nei limiti di quanto la comunità disciplinare ha deciso sia certo in quel momento.

La memoria come ricordo di ciò che è stato trasmesso attraverso conferenze (anche operative: gli esperimenti nei laboratori) e che deve essere esercitata senza supporti tecnici e multimediali in quelle che sono le prove disciplinari per eccellenza, cioè i compiti in classe e le interrogazioni.

La pedagogia, dunque, viene sempre più vista come un elemento di ostacolo alla disciplina, quasi che il piegarsi alle esigenze del discente debole sia un cedimento inaccettabile verso una contaminazione al ribasso della purezza disciplinare. Il discente forte – ed è questo il punto di grande ambiguità del concetto di merito – è perfettamente inserito nello specifico disciplinare ed apprende per trasmissione, tradizionalismo manualistico, memoria. Siamo dunque di fronte ad un problema molto serio che vede la disciplina come strumento delle élite e la pedagogia come strumento del popolo. Il sapiente è un disciplinarista se comprende che deve esserci un elitarismo nell’insegnamento che non può permettere alla disciplina di scendere verso la banale comprensione, il modesto impegno, il poco interesse; mentre è un pedagogo se cerca di raggiungere il popolo col sapere. Con il termine dispregiativo di “pedagogismo” si indica la china facilitatrice verso concetti e apprendimenti non facilitabili e come tali necessari più per il mantenimento del potere della disciplina che per migliorare l’apprendimento della stessa in studenti comunque giovani e generalisti.

Tutto questo lo aveva già detto Foucault molto chiaramente, ma il pensiero pedagogico novecentesco (Montessori, Dewey, Gardner, Brunner) ha sottovalutato la forza del potere economico sotteso alla disciplinarietà dei saperi. Ne ha fatto le sue spese anche la filosofia, per sua natura trasversale, diventata nei libri di testo liceali una parodia di un percorso storico-letterario, con teorie elencate insieme a dati biografici e bibliografici in cui tutti i pensieri sono metafisici, astratti, simpaticamente astrusi. Lo spacchettamento tra filosofia e pedagogia ha fatto il resto e la lezione di un grande pedagogo come San Tommaso d’Aquino è andata totalmente perduta.

Se si scende a questo livello la partita non si può vincere: il sapere alto, la specializzazione non ha pedagogia e, infatti, la disciplina più forte negli studi liceali è la matematica, che avanza solo per trasmissione e spiegazioni di teorie sempre più complesse, rese forti da un’inutile prova finale d’esame, troppo semplice per chi la matematica la conosce da disciplinarista, troppo difficile per gli altri che dimenticano tutto subito e vivono il resto della loro vita senza la matematica, dimenticando la matematica, per lo più odiando o disprezzando la matematica. D’altronde non c’è nessuno che a tavola o al bar dica: “io a scuola non capivo niente di grammatica o di scienze o di storia”, ma molti dicono, spesso con orgoglio: “sono sempre andato male in matematica”. La disciplina prima e più importante dei nostri giorni è finita in mano a indiani e cinesi, capitale primo delle multinazionali, mentre in Italia è lo spauracchio dei liceali e basta. Tutto il resto, da noi, lo fanno le macchine, che la scuola non vuole affiancare all’insegnamento della matematica come parte essenziale di supporto, perché vuole una matematica di memoria e lavagne d’ardesia.

Gli specialisti ci sono sempre stati nella storia dell’umanità e sempre ci saranno: non è mai stato questo il problema. Ma i disciplinaristi non sono degli specialisti, sono, forse, dei cultori della materia, cioè competenti dentro i limiti di una disciplina. La contaminazione è inutile in uno specialista, ma viene ritenuta pericolosa da coloro che non sono specialistici, ma sono solo disciplinaristi, perché la contaminazione fa perdere potere alle discipline. La struttura enciclopedica è una “lotta mortale” tra discipline, che vogliono avere più voci riconosciute possibili, perché tante sono le voci, tanto è il potere. Le arti del trivio e del quadrivio una battaglia simile l’hanno disputata circa mille anni fa.

Se torniamo a noi lo svilimento della funzione della pedagogia, soprattutto nelle scuole superiori, non è un modo per preservare il rigore e la precisione disciplinare, ma solamente per delimitare il campo del potere. Discipline che si contaminano, che agiscono su base multidisciplinare e interdisciplinare alla fine finiscono per perdere la loro specificità e a trasformarsi in altro. Questa battaglia la scienza, ad esempio, l’aveva già combattuta alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento quando si è sviluppata una notevole filiera di divulgazione scientifica, iniziata da Ernst Mach con e Letture scientifiche e popolari e continuata anche con grandi scienziati che si sono impegnati nella divulgazione come Einstein, Bohr ed Heisenberg. Ed è una battaglia che ha reso le discipline più arcigne, desiderose di essere trasmesse, ma ostili verso la pedagogia, cioè verso quell’azione del docente che comprende come raggiungere la mente del discente, non per riempirla, ma per farla diventare migliore.

