Come funziona la ricerca in campo educativo

di Cristiano Corsini

In questi anni, con il risalto mediatico ottenuto dalle ricerche Ocse, Iea e Invalsi, mi pare si sia rafforzata l’infausta tendenza a confondere i dati di alcune indagini educative con ricette da applicare nell’agenda politica.
Ho sentito dire che classi da 25 non sono un problema perché un certo paese con un numero simile ottiene punteggi elevati ai test Pisa o Timss, affermazione che attesta confusione notevole sul cosa, sul come e sul perché delle ricerche Pisa o Timss.
Indagini correlazionali vengono scambiate per disegni sperimentali, la comparazione è ridotta a ranking, la valutazione a un’approssimativa misurazione e la qualità a una pessima quantità, mentre le competenze vengono snaturate nell’affastellamento rabberciato delle poche conoscenze e delle poche abilità quantificabili risparmiando sui costi e sui tempi.
Il tutto genera vanvere del tipo “il 51% degli adolescenti non comprende un testo”. Spesso, questa dinamica è legata alla fretta di veder confermata la bontà di scelte politiche di basso cabotaggio.
Eppure, la ricerca scientifica in campo educativo (e non solo quella “quantitativa”) da decenni affronta i rischi di tale riduzionismo con un senso della misura che invece sfugge del tutto a chi si occupa di istruzione e continua a scambiare le scuole per contesti in cui applicare rigidamente lo schema economicistico input/processo/output che darà forse risultati apprezzabili in altri ambiti (quali, è da vedere).
In campo educativo, piuttosto che dire che “tale metodo produce tali risultati” svolgiamo un’analisi dei contesti, dei metodi e di ciò che si intende per “risultati” che se conferma certe ipotesi si traduce in una formulazione del tipo “il più delle volte, a determinate condizioni, agendo così osserviamo questi risultati”. Per esempio, se sappiamo che i riscontri descrittivi generalmente migliorano gli apprendimenti è perché abbiamo messo alla prova per decenni in diversi contesti questa ipotesi.


Questo prudente (direi “misurato”) modo di lavorare non recide i legami della ricerca educativa col metodo scientifico, semmai li rafforza.
D’altro canto, piuttosto che considerare l’educazione una scienza, faremmo meglio a inquadrarla con atteggiamento scientifico.
Scriveva Dewey (Le fonti di una scienza dell’educazione) quasi cento anni fa:
“Se ci fosse un’opposizione tra scienza ed arte, mi sentirei costretto a schierarmi con coloro che affermano che l’educazione sia un’arte. Ma non c’è alcuna opposizione, pur potendo operare una distinzione […]. Quando nell’educazione le scoperte sono ridotte a una regola che deve essere rigidamente adottata, allora il risultato ottenuto è criticabile e nocivo al libero gioco dell’educazione intesa come arte. Ma ciò accade non per aver applicato il metodo scientifico, ma per essersene allontanati.”
E, d’altra parte, nel 1955, Visalberghi (Misurazione e valutazione nel processo educativo) rilevava che “l’abito stesso del misurare, implicando l’attitudine a vedere un più ed un meno dove il giudizio affrettato scorge qualità assolute, è esso stesso un abito di riflessività, di moderazione e di prudenza.”




Il principio di educabilità e il diritto dell’allievo di “fare resistenza”

di Raimondo Giunta

Attenersi al principio di educabilità significa pensare che qualsiasi alunno è capace di fare meglio di quanto non sembri e di quanto non abbiamo creduto.

Significa pensare che tutti hanno il diritto di essere educati nei tempi e con i modi più congeniali alle loro attitudini.
E’ il principio che dà sostanza e giustificazione all’esistenza dei sistemi di istruzione.
Succede a volte che l’alunno si collochi in posizione ostile o indifferente rispetto all’insegnamento; l’educatore, in questi casi, deve chiedersi per quali motivi avvenga e non dovrebbe cercare violare questa resistenza.
L’educazione è condivisione, non violenza; è chiamata, non costrizione. Si agisce sulle cose, non sulle persone: nell’educazione, pertanto, è possibile che l’insegnante faccia esperienza della propria impotenza.

L’educabilità si deve misurare con l’impossibilità, anzi con il divieto di condizionare il soggetto in apprendimento, che ha tutto il diritto di poterci sfidare con il suo rifiuto, con la sua opacità, con la sua avversione.
Mettere al centro l’alunno vuol dire anche questo.
La buona pedagogia ci ricorda il diritto dell’alunno alla sua irriducibilità ai tentativi di seduzione di condizionamento, di manipolazione.
Non promette di fare miracoli.

L’educazione, proprio per questi motivi, è un percorso accidentato e avventuroso sul cui esito felice non ci sono certezze e non si possono fare scommesse: bisogna misurarsi con le contestazioni, con gli ostacoli e con i rifiuti; bisogna mettersi sempre in discussione e solo così si potrà sperare nel successo formativo.

Il desiderio di apprendere e la perseveranza nell’impegno dell’alunno senza dubbio dipendono dal lavoro dell’insegnante e dalla sua capacità di instaurare una relazione educativa “rassicurante” e motivante; dipendono dalla sua quotidiana testimonianza di proporsi come esempio di ricerca e di amore del sapere.
“Se mai qualcuno ti avrà educato, non sarà stato con le sue parole, ma col suo esempio”(Pasolini).
L’azione educativa per le emozioni molteplici che suscita, per la disparità di statuto dei partners in causa, per le poste in giuoco supposte o reali, è un’esperienza che resiste a molti tentativi di razionalizzazione, verso i quali ci si deve dotare di un sovrappiù di precauzione e forse di preoccupazione.

Non c’è niente di peggio per la ragione degli eccessi razionalistici.
“L’insegnamento deve ridiventare non più solamente una funzione, una specializzazione, una professione, ma un compito di salute pubblica: una missione”(E.Morin).
Una concezione puramente funzionale dell’insegnamento riduce l’insegnante ad un semplice impiegato; l’accezione esclusivamente professionale lo riduce ad esperto.
I giovani hanno bisogno di adulti umanamente significativi che sappiano parlare alla loro mente e al loro cuore, di docenti che sappiano dar vita al sapere trasformandolo in risorsa per risolvere problemi e per vivere meglio.
L’educatore è paziente davanti l’errore e lo trasforma in una risorsa per la crescita dell’alunno; ascolta con attenzione i ripensamenti e i dubbi e incoraggia, perchè la difficoltà è superabile e il problema può essere risolto, perchè l’alunno ne è capace e prima o poi ne verrà fuori.

Nell’insegnamento bisogna coniugare il rigore della professionalità e la benevolenza del’amico, doti umane indispensabili per rispettare il principio di educabilità delle persone. Nell’educazione ci vogliono più certezze morali che scientifiche: ogni pratica pedagogica sottintende una concezione dell’uomo oltre quella dell’apprendimento e rinvia all’etica della convinzione e all’etica dell’autenticità; ogni insegnante in classe propone, a volte inconsapevolmente, un modello educativo in cui le conoscenze professionali si intrecciano con criteri di valore.
E’ un dovere renderli espliciti e commisurarli al rispetto dei diritti dell’alunno ad una buona formazione. Per educare bisogna agire in classe come comunità morale, come comunità democratica, come comunità di apprendimento.

