Un’educazione nuova per il XXI secolo?

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Enrico Bottero

Gli educatori della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova, riuniti in Congresso a Nizza nel1932, redassero una Carta che iniziava con queste parole: “L’attuale crisi impone a tutto il mondo di concentrare gli sforzi nella direzione di una rinnovata educazione. In vent’anni l’educazione potrebbe trasformare la società e infondere uno spirito di cooperazione capace di trovare soluzioni ai problemi del nostro tempo. Nessuno sforzo nazionale è sufficiente per raggiungere questo risultato.
La Lega Internazionale per l’Educazione Nuova rivolge un appello urgente ai genitori, agli educatori, agli amministratori e agli operatori sociali affinché si uniscano in un vasto movimento universale. Solo un’educazione che realizzi in tutte le sue attività un cambiamento di atteggiamento nei confronti dei ragazzi può inaugura-re un’epoca liberata dalla rovinosa competizione, dai pregiudizi, dalle preoccupazioni e dalle miserie che caratterizzano la nostra civiltà attuale, caotica e insicura”.
Quegli educatori, pur molto diversi tra loro, credevano che solo una nuova educazione avrebbe potuto formare cittadini aperti al mondo, tolleranti e solidali, evitando così nuovi sanguinosi conflitti.
Avevano una forte visione provvidenziale, poi, purtroppo, smentita dagli eventi successivi. Oggi, dopo quasi un secolo, abbiamo meno certezze sulla possibilità di cambiare il mondo grazie all’educazione e tuttavia quelle parole ci interrogano ancora.

Questo articolo è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista Encyclopaideia.
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La pedagogia per amica

di Raimondo Giunta

Quand’ero studente di filosofia a Padova guardavo con sufficienza la pedagogia, perché pensavo che dovesse interessare i maestri elementari o i futuri direttori didattici, ma non gli studenti che avrebbero dovuto insegnare storia e filosofia nei licei.  Non mi aiutava a cambiare opinione nei confronti di questa disciplina l’avversione viscerale verso il cattedratico che ne teneva le lezioni, per la sua esibita alterigia accademica.
Quando venne la stagione della libertà dei piani di studio non mi sembrò vero che potessi togliermi dai piedi la pedagogia.
La sostituii con filosofia della religione.

L’insegnamento alle medie mi ha costretto ad una rapida inversione di rotta; non ho avuto giorni migliori e più felici di quelli trascorsi con i ragazzi che andavano dagli undici ai quattordici anni e per come sono fatto, per non perdere tempo e per fare nel modo migliore il mio lavoro, mi sono messo subito davanti testi di didattica, di pedagogia, di psicologia, di linguistica, di storia delle istituzioni scolastiche, di sociologia dell’educazione.
Sono stati anni ti travolgente entusiasmo e di fervide letture.
Ho incominciato seriamente a chiedermi quali fossero le finalità del lavoro che facevo, come sarebbe stato giusto farlo, che cosa ne doveva essere dei ragazzi delle mie classi. Mi ponevo queste domande ogni volta che mi scontravo con una difficoltà o con un problema imprevisto. Erano i ragazzi senza prerequisiti; erano i ragazzi stanchi per il lavoro fatto nei campi; erano i ragazzi che non volevano starci a scuola; erano i ragazzi che non avevano a casa tempo, spazi e modi per imparare; erano i ragazzi di famiglie numerose che non ci credevano; erano i ragazzi che si distraevano e quelli che provavano vergogna per come si sentivano, per come erano vestiti e per come erano giudicati. Da tutti mi dovevo fare capire; da tutti mi dovevo fare accettare e da tutti qualcosa dovevo ottenere.