Per questo servono i voti e non le valutazioni formative: per delimitare il campo della disciplina. Se il voto è negativo viene sancito il “debito disciplinare”, cioè quel terreno incerto e di controllo per cui l’insegnante non deve trovare metodi nuovi per raggiungere risultati di apprendimento che non ha raggiunto con i metodi trasmissivi, sperimentali, misurativi in vigore, ma semplicemente rubricare l’insuccesso, quella debolezza disciplinare che non permette di andare avanti. Più le discipline sono obsolete più sono difficili e astruse e per questo forti, perché essendosi tramutate in classi di concorso alimentano la schiera di chi insegnerà quella disciplina nella scuola italiana. Il tramonto della pedagogia, però, è il tramonto dell’apprendimento. E senza apprendimento non c’è progresso.




Il volto gesuitico dei voti

di Giovanni Fioravanti

Era facilmente prevedibile che l’attenzione dal merito scivolasse sui voti. È stato sufficiente  il lancio di stampa che al liceo Morgagni di Roma si sperimenta la scuola senza voti  che l’italico qualunquismo pedagogico si scatenasse, come se una scuola senza voti fosse destinata all’estinzione.
Del resto, se questo governo ritiene che l’istruzione deve essere sorretta dalla stampella del merito, è evidente che una scuola senza voti è una pugnalata alla schiena. Il merito per essere tale necessita di una graduatoria, appunto la graduatoria di merito, e a scuola le graduatorie (come tante altre cose) dai tempi della gesuitica ratio studiorum si fanno con la scala ordinale dei voti in numeri o in lettere come nei paesi anglosassoni.

Quando l’idraulico viene a casa ad aggiustarmi la doccia che non funziona, al termine del suo lavoro non gli do un voto, lo pago sulla base della fattura che mi rilascia. O ha riparato la doccia o non l’ha riparata, è abile o non è abile, è competente o non è competente. In definitiva funziona una logica binaria.
Tutta la nostra vita poggia sull’aperto/chiuso, dentro/fuori, sopra/sotto, negativo o positivo.

A scuola no. La logica è quantitativa, il sapere va a peso. Domina la domanda che la figlia fa al padre in un famoso metalogo di Gregory Batison: “Papà, quante cose sai?”
E siccome il sapere non si può pesare e neppure misurare è compito degli insegnanti impilarlo nella scala decimale, ne va del loro ruolo, della loro autorità, del loro prestigio sociale.
Il voto è un potente ricatto, una punizione morale double face che fa dello studente un somaro come un secchione. È comunque l’anima del profitto scolastico, l’incentivo a studiare.

Sui voti a scuola si potrebbero scrivere pagine di luoghi comuni e a leggere certe giudizi che definiscono la sperimentazione del Morgagni “un’idea scellerata” si ha l’impressione  che se a qualcuno gli togli dalla scuola il registro e le pagelle gli crolli un intero mondo di certezze addosso. La sociologia ci insegna che la resistenza alle scuole senza voti è dovuta tanto al peso dell’abitudine quanto al conforto che la loro comunicazione fornisce.
Il fatto è che le ragioni dei sostenitori del sistema dei voti non hanno nulla a che vedere con le pratiche di valutazione fondamentali per dar forma all’insegnamento e all’apprendimento.

I voti da 1 a 6 delle scuole gestite dai Gesuiti nel secolo XVI° facevano parte di una didattica fondata sulla ripetizione come metodo per assimilare le materie di studio. Pratica ancora in auge nei nostri istituti secondari in cui prevale la didattica della ripetizione: lezioni ex cathedra, interrogazioni e quindi voti sul registro.
Ma si tratta di scuole che sono fuori dal tempo, dove ancora si misurano le nozioni anziché i processi per acquisire quelle competenze che pure sono dettagliate dalle Indicazioni nazionali. Le competenze non si misurano né con la scala decimale né con quella pentenaria. Le competenze o sono possedute o non sono possedute. Ciò che è necessario valutare è lo stato del processo per acquisirle pienamente, che richiede due forme di autovalutazione quella del sistema per individuare come sostenere lo studente nel suo processo di apprendimento e quella dello studente stesso, per essere consapevole di sé, per conoscere come procedere, cosa ha acquisito e cosa ancora gli manca.

L’assurdo dei voti numerici è che per essere comunicabili e compresi hanno bisogno di descrittori, vale a dire di narrazioni, grande conquista democratica rispetto ai tempi andati quando il voto dell’insegnante era una cifra e niente più, se non un “non si impegna”, “si deve impegnare di più”. Ma se i voti si devono narrare che senso hanno i numeri, se non per fare delle graduatorie di merito o di demerito?
È che poi le narrazioni dei voti sollevano il velo su una scuola che non è poi tanto diversa dalle istituzioni gesuitiche nonostante i secoli che ci separano. Sulle competenze che neppure sono prese in considerazione prevale la ripetizione.