 

 




Jerome Bruner: Il Conoscere, saggi per la mano sinistra

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

Introduzione
Sono tra coloro che ritengono Bruner uno dei quattro titani, insieme a Freud, Piaget,
Vygotskij, che il secolo scorso ci ha donato nel campo della conoscenza.
“Come conosciamo” è tema ancora trascurato, nonostante la scuola sia l’istituzione in
cui si apprende a conoscere. Ci occupiamo di come educhiamo, di come istruiamo, ma poco di come conosciamo, e qui non da un punto di vista psicologico.
La prima opera di Bruner pubblicata in Italia da Armando Armando nel 1964 è Dopo
Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture.
Bruner lo scrive dopo aver partecipato alla Conferenza di Woods Hole con la quale gli
Americani convocano nel Massachussetts, nel 1959, i maggiori scienziati e studiosi in
tutti campi per mettere in discussione i propri programmi scolastici preoccupati di
essere superati dai Sovietici che avevano lanciato nello spazio lo Sputnik.
Con il suo “Dopo Dewey” Bruner smonta il Mio credo pedagogico di John Dewey,
compiendo lui sì un’autentica rivoluzione copernicana e non già l’illustre filosofo
americano.
Non più la scuola come luogo di trasmissione del sapere per partecipare
alla cultura della propria specie, come sosteneva l’atto di fede deweyano, ma la
scuola come istituzione in cui si apprende a conoscere, come luogo di negoziazione
della conoscenza.
È sul tema della conoscenza che si esercita il mestiere dell’istruzione e
dell’apprendimento, non come si trasmette, ma come si accede al sapere.

Di qui i temi di fondo della teoria dell’istruzione di Bruner che si muove tra
strutturalismo e costruttivismo. L’importanza della scoperta come modo di avanzare in
un apprendimento che si amplia a spirale, indagando la struttura delle discipline per
rendere autonomo nel viaggio verso la conoscenza ogni singolo studente. La sintesi è
nell’apprendere ad apprendere: learning to learn, learning how to learn, oggi divenuto
patrimonio dell’Europa della società della conoscenza, manifesto dell’apprendimento
permanente.

Lo stato delle nostre scuole

La realtà didattica delle nostre scuole è senza dubbio a macchia di leopardo, accanto
a zone di eccellenza coesistono ancora diverse ombre. Quanto del contributo di
Bruner si sia tradotto nella pratica quotidiana delle nostre scuole non sono in grado di
dirlo.
La mia impressione è che sull’apprendere ad apprendere prevalga ancora
l’insegnamento come trasmissione, ma vorrei sperare di sbagliarmi.
In uno dei saggi di questo libro dedicato alla mano sinistra Bruner introduce due tipi di
insegnamento: l’insegnamento in forma enunciativa e l’insegnamento che si esplica in
forma ipotetica. Due modi opposti del fare istruzione.
Nel primo caso lo studente è colui che ascolta “le decisioni dello speaker”, si direbbe
in linguistica, è l’insegnamento ex cathedra. Nel secondo, nell’insegnamento in forma
ipotetica, l’insegnante e lo studente sono invece in posizione cooperativa. Lo studente
prende parte attiva alle esposizioni e alle formulazioni, e a volte può esplicarvi un
ruolo principale. Può assumere anche un atteggiamento del tipo “come se”.
Interrogativo, che è molto di più del semplice dubbio cartesiano, il “come se” della
mano sinistra che immagina. Perché soltanto la forma ipotetica può caratterizzare
l’insegnamento che incoraggia la scoperta e l’apprendimento a spirale.
Su tutto questo le nostre scuole sono ancora in mezzo al guado, e potrebbe
succedere che riprendere in mano, a cinquant’anni dalla sua pubblicazione in Italia,
un libro come Il Conoscere. Saggi per la mano sinistra porti a scoprire che è ancora
attuale.

Una comunità mitologicamente istruita

Intanto “Il conoscere”, il titolo originale è “On knowing. Essays for the Left Hand”, non
un infinito sostantivato come è stato tradotto in italiano, ma un gerundio presente, non
un punto di arrivo o un atto isolato, ma qualcosa che avviene nel presente con
continuità tra passato e futuro.
Quel gerundio presente è la materia di cui è fatta la scuola di ogni giorno, la materia
che accompagna ogni istante della nostra vita. La conoscenza nel suo manifestarsi,
scorrere e divenire, il compiersi di un’azione, appunto: l’apprendimento.
“Il Conoscere. Saggi per la mano sinistra”. Saggi “occasionali” li definirà più tardi
Bruner, di giorno porta avanti l’indagine psicologica, di notte si occupa di romanzo, di
poesia, di teatro.
Il libro contiene saggi sulla creatività, sul mito, sull’identità, sul romanzo moderno,
sull’arte come modo della conoscenza. Fino al saggio su Freud, colui che più di tutti è
sceso negli abissi della conoscenza per rivelarcene i meccanismi più profondi.
Perché accostare l’arte all’istruzione, al knowing?
Perché scrive Bruner siamo una comunità “mitologicamente istruita”, con una sua
“bussola interna”. Una comunità mitologicamente istruita che è un complesso di
“identità” metaforiche. E qui c’è un richiamo alla lezione nietzschiana per la quale
possediamo soltanto le metafore delle cose, non le entità originali.
Una comunità la cui impalcatura sono i miti, la cultura come grande rappresentazione
che ci consente di riconoscerci nei suoi simboli, miti e metafore.
Nella nostra cultura mano sinistra e mano destra sono simboli e metafora, hanno
sempre ingaggiato tra di loro una discussione aperta e a volte rumorosa,
rappresentando le due culture, quella umanistica e quella scientifica.
Per i francesi à main gauche era il figlio illegittimo. Della mano sinistra noi diciamo che
è impacciata, sebbene sia stato affermato che gli studenti d’arte possono conquistare
una maggiore espressività nel disegno proprio cominciando ad usare la mano sinistra.
La mano destra rappresenta colui che fa, la sinistra colui che sogna. La destra è
l’ordine e la legalità. Cercare la conoscenza con la mano destra è scienza. La mano
sinistra è sentimento, intuizione, illegittimità.
Ma è anche vero che le grandi ipotesi della scienza sono doni che giungono dalla
mano sinistra.
Prendiamo la tastiera di un pianoforte, le note più basse sono a sinistra, in modo che
le note di basso che sono usate principalmente per l’armonia e il tempo siano suonate
dalla mano sinistra e la mano destra affronta la melodia. Entrambe sono necessarie
per una composizione musicale gradevole, così entrambi gli stili di pensiero, quello di
destra e di sinistra, sono necessari per un insegnamento efficace.

La cultura come grande narrazione

Che cos’è la cultura se non una grande narrazione, perché l’uomo ha avuto bisogno di
organizzare il sapere, frutto delle sue esperienze, in una grande narrazione, nel senso
etimologico del termine di conoscere e divenire esperti, una narrazione condivisa, dai
significati negoziati, nella quale riconoscersi come parte di una comunità.
E cosa c’è più potente “dell’economia metaforica” per dare rappresentazione
all’esperienze dell’uomo, l’economia della metafora che si è tradotta in miti e simboli,
in rappresentazioni mentali e in concetti, attraverso i quali pensiamo. I nostri costrutti
mentali, per dirla con la neurolinguistica.
Questa narrazione è la cultura, e la cultura è il DNA della nostra società.
La struttura fondamentale di questa narrazione è il linguaggio, a sua volta una grande
metafora.
Per dirla con Francesco Bacone la mente e la mano possono fare ben poco senza i
sussidi e gli strumenti che li completano: il principale è il linguaggio e le sue regole
d’uso.

