Clotilde Pontecorvo, studiosa di psicologia dell’educazione

di Pietro Netti

Qualche giorno fa ci ha lasciati Clotilde Pontecorvo, maestra, studiosa e ricercatrice, tra le più importanti esperte italiane ed internazionali di psicologia dell’educazione e di processi di apprendimento.
Nata a Roma, scampata bambina alle persecuzioni nazifasciste, nel 1959 aveva conseguito la Laurea in Filosofia alla Sapienza con una tesi sul liberalismo politico di Benjamin Constant.
Professore emerito dell’Università Sapienza di Roma dal novembre 2009.
Fino ad allora era stata Professore di Psicologia dell’alfabetizzazione e di Psicologia dell’interazione discorsiva presso il medesimo ateneo.
Dal 1998 Ordinario di Pedagogia all’Università di Salerno e di Roma, dal 1976 al 1983 di Psicologia dell’Educazione.
Dal 1984 al 1997 è stata, nei due trienni 1983/1985 e 1997/2000, Direttore del Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione dell’Università degli Studi di Roma “Sapienza”.
E’ stata coordinatrice dell’ESF Network on Writing and Written Language.
Promotrice infaticabile della collaborazione tra università, insegnanti e scuole, ha ispirato la migliore politica scolastica degli ultimi 40 anni, esaltando in particolare la scuola dell’infanzia e la primaria.
Fondamentale il suo apporto ai lavori della commissione ministeriale che ha redatto gli indimenticabili e per molti versi insuperati Orientamenti per la Scuola dell’Infanzia del 1991.
Tra i molti temi di cui si è occupata nei suoi studi le modalità di acquisizione della lingua scritta, lo sviluppo di concetti sociali attraverso la discussione, i rapporti tra argomentazione e pensiero in contesti educativi, familiari e scolastici, il curricolo e lo sviluppo cognitivo in diverse aree, sulla formazione degli insegnanti, sulla continuità educativa.
Numerosi i libri e le pubblicazioni di cui è stata autrice. Tra gli altri: “La scuola come contesto. Prospettive psicologico-culturali” (Carocci), “Famiglie all’italiana. Parlare a tavola” (Carocci), “Psicologia dell’educazione” (Giunti), oltre a più di 200 articoli in svariate riviste internazionali e nazionali, capitoli in testi collettanei e circa 30 monografie.




Divari territoriali, valutazione senza voti, bocciature

Stefaneldi Stefano Stefanel

In questa fase della scuola italiana, che coincide con l’avvio del PNRR, sulla scuola si stanno abbattendo alcuni dibattiti solo apparentemente distanti tra loro, che ruotano tutti attorno ad un’unica “ragione sociale”: selezionare o includere. Tutto quanto viene discusso, però, lo è in maniera un po’ convulsa e non sempre gli obiettivi del sistema sembrano essere chiari a tutti.

Per i così detti divari territoriali un congruo numero di scuole ha ricevuto complessivamente 500 milioni di euro dallo stato (circa 250.000 euro a scuola), con uno stanziamento comunicato a giugno, quasi come un fulmine a ciel sereno, visto che le scuole nulla avevano chiesto. Anche i parametri indicati dal Ministero, per decidere il finanziamento, hanno individuato situazioni di criticità non ritenute critiche da molte scuole e hanno fatto pervenire cospicui finanziamenti per sanare situazioni problematiche che alcune scuole non ritenevano di essere tali. In attesa delle Linee guide sull’argomento sono però già trascorsi quasi cinque mesi dall’invio della comunicazione e l’anno scolastico 2022/23 ha già percorso un tratto della sua strada. In questo clima e con il passaggio del ministero alla destra si sta sviluppando anche un dibattito sul voto numerico e la sua eliminazione, sul concetto di valutazione formativa in contrapposizione a quella sommativa. La valutazione attraverso voto numerico e il concetto stesso di bocciatura (ripetere nell’anno successivo tutto quello che si è fatto nell’anno precedente) vanno nella direzione di aumentare i divari territoriali e la dispersione e dunque un ragionamento sulla valutazione sta in stretto rapporto con gli elementi da introdurre per recuperare questi divari.