Non cito la fonte, prendo “una griglia di descrizione del valore numerico dei voti” da un liceo a caso:

10. Eccellente: conoscenze complete e approfondite, elaborate in modo personale e critico anche operando collegamenti interdisciplinari. Uso competente della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche. Esposizione brillante.

9. Ottimo: conoscenze complete e approfondite, sostenute da capacità argomentativa e di collegamento tra discipline. Fluidità ed organicità espositiva, uso appropriato della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

5. Insufficiente: conoscenze incomplete e superficiali dei contenuti. Difficoltà nel coordinamento logico. Uso improprio della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

Già la descrizione del valore numerico dei voti è inquietante per una mente normale, ma passiamo oltre. Il valore quantitativo del numero è trasposto in un aggettivo qualificativo, tanto vale usare direttamente gli aggettivi, ma questo lasciamolo ai tanti misteri gloriosi del nostro sistema scolastico.
La cosa che colpisce è la narrazione che si fa del sapere, delle conoscenze la cui padronanza è evidentemente misurata sulla ripetizione e sulla retorica, sull’oratoria: “esposizione brillante”, ne più ne meno di quanto accadeva nei collegi della ratio studiorum. Le conoscenze non sono competenze, nulla di applicativo che emerga da queste narrazioni, fatto salvo per quella linguistica, che ci sta con la scuola della retorica. Prevale la nozione, la quale in quantità incompleta produce l’insufficienza.

Senza voti come si fa a motivare gli studenti, ottenere il loro impegno nello studio? Se manca la pratica del bastone e della carota nessuno più si impegnerà a scuola e il risultato sarà una società di ignoranti e di incompetenti.
No. Abbiamo la necessità che a scuola si affermi una cultura differente.
Una scuola capace di trasmettere la passione per lo studio, per la sua forza attrattiva, dove l’apprendimento è un follow up individualizzato. Una scuola senza voti rende più facile apprezzare lo studio per se stesso e il pensiero critico, rompendo con la pratica della strumentalizzazione del sapere in funzione del voto, costringendo alla massima attenzione  verso i  fattori motivazionali degli studenti e la psicologia dell’apprendimento.

La scuola senza voto richiede  insegnanti preparati nelle pratiche di valutazione verso approcci sempre più formativi nell’ottica di una progressiva ottimizzazione degli apprendimenti e delle competenze.
La sperimentazione del liceo Morgagni di Roma è sulla lunghezza d’onda di tutto questo e  delle tante scuole che dalla Francia agli Stati Uniti stanno sperimentando come passare dal sistema di valutazione della scuola delle nozioni al sistema di valutazione della scuola dell’apprendimento basato sulla padronanza e sulla competenza.

Moheeb Kaied frequenta la seconda alla Scuola Media 442 di Brooklyn, una mattina ha detto: “Vediamo. Posso trovare l’area e il perimetro di un poligono. Riesco a risolvere problemi matematici e del mondo reale utilizzando un piano di coordinate. Devo ancora migliorare nella divisione di numeri a più cifre, il che significa che probabilmente dovrei esercitarmi di più”. Moheeb fa parte di un nuovo programma che sta sfidando il modo in cui insegnanti e studenti pensano ai risultati dell’apprendimento,  la sua scuola è una delle centinaia che hanno eliminato i tradizionali voti in lettere all’interno delle loro classi.
Alla Scuola Media 442, gli studenti sono incoraggiati a concentrarsi invece sulla padronanza delle competenze. Non c’è fallimento. L’unico obiettivo è apprendere il materiale da padroneggiare, prima o poi.
Per gli studenti in difficoltà c’è molto tempo per esercitarsi finché non sono acquisite le capacità. Per coloro che afferrano rapidamente i concetti c’è l’opportunità di andare avanti rapidamente. La strategia sembra diversa da classe a classe, così come il materiale che gli studenti devono padroneggiare. Ma in generale, gli studenti lavorano secondo i propri ritmi attraverso fogli di lavoro, lezioni online e discussioni in piccoli gruppi con gli insegnanti. Ricevono frequenti aggiornamenti sulle competenze apprese e su quelle che devono ancora acquisire.[1]

Anche qui niente di nuovo, nulla da inventare che non sia già stato sperimentato. Chi ha familiarità con la storia della pedagogia ricorderà certo il Piano Dalton dal nome della cittadina del Massachussets dove agli inizi del secolo scorso Helen Parkhurst sperimentò il suo metodo.
Nella scuola senza voti, senza registri e pagelle cessano di esistere le continue bugie che i numeri e le lettere raccontano sull’apprendimento. Gli albi d’onore e di merito scompaiono. Scompare di conseguenza anche il ministero dell’istruzione e del merito, per tornare Ministero della Pubblica Istruzione come impegno della Scuola dello Stato ancora prima che degli studenti.