Linguaggio e apprendimento

Il linguaggio è lo strumento principale dell’apprendimento a partire dalla lezione di
Pensiero e linguaggio di Vygotskij.
Dal linguaggio emerge la rappresentazione del mondo, veicola la rappresentazione
del mondo, i significati condivisi, il mondo concettuale.
Il linguaggio è lo strumento più potente con cui organizziamo l’esperienza, costruiamo
la “realtà” delle cose.
Il linguaggio è il concentrato massimo di simboli e di metafore per eccellenza, ne è la
sublimazione, è quello attraverso il quale si esprime una cultura, la cultura di una
comunità.
Il linguaggio è uno strumento delicato, la sua attività combinatoria produce effetti sulla
nostra rappresentazione del mondo, sul nostro pensiero, sul nostro stesso modo di
pensare.
La mano sinistra combina simboli e metafore, la mano sinistra è quella del “come se”,
il pensiero ipotetico che fa progredire arte e scienza, perché poi la destra organizza la
nuova esperienza nella narrazione che si fa cultura.
Ma le combinazioni del linguaggio condizionano il nostro modo di vedere e di
interpretare il mondo. Il linguaggio è strumento dell’insegnamento estremamente
delicato e su questo dobbiamo riflettere per come arrivano i nostri messaggi e come
essi possono condizionare la rappresentazione della realtà e i modi di pensare di chi
ci sta di fronte.
Il linguaggio è l’esempio di come gli stessi simboli, con gli stessi identici significati
possono combinare rappresentazioni differenti della realtà.
Si pensi alla frase “La borsa crollò, il governo diede le dimissioni” e come utilizzando
gli stessi simboli, le stesse metafore, ma combinandole in modo differente la
rappresentazione della realtà immediatamente cambi: “Il governo diede le dimissioni,
la borsa crollò”.
È l’arte combinatoria della cultura umanistica, l’arte combinatoria della mano sinistra
conduce secondo Bruner alla “verità illuminante”, alla “sorpresa produttiva” senza le
quali la grande narrazione della cultura non potrebbe avanzare, come la scienza non
potrebbe progredire.

Henry Moore ricorre ai buchi nelle sue sculture per risolvere un problema
squisitamente tecnico: dare un senso tridimensionale alle forme solide.
“Il buco connette un lato con l’altro rendendo un corpo immediatamente più tridimensionale”.
Un vuoto, un togliere per aggiungere. L’attività combinatoria della mano sinistra come
momento cruciale della creazione. Ecco la verità illuminante, la sorpresa produttiva.
Come sorpresa produttiva e verità illuminante ritornano nella tenerezza di madre e
figlio che esprime La Virgen Blanca, scultura gotica del XIV secolo conservata nella
cattedrale di Toledo. Non c’è un sacro più umano capace di rappresentare l’amore tra
madre e figlio di questo, costruito con l’abile artificio dell’uso del sorriso e della
delicatezza delle mani, fino alla mano del bimbo che accarezza il mento della madre.
Ma per Bruner è anche opera d’arte, frutto dell’attività combinatoria della mano
sinistra:
E=mc²
è probabilmente la più famosa formula della fisica, grazie all’intreccio di novità,
semplicità ed eleganza.
Il 1905 è l’anno mirabilis di Albert Einstein, fino ad allora tutti pensavano che la massa
e l’energia fossero due realtà fisiche molto diverse, completamente separate e senza
punti di contatto. Ma Einstein comprende che queste due realtà fisiche,
apparentemente così diverse, sono in verità strettamente legate da un valore
numerico molto preciso: il quadrato della velocità della luce nel vuoto (c²).
Questa geniale e semplice formula, che all’epoca risultò assolutamente rivoluzionaria,
stabilisce che massa ed energia sono equivalenti, come se fossero le due facce della
stessa “medaglia”.
La mano sinistra porta alla mano destra, il pensiero narrativo al pensiero
paradigmatico della scienza.

La metacognizione

Per Bruner compito dell’istruzione è “andare a meta”, non nel senso del rugby, ma
inteso come “metacognizione”. L’apprendimento come luogo della metacognizione. Il
“Knowing”, gerundio presente che si inoltra nelle strutture della conoscenza. La
conoscenza che indaga, che riflette su se stessa.
La scuola come luogo in cui si apprende a gestire il linguaggio quale potente
strumento simbolico della cultura, come luogo della metacognizione per eccellenza,
perché solo attraverso la metacognizione si può andare alla ricerca di sorprese
produttive, di verità illuminanti. Perché è attraverso la metacognizione che si può
giungere a scoprire come si è prodotta la grande narrazione e come essa si può
ricreare.
La questione di come sono organizzate conoscenza ed esperienza nella molteplicità
delle loro forme è come il ponte di pietra che il Marco Polo di Calvino descrive al
Kublai Kan. Qual è la pietra che sostiene il ponte chiede il Kublai Kan, e Marco
risponde che il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, ma dalla linea
dell’arco che esse formano. Kublai allora protesta, rimproverando Marco di parlargli di
pietre quando a lui è solo dell’arco che importa. Marco gli risponde che senza pietre
non c’è arco.
Ecco, la metacognizione è l’insieme delle pietre che formano l’arco, e la scuola serve
non per apprendere l’arco ma l’insieme delle pietre che consentono di disegnare
l’arco.

La caduta del Mito

La mano sinistra espressione di una comunità “mitologicamente istruita”, una
comunità di “identità metaforiche”.
Cinquant’anni fa Bruner prendeva atto che questa comunità aveva distrutto i suoi miti,
perduto il suo filo d’Arianna, si è persa nel labirinto.
Il bisogno di mito è rimasto inappagato, rimpiazzato dalle mode.
Scienza, tecnologie e globalizzazione non sono sufficienti a dare risposte, soprattutto
sul piano della creatività dell’arte.
La cultura stessa è un testo ambiguo, che ha costantemente bisogno d’essere
interpretato da coloro che ne fanno parte.
Non si è comunità se non si condividono i significati, e la condivisione risiede nella
negoziazione interpersonale.
La cultura è sempre più come un forum: un processo di continua costruzione e
ricostruzione, di metacognizione in cui gli individui non sono spettatori, ma
protagonisti.
Tutto questo è richiesto dalle continue sfide del presente e dal futuro che non ci è dato
di sapere come sarà.
Il tempo delle certezze è finito, il nostro tempo è l’incertezza. Non abbiamo bisogno di
saperi dati ma di strumenti per costruire i saperi futuri.
Il luogo in cui ci si prepara, non per adattarsi alla società, ma per affrontare il futuro è
la scuola.
La scuola come luogo del forum della cultura, la scuola dei progetti, la scuola
laboratorio che cozza con l’idea che il processo educativo consista in una
trasmissione di conoscenze da chi sa di più a chi sa di meno, da chi è più competente
e chi lo è di meno, da chi è preparato a chi è impreparato alla vita.