L’impostazione solo numerica della valutazione nella scuola secondaria italiana aiuta a combattere la dispersione o la genera? Su questa domanda sono sorte varie teorie ed opinioni, a partire da quelle che nasce nella scuola primaria a seguito della trasformazione della valutazione numerica in valutazione i obiettivi – e non di materie – attraverso livelli e non voti.

Un altro elemento interessante da analizzare è quello relativo alla possibilità che i divari territoriali si sanino con un maggior numero di bocciature e di studenti insufficienti, cioè se i 500 milioni di euro possano servire per mettere in sicurezza una parte degli studenti non curandosi degli altri. Questo potrebbe portare ad una sorta di corso di recupero generalizzato e di massa che supporti gli studenti che si collocano a vario titolo nell’ambito della dispersione, attraverso un tentativo generico di risollevare il sistema dell’istruzione con metodi tradizionali.

Tutto questo, però, ruota attorno all’idea che il numero sia l’unico modo per valutare e che le verifiche tradizionali (compiti in classe e interrogazioni) ancora svolgano la loro funzione pedagogica e formativa. Non credo che, in questa fase, sia utile addentrarsi troppo in considerazioni di pedagogia generale, perché alla fine il PNRR porterà a valutazione dei risultai raggiunti non da parte del sistema scolastico italiano, ma da parte dell’Unione Europea. Se i soldi spesi per recuperare i divari territoriali non li avranno recuperati ci sarà stato solo un travaso di risorse su venditori ed almanacchi per un tentativo (a quel punto non riuscito) di raggiungere l’obiettivo della diminuzione della dispersione. Non credo che questa sia una strada realisticamente percorribile. Non potrà restare tutto così com’è, questo almeno dovrebbe essere chiaro.

Allora resta solo la messa in atto di strumenti, strutture e didattiche che puntino a rafforzare gli elementi positivi degli studenti deboli, per far salire il rendimento generale attraverso una modifica strutturale della didattica di fascia bassa. Credo sia necessario cancellare dalla scuola italiana l’idea che possa esistere una scuola attraverso cui si forniscono conoscenze, abilità e competenze uguali per tutti gli studenti e che questi poi vengano sottoposti ad una semplice fotografia in cui alcuni hanno raggiunto risultati soddisfacenti e altri no, quasi che il ruolo dell’insegnante sia solo quello di trasmettere e misurare.

Un piano che vada a coprire i divari territoriali deve porsi dalla parte dei più deboli per vedere come può farli diventare più forti, partendo dall’idea preliminare che non sempre il più debole è in grado di mettere in campo strumenti personali e sociali utili a costituire una solida base di apprendimento. Detto in termini “western spaghetti” molto spesso il ragazzo debole, che studia poco, è disinteressato e demotivato non è “buono”, ma è proprio “brutto e cattivo”. Se, però, vogliamo eliminare i divari territoriali dobbiamo addentrarci tra i “brutti e cattivi” dove è difficile produrre grandi cambiamenti, ma può essere interessante cementare apprendimenti (anche tecnici e pratici e non solo teorici).

Nell’immediato la strada più semplice ed efficace mi pare quella che procede attraverso quattro passaggi:

  • analisi dei (pochi) punti di forza e dei (molti) punti di debolezza degli studenti deboli o in dispersione;
  • predisposizione di Piani di apprendimento personalizzati (quindi percorsi totalmente autonomi ed individuali, non un abbassamento dei livelli o degli obiettivi) che rafforzino i punti di forza e semplicemente presidino in forma essenziale i punti di debolezza
  • valutazione dell’anno scolastico centrata sui punti di forza e non sulla situazione generale dello studente
  • azione orientativa per l’uscita dal primo ciclo dell’istruzione o per l’uscita dal sistema dell’istruzione verso il mondo del lavoro.

Si tratta di agire su base sociale e pedagogica per avviare lente modifiche in parti complesse del sistema, con l’idea che il cambiamento della didattica impone un’idea pedagogica e non disciplinare di apprendimento. Su questo, però, le associazioni culturali e professionali sono chiare: oltre un certo limite non si può e non si deve scendere, perché altrimenti non si insegna più la disciplina, ma si fanno azioni pedagogiche e formative generiche. Ecco che allora diventa necessario verificare con attenzione se tutto quello che si insegna nella scuola secondaria deve essere necessariamente imparato da tutti: perché se è così quelli che impareranno tutto diminuiranno sempre di più e quelli che impareranno poco o niente aumenteranno sempre di più.