Gli insegnanti imparano a valutare efficacemente i risultati scolastici e gli studenti diventano studenti indipendenti, spinti dalla curiosità e dall’ispirazione piuttosto che dalla vuota promessa di un voto “buono” o dalla minaccia di uno “cattivo”.
Ora, questa può sembrare solo un’idea grande, forse persino irrealistica. Ma la scuola senza voti esiste già nelle scuole di tutto il mondo, basta guardarsi attorno e, naturalmente, studiare.

[1] “A New Kind of Classroom: No Grades, No Falling, No Hurry, in The New York Times, 11 agosto 2017




Clotilde Pontecorvo, studiosa di psicologia dell’educazione

di Pietro Netti

Qualche giorno fa ci ha lasciati Clotilde Pontecorvo, maestra, studiosa e ricercatrice, tra le più importanti esperte italiane ed internazionali di psicologia dell’educazione e di processi di apprendimento.
Nata a Roma, scampata bambina alle persecuzioni nazifasciste, nel 1959 aveva conseguito la Laurea in Filosofia alla Sapienza con una tesi sul liberalismo politico di Benjamin Constant.
Professore emerito dell’Università Sapienza di Roma dal novembre 2009.
Fino ad allora era stata Professore di Psicologia dell’alfabetizzazione e di Psicologia dell’interazione discorsiva presso il medesimo ateneo.
Dal 1998 Ordinario di Pedagogia all’Università di Salerno e di Roma, dal 1976 al 1983 di Psicologia dell’Educazione.
Dal 1984 al 1997 è stata, nei due trienni 1983/1985 e 1997/2000, Direttore del Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione dell’Università degli Studi di Roma “Sapienza”.
E’ stata coordinatrice dell’ESF Network on Writing and Written Language.
Promotrice infaticabile della collaborazione tra università, insegnanti e scuole, ha ispirato la migliore politica scolastica degli ultimi 40 anni, esaltando in particolare la scuola dell’infanzia e la primaria.
Fondamentale il suo apporto ai lavori della commissione ministeriale che ha redatto gli indimenticabili e per molti versi insuperati Orientamenti per la Scuola dell’Infanzia del 1991.
Tra i molti temi di cui si è occupata nei suoi studi le modalità di acquisizione della lingua scritta, lo sviluppo di concetti sociali attraverso la discussione, i rapporti tra argomentazione e pensiero in contesti educativi, familiari e scolastici, il curricolo e lo sviluppo cognitivo in diverse aree, sulla formazione degli insegnanti, sulla continuità educativa.
Numerosi i libri e le pubblicazioni di cui è stata autrice. Tra gli altri: “La scuola come contesto. Prospettive psicologico-culturali” (Carocci), “Famiglie all’italiana. Parlare a tavola” (Carocci), “Psicologia dell’educazione” (Giunti), oltre a più di 200 articoli in svariate riviste internazionali e nazionali, capitoli in testi collettanei e circa 30 monografie.




Divari territoriali, valutazione senza voti, bocciature

Stefaneldi Stefano Stefanel

In questa fase della scuola italiana, che coincide con l’avvio del PNRR, sulla scuola si stanno abbattendo alcuni dibattiti solo apparentemente distanti tra loro, che ruotano tutti attorno ad un’unica “ragione sociale”: selezionare o includere. Tutto quanto viene discusso, però, lo è in maniera un po’ convulsa e non sempre gli obiettivi del sistema sembrano essere chiari a tutti.

Per i così detti divari territoriali un congruo numero di scuole ha ricevuto complessivamente 500 milioni di euro dallo stato (circa 250.000 euro a scuola), con uno stanziamento comunicato a giugno, quasi come un fulmine a ciel sereno, visto che le scuole nulla avevano chiesto. Anche i parametri indicati dal Ministero, per decidere il finanziamento, hanno individuato situazioni di criticità non ritenute critiche da molte scuole e hanno fatto pervenire cospicui finanziamenti per sanare situazioni problematiche che alcune scuole non ritenevano di essere tali. In attesa delle Linee guide sull’argomento sono però già trascorsi quasi cinque mesi dall’invio della comunicazione e l’anno scolastico 2022/23 ha già percorso un tratto della sua strada. In questo clima e con il passaggio del ministero alla destra si sta sviluppando anche un dibattito sul voto numerico e la sua eliminazione, sul concetto di valutazione formativa in contrapposizione a quella sommativa. La valutazione attraverso voto numerico e il concetto stesso di bocciatura (ripetere nell’anno successivo tutto quello che si è fatto nell’anno precedente) vanno nella direzione di aumentare i divari territoriali e la dispersione e dunque un ragionamento sulla valutazione sta in stretto rapporto con gli elementi da introdurre per recuperare questi divari.

L’impostazione solo numerica della valutazione nella scuola secondaria italiana aiuta a combattere la dispersione o la genera? Su questa domanda sono sorte varie teorie ed opinioni, a partire da quelle che nasce nella scuola primaria a seguito della trasformazione della valutazione numerica in valutazione i obiettivi – e non di materie – attraverso livelli e non voti.