La pedagogia chirurgica

La pedagogia che ne scaturisce è una pedagogia chirurgica che concepisce
l’insegnamento come un intervento chirurgico, un’operazione volta a sradicare,
sostituire o colmare una lacuna.
Ma noi veniamo da un secolo di Freud, Piaget, Vygotskij, che hanno posto in risalto il
bambino che impara, i suoi bisogni di individuo autonomo che apprende, un’enfasi
destinata ad avere un’importanza straordinaria.
Freud ha contribuito a mettere in risalto l’autonomia di funzionamento dell’io, il suo
affrancamento dagli impulsi eccessivi e conflittuali. Piaget ha accentuato
l’apprendimento come invenzione. Vygotskij il processo sociale di negoziazione del
significato.
Quello che deriva è che quello dell’adattamento è un ideale troppo modesto,
ammesso che possa essere ritenuto un ideale.
L’educazione non più come mezzo di adattamento alla società, ma come mezzo
fondamentale della trasformazione della società. E qui dobbiamo dire che il
meccanismo si è inceppato.
Come crescere una generazione nuova che sappia impedire al mondo di dissolversi
nel caos e nell’autodistruzione, recuperare il suo filo d’Arianna.
Il linguaggio dell’educazione è il linguaggio dell’arte, della mano sinistra e della mano
destra che suonano insieme lo stesso spartito, è il linguaggio della creazione di
cultura, non solo dell’acquisizione o del consumo della conoscenza.
L’archetipo non è Edison quale geniale inventore, ma è Einstein quale potente
pensatore. “Come se”, la mano sinistra.
Una scuola che a partire dalla mano sinistra sappia creare pensiero, predisporre il
terreno alla mano destra. Non è dell’eros, della passione di un insegnante in grado di
emozionare gli studenti, che abbiamo bisogno, ma di una scuola in grado di
coinvolgere il pensiero, in grado di far funzionare la “mente a più dimensioni” per dirla
con Bruner.
Quando Manet affermò che “la natura è solo un’ipotesi”, non poteva certo farlo nella
prospettiva popperiana. Era il suo un grido di battaglia contro la pretesa del
figurativismo accademico di costituire l’unica maniera, e anche la più giusta, di
rappresentare pittoricamente la natura. Era un invito a creare una molteplicità di
ipotesi diverse e perfino provocanti.
È il compito implicito della mano sinistra e della necessità che ha la mano destra delle
attività di tipo umanistico che consentono di creare e sviluppare ipotesi.

Una teoria dell’istruzione

L’uomo è un membro della cultura che eredita e poi ricrea. Il potere di ripensare la
realtà, di ripensare la cultura è il punto di partenza di una teoria dell’istruzione.
È necessario che la scuola, le classi non siano lasciate al loro isolamento dorato, ad
un’autonomia che si traduce in autosufficienza, per cui la scuola non è più come una
volta un corpo separato dalla società, ma è un corpo separato dalla cultura.
Va messo in cantiere uno sforzo collettivo che sappia per davvero prendere in mano il
futuro del nostro processo educativo, uno sforzo nel quale tutte le risorse di
intelligenza vengano messe a disposizione delle scuole.
Si devono trovare i mezzi per alimentare le nostre scuole con le conoscenze sempre
più profonde che si vanno maturando alle frontiere della conoscenza.
Abbiamo bisogno di istituti per lo studio dei programmi scolastici, dove gli uomini di
cultura, gli scienziati, gli uomini d’affari, gli artisti si incontrino regolarmente con
insegnanti di valore per rivedere e aggiornare i nostri programmi.
Occorre condividere con gli insegnanti i risultati delle nuove scoperte, le prospettive
aperte dalla ricerca, le nuove conquiste raggiunte sul piano dell’arte.
Dobbiamo avere le idee più chiare su cosa vogliamo insegnare, a chi e in che modo,
se vogliamo contribuire a crescere esseri umani capaci di raggiungere i loro obiettivi.
Bisogna dire che Università e Istituzioni culturali non danno e non hanno dato aiuti
preziosi.
Tutti gli Ocse Pisa del mondo non riusciranno a raggiungere l’obiettivo di dare nuova
vitalità alla nostra società multiculturale e farne una società nella quale e per la quale
valga la pena di vivere.




Standogli accanto (a proposito di dispersione scolastica)

di Raffaele Iosa

Nel sito www.proteofaresapere.it Dario Missaglia ha pubblicato un coraggioso articolo sulla cosiddetta “dispersione scolastica” e il PNRR dal titolo “La variante semantica”.
Una critica dura e convincente sulle diffuse contraddizioni circa l’interpretazione, le ragioni e i possibili interventi per ridurre in Italia le bocciature e gli abbandoni scolastici fino ai NEET, e sui rischi di un welfare compassionevole che sta invadendo l’educativo con varie forme di “assistenzialismo riparativo” di incerta e quanto meno dubbia efficacia.

È lapidaria, al proposito, una citazione che Dario riprende da un recente saggio di Alberto Alberti (nostro comune amato maestro) che demolisce la bizzarra variazione che hanno oggi le parole utilizzate per spiegare il fenomeno con l’ormai invasivo termine “dispersione”. Parola da fumo atmosferico, in cui si descrive il “disperso” come una malattia individuale.

Malato è (sempre) il disperso, non la scuola che lo boccia. Scrive Alberto Alberti:
Gli interventi comunitari garantiscono aiuto alle scuole ma in maniera esclusivamente aggiuntiva … Il problema da interno si sposta all’esterno. Non si mette in causa la scuola che boccia e allontana. Si mette sotto accusa il territorio sbagliato … la scuola è quella e rimane tale, non può adeguarsi alle esigenze degli allievi. Sono sbagliati gli allievi.

Per questi ragazzi sbagliati servirebbero cure che solo alcuni professionisti dell’abbandono possono garantire. Che siano del Terzo settore, e che la scuola sia obbligata a fare con loro i cd. patti di comunità è solo la parte venale della questione (i soldi…), quella più grave è la questione ideologica di questo obbligo, cui le neo-parole sui “bisogni” che diventano “problemi”  che si fanno “deficit” intende dare un vestito persino scientifico.  Parole che favoriscono la delega della scuola all’esperto, che se è perfino (a modo suo) un volontario assume un carisma missionaristico.

A questa “malattia” il PNRR proporrebbe alcuni interventi di “recupero riparativo” in cui un soggetto professionale “esterno” pare indispensabile in quanto (solo lui)  esperto. Certo, con la scuola, ma un soggetto asimmetrico soi disant competente. Il rischio che il tutto diventi una delega in bianco ai sacerdoti del welfare compassionevole è alto.  Il rischio che la scuola non cambi nel profondo stili di insegnamento e abitudini educative (cioè quelle che bocciano) è perfino maggiore: tanto ci sono loro a pensare agli sfigati e ai poveracci. Un po’ come con i nostri studenti con disabilità l’esaltazione del docente di sostegno come unica opzione inclusiva.


Questo mio commento vuole solo aggiungere poche cose ai ragionamenti di Dario, su alcuni aspetti che mi stanno a cuore, tra cui la deriva iatrogena che questa neoideologia dei dispersi produce assieme a molte altre dominanti oggi nelle nostre scuole. E cioè neo-parole e interpretazioni che imputano all’altro la sconfitta per una sua propria inadeguatezza (sociale, biologica, genetica, ecc..), cui il sacerdote del dolore offrirà lenimento, liberando la scuola dal dovere onestamente autocritico di interrogar-si sul proprio agire educativo, disciplinare e sociale,  per garantire a tutti lo sviluppo di tutti i possibili potenziali esistenziali e cognitivi.