Parafrasando potremmo dire “che cento latini fioriscano, che cento matematiche gareggiano”, cioè che si vada verso la didattica di discipline che raggiungono una parte di popolazione in maniera profonda e approfondita e una parte di popolazione semplicemente con una infarinatura culturale. Nella vita degli adolescenti e dei ragazzi si deve fare strada un rispetto per il generalismo e al tempo stesso una possibile apertura verso il disciplinare di medio e alto livello. Proviamo a declinare un paio di domande e un paio di risposte:

  • quante matematiche si devono sviluppare in una classe dunque?
  • quante servono
  • quante matematiche sono possibili?
  • infinite

Tutto questo è possibile? Con il Piano Rigenerazione scuola, il PNRR- Futura, il Piano Nazionale Scuola Digitale sì, ma per farlo bisogna rispettare il passato, non trattarlo da presente, perché non c’è più. Quindi le scuole davanti al problema di come ridurre i divari territoriali dovranno scegliere se prendere la strada della pedagogia o quella delle discipline. Davanti all’obiezione: come si può fare pedagogia senza discipline? la risposta è molto semplice: la pedagogia è pedagogia di discipline, ma le precede, non può semplicemente essere uno stratagemma per definire il concetto di recupero.

Qui sta l’elemento più difficile da progettare e attivare: slegare il concetto di corso o attività di recupero a quello di azione per il recupero dei divari territoriali. I divari sono una cosa seria, il recupero fatto dalle nostre scuole spesso non lo è. E non lo è non per carenza di mezzi, impegno, passione, interesse per gli alunni, ma per carenza di pedagogia, quasi che un argomento spiegato al pomeriggio diventi più semplice da comprendere dello stesso argomento spiegato al mattino. Qui forse è il caso di entrare nel merito del concetto di “spiegato”. Spiegare vuol dire ampliare, cioè collocare la meta-conoscenza (spiegazione) sulla conoscenza, quasi che la seconda sia per sua natura più semplice e comprensibile della prima. Quindi lo spiegare amplia e produce i risultati che tutti consociamo: ottimi su alcuni alunni, medi o mediocri su altri, pessimi su una parte sempre crescente di alunni. Agire pedagogicamente significa saper scegliere e selezionare cosa “spiegare” cosa “piegare”, cioè cosa trasmettere per sintesi e cosa per estensione, cosa è essenziale e cosa non lo è, cosa serve a chi tende al massimo e cosa serve a chi non tende da nessuna parte.

Credo che le scuole farebbero bene a lavorare in rete e a costruire solidi team progettuali con la consulenza di esperti esterni in linea con il progetto della scuola. Serve, penso, un po’ di umiltà e capire che chi è finito in un divario territoriale farà bene a non cercare di chi è la colpa (la scuola tende comunque a dire degli studenti che non studiano come si deve, delle famiglie che non fanno più il loro dovere, del digitale imperante), ma a capire con chi allearsi.

Concludo indicando il luogo dove trovare la linea per comprendere come eliminare i divari territoriali, l’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030: “Obiettivo 4: Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.  In questa splendida definizione non c’è la parola uguaglianza (che piace tanto alla nostra scuola a livello di enunciazione ma non di fatti) ma ci sono altre parole chiave:

  • Educazione di Qualità (don Lorenzo Milani: “non c’è ingiustizia più grande che far parti uguali tra diversi”)
  • Educazione Equa (il Maestro Antonio Manzi: “quello che può fa, quello che non può non fa”)
  • Educazione Inclusiva (Edgar Morin: “servono teste ben fatte, non teste ben piene”)
  • Opportunità di apprendimento per tutti (John Dewey: “Una società consiste di un certo numero di individui tenuti insieme dal fatto di lavorare in una stessa direzione in uno spirito comune, e di perseguire mire comuni “).