Ero senza mestiere e ho capito che dovevo costruirmelo subito e da solo, ma avevo passione e fantasia da vendere nel lavoro e i ragazzi venivano a scuola perché gli leggevo e raccontavo storie interessanti, perché comprendevo i loro errori, perché rispettavo i loro tempi, perché per ognuno avevo un gesto di attenzione, un sorriso, una battuta. Andavo per tentativi e poi ci ragionavo.
Penso che il compito della pedagogia sia quello di accompagnare, sostenere, illuminare la fatica di fare crescere le nuove generazioni. Credo che la pedagogia si ponga come aiuto alla definizione delle finalità educative e come sapere critico che interroga la congruenza tra fini proclamati e mezzi utilizzati nelle esperienze formative. Non so se sia molto, nè se con questi convincimenti abbia superato la mia giovanile diffidenza; ma poco o tanto che sia questa specificità andrebbe difesa e richiesta, perché senza la buona pedagogia il lavoro a scuola diventa una faticosa routine senza orientamento.

Si diceva con convinta superficialità “rem tene, verba sequentur”, che bastasse, cioè, una solida preparazione disciplinare per fare bene a scuola. L’insegnante, però, non deve sapere solo cosa deve insegnare, ma anche come si deve insegnare; deve sapere chi sono i suoi allievi, di che cosa hanno bisogno, in che genere di famiglia e ambiente vivono. La cura degli allievi, l’attenzione ai loro processi di crescita non sono azioni possibili “del” e “nel” rapporto educativo, ma atti dovuti. Senza di essi non si genera formazione, non si genera crescita umana.

Per molto tempo con superbia intellettuale questi aspetti della funzione docente sono stati giudicati inessenziali, non pertinenti come il possesso di un sapere specialistico. Si è espunto come superflua la dimensione affettiva e valoriale. Si è insistito e si insiste ancora nella scelta di formalizzare un processo dinamico, complesso, emotivo, ricco come quello del rapporto educativo. Con l’ausilio della sola professionalità e della propria competenza disciplinare, anche se irrorate da un forte senso del dovere e dall’etica del conoscere, nei nostri giorni l’insegnamento rischia di essere sterile o di conseguire risultati modesti. Non si va molto lontano quando la persona dell’alunno non è al centro dell’attenzione e il principio-guida dell’attività formativa. Se anche il sapere, la disciplina scolastica fossero le uniche ragioni che spiegano e fondano il rapporto docente-alunno, lo scopo della formazione non è quello di sottomettere la natura indocile dell’alunno al sapere, ma quello di fare diventare “sapiente” l’alunno indocile.

A poco a poco mi sono convinto che è opportuno liberarsi dal fastidio e dalla diffidenza nei confronti della pedagogia e di tornare a familiarizzare con i suoi richiami ai temi etici e alla responsabilità educativa del docente. Mi sono convinto che tutto ciò può convivere col modello di professionalità proposto negli ultimi decenni e che questo è l’unico modo per non farsi sfuggire di mano il controllo del mondo, su cui gli insegnanti sono chiamati a intervenire. C’è stato molto lavoro sulle tecniche, sull’organizzazione didattica, sulla metodologia; ce n’è stato poco sui valori fondanti e condivisi dell’educazione dei giovani. La pedagogia aiuta a riflettere sulle relazioni tra docenti, alunni e sapere; mette sotto osservazione le relazioni umane e anche l’enciclopedia dei saperi di un curriculum scolastico, perché anche con l’esperienza dei saperi si costituiscono gli orientamenti delle proprie condotte e la visione della vita.

Non penso che della pedagogia si possa fare scienza, come si pretende di fare ogni volta che ci si imbatte con una disciplina umanistica, pensando di conferirle una maggiore dignità epistemologica.
Ci sono modi e modi di essere critici, di non sprofondare nel dogmatismo. Provvisorietà e fluidità sono i caratteri intrinseci di tutte le discipline umanistiche. Fluidità vuol dire problematicità; la stabilità dei concetti inconfutabili non viene reclamata nemmeno nelle scienze cosiddette esatte. Nelle discipline umanistiche la stabilità è quella costituita dalle convenzioni, dall’accordo più ampio possibile. Bruner ne “La mente a più dimensioni” esalta la natura negoziale, euristica, transazionale dei concetti delle scienze sociali e umane. ”Se qualcuno si chiede dove risiede il significato dei concetti sociali, nel mondo, nella mente di chi li pensa o nella negoziazione interpersonale, non potrà rispondere se non che la risposta giusta è quest’ultima. Il significato è ciò su cui possiamo convenire o perlomeno ciò che possiamo accettare come base di lavoro per la ricerca di un accordo sui concetti in questione”.
E ancora sempre nello stesso testo: ”Il linguaggio dell’educazione se vuole essere uno stimolo alla riflessione e alla creazione di cultura non può essere il cosiddetto linguaggio incontaminato dei fatti e dell’oggettività”.