Nel fantasioso mondo dei bes

Ho tra le mani un vecchio libretto di Ivan Illich (1977) dal titolo radicale  Disabling professions(1),  profetico sul nascere di vaste aree di neo-professionisti del dolore che partendo da alcuni “bisogni” riconvertiti in “problemi” costruiscono diagnostiche, terapie, seduzioni compassionevoli e assistenziali di dubbia efficacia, se non la dipendenza del “bisognoso” cui non si offre autonomia ma un banale adattamento delle attese (la cura “recuperante”), con un proprio status per non essere estraneo al mondo ma mai cittadino del tutto libero del proprio sé.

La profezia si è avverata: in Italia gli studenti con disabilità sono raddoppiati in soli 20 anni, i cd. DSA ormai, a 12 anni da una legge iatrogena, li hanno sorpassati. Ma c’è di più: forse non è un caso che proprio lo stesso Marco Rossi Doria della “questione delle questioni” sul PNRR sia l’autore di una direttiva del 2012 che ha introdotto nella scuola una neo-lingua diagnostica che definisce i bambini e ragazzi che abbiano un qualche “bisogno” come bes, cioè educativi speciali. Gli effetti sono stati quanto meno discutibili, e producono un effetto stigma (anche se in buona fede) che può produrre più effetti indesiderati di quanto si pensi. Il principio pratico del bes è la logica della dispensa e della compensa, cioè di una pratica isolante dove si può dare al nostro bes meno cose da fare o cose adattate per varie vie.  Ma è una dispensa e una compensa dal mainstream classico di molti insegnamenti, mai messi però in discussione come la fonte invece dei malanni educativi.

Trovo sconcertante che per i ragazzini ucraini a fronte dell’imbarazzo di molti buro-pedagoghi delle scuole sul che fare (le prove invalsi si o no? Se fanno la loro Dad di mattina devo considerarli assenti o presenti?) il Ministero abbia suggerito alle scuole di considerarli bes, di farci sopra un PDP, così le carte sono a posto. E le persone?
Questa esplosione neo-epidemica l’ho chiamata criticamente in diversi saggi “La Grande Malattia”, non un fenomeno solo italiano, e rappresenta una riconversione del welfare  da strumento di sviluppo olistico e autonomo a trattamento isolante dei  sintomi, visti appunto come disturbi.
È noto come questa esplosione di nuove sindromi non abbia affatto migliorato la qualità degli interventi educativi né ridotto la vasta conflittualità tra gli insegnanti e i genitori.
È in questo humus ideologico che rischia di collocarsi anche la politica del PNRR nei confronti della dispersione scolastica, con cure adattative delle singole persone partendo non dai loro potenziali e talenti, ma dai loro sintomi problematici cui offrire la nostra benevola terapia.

Su questo la questione che a me come educatore turba di più  è l’effetto-paradosso che questa filosofia delle cure speciali sembra produrre. È argomento di numerosi studi(2) critici che però in Italia non hanno particolari effetti di ripensamento. Questi studi rilevano come la definizione dell’altro come “problema-deficit” cui offrire una “cura speciale” produce spesso nell’operatore (educatore, assistente sociale, insegnante, psicologo, ecc..) un ridimensionamento della possibile “zona prossimale di sviluppo” vigotskijana della persona: cioè  (per motivi clinici, di stigma, persino di assistenzialismo benevolo) ci si attende meno da questo altro, anzi si ritiene buona cosa non esagerare stimolando troppo i suoi (magari pochi) potenziali. E così pare di fargli persino un piacere adattativo. Col che passa anche all’altro (e alla sua famiglia) un “abbassamento delle attese dell’io”. Dunque lo sviluppo viene ridimensionato e non realizzato come sarebbe invece possibile. È l’effetto iatrogeno che produce spesso negli interventi sociali ed educativi degli adattamenti al ribasso con conseguente consolidamento della cronicità e quindi di una condizione assistenziale perpetua.

Questo effetto iatrogeno lo si sente anche  nelle discussioni sulle iniziative di contrasto alla dispersione. Cure assistenzialistiche di un difficile “recupero” col rischio di uno sperpero di impegno (prima professionale che economico) senza cambiamenti veri ma solo parziali e incerti adattamenti. E soprattutto il rischio che questo Intervento del PNRR resti come un una tantum, questo sì disperso in una scuola che non cambia profondamente il suo fare quotidiano. Il rischio, insomma,  è che ancora una volta l’assistenzialismo compassionevole venga calato sull’altro dall’alto, abbassandone i potenziali e accentuando il diventare un eterno paziente di qualcuno.

A proposito di povertà educativa

Uno dei segni di rischio iatrogeno che si possono produrre negli interventi ad hoc sulla dispersione è l’abuso che oggi si fa del termine “povertà educativa”, che diventa l’icona entro cui collocare tutti i bocciati e abbandonati con basso reddito. Qui davvero la variante semantica è grave.
Ho già scritto altre volte che per don Milani poveri non erano i suoi ragazzi ma i loro insegnanti di scuola media che li bocciavano senza alcun pentimento.

Comunque perché non diciamo lucidamente che in Italia la dispersione continua ad essere semplicemente la tradizionale e mai superata selezione di classe? Perché così è: l’aumento della povertà economica è un accidente grave del nostro paese,  e non c’è alcun dubbio che un ragazzo povero che magari vive in zone disagiate ha meno opportunità. Ma perché aggiungere al termine povertà quell’altro (molto più delicato e complesso) di educativo? Come se i figli dei ricchi fossero tutti gentili, cortesi, aperti, ecc. E come sei i poveri fossero tutti maleducati e sporchi.

Non è difficile qui trovare un pregiudizio illuministico del rapporto tra ricchezza e felicità. E un pregiudizio che contiene una sorta di metafora rieducativa per la quale i sacerdoti del dolore dovrebbero ri-educare al bene e al bello il povero maleducato estirpando le brutte abitudini culturali date dalla povertà. Qui le parole pesano come pietre e ottengono effetti perversi.
I ragazzi poveri hanno meno opportunità, ma un’educazione ce l’hanno, potrebbe essere a volte più profonda e creativa dei signorini  di città. Basta star loro accanto e scoprire i loro talenti.
Forse avere anche una politica di contrasto alla povertà economica più coraggiosa, per esempio con un aumento dei redditi da lavoro. Circa il rapporto tra ricchezza e felicità, forse merita ricordare sempre, a proposito delle famiglie, l’incipit di Anna Karenina di Tolstoj  “Tutte le famiglie felici si assomigliano, quelle infelici invece lo sono ognuna modo suo”.

Infine,  la categorizzazione del rapporto tra povertà e educazione in una neo-lingua unitaria rischia di produrre un mucchio opaco di stigmi compassionevoli dove si mettono dentro tutti i ragazzi poveri come fossero tutti uguali, a scimmiottare con tutor, mentor, e altri anglicismi che ripetono a tutti la stessa bonaria paternale.
Naturalmente, non si tratta solo di neo-parole controverse, ma di una visione del mondo, della società e del ruolo dell’educazione che ha oggi un contrasto vivo tra diversi punti di vista.