Un altro elemento interessante da analizzare è quello relativo alla possibilità che i divari territoriali si sanino con un maggior numero di bocciature e di studenti insufficienti, cioè se i 500 milioni di euro possano servire per mettere in sicurezza una parte degli studenti non curandosi degli altri. Questo potrebbe portare ad una sorta di corso di recupero generalizzato e di massa che supporti gli studenti che si collocano a vario titolo nell’ambito della dispersione, attraverso un tentativo generico di risollevare il sistema dell’istruzione con metodi tradizionali.

Tutto questo, però, ruota attorno all’idea che il numero sia l’unico modo per valutare e che le verifiche tradizionali (compiti in classe e interrogazioni) ancora svolgano la loro funzione pedagogica e formativa. Non credo che, in questa fase, sia utile addentrarsi troppo in considerazioni di pedagogia generale, perché alla fine il PNRR porterà a valutazione dei risultai raggiunti non da parte del sistema scolastico italiano, ma da parte dell’Unione Europea. Se i soldi spesi per recuperare i divari territoriali non li avranno recuperati ci sarà stato solo un travaso di risorse su venditori ed almanacchi per un tentativo (a quel punto non riuscito) di raggiungere l’obiettivo della diminuzione della dispersione. Non credo che questa sia una strada realisticamente percorribile. Non potrà restare tutto così com’è, questo almeno dovrebbe essere chiaro.

Allora resta solo la messa in atto di strumenti, strutture e didattiche che puntino a rafforzare gli elementi positivi degli studenti deboli, per far salire il rendimento generale attraverso una modifica strutturale della didattica di fascia bassa. Credo sia necessario cancellare dalla scuola italiana l’idea che possa esistere una scuola attraverso cui si forniscono conoscenze, abilità e competenze uguali per tutti gli studenti e che questi poi vengano sottoposti ad una semplice fotografia in cui alcuni hanno raggiunto risultati soddisfacenti e altri no, quasi che il ruolo dell’insegnante sia solo quello di trasmettere e misurare.

Un piano che vada a coprire i divari territoriali deve porsi dalla parte dei più deboli per vedere come può farli diventare più forti, partendo dall’idea preliminare che non sempre il più debole è in grado di mettere in campo strumenti personali e sociali utili a costituire una solida base di apprendimento. Detto in termini “western spaghetti” molto spesso il ragazzo debole, che studia poco, è disinteressato e demotivato non è “buono”, ma è proprio “brutto e cattivo”. Se, però, vogliamo eliminare i divari territoriali dobbiamo addentrarci tra i “brutti e cattivi” dove è difficile produrre grandi cambiamenti, ma può essere interessante cementare apprendimenti (anche tecnici e pratici e non solo teorici).

Nell’immediato la strada più semplice ed efficace mi pare quella che procede attraverso quattro passaggi:

  • analisi dei (pochi) punti di forza e dei (molti) punti di debolezza degli studenti deboli o in dispersione;
  • predisposizione di Piani di apprendimento personalizzati (quindi percorsi totalmente autonomi ed individuali, non un abbassamento dei livelli o degli obiettivi) che rafforzino i punti di forza e semplicemente presidino in forma essenziale i punti di debolezza
  • valutazione dell’anno scolastico centrata sui punti di forza e non sulla situazione generale dello studente
  • azione orientativa per l’uscita dal primo ciclo dell’istruzione o per l’uscita dal sistema dell’istruzione verso il mondo del lavoro.

Si tratta di agire su base sociale e pedagogica per avviare lente modifiche in parti complesse del sistema, con l’idea che il cambiamento della didattica impone un’idea pedagogica e non disciplinare di apprendimento. Su questo, però, le associazioni culturali e professionali sono chiare: oltre un certo limite non si può e non si deve scendere, perché altrimenti non si insegna più la disciplina, ma si fanno azioni pedagogiche e formative generiche. Ecco che allora diventa necessario verificare con attenzione se tutto quello che si insegna nella scuola secondaria deve essere necessariamente imparato da tutti: perché se è così quelli che impareranno tutto diminuiranno sempre di più e quelli che impareranno poco o niente aumenteranno sempre di più.

Parafrasando potremmo dire “che cento latini fioriscano, che cento matematiche gareggiano”, cioè che si vada verso la didattica di discipline che raggiungono una parte di popolazione in maniera profonda e approfondita e una parte di popolazione semplicemente con una infarinatura culturale. Nella vita degli adolescenti e dei ragazzi si deve fare strada un rispetto per il generalismo e al tempo stesso una possibile apertura verso il disciplinare di medio e alto livello. Proviamo a declinare un paio di domande e un paio di risposte:

  • quante matematiche si devono sviluppare in una classe dunque?
  • quante servono
  • quante matematiche sono possibili?
  • infinite

Tutto questo è possibile? Con il Piano Rigenerazione scuola, il PNRR- Futura, il Piano Nazionale Scuola Digitale sì, ma per farlo bisogna rispettare il passato, non trattarlo da presente, perché non c’è più. Quindi le scuole davanti al problema di come ridurre i divari territoriali dovranno scegliere se prendere la strada della pedagogia o quella delle discipline. Davanti all’obiezione: come si può fare pedagogia senza discipline? la risposta è molto semplice: la pedagogia è pedagogia di discipline, ma le precede, non può semplicemente essere uno stratagemma per definire il concetto di recupero.