 




Alla scoperta dell’intimità

di Giuliana Sarteur

Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione per l’importanza dell’educazione sessuale;
se ne sostiene fermamente l’inizio in età precoce a seconda dello stadio di sviluppo
dei bambini e degli adolescenti.
Un inizio precoce ha il vantaggio che i bambini e gli
adulti possono trovare gli argomenti meno imbarazzanti.
Il concetto fondamentale pare essere quello di salute sessuale che non comprende
solo contraccezione e prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale, ma
conoscenza del corpo e dei messaggi che esso invia.
Nel percorso educativo di formazione ed informazione spesso dimentichiamo i nuovi
connotati tecnologici della società: quella in cui oggi viviamo è la società dello show
continuo: siamo famosi se siamo visibili, continuamente connessi.
Allora diventa importante e necessario riparlare di intimità, di cura delle emozioni, del tempo da
dedicare alle attività e alle relazioni.
Se tutto diventa fluido, accessibile, possibile; se non esistono limiti e divieti non si attivano i percorsi trasgressivi ed esplorativi dei giovani verso l’attivazione della propria indipendenza e delle proprie fantasie.


In adolescenza è indispensabile sognare e desiderare una propria sessualità, un percorso che va maturato nella mente prima che diventi azione, pensarla prima che diventi una sperimentazione concreta.
Così, come ho già avuto modo di scrivere, è importante essere complementari ai genitori che non sempre hanno tutte le conoscenze indispensabili che i ragazzi devono acquisire: più informazioni rendono i ragazzi consapevoli e meno vulnerabili.
Questa nuova realtà tecnologica con cui i ragazzi vengono a contatto, spesso troppo presto, ha modificato la relazione con il gruppo dei pari con cui è sempre bene confrontarsi nel percorso di crescita. Un minore che naviga su internet può avere le abilità tecniche per gestire la tecnologia, ma non la maturità e le competenze emotive per scegliere in autonomie le scelte da fare
Quando sono davanti al computer basta un clic per interrompere la connessione e far sparire la relazione, tutto più facile, ma molto superficiale; tutto più accessibile senza controllo come la pornografia.
Perchè oggi i giovani vi si avvicinano così precocemente?
Non è solo la facilità di accesso; tutto ciò che doveva essere nascosto è attaccato frontalmente, visibile, è il superamento dei limiti del pudore.
Così il corpo femminile accessibile a tutti, sottomesso e disponibile: la pornografia è un danno per l’immaginario erotico. La donna nella pornografia ha sempre un ruolo passivo e sottomesso, un oggetto di piacere e non un soggetto con cui entrare in relazione.
Nel dialogo con i ragazzi dobbiamo sostituire la parola sessualità con sensualità
perché è li che avviene l’incontro, la scoperta, la soddisfazione reciproca e la ricerca
del piacere per l’altro.
La parola d’ordine per i ragazzi e i giovani che si avvicinano ad una relazione anche sessuale è intimità: vuol dire prendere tempo, non avere fretta, coltivare la tenerezza, non rinunciare ai sogni perché un mondo troppo razionale non da nè felicità né intimità.
Seduzione e complicità creano la relazione.
Alcuni appunti per i genitori: siate consapevoli delle esigenze dei vostri ragazzi, siate presenti da subito e responsivi alle loro domande, fate educazione affettiva e sessuale fin da piccoli e date
l’esempio con la vostra costante presenza.
Ad un giovane, ad una giovane ai primi rapporti non chiediamo se ha usato il preservativo (certo che lo utilizzano) bensì se è felice, così sapremo condividere e superare il normale e legittimo imbarazzo.




Portfolio e pregiudizio

di Marco Guastavigna

Lo dico spesso, forse troppo: io ho avuto la fortuna di cimentarmi con un percorso formativo, culturale e professionale lontanissimo dalla mia laurea in Lettere, nel 1975, il cui unico (ed esclusivamente funzionale) passaggio tecnologico fu la battitura a macchina della tesi di laurea in bozza, con successiva normalizzazione in copisteria.