La nostra differenza dai sacerdoti della povertà educativa è chiara. Per questo dobbiamo però avere il coraggio di ragionare con maggior forza sui cambiamenti radicali necessari nel sistema educativo, nel fare scuola quotidiano. È li che nasce la malattia, assieme al bisogno di una comunità sociale quasi scomparsa (e da far rinascere) attorno alla scuola che sia dialogante, coinvolta, attiva, per una sussidiarietà orizzontale che non sia la delega a qualcun altro, ma l’impegno duro e difficile a migliorare insieme (scuola, comune, società civile, famiglia) la qualità della vita con una comunità di reciprocità, con l’umiltà di sapere che la vita è difficile, ma che ci resta solo una via: un’umanità che pensi al futuro dei nostri figli e nipoti con partecipazione attiva.

Standogli accanto

Un noto passaggio della Lettera a una professoressa ci può dare un primo piccolo ma essenziale paradigma trasformativo di cosa potrebbe voler dire davvero contrastare la dispersione. L’ho letto la prima volta alle magistrali, scuola che ho fatto perché figlio di poveri (durava quattro anni), e questo brano ha segnato la mia vita e i miei sogni professionali di maestro e privati.

Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. Standogli accanto ci si accorge che non lo sono. E neppure svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci deve essere un rimedio.
Allora è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono eguali e in seguito non lo sono più, è colpa nostra e tocca a noi rimediare.

È questo standogli accanto la chiave trasformativa di una buona educazione. Genitori o insegnanti o operatori sociali o volontari che siano. E la scuola la chiave per innalzare le attese e le passioni nella vita di ogni bambino e ragazzo. Standogli accanto, non sopra, non dietro. Non guidarlo con le nostre cure, ma aver cura del nostro ascolto e dei nostri miti e ragionevoli stimoli a lui.

Questo per i bocciati di ieri da aiutare e per quelli a rischio bocciatura di oggi. Con l’umana umiltà che fa l’onore del nostro mestiere quando sentiamo viva la responsabilità adulta di un’educazione buona per tutti, qualsiasi sia la loro condizione.

¹Ivan Illich et al., Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti, Trento, Erickson
²Allen Frances, Primo, non curare chi è normale, Torino, Bollati Boringhieri
Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli

 

 

INTORNO ALLA VARIANTE SEMANTICA. QUALCHE RIFLESSIONE.
– di Eliana Romano, presidente Proteo Fare Sapere Sicilia.
7 luglio 2022

Quel che scrive il nostro presidente, Dario Missaglia, come sempre ravviva il lume del mio intelletto; costringe a porsi domande, ad interrogarsi, con la sua stessa modestia intellettuale e la medesima fermezza. Domande sui tanti problemi della scuola italiana e sulla piega con cui li si affronta.
È una piega sempre gualcita che nasconde, da qualche parte, la volontà di affrontare ritardi, disagi, distonie sempre superficialmente, a vantaggio magari di qualcuno che solo ogni tanto è la scuola reale.

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La pedagogia Freinet di Marcel Thorel

Marcel Thorel  ha conosciuto la pedagogia Freinet quando nel 1970 frequentava la Scuola Normale (la scuola della formazione inziale dei futuri maestri).
Lì conobbe un maestro, François Pâques, che aveva insegnato a Vence insieme a Célestin Freinet e sua moglie Elise  negli ultimi anni di vita del maestro francese.
E’ stato lui a presentare a Marcel e ai suoi compagni i testi liberi, le ricerche matematiche, le opere d’arte. Marcel ha dunque iniziato  a lavorare con la pedagogia Freinet appena uscito dalla Scuola Normale.
Ha sempre fatto parte del gruppo di dipartimento di Pas de Calais e dell’ICEM nazionale (è stato membro del Consiglio Amministrazione dell’ICEM).

Nel 2002 Marcel e sua moglie Danielle, insieme ad altri colleghi e con il sostegno dell’Amministrazione scolastica, hanno fondato la scuola sperimentale Freinet de Mons-en-Barœul situata nella periferia di Lille.

Dopo il loro pensionamento dall’insegnamento operano in Francia, in Belgio e in Africa.

Marcel è Presidente di un’Associazione che si occupa della formazione di insegnanti in pedagogia Freinet in Togo e in Rwanda che lavora in collaborazione con il  MOUVEN (Movimento di insegnanti innovatori) e il movimento Freinet del Togo.
In Belgio Marcel e Danielle Thorel hanno contribuito a creare un’Associazione (Centro di ricerca  che promuove la pedagogia Freinet.
A questa Associazione fanno riferimento le scuole Freinet di Liegi.
Anita Ruiz è la coordinatrice del Centro di Ricerca.




L’esame di stato: valutare le “varie ed eventuali

di Stefano Stefanel

L’accoglienza che questo 2022 sta dando al ritorno dell’esame di stato conclusivo dei due cicli in presenza e con i compiti scritti dimostra come nell’immaginario collettivo nazionale questo sia comunque un momento di passaggio ritenuto fondamentale. Il fatto che sia un esame stressante, contenutistico, ma privo di qualsivoglia selettività, non lo sminuisce nella sua portata sociale e culturale. Dunque facciamo i conti con questo esame, che la pandemia non è riuscita a seppellire, insieme al suo nozionismo, ai suoi stanchi rituali, al suo essere totalmente inutile nel definire orientamenti ormai a tutti già noti.

Il fatto, poi, che sia un rito necessario dice, una volta di più, che deve essere preso sul serio e analizzato come fonte pedagogica primaria almeno degli anni conclusivi del ciclo di studi. Se l’esame finale del primo ciclo è enciclopedico e inutile e condiziona probabilmente solo la parte conclusiva del terzo anno, l’esame di stato nel secondo ciclo invade tutto il triennio e produce una sorta di cappa pedagogica da cui praticamente nessuno vuole uscire o nessuno nemmeno fa finta di voler uscire. Pagati, pertanto, i dovuti debiti ad un rito popolare che costituisce uno degli elementi distintivi del passaggio di età, va, però, considerata, la sua lateralità rispetto a quello che si fa normalmente nelle scuole. Sembra, infatti, che gli studenti studino una cosa e poi nell’esame di stato vengano verificati su altro. L’impressione è che sarebbe come se una squadra si allenasse durante la settimana a giocare a pallacanestro, ma poi la domenica partecipasse al campionato di calcio.

Molta passione nell’opinione pubblica la determinano le tracce della prima prova di italiano, uguale per tutti. E’ una prova che costituisce in prima battuta uno sfoggio di cultura di coloro che la predispongono, dato che producono un’antologia di proposte con molte tracce di difficile lettura. Questo esercizio di lettura di un’antologia di testi, di scelta del testo da analizzare/commentare, di redazione scritta costituisce un unicum nella vita dello studente. Dal punto di vista pedagogico è interessante notare, però, come lo studente nel suo percorso normale venga “interrogato” su contenuti e metodi legati alla disciplina, e come, nel frattempo, si costituisca una sua struttura di pensiero attraverso l’informale e poi debba farci sopra un tema (o un saggio breve). Poiché non conosco uno studente che durante l’anno sia stato invitato a colloquiare su un argomento di attualità e poi ne abbia ricevuto un voto, mi sembra che qui si raggiunga l’apice della pedagogia creativa, valutando qualcosa su cui la scuola non ha nulla da dire, relegando l’attualità ai compiti in classe di italiano o al compito dell’esame di stato.