Qui sta l’elemento più difficile da progettare e attivare: slegare il concetto di corso o attività di recupero a quello di azione per il recupero dei divari territoriali. I divari sono una cosa seria, il recupero fatto dalle nostre scuole spesso non lo è. E non lo è non per carenza di mezzi, impegno, passione, interesse per gli alunni, ma per carenza di pedagogia, quasi che un argomento spiegato al pomeriggio diventi più semplice da comprendere dello stesso argomento spiegato al mattino. Qui forse è il caso di entrare nel merito del concetto di “spiegato”. Spiegare vuol dire ampliare, cioè collocare la meta-conoscenza (spiegazione) sulla conoscenza, quasi che la seconda sia per sua natura più semplice e comprensibile della prima. Quindi lo spiegare amplia e produce i risultati che tutti consociamo: ottimi su alcuni alunni, medi o mediocri su altri, pessimi su una parte sempre crescente di alunni. Agire pedagogicamente significa saper scegliere e selezionare cosa “spiegare” cosa “piegare”, cioè cosa trasmettere per sintesi e cosa per estensione, cosa è essenziale e cosa non lo è, cosa serve a chi tende al massimo e cosa serve a chi non tende da nessuna parte.

Credo che le scuole farebbero bene a lavorare in rete e a costruire solidi team progettuali con la consulenza di esperti esterni in linea con il progetto della scuola. Serve, penso, un po’ di umiltà e capire che chi è finito in un divario territoriale farà bene a non cercare di chi è la colpa (la scuola tende comunque a dire degli studenti che non studiano come si deve, delle famiglie che non fanno più il loro dovere, del digitale imperante), ma a capire con chi allearsi.

Concludo indicando il luogo dove trovare la linea per comprendere come eliminare i divari territoriali, l’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030: “Obiettivo 4: Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.  In questa splendida definizione non c’è la parola uguaglianza (che piace tanto alla nostra scuola a livello di enunciazione ma non di fatti) ma ci sono altre parole chiave:

  • Educazione di Qualità (don Lorenzo Milani: “non c’è ingiustizia più grande che far parti uguali tra diversi”)
  • Educazione Equa (il Maestro Antonio Manzi: “quello che può fa, quello che non può non fa”)
  • Educazione Inclusiva (Edgar Morin: “servono teste ben fatte, non teste ben piene”)
  • Opportunità di apprendimento per tutti (John Dewey: “Una società consiste di un certo numero di individui tenuti insieme dal fatto di lavorare in una stessa direzione in uno spirito comune, e di perseguire mire comuni “).

 




Alla scoperta dell’intimità

di Giuliana Sarteur

Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione per l’importanza dell’educazione sessuale;
se ne sostiene fermamente l’inizio in età precoce a seconda dello stadio di sviluppo
dei bambini e degli adolescenti.
Un inizio precoce ha il vantaggio che i bambini e gli
adulti possono trovare gli argomenti meno imbarazzanti.
Il concetto fondamentale pare essere quello di salute sessuale che non comprende
solo contraccezione e prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale, ma
conoscenza del corpo e dei messaggi che esso invia.
Nel percorso educativo di formazione ed informazione spesso dimentichiamo i nuovi
connotati tecnologici della società: quella in cui oggi viviamo è la società dello show
continuo: siamo famosi se siamo visibili, continuamente connessi.
Allora diventa importante e necessario riparlare di intimità, di cura delle emozioni, del tempo da
dedicare alle attività e alle relazioni.
Se tutto diventa fluido, accessibile, possibile; se non esistono limiti e divieti non si attivano i percorsi trasgressivi ed esplorativi dei giovani verso l’attivazione della propria indipendenza e delle proprie fantasie.