L’incontro con i dispositivi digitali avvenne dopo e per caso: a scuola c’erano un collega e uno studente dotati di Spectrum Sinclair e sotto casa aprì un negozio – siamo a metà degli anni ’80 – che vendeva Commodore 64. E così ho cominciato l’esplorazione, che continuo tuttora: cercare senso e significato con valenza intellettuale, politica e didattica analizzando e valutando aspetti operativi e cognitivi. E rifuggendo dagli slogan del pensiero unico della mistica dell’innovazione, la peggior forma di dominio tecnocratico possibile.

In quegli inizi accadde però un episodio che avrebbe dovuto mettermi sull’avviso su ciò che mi aspettava: ero in una scuola media, nell’aula degli audiovisivi, attigua a quella dove erano collocati un paio di C64 e alcuni Olivetti M24, quando entrò un’ausiliaria che non mi aveva mai visto prima. Vedendomi trafficare con quegli oggetti mi disse: “Lei deve essere il nuovo insegnante di educazione tecnica”. Non ricordo se delusi questa fortissima e limpida convinzione, ma l’aura che emanavo allora mi ha perseguitato per tutti i decenni successivi.

È mia abitudine, per esempio, iniziare i laboratori universitari in cui lavoro a contratto domandando quali siano le aspettative rispetto al percorso. Accanto a chi mi guarda stranito, non avendo ancora una confidenza personale tale da consentirgli di esclamare: “Ma quali vuoi che siano?”, ci sono puntualmente coloro che dichiarano: “Io non sono per niente tecnologic* e nutro un po’ di timore sui miei possibili risultati”. Dentro questa ricorrente autovalutazione vi sono tutte le componenti di un bias diffusissimo e – colpevolmente – trascurato.
Da una parte si fanno coincidere tutte le “tecnologie” (compresi libri, quaderni, matite, penne, occhiali, automobili, biciclette, monopattini, distributori di bibite e così via) con i dispositivi digitali. Dall’altra si attribuisce a questi ultimi una valenza totemica, assoluta e indiscutibile, alla quale ci si deve iniziare avvalendosi di ermeneuti a ciò consacrati.

Questo approccio ha numerose implicazioni negative, che impediscono alle persone di diventare davvero autonome.
In primo luogo, un’impostazione mnemonica, meccanica e addestrativa degli apprendimenti, in piena e assurda contraddizione con il design cognitivo e commerciale delle interfacce, a impostazione prevalentemente visiva, fortemente intuitive, che dovrebbero invece invogliare a esplorare e sperimentare in prima persona.
In secondo luogo, l’acquisizione stentata di un gergo balbettato e del tutto approssimativo, che anziché chiarire annebbia e confonde, partorendo espressioni come “laboratori di informatica”, “DAD” e “DID” nell’istruzione o “corsi di informatica” nella formazione dei nonni e degli anziani in genere, e la rinuncia a priori a costruire un lessico davvero condiviso, basato sulle effettive possibilità di impiego in un contesto definito.
In terzo luogo, la cultura della delega all’esperto (o presunto tale) locale, le cui conoscenze e competenze personali diventano le regole generali, indiscusse e indiscutibili del comportamento di gruppo, generando situazioni paradossali, come quella dei corsisti che accendono i dispositivi su cui dovrebbero imparare e devono invece attendere un bel po’ di tempo che i personal computer terminino il lentissimo aggiornamento di sistema che il “guru de noantri” ha deciso monocraticamente – e misteriosamente – di impostare come automatico.
In quarto luogo, ciò che mi preoccupa di più: i singoli e i gruppi che preferiscono il limbo della dipendenza e della necessità di ricorrere alle opinioni o agli interventi pratici altrui piuttosto che affrontare la fatica di un processo emancipatorio, di acquisizione di consapevolezza e di capacità critica.
Con i tempi che corrono e considerata la pervasività dei dispositivi digitali in ogni aspetto della vita quotidiana, questa scelta di subalternità configura una rinuncia attiva alla piena cittadinanza.




Cinema e linguaggi

di Giancarlo Cavinato

Nella pedagogia Freinet, nel quadro dell’uso di una vasta pluralità di linguaggi e di codici,  l’uso didattico dell’immagine e del film ha avuto un posto fondamentale accanto alle biblioteche di lavoro e agli strumenti di stampa. Freinet aveva realizzato i primi filmini amatoriali utilizzando una cinepresa e un  proiettore Pathé.