Questo rapporto tra una scuola che insegna il formale e che poi valuta l’informale è molto interessante, anche se forse pedagogicamente scollegato dall’idea di fondo per cui l’apprendimento comunque tende a passare, per lo più, dall’insegnamento. Fa dunque stupore questa tenerezza italiana per le “varie ed eventuali” che servono a valutare uno studente che ha studiato ed è stato interrogato su altro.
Qualche tempo fa, all’inizio delle pandemia, avevo suggerito di trasformare, anche con l’uso del digitale, l’interrogazione (a domanda risponde o anche “fatti la domanda da solo e risponditi”) in un colloquio colto tra due soggetti non equo-ordinati (l’insegnante e lo studente), che però condividono le basi qualificanti del discorso. Vedo che si è andati nella direzione opposta e che le interrogazioni sono tornate prepotentemente alla ribalta anche con distanziamenti e mascherine. Rimane però questo scarto tra ciò che viene insegnato di ogni disciplina e la richiesta che lo studente si eserciti con senso critico e autonomo, che però nessuno tiene in grande considerazione se non durante questi famosi scritti. Trasformati in articolisti di fondo o saggisti da elzeviro gli studenti dimostrano di apprendere altrove anche ciò che non viene loro insegnato a scuola (l’argomento musicale, che ha fatto felici tutti, non ha prodotto mai un voto durante l’anno).

L’opinione pubblica è simpaticamente colpita da questi testi di giugno, salvo poi disinteressarsi di una scuola che insegna e verifica – per tutto il resto del tempo – su contenuti, ma alla fine valuta lo studente su altro che, evidentemente, lo studente ha imparato da sé. Pensare però di trasformare degli studenti in saggisti con qualche compito in classe è ritenere che tutto ciò che non è direttamente insegnato sta nelle “varie ed eventuali” in cui ognuno può dire quello che gli pare attingendo dove ritiene più opportuno.
Pascoli e Verga antologicizzati sono dunque la foglia di fico dell’operazione di superficializzazione del sapere, laddove lo studente deve prepararsi  su un argomento, ma poi viene valutato su opinioni, anche non supporate da adeguate citazioni. Il fatto, poi, di affrontare un argomento con le sole carta e penna, senza poter accedere direttamente alle fonti per citarle, dice soltanto che si vuole insegnare ad essere “saggisti” nel modo sbagliato, perché quello giusto è scrivere con le fonti sott’occhio, non andando a ricordo (unici casi in cui perdoniamo il “ricordo” sono quelli di Gramsci e Pirenne, che hanno scritto dal carcere e quindi, non avendo le fonti sott’occhio, sono dovuti andare a memoria).

°°°°°

Il colloquio su cui si chiude l’esame di stato è un altro esempio di “varie ed eventuali” fatte sistema. Nel corso dell’anno lo studente non viene mai interrogato nell’ambito di un colloquio interdisciplinare. Si fanno delle simulazioni, ma giusto per scriverlo nel documento programmatorio finale. In realtà le discipline rimangono sempre ben distinte, per cui quando improvvidamente nell’esame appaiono in forma multidisciplinare o interdisciplinare si assiste al via vai dei collegamenti, alle strane sinergie, alle affinità elettive mai venute in mente a nessuno. Anche in questo caso la scuola verifica in un modo, l’esame finale in un altro. Ciò vale anche per i Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO) di cui lo studente non parla mai in classe o con i suoi docenti, salvo che all’esame di stato.

In sintesi mi pare che la gioia per il ritorno dell’esame di stato in presenza e degli scritti sia un’ineludibile richiesta restaurativa di qualcosa che costituisce un vero e proprio tratto distintivo dell’italianità, laddove questo rito di passaggio è una sorta di iniziazione necessaria. Nel generale entusiasmo anche mediatico per l’esame mi pare stia sfuggendo la pedagogia e la sua richiesta di un certo rigore processuale. Personalmente toglierei le interrogazioni dalla scuola e le lascerei solo alla loro ineludibile trasformazione in interrogatorio nei tribunali e sposterei tutto sul concetto di colloquio: ma sempre, non solo all’esame. Trovo molto utile che gli studenti dialoghino sull’attualità, sui problemi, sulla cultura, su Pascoli e Verga (o Caproni), ma vorrei che questo fosse il sistema, non il lampo di giugno. Trovo plausibile che le materie di indirizzo vengano testate in rapporto alle reali competenze acquisite. Ma vorrei qualcosa di più strutturato e organico di un esame sulle “varie de eventuali” alla fine di una scuola legata a rigidi ordini del giorno (le materie) così come le ha codificate Gentile al tempo del fascismo. La pandemia e la risposta della scuola a quella tragedia mi avevano fatto sperare nella ricerca di una nuova linea pedagogica. Il flusso mediatico dei pensieri (oramai tutti resi pubblici, questo incluso) mi fa ritenere che si continuerà ad essere valutati durante l’anno sulla battaglia del grano e nell’esame di stato su qualcos’altro di cui in classe non si è riusciti a parlare mai perché si doveva ascoltare la lezione sulla battaglia del grano. Non ho grande passione per le nozioni e il nozionismo testato da domandine, ma non credo si possano eliminare i problemi della pedagogia e dell’apprendimento con esami finali fatti sulle “varie ed eventuali”.




Istruzione: un nuovo contratto sociale

di Giovanni Fioravanti

La vulnerabilità era un sentimento privato frutto delle nostre fragilità biografiche, ora, dopo la pandemia e con la guerra alle porte di casa, è divenuto un sentimento collettivo che insieme all’incertezza per il futuro ha investito sempre più il nostro presente.

L’UNESCO ne ha fatto il tema dominante del suo ultimo rapporto: Reimagining our futures together: A new social contract for education”.
Reimmaginare il futuro e per questo è necessario un nuovo contratto sociale per l’istruzione, un’istruzione che è ancora troppo fragile come ha dimostrato la pandemia, durante la quale 1,6 miliardi di studenti in tutto il mondo è stato privato della scuola.

Sono 75 anni, da quando è stata fondata, che l’UNESCO produce i suoi rapporti per ripensare il ruolo dell’istruzione nei momenti chiave della trasformazione della società.
Dal rapporto della Commissione Faure del 1972 Learning to Be: The World of Education Today and Tomorrow, al rapporto della Commissione Delors nel 1996, Learning: The Treasure Within.
Di fronte a gruppi di insegnanti e associazioni che ancora sfornano manifesti per rivendicare il passato anziché il futuro, per difendere cattedre e discipline, viene da chiedersi quanto i professionisti dell’istruzione nel nostro paese possano essere culturalmente sensibili agli stimoli che il nuovo rapporto dell’Unesco fornisce, siano disponibili a ridiscutere le presunte certezze fin qui accumulate.

Il sistema va rivisto, ed è urgente, perché l’istruzione è questione che non riguarda più solo la nostra classe, il nostro paese, è questione mondiale e quando saliamo in cattedra non è che la porta dell’aula si chiude al mondo, al contrario si apre al mondo e di questo come insegnanti portiamo la responsabilità. Ma non sembra esserci sintonia tra tanta parte degli insegnanti delle nostre scuole e la necessità per il futuro che le nostre aule e le nostre scuole non solo siano costruite, ma soprattutto vissute in modo diverso.