Si fa spesso della buona pedagogia raccontando esperienze più che elaborando teoremi. Esperienze che possono essere di successo, ma anche esperienze di fallimenti.  Si impara molto, andando a scrutare il senso delle scelte fatte, analizzando la logica dei comportamenti messi in atto dai protagonisti, valutando la natura dei mezzi adoperati e quella dei risultati ottenuti.
”La lettera ad una professoressa” della SCUOLA DI BARBIANA, diretta e ispirata da Don Lorenzo Milani, appartiene a questo genere di letteratura e non casualmente ha affascinato e trascinato la generazione di nuovi docenti che si affacciava sulla scena della scuola italiana alla fine degli anni 60 e negli anni ‘70.

Vedo la pedagogia come sapere autonomo che si avvale di molteplici apporti interdisciplinari; nè ancilla della filosofia quanto ai fini, nè delle varie sezioni della psicologia quanto ai mezzi, nè madre autoritaria di ogni metodo didattico, ma capacità di riflessione sulle pratiche educative sulla base di criteri che non possono non essere che finalità di sviluppo umano e sociale. E se l’ordine dei fini ai quali attinge la pedagogia è collocato fuori dalle scienze, non per questo può essere discreditata, perché non può fare a meno di servirsene. La pedagogia come Pratica -teoria o Teoria-pratica dell’azione educativa. Non ha bisogno di dissolversi in psicologia applicata, nè allontandosi dal fatto educativo trasformarsi in antropologia o in filosofia morale. E in questo rapporto teoria-pratica che scaturiscono le invenzioni, le creazioni, che si rinnova l’insegnamento. Dopo tanti teorici dell’educazione per fare bene a scuola si può ragionevolmente attingere anche al sapere di chi ha fatto lunga esperienza di educazione. . .

La buona educazione scaturisce dall’azione sensata, alla cui origine si trova la fronesis di aristotelica memoria, il discernimento, non la scienza. Il rigore dell’azione educativa non deriva dal rigore del sapere dell’azione e questo dal rigore della scienza. Il come fare trova la sua verità nella coerenza dello stesso fare e non in saperi esterni che si proclamano scientifici. Non serve a molto perdere tempo per stabilire se la pedagogia debba essere una scienza.
E se per caso non lo possa essere, perché mai non dovrebbe essere utile? La pedagogia è una bella ed utile disciplina se i suoi concetti non pretendono di valere per sempre e in ogni situazione, se si convince che ogni sua congettura vale fino a prova contraria e le prove contrarie in educazione purtroppo si presentano anche quando nessuno se le aspetta.  Le buone idee si devono misurare con le ristrettezze della realtà e con i limiti che essa impone.

La buona pedagogia prima o poi si mette di traverso rispetto alle scelte amministrative e dell’organizzazione scolastica, perché è insita in essa un seme di utopia e di ribellione. Il destino pensato per gli alunni può essere, infatti, molto diverso da quello predisposto dagli assetti economico-sociali e dalle scelte politiche ad essi congruenti. E nella scuola dove non mancano i loro cantori, la buona pedagogia fa la guardia all’autonomia del pensiero, cerca di mettere in salvo l’umanità e i diritti degli alunni, soprattutto se sfavoriti, combatte la sua quotidiana battaglia per difendere la missione liberatrice della conoscenza e per mettere a nudo le mistificazioni di tante celebrate innovazioni.  Senza pedagogia è difficile cambiare ciò che l’educazione conserva e conservare ciò che con tanto impegno si è riusciti a cambiare.

“La pedagogia non è soltanto un’arte, una scienza e una filosofia. E’ una forma di vita, un mezzo di essere felice mediante la gioia di fare crescere i fanciulli, i figli degli altri” (M. Debesse).