Michel Mulat, dell’ICEM (Institut coopératif d’école moderne), sta facendo presso l’Università di Nizza e per conto dell’associazione Les Amis de Freinet costituita da anziani insegnanti Freinet di diverse parti del mondo un prezioso lavoro di restauro e documentazione di film e video prodotti nelle classi Freinet (riferimenti e informazioni: michel.mulat@cvc-freinet.org )

Purtroppo molti filmati d’epoca sono andati perduti o distrutti o sono irrecuperabili. Michel ha restaurato un film cult sull’episodio, citato ne ‘i detti di Matteo’, del cavallo che non ha sete. Il testo è tradotto in varie lingue, e letto da insegnanti dei diversi movimenti.

Le cheval qui n’a pas soif

Ce film culte de Freinet est une allégorie qui devrait être vue par tout éducateur qui se réclame  de la pédagogie Freinet.

Le commentaire qui accompagne ce film est difficilement compréhensible même pour les francophones.

La restauration de l’image de ce film est achevée. Nous souhaiterions en profiter pour le traduire  en toutes langues.

Le texte intégral et les consignes sont  accessibles par lien.► CLIC
Traduisez le dans votre langue et  prenez le temps de l’enregistrer et de nous adresser le son ► CLIC.

(Questo film cult di Freinet  un’allegoria che dovrebbe essere vista da ogni educatore che fa riferimento alla pedagogia Freinet. Il commento che accompagna il film è danneggiato e difficilmente comprensibile.
Il restauro delle immagini è stato completato. Chiediamo di tradurlo in tutte le lingue. Il testo integrale e le consegne sono accessibili tramite il link. Chi traduce dovrebbe registrare e inviare il sonoro)

Nel sito degli Amis de Freinet vengono via via collocati filmati recuperati e restaurati realizzati dai ‘pionieri’. https://asso-amis-de-freinet.org/index.php/
Nel sito  archives-freinet.org  si possono visionare produzioni di diversi periodi e classi; il link invia a  delle tabelle dove le produzioni sono indicate per titolo o per tema.

Un archivio che viene via via arricchito anche attraverso incontri che Mulat organizza nell’ambito della proposta CVC – classi virtuali cooperative. Nella sezione dedicata a tali classi sono visibili i filmati nella parte ‘Réalisations’ (menu verticale).

Si tratta, come è per diverse produzioni della Bibliothèque de classe cartacea, spesso di video e proposte realizzate dagli/con gli alunni stessi, il che è ben diverso dal proiettare in classe prodotti preconfezionati facendone oggetto di lezione con le LIM.

Ad esempio sono raccolti video su: autobiografie, guide per i corrispondenti (un’interessantissima esperienza di una classe di scuola dell’infanzia di Nizza che accoglie i corrispondenti di una classe prima in visita alla città e li guida alla scoperta dei luoghi più significativi. Ma… i corrispondenti scompaiono. Dove andare a cercarli?); mappe e guide per orientarsi; ricerca d’ambiente; il mio quartiere; ‘confinati’: una classe cooperativa virtuale antivirus; mostra dei lavori nella stazione;…

Produrre e inviare i propri filmati a classi corrispondenti è un’attività che ‘allena’ a un uso critico e attivo dei media.
E avere a disposizione una cineteca storica e attuale è una fonte di risorse indispensabile per gli insegnanti.

Un esempio di filmato.
https://archives-freinet.org/portraits/14-audet




Contro la meritocrazia e per la giustizia a scuola

di Raimondo Giunta

La giustizia a scuola è oggi l’unica ragione della sua esistenza.
La scuola pubblica deve formare cittadini uguali, con uguali chances di partecipare alla vita pubblica, economica e sociale.
Il problema della giustizia a scuola è quello dell’accesso libero e paritario al sapere e alla conoscenza da parte di tutti i giovani.
Il sapere, il patrimonio collettivo di esperienze e conoscenze consegnatoci dalle generazioni precedenti è al servizio di tutti e non di pochi privilegiati. La conoscenza e il sapere sono, devono essere un bene pubblico e un bene pubblico per definizione non può essere posseduto da pochi.
E questo postulato non si deve dimostrare, altrimenti non si capisce perché si debba mantenere e finanziare un sistema pubblico di istruzione.
Contro l’ideologia del merito ci si deve battere, perché a scuola si possano ancora fare scelte di giustizia.