Si parla di istruzione come se i paradigmi non fossero cambiati, come se l’istruzione permanente praticata come richiesto dai documenti dell’Unesco non avesse dovuto rimettere  in discussione tutto l’assetto dei nostri sistemi formativi e il ruolo professionale dei docenti.
Ora l’Unesco suggerisce di fondare l’istruzione su un nuovo contratto sociale il cui punto di partenza sia una visione condivisa degli scopi pubblici dell’educazione a partire dai principi fondamentali e organizzativi che strutturano i sistemi formativi, il lavoro per costruirli, mantenerli e perfezionarli.

Nel corso del XX secolo, l’istruzione pubblica è stata essenzialmente finalizzata a sostenere la cittadinanza nazionale e lo sviluppo della scolarizzazione di massa attraverso l’istituzione della scuola dell’obbligo. Oggi, tuttavia, mentre affrontiamo gravi rischi per il futuro dell’umanità e per lo stesso pianeta, dobbiamo reinventare urgentemente l’istruzione per poter affrontare le sfide comuni. Il diritto all’istruzione, come sancito dall’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non è più sufficiente. Deve continuare ad essere il fondamento del nuovo contratto sociale per l’istruzione ma occorre arricchirlo, ampliarlo al diritto all’informazione, alla cultura e alla scienza, nonché al diritto di accedere  alla conoscenza, alle risorse del patrimonio di conoscenza collettiva dell’umanità accumulato nel corso delle generazioni che si sta trasformando continuamente.

Sostenibilità, conoscenza, apprendimento, insegnanti e insegnamento, lavoro, abilità e competenze, cittadinanza, democrazia e inclusione sociale, istruzione pubblica, istruzione superiore, ricerca e innovazione costituiscono le voci vertiginose della lista, i temi critici che richiedono di essere profondamente ripensati per il futuro.

Il rapporto dell’Unesco guarda al 2050 ponendo tre domande essenziali relative all’istruzione: Cosa continuare a fare? Cosa abbandonare? Cosa inventare di nuovo in modo creativo?

Non dà risposte, ma fornisce le coordinate per pensare in modo diverso all’apprendimento, alle relazioni tra studenti e insegnanti, alla conoscenza e al mondo.
Didattica, curricoli, valutazione, insegnanti e insegnamento, scuole, opportunità educative, ricerca e innovazione.
Nulla di nuovo, ma dovremmo metterli nero su bianco, dare loro la consistenza di un nuovo contratto sociale, un riconoscimento normativo da cui non è possibile prescindere per chi mette piede nelle nostre scuole, nelle scuole di un nuovo contratto per l’istruzione.
Deve essere prescritto che a scuola istruzione e apprendimento si praticano attraverso la cooperazione, la collaborazione e la solidarietà, attraverso la compassione e l’empatia, la capacità di lavorare insieme, di immaginare e di trasformare il mondo, la cultura e il sapere per promuovere le capacità intellettuali, morali e sociali di ragazze e ragazzi. Deve essere prescritto che a scuola si va anche per disimparare, disimparare pregiudizi e divisioni, disimparare le lezioni ex cattedra, i compiti e i voti, per apprendere invece a valutare come promuovere la crescita  e l’apprendimento significativo per ogni studente.

Curricoli per contrastare la diffusione della disinformazione attraverso alfabetizzazioni scientifiche, digitali e umanistiche che sviluppino la capacità di distinguere la falsità dalla verità. Enfatizzare l’apprendimento ecologico, interculturale e interdisciplinare in modo da supportare gli studenti nell’accedere e nel produrre conoscenza, sviluppando allo stesso tempo la loro capacità di critica e di applicazione. I programmi di studio devono abbracciare una comprensione ecologica dell’umanità (già Edgar Morin ci invitava a questo) che riequilibri il modo in cui ci relazioniamo con la Terra come pianeta vivente e nostra casa. Cittadinanza attiva e partecipazione democratica devono essere promossi e praticati nei contenuti, nei metodi e nelle politiche educative.

Reimagining our futures dell’Unesco propone un profilo professionale dell’insegnante come produttore di conoscenza e figura chiave della trasformazione educativa e sociale.
Ma l’insegnante reimmaginato per il futuro non è quello che siede in cattedra e chiude la porta dell’aula. Al contrario la collaborazione e il lavoro di squadra devono caratterizzare la professione docente, la riflessione, la ricerca e la creazione di conoscenze e nuove pratiche pedagogiche debbono diventare parte integrante dell’insegnamento.

Occorre valorizzare pienamente l’autonomia e la libertà dei professionisti dell’istruzione,  che non possono continuare ad essere muti spettatori, ma farsi attori pienamente protagonisti partecipando al dibattito pubblico e al dialogo per il futuro dell’istruzione.
Le architetture scolastiche, gli spazi, gli orari, i gruppi di studenti devono essere riprogettati per incoraggiare e consentire alle persone di lavorare insieme, per affrontare sfide ed esperienze non possibili altrove, le tecnologie digitali devono mirare a supportare e non sostituire le scuole.

Scuole come siti educativi protetti, grazie all’inclusione, all’equità e al benessere individuale e collettivo che ne costituiscono la ragione d’essere. Scuole reinventate per promuovere al meglio la trasformazione del mondo verso un futuro più giusto, equo e sostenibile.
Il diritto all’istruzione deve essere ampliato per durare tutta la vita e comprendere il diritto all’informazione, alla cultura, alla scienza e alla connettività.

Un invito alla ricerca e all’innovazione. Le università e gli istituti di istruzione superiore devono essere attivi in ​​ogni aspetto della costruzione del nuovo contratto sociale per l’istruzione nelle loro comunità e in tutto il mondo. Università creative, innovative, impegnate a rafforzare l’istruzione come bene comune hanno un ruolo chiave da svolgere nel futuro dell’istruzione, dal sostegno alla ricerca, al progresso della scienza, all’essere  partner che contribuiscono all’arricchimento e all’aggiornamento dei programmi educativi nelle loro comunità.

È essenziale che tutti possano partecipare alla costruzione del futuro dell’istruzione: bambini, giovani, genitori, insegnanti, ricercatori, attivisti, datori di lavoro, leader culturali e religiosi. Abbiamo tradizioni culturali profonde, ricche e diversificate su cui costruire. Gli esseri umani hanno una grande capacità di azione collettiva, intelligenza e creatività da spendere. Ora ci troviamo di fronte a una scelta seria: continuare su una strada insostenibile o cambiare radicalmente rotta.

Tornando alla scuola di casa nostra, ce n’è quanto basta per reimmaginare il nostro futuro e scrivere un nuovo contratto sociale per l’istruzione, ma a guardarci attorno mancano le parti che sembrano guardare altrove o comunque incapaci di trovare la rotta da seguire. L’Unesco ce ne offre una. La speranza è che da qualche parte non ci si limiti a procacciarsi l’etichetta di patrimonio dell’umanità, ma si leggano anche i rapporti dell’Unesco che suggeriscono come far crescere per il futuro il patrimonio umano di cui portiamo la responsabilità.