 




Individualizzazione e personalizzazione, parliamone ancora

di Simonetta Fasoli

Sembra incredibile che il discorso sulla scuola debba ritornare ciclicamente sui medesimi argomenti, in un sortilegio temporale da cui è difficile emanciparsi. Ma tant’è. Succede che un ministro pro-tempore rilanci in grande spolvero il tema della personalizzazione, addirittura facendone il fulcro di provvedimenti che riguardano le politiche professionali e retributive del personale. Così è stato presentato ai sindacati, in sede di informativa, lo schema di decreto sugli aspetti e i criteri attuativi riguardanti le nuove funzioni (“funzioni”, si badi bene, non ancora “figure”…) del docente tutor e del cosiddetto “orientatore”. In questo contesto si inserisce l’affermazione del ministro Valditara, secondo cui “nella legge di Bilancio abbiamo ottenuto lo stanziamento di ulteriori 150 milioni di euro, che sono stati utilizzati per valorizzare il personale della scuola, per favorire una grande riforma che oggi abbiamo lanciato: quella della personalizzazione dell’insegnamento, che prevede l’introduzione del tutor nelle scuole e l’introduzione dell’orientatore, per dare ai nostri ragazzi prospettive di un percorso professionale e formativo che sia realizzante”.
Al solito, si nota una certa enfasi, che caratterizza del resto le comunicazioni dell’Esecutivo su tutta la linea. “Una grande riforma”? Mah…né propriamente riforma (chi ricorda i “Piani di studio personalizzati” dell’era Bertagna?) né tantomeno grande. Sarebbe raccomandabile una certa dose di prudenza in certe affermazioni.
Converrà dunque fare qualche puntualizzazione e proporre qualche riflessione, come antidoto agli entusiasmi governativi, prima che la macchina politico-istituzionale si metta in moto.
Per cominciare, suggerirei un ritorno ai fondamentali, cosa sempre buona e giusta sul piano del buon senso. Mi scuso anticipatamente di sottolineare quello che per gli addetti ai lavori dovrebbe essere ovvio…ma sbanalizzare l’ovvio è una buona strada per contrastare il “nuovismo”, sempre in agguato quando si tratta di scuola e più che mai con un governo impegnato ad accreditarsi all’interno (e all’estero…). Parliamo allora, ancora una volta, di individualizzazione e di personalizzazione: con qualche schematismo, certo, ma con un approccio utile, si spera, ad evitare polarizzazioni strumentali.
Didattica individualizzata. Cosa vuol dire, in buona sostanza, individualizzare? Vuol dire partire da obiettivi comuni definiti nel curricolo di scuola e nella programmazione di classe per diversificare i percorsi finalizzati al raggiungimento di quegli obiettivi. Obiettivi COMUNI, attenzione: vuol dire non astrattamente “uguali”, ma ponderatamente “equivalenti”.
Didattica personalizzata. Possiamo sinteticamente affermare che la personalizzazione consiste nel diversificare gli obiettivi, calibrandoli sulle caratteristiche dei singoli. La diversificazione dei percorsi non è in questo caso una scelta strategica per perseguire quell’equivalenza di cui si è detto, ma una caratteristica strutturale dell’azione didattica che, in quanto tale, è destinata a confermare le differenze.
Da questi sintetici riferimenti si può capire come ci troviamo di fronte a due distinte modalità di impostare l’azione didattica, che non sono intercambiabili nè tantomeno neutre sul piano delle visioni di scuola cui rimandano. Detto questo, sarei personalmente per sottrarci ad un’assunzione unilaterale dell’uno o dell’altro approccio, come sembra fare in questa fase la politica ministeriale: la scuola langue nell’indistinto ma muore di polarizzazioni. Il suo naturale sfondo culturale è di natura “compositiva” (et et) non oppositiva (aut aut): l’educazione, da cui trae ragione e senso l’istituzione della scuola, è in sé stessa dialogica, perciò postula la dialettica delle posizioni che si confrontano.
Dunque, cominciamo con il porre in questione la scelta governativa di correlare il profilo della funzione di tutor (e quella di orientatore ad essa strettamente connesso) alla sola personalizzazione, quasi fosse la chiave di volta dell’intera operazione: ne emerge una visione parziale e distorta del processo di insegnamento-apprendimento.
In questo mio contributo propongo invece di delineare un percorso unitario che coinvolga in un reciproco rimando i due termini astrattamente alternativi. Il punto è un altro: se possono essere presi in considerazione contestualmente, “come” stanno insieme? A me sembra che potremmo pensare all’individualizzazione come al dispositivo didattico approntato dal docente (o meglio, dai docenti nella loro corresponsabilità progettuale) dal versante dell’insegnamento; mentre la personalizzazione è la risposta individuale messa in campo dai discenti rispetto all’azione didattica, dunque si colloca essenzialmente sul versante dell’apprendimento. In questo approccio, le caratteristiche personali non sono cristallizzate ( e le differenze non si traducono in “dati” di natura, invalicabili e definitivi) ma diventano “modi” della risposta alla didattica individualizzata: modi destinati ad evolvere, se l’azione è efficace.
In definitiva, individualizzazione e personalizzazzione si pongono come epifenomeni dello stesso processo, così come è un processo l’insegnamento-apprendimento.
Raffinatezze da “pedagogismi”? Non direi…ma qui il confronto è aperto e legittimo. A me è sembrato utile entrare nel merito, perchè troppo spesso l’azione ministeriale-governativa dà per acquisite le sue premesse “teoriche” (in questo caso, l’idea onnipervasiva di personalizzazione) per l’urgenza di calarle nelle cosiddette “fasi attuative”: un modo per stemperare e annacquare il valore dirimente dei presupposti.
E’ evidente, infine, che non entro qui nel merito delle questioni di politica professionale legate alla funzione del docente tutor e dell’orientatore, che coinvolgono aspetti di assoluto rilievo, anche di natura contrattuale, quali le modalità di individuazione, l’organizzazione del lavoro e la salvaguardia delle prerogative collegiali. In altre sedi e con altro taglio tematico è possibile, anzi opportuno, affrontarli.