Ne cito qualcuna:
1) Ogni giovane, qualunque sia la sua origine sociale, deve riuscire ad affrontare gli altri su un piano di parità
2) La scuola deve offrire ad ognuno la possibilità di realizzare il suo potenziale umano per vivere secondo il principio di dignità
3) Nessuno deve restare indietro. Nessuno deve uscire dal sistema scolastico, senza il bagaglio necessario di competenze per non essere emarginato e vivere una vita dignitosa
4) La scuola non deve contribuire ad aumentare le differenze di riuscita tra individuo e individuo
5) Quelli che sono allo stesso livello di talento, di capacità e hanno lo stesso desiderio di utilizzarli devono avere le stesse prospettive di successo senza tener conto della loro posizione sociale.
Per trattare le persone in modo uguale, per offrire una vera uguaglianza di opportunità, la società e la scuola devono consacrare più attenzione agli svantaggiati, quanto ai doni naturali, e ai più sfavoriti socialmente per nascita.
“Un’eredità ineguale di ricchezza non è intrinsecamente più ingiusta di un’eredità ineguale di intelligenza” (J.Rawls).
Per essere giusto un sistema scolastico dovrebbe contrastare le disuguaglianze che conducono alla marginalità sociale.

PER ALTRI ARTICOLI SUL TEMA DEL MERITO VAI ALLA PAGINA DEDICATA




Educazione del lavoro

di Giancarlo Cavinato

Gioco e lavoro: una contrapposizione?

La polemica di Freinet è rivolta a una concessione eccessiva  alla vita dell’infanzia a un gioco totalmente gratuito libero da ogni responsabilità. Una fase della vita diversa da ogni fase successiva, in cui esercitare la propria ‘fantasia’ senza obblighi e compiti.

Ai nostri tempi eravamo integrati, fin dalla più tenera età, nel lavoro ambientale. […]Il lavoro si trovava al centro della nostra vita mentre il gioco era solo un accessorio e questa realtà aveva inevitabilmente la sua risonanza sullo stesso lavoro scolastico. La trasformazione è stata totale nel corso di questi ultimi decenni. Non c’è più il pericolo che si chieda ai bambini qualche servizio prima che partano per la scuola. Gli abbiamo preparato le fettine imburrate; li facciamo perfino mangiare il fretta. Li vestiamo; gli infiliamo il cappottino e i genitori li portano a scuola in auto. Quando usciranno, non avranno altra preoccupazione che quella di giocare, aspettando il pranzo. Anche nelle famiglie meno agiate non sempre si chiede ai ragazzi di aiutare a lavare i piatti[…]E da questi ragazzi che sono stati formati a giocare, che hanno disimparato il lavoro a tutto vantaggio di una pericolosa e passiva facilità, si esigerà, quando la porta della scuola si sarà chiusa, che lavorino tutta la giornata, senza sapere perché si trasformino così, bruscamente, le regole di vita di cui avevano beneficiato.[…] Ascoltate le lamentele dei professori della secondaria: “I ragazzi non sono abituati a lavorare; sono  incapaci di iniziativa e di decisione .”.Essi sono ciò che han fatto una società e una scuola che hanno disimparato il lavoro.[1]

L’analisi di Freinet si concentra sul valore di socialità che il lavoro contribuisce a formare, sulla responsabilità, sul senso del bene comune in uno spazio pubblico dotato di laboratori, centri di produzione, ‘con gli arnesi necessari per un lavoro serio.’[2]

Freinet non mette in discussione le fondamentali analisi sulla funzione dell’immaginario e del gioco come anticipazione della vita adulta, così come le fondamentali conquiste dell’eliminazione del lavoro minorile, ma la dissipazione del tempo del bambino che si è venuta produrre nelle nostre società limitando lo sviluppo di una personalità sociale.