In adolescenza è indispensabile sognare e desiderare una propria sessualità, un percorso che va maturato nella mente prima che diventi azione, pensarla prima che diventi una sperimentazione concreta.
Così, come ho già avuto modo di scrivere, è importante essere complementari ai genitori che non sempre hanno tutte le conoscenze indispensabili che i ragazzi devono acquisire: più informazioni rendono i ragazzi consapevoli e meno vulnerabili.
Questa nuova realtà tecnologica con cui i ragazzi vengono a contatto, spesso troppo presto, ha modificato la relazione con il gruppo dei pari con cui è sempre bene confrontarsi nel percorso di crescita. Un minore che naviga su internet può avere le abilità tecniche per gestire la tecnologia, ma non la maturità e le competenze emotive per scegliere in autonomie le scelte da fare
Quando sono davanti al computer basta un clic per interrompere la connessione e far sparire la relazione, tutto più facile, ma molto superficiale; tutto più accessibile senza controllo come la pornografia.
Perchè oggi i giovani vi si avvicinano così precocemente?
Non è solo la facilità di accesso; tutto ciò che doveva essere nascosto è attaccato frontalmente, visibile, è il superamento dei limiti del pudore.
Così il corpo femminile accessibile a tutti, sottomesso e disponibile: la pornografia è un danno per l’immaginario erotico. La donna nella pornografia ha sempre un ruolo passivo e sottomesso, un oggetto di piacere e non un soggetto con cui entrare in relazione.
Nel dialogo con i ragazzi dobbiamo sostituire la parola sessualità con sensualità
perché è li che avviene l’incontro, la scoperta, la soddisfazione reciproca e la ricerca
del piacere per l’altro.
La parola d’ordine per i ragazzi e i giovani che si avvicinano ad una relazione anche sessuale è intimità: vuol dire prendere tempo, non avere fretta, coltivare la tenerezza, non rinunciare ai sogni perché un mondo troppo razionale non da nè felicità né intimità.
Seduzione e complicità creano la relazione.
Alcuni appunti per i genitori: siate consapevoli delle esigenze dei vostri ragazzi, siate presenti da subito e responsivi alle loro domande, fate educazione affettiva e sessuale fin da piccoli e date
l’esempio con la vostra costante presenza.
Ad un giovane, ad una giovane ai primi rapporti non chiediamo se ha usato il preservativo (certo che lo utilizzano) bensì se è felice, così sapremo condividere e superare il normale e legittimo imbarazzo.




Portfolio e pregiudizio

di Marco Guastavigna

Lo dico spesso, forse troppo: io ho avuto la fortuna di cimentarmi con un percorso formativo, culturale e professionale lontanissimo dalla mia laurea in Lettere, nel 1975, il cui unico (ed esclusivamente funzionale) passaggio tecnologico fu la battitura a macchina della tesi di laurea in bozza, con successiva normalizzazione in copisteria.

L’incontro con i dispositivi digitali avvenne dopo e per caso: a scuola c’erano un collega e uno studente dotati di Spectrum Sinclair e sotto casa aprì un negozio – siamo a metà degli anni ’80 – che vendeva Commodore 64. E così ho cominciato l’esplorazione, che continuo tuttora: cercare senso e significato con valenza intellettuale, politica e didattica analizzando e valutando aspetti operativi e cognitivi. E rifuggendo dagli slogan del pensiero unico della mistica dell’innovazione, la peggior forma di dominio tecnocratico possibile.

In quegli inizi accadde però un episodio che avrebbe dovuto mettermi sull’avviso su ciò che mi aspettava: ero in una scuola media, nell’aula degli audiovisivi, attigua a quella dove erano collocati un paio di C64 e alcuni Olivetti M24, quando entrò un’ausiliaria che non mi aveva mai visto prima. Vedendomi trafficare con quegli oggetti mi disse: “Lei deve essere il nuovo insegnante di educazione tecnica”. Non ricordo se delusi questa fortissima e limpida convinzione, ma l’aura che emanavo allora mi ha perseguitato per tutti i decenni successivi.

È mia abitudine, per esempio, iniziare i laboratori universitari in cui lavoro a contratto domandando quali siano le aspettative rispetto al percorso. Accanto a chi mi guarda stranito, non avendo ancora una confidenza personale tale da consentirgli di esclamare: “Ma quali vuoi che siano?”, ci sono puntualmente coloro che dichiarano: “Io non sono per niente tecnologic* e nutro un po’ di timore sui miei possibili risultati”. Dentro questa ricorrente autovalutazione vi sono tutte le componenti di un bias diffusissimo e – colpevolmente – trascurato.
Da una parte si fanno coincidere tutte le “tecnologie” (compresi libri, quaderni, matite, penne, occhiali, automobili, biciclette, monopattini, distributori di bibite e così via) con i dispositivi digitali. Dall’altra si attribuisce a questi ultimi una valenza totemica, assoluta e indiscutibile, alla quale ci si deve iniziare avvalendosi di ermeneuti a ciò consacrati.