La scuola dei desideri è andata all’incontrario

di Raimondo Giunta

Della scuola si parla per dire come dovrebbe essere e quello che dovrebbe fare, dimenticando spesso di dire come veramente è e che cosa ragionevolmente si può realizzare, considerate tutte le sue vere condizioni. Forse è la natura stessa della scuola a favorire questo modo di impostare i discorsi, a spingersi costantemente, ingenuamente o maldestramente nel futuro e a sottovalutare il peso della realtà.  La scuola per statuto non può che lanciare lo sguardo oltre l’ostacolo, lavora in funzione di chi deve pensare al proprio avvenire ed è naturalmente proiettato verso il domani. La scuola ha coltivato sempre l’ambizione di potere dire di se stessa che cosa possa e debba essere; purtroppo oggi, più di ieri, la scuola non sarà come vorrebbe essere, ma come la vogliono gli altri, come la vuole la sua amministrazione. Sono evidenti le intenzioni di farne un’istituzione che replichi le scelte e i comportamenti del mondo economico- aziendale, elevato con animo subalterno a modello da imitare; è palese la volontà di piegarla alle esigenze di una società che pratica largamente la competizione, la discriminazione e la selezione sociale, la gerarchizzazione dei rapporti umani e sociali e che irride ogni forma di sapere che non abbia i crismi dell’immediata utilità.

Nell’organizzazione che si è voluto dare alla scuola l’accoglienza, il successo formativo, le pari opportunità, la partecipazione, il dialogo professionale, di cui si sono nutrite per molti anni le pratiche formative per l’impegno di tanta parte degli insegnanti, col tempo faranno parte delle retoriche da recitare, ma non avranno più incidenza nella quotidianità delle attività scolastiche. Saranno confinate nel mondo delle illusioni e dei pii desideri, di cui devono pascersi le rimanenti belle anime degli insegnanti.  L’organizzazione, si sa, modella le coscienze più di molte prediche pedagogiche. Oltre la sacralizzazione dell’organizzazione, il tema della rendicontabilità e la cultura del risultato sicuro e immediato sono stati i prestiti del mondo economico che con fatuo e indiscriminato zelo si è cercato e si cerca ostinatamente di impiantare nel mondo della scuola, stravolgendo il significato che possono avere questi stessi processi nella formazione, dove di sicuro e di immediato c’è molto poco e nel rendere conto non si possono trascurare le caratteristiche culturali e valoriali del contesto, i tratti costitutivi del sistema scolastico, la carenza delle risorse disponibili, le condizioni economico-sociali delle famiglie. Peraltro non si dà conto solo agli organi superiori, ma nei nostri giorni ad ogni gruppo di pressione che pretende qualcosa della scuola, non conoscendone spesso le modalità operative e le responsabilità istituzionali.