Le stesse riforme scolastiche che prevedono stage formativi e alternanza scuola-lavoro (con tutte le controindicazioni per la tutela dallo sfruttamento e la sicurezza) prevedono soluzioni individuali a un’organizzazione dei tempi di vita e di lavoro che deve essere sociale. Creare collaborazione, solidarietà, accordando al lavoro un posto  nella formazione di ciascuno. Costituire quello che Primo Levi nella ‘Chiave a stella’ definiva il laboratorio come  ‘cervello collettivo’. Tutt’altra cosa che una concezione di una ‘preparazione al lavoro’ in strutture esterne, ognuno con percorsi diversi. Una lettura distorta della necessità, a lungo rivendicata dalla pedagogia, di un rapporto organico fra pratica e teoria per una formazione unitaria degli individui, in realtà tradottasi in una subordinazione della scuola al mercato del lavoro.

In Freinet una componente decisiva della vita scolastica è costituita dalla cooperazione, alternativa alla competizione. Nei ‘Detti di Matteo’[3] Freinet paragona gli alunni ai corridori del Tour de France. Per la maggior parte dei corridori, non è la classifica finale che conta, eccezion fatta per alcuni privilegiati. ‘O i corridori prendono in qualche momento la testa del corteo e si classificano in un buon posto, o abbandonano. La corsa non ha per loro senso se non permette, almeno per un istante., di riscaldarsi al sole del successo e della gloria.[…] Che ciascuno dei vostri alunni possa anch’esso prendere a un dato momento la testa della squadra ed eccellere i n uno dei molteplici compiti che la scuola moderna offre ai suoi alunni…Vi sarà facile trovare trenta funzioni significative per i vostri trenta bambini…’

La pedagogia Freinet non sottovaluta la necessità dell’emulazione nel lavoro e dell’autovalutazione e della valutazione sociale, grazie a una serie di dispositivi di  organizzazione del lavoro, socializzazione del pensiero dei bambini, tecniche di riproduzione e diffusione del pensiero, ricerca.

Una scuola che si organizzi su questi criteri è una scuola di laboratori, di classi aperte per il lavoro di gruppo e la diffusione di una pluralità di messaggi, una scuola del lavoro che sa articolare momenti diversi e stimoli diversi in cui ciascuno si sperimenti con le proprie risorse e sperimenti compiti e funzioni diverse sottoponendosi a una disciplina di gruppo.  

Una evoluzione positiva di una scuola che non si fondi soltanto sulle eccellenze e sul merito a scapito del successo scolastico di tutti non può non tener conto del necessario superamento della divisione rigida tempi di vita-tempi di lavoro. Come rivendicano i NATs’ (niňos y adolecentes trabajadores), sindacati dei bambini lavoratori dell’America Latina,  ci vuole un tempo per l’educazione e la cultura, un tempo per il lavoro e le condizioni di una vita dignitosa, un tempo per il relax e il riposo.

Come introdurre nella scuola un autentico rispetto dei bisogni, degli interessi, dei diritti dei ragazzi e nello stesso tempo garantire condizioni l’assunzione di forme di responsabilità e di cura del bene comune? Dice Freinet: ‘Organizzate il lavoro in maniera cooperativa, suddividendo i vari compiti e, soprattutto, adottate la pratica del giornale murale e della riunione cooperativa del fine settimana.[4]

Usando quali oggetti organizzatori e di pianificazione delle attività la conversazione, il consiglio di cooperativa. il testo libero, l’assemblea. Diversificando attività tempi ritmi uso degli spazi così da aprire la scuola alla realtà dove si svolgono attività funzioni e si risponde ad esigenze diverse, in cui non vige l’omogeneità continua.

L’esigenza è quella giungere a una disciplina del lavoro così come viene praticata in tantissime scuole moderne dove gli alunni, attratti da un lavoro che s’inserisce nella loro vita, prendono coscienza della necessità di una disciplina funzionale che non è né licenza né oppressione, bensì realizzazione di  un modo di vivere individuale e collettivo quasi ideale.’ [5]

NOTE

[1][1] Freinet C. La scuola del fare (2002), Junior, Bergamo, pp. 29-32 ‘Insegnare il lavoro’
[2] Op. cit.
[3] Freinet C., I detti di Matteo, (1956), La Nuova Italia, Firenze
[4] Freinet C. La scuola del fare, p. 260
[5] Freinet C. op. cit., p. 122