Questo approccio ha numerose implicazioni negative, che impediscono alle persone di diventare davvero autonome.
In primo luogo, un’impostazione mnemonica, meccanica e addestrativa degli apprendimenti, in piena e assurda contraddizione con il design cognitivo e commerciale delle interfacce, a impostazione prevalentemente visiva, fortemente intuitive, che dovrebbero invece invogliare a esplorare e sperimentare in prima persona.
In secondo luogo, l’acquisizione stentata di un gergo balbettato e del tutto approssimativo, che anziché chiarire annebbia e confonde, partorendo espressioni come “laboratori di informatica”, “DAD” e “DID” nell’istruzione o “corsi di informatica” nella formazione dei nonni e degli anziani in genere, e la rinuncia a priori a costruire un lessico davvero condiviso, basato sulle effettive possibilità di impiego in un contesto definito.
In terzo luogo, la cultura della delega all’esperto (o presunto tale) locale, le cui conoscenze e competenze personali diventano le regole generali, indiscusse e indiscutibili del comportamento di gruppo, generando situazioni paradossali, come quella dei corsisti che accendono i dispositivi su cui dovrebbero imparare e devono invece attendere un bel po’ di tempo che i personal computer terminino il lentissimo aggiornamento di sistema che il “guru de noantri” ha deciso monocraticamente – e misteriosamente – di impostare come automatico.
In quarto luogo, ciò che mi preoccupa di più: i singoli e i gruppi che preferiscono il limbo della dipendenza e della necessità di ricorrere alle opinioni o agli interventi pratici altrui piuttosto che affrontare la fatica di un processo emancipatorio, di acquisizione di consapevolezza e di capacità critica.
Con i tempi che corrono e considerata la pervasività dei dispositivi digitali in ogni aspetto della vita quotidiana, questa scelta di subalternità configura una rinuncia attiva alla piena cittadinanza.




Cinema e linguaggi

di Giancarlo Cavinato

Nella pedagogia Freinet, nel quadro dell’uso di una vasta pluralità di linguaggi e di codici,  l’uso didattico dell’immagine e del film ha avuto un posto fondamentale accanto alle biblioteche di lavoro e agli strumenti di stampa. Freinet aveva realizzato i primi filmini amatoriali utilizzando una cinepresa e un  proiettore Pathé.

Michel Mulat, dell’ICEM (Institut coopératif d’école moderne), sta facendo presso l’Università di Nizza e per conto dell’associazione Les Amis de Freinet costituita da anziani insegnanti Freinet di diverse parti del mondo un prezioso lavoro di restauro e documentazione di film e video prodotti nelle classi Freinet (riferimenti e informazioni: michel.mulat@cvc-freinet.org )

Purtroppo molti filmati d’epoca sono andati perduti o distrutti o sono irrecuperabili. Michel ha restaurato un film cult sull’episodio, citato ne ‘i detti di Matteo’, del cavallo che non ha sete. Il testo è tradotto in varie lingue, e letto da insegnanti dei diversi movimenti.

Le cheval qui n’a pas soif

Ce film culte de Freinet est une allégorie qui devrait être vue par tout éducateur qui se réclame  de la pédagogie Freinet.

Le commentaire qui accompagne ce film est difficilement compréhensible même pour les francophones.

La restauration de l’image de ce film est achevée. Nous souhaiterions en profiter pour le traduire  en toutes langues.

Le texte intégral et les consignes sont  accessibles par lien.► CLIC
Traduisez le dans votre langue et  prenez le temps de l’enregistrer et de nous adresser le son ► CLIC.

(Questo film cult di Freinet  un’allegoria che dovrebbe essere vista da ogni educatore che fa riferimento alla pedagogia Freinet. Il commento che accompagna il film è danneggiato e difficilmente comprensibile.
Il restauro delle immagini è stato completato. Chiediamo di tradurlo in tutte le lingue. Il testo integrale e le consegne sono accessibili tramite il link. Chi traduce dovrebbe registrare e inviare il sonoro)

Nel sito degli Amis de Freinet vengono via via collocati filmati recuperati e restaurati realizzati dai ‘pionieri’. https://asso-amis-de-freinet.org/index.php/
Nel sito  archives-freinet.org  si possono visionare produzioni di diversi periodi e classi; il link invia a  delle tabelle dove le produzioni sono indicate per titolo o per tema.

Un archivio che viene via via arricchito anche attraverso incontri che Mulat organizza nell’ambito della proposta CVC – classi virtuali cooperative. Nella sezione dedicata a tali classi sono visibili i filmati nella parte ‘Réalisations’ (menu verticale).

Si tratta, come è per diverse produzioni della Bibliothèque de classe cartacea, spesso di video e proposte realizzate dagli/con gli alunni stessi, il che è ben diverso dal proiettare in classe prodotti preconfezionati facendone oggetto di lezione con le LIM.

Ad esempio sono raccolti video su: autobiografie, guide per i corrispondenti (un’interessantissima esperienza di una classe di scuola dell’infanzia di Nizza che accoglie i corrispondenti di una classe prima in visita alla città e li guida alla scoperta dei luoghi più significativi. Ma… i corrispondenti scompaiono. Dove andare a cercarli?); mappe e guide per orientarsi; ricerca d’ambiente; il mio quartiere; ‘confinati’: una classe cooperativa virtuale antivirus; mostra dei lavori nella stazione;…

Produrre e inviare i propri filmati a classi corrispondenti è un’attività che ‘allena’ a un uso critico e attivo dei media.
E avere a disposizione una cineteca storica e attuale è una fonte di risorse indispensabile per gli insegnanti.

Un esempio di filmato.
https://archives-freinet.org/portraits/14-audet