E’ venuta fuori negli ultimi anni una scuola impaziente e frettolosa, stiracchiata da ogni parte, quasi costretta a trascurare la dimensione educativa, che ha bisogno di tempi lunghi di elaborazione e di riflessione. Nè può essere taciuto che senza adeguata vigilanza, la cultura del risultato, costantemente professata e inoculata da parte dell’amministrazione, conduce alla costituzione di un modello di istruzione estraneo ai bisogni reali di formazione degli alunni, che sono contestuali al luogo, al genere, alla condizione sociale e alle tradizioni. La scuola è servizio alla persona e istituzione della società e queste funzioni si esprimono principalmente nella salvaguardia e nella trasmissione delle conoscenze, dei valori, della storia, della cultura, delle tradizioni accumulate nel passato. Nella trasmissione di questo patrimonio la scuola aiuta a definire nella coscienza dei giovani la continuità e l’identità della comunità d’appartenenza, diventa ancoraggio per la salvaguardia della civiltà. Trasmettere è associare una persona ad un percorso, ad una storia; è indicare la lunga vicenda della nostra libertà intellettuale; è fare partecipare all’avventura delle scoperte che ci hanno fatto crescere ed hanno allargato il nostro orizzonte. La funzione cruciale di ogni sistema di istruzione è proprio questa ed è irresponsabile alleggerirla per rendere la scuola ancilla docile delle ingiunzioni del sistema economico.

Negli anni passati si è proceduto a innovazioni curriculari senza adeguato e approfondito dibattito pubblico e non credo che si sia tenuto nel dovuto conto che le scelte effettuate su ciò che si debba insegnare nelle scuole non sono prive di importanza e di significato. A seconda di ciò che si insegna o non si insegna gli studenti acquisiscono diversi valori, diverse competenze sociali o economiche, diverse visioni del mondo. Si sta perdendo il senso del destino della scuola, della sua funzione conoscitiva e della sua funzione politica ed educativa. La scuola dovrebbe essere il luogo della riflessione e dei tempi lunghi e invece si cerca di praticare la soddisfazione immediata delle diverse pulsioni pubbliche che si scaricano dentro di essa. La scuola dovrebbe essere il luogo dell’appropriazione della conoscenza e dell’esercizio a saperla trasferire e invece si esercitano gli alunni alla ripetizione mnemonica e alla risposta immediata ai test da pubblicità o da propaganda. La scuola dovrebbe essere il luogo in cui si professa e si pratica la ricchezza della lingua scritta e strutturata e invece si riducono di numero le prove scritte di ogni genere e i tempi necessari per elaborarle come si deve. La scuola dovrebbe essere il luogo della costruzione del senso di comunità e invece con premi e cotillons si mettono gli uni contro gli altri sia gli insegnanti, sia gli alunni. Si dice società della conoscenza e si fa, invece, la scuola dove si è perduto di vista la funzione autentica della conoscenza, il senso dei saperi e della cultura.




Semi di fiori per farfalle

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone

Mi è sempre piaciuto lavorare con altre persone e da chi ho incontrato ho imparato tantissimo: fare scelte controcorrente e tuffarsi in avventure coraggiose, non temere i furti di ingegno e non invadere spazi altrui, ma anche accogliere la stima e la fiducia per costruire opportunità. Proprio per la gratitudine che sento per questi e altri apprendimenti, che sono stati vitali nella professione, vorrei provare qui a rilanciare il tema della collaborazione tra colleghi e professionisti e spargere semi per fiori che richiamano farfalle. Esiste davvero questo tipo di semi e il risultato è stupefacente. Li regalai la primavera scorsa ad una delle docenti più accogliente e integrante che abbia mai incontrato, e chissà, una delle prossime volte vi racconterò anche cosa stiamo combinando insieme!

Intanto vi vorrei segnalare come nei contesti scolastici e sanitari stia avvertendo folate di demotivazione, disinvestimento emotivo, ansia gestionale, cinismo, finanche disperazione. Dopo anni silenti, descritti soprattutto attraverso termini come flessibilità, liquidità, mobbing, molestie sul lavoro, precarietà, nei contesti lavorativi oggi ricompare il termine burn out.
I giovani non sanno neppure di cosa si tratti ma noi ce lo ricordiamo bene! Una forma di esaurimento o surriscaldamento, legato ad una condizione di stress lavorativo protratto e intenso, che determina un logorio psicofisico ed emotivo associato anche a demotivazione, trascuratezza degli affetti e delle relazioni sociali, difficoltà di concentrazione, irritabilità, senso di colpa, mancanza di iniziativa, assenteismo. A livello fisico può manifestarsi invece con emicrania, sintomi respiratori, insonnia, inappetenza, disturbi intestinali, senso di debolezza.

Coniato nel 1974 da Freudenberger per indicare una sindrome caratterizzata da un particolare tipo di reazione allo stress; sperimentata dagli operatori sanitari e poi estesa ad altre categorie di “helping profession”, fra cui le professioni sanitarie: medici, psicologi, infermieri, operatori sociosanitari; venne studiato soprattutto negli anni ‘80 e ‘90 (Maslach e Jackson,1981). Poi si capì che riguardava anche tutto il mondo scolastico!

Tra le risorse per fronteggiarlo allora si enumerava soprattutto la formazione e infatti proprio in questi mesi stanno ripartendo mille progetti nelle aziende e non solo. La risorsa principe è sempre stata in realtà far gruppo o squadra, come si diceva negli anni ’90 (Quaglino, Casagrande, Castellano 1992). In sostanza si proponeva di reggere insieme le fatiche, scambiare strategie, creare soluzioni e sviluppare le potenzialità diffuse… ‘con-dividere’ cioè possedere insieme, partecipare insieme, offrire del proprio ad altri.

Azioni, competenze che sicuramente possono giocare un ruolo fondamentale in qualsiasi campo lavorativo, si sa; eppure, anche nella pratica didattica risulta difficile, talvolta, condividere con altri una propria esperienza o un proprio modo di fare. Entrano in gioco le nostre competenze sociali: saper avviare, sostenere e gestire un’interazione di coppia o di gruppo, spontaneamente e con continuità. Ciò che in realtà proponiamo e valutiamo anche nel lavoro con bambini e ragazzi!

Si tratta di competenze naturali ma anche oggetto di apprendimento, dunque, potenziabili attraverso attività che riguardano la percezione di sé, l’ascolto, la rappresentazione sociale, il gruppo. Questo per tendere a diventare un po’ come musicisti jazz che “ascoltandosi reciprocamente e ascoltando sé stessi, sentono in che direzione sta andando la musica e di conseguenza adattano il loro modo di suonare…” (D. A. Schön, 1983), cercano cioè di armonizzare la propria prestazione con gli altri, al fine di contribuire tutti al meglio all’opera che stanno producendo.

Questo, che sembra un atteggiamento quasi magico, è in realtà applicabile in ogni contesto lavorativo. Qualche anno fa ho partecipato ad un progetto[1], che ricordo spesso e a cui sono grata[2] ancora oggi. Un gruppo multiprofessionale nell’area canavese, cui partecipavano educatori, insegnanti della scuola d’infanzia, assistenti sociali, psicologi… Da che mi occupavo di formazione e supervisione, si trattava di una situazione pressoché unica nel suo genere!

Ci siamo conosciuti, abbiamo cercato di costruire un linguaggio comune, abbiamo discusso insieme di situazioni davvero complesse, condividendo tutto il possibile in termini di competenze e sapere, ci siamo sostenuti gli uni gli altri nei momenti più difficili (perdita del lavoro, smembramento di team, cambi di sede…) e sui temi più sfidanti (morte, abuso, dipendenze…). Un’esperienza di comunità scientifica[3] che ho sempre sognato di vivere e respirare.

Poi è arrivata la pandemia e allora ci siamo inventate un sostegno a distanza e abbiamo riflettuto su come stessimo vivendo un periodo così anomalo. Volevamo tornare nel mondo reale per cambiarlo almeno un po’ e far fronte con forza e coraggio ai prevedibili contraccolpi che sarebbero arrivati nel medio e lungo periodo. La speranza di poter eliminare il distanziamento era diventata quasi un’urgenza emotiva e cognitiva. Ma c’era anche il desiderio di reinventare l’essere educatori. C’era la consapevolezza di non voler scendere a compromessi, la fiducia nel cambiamento e la capacità stoica ed organizzata di reagire. Ci siamo salutate prima dell’estate e approfitto di questa sede per ringraziare ancora tutte e tutti!

Pensare a loro mi ha fatto ricordare come il primo gruppo di cui sia occupata veramente sia stato quello dei bambini e ragazzini del mio cortile. Nel turn over tra piccoli e grandi, per un’estate, ero rimasta l’unica un po’ più grande con una masnada variopinta di cuccioli. Ci siamo divertiti un sacco e si sa, anche in una sola estate, siamo cresciuti davvero tanto insieme.

Nella mia vita ho svolto davvero tanti mestieri, frequentato tanti contesti e tanti gruppi, crescendo ogni volta un po’. Il percorso con questo gruppo multiprofessionale del Canavese è stato tutt’altro che banale. Diversissimi ma uniti da un solo centro, i bambini, abbiamo ‘giocato’ insieme a lungo e con passione. E sono cresciuta ancora, perché dagli altri si impara sempre e dai bambini di più! Spero sia stato così anche per loro.

In un periodo storico di individualismo estremo, ho imparato di nuovo che insieme si arriva più lontano e si costruiscono cose nuove, che prima non c’erano. Ho imparato che ascolto a racconto viaggiano sempre insieme, che quando si sbaglia strada si può tornare indietro e ripartire, che è meglio se si fa a turno nel prendere la posizione di guida, che quando si brancola nel buio, ma si è in tanti, ad un certo punto arriva sempre qualcuno con un po’ di luce, con un sorriso, con una speranza, un’idea.

Buon lavoro e buona vita a tutte le farfalle con cui ho volato!

[1] Progetto Cipì – Canavese Insieme per l’Infanzia
[2] Ringrazio in particolare Reginaldo Palermo per avermi messo in contatto con questo prezioso Gruppo di Lavoro
[3] Alcuni di questi brani provengono proprio da quell’esperienza durata alcuni anni.




L’insegnante è come un regista, gli alunni sono gli attori

di Raimondo Giunta

Non c’è deduzione tra finalità educative e procedure didattiche ,ma ci sono tentativi e percorsi di avvicinamento.
I principi si possono incarnare in pratiche differenti, adattabili a contesti diversi e a diversi alunni, a diversi contenuti dell’apprendimento.
Questo non significa che si è liberi da qualsiasi vincolo di coerenza ,ma che bisogna con discernimento orientarsi verso quei modelli didattici ritenuti più adeguati alle situazioni date, sapendo in partenza che a-priori non ci sono metodi universalmente buoni e sempre efficaci.

Il problema non è quale pratica adottare, ma quali apprendimenti si devono conseguire e misurare su questi la pertinenza dei mezzi e delle procedure usati, tenendo presente che una pratica non può essere separata dalle intenzioni che l’animano e dal modo in cui viene messa in atto.

Ogni apprendimento impegna l’attività intellettuale di colui che apprende e ne porta il segno; ogni conoscenza è legata al contesto sociale e culturale in cui scaturisce e nei luoghi di formazione il protagonismo dei discenti e le pratiche sociali di cui è quotidianamente partecipe non possono essere trascurate.

L’alunno deve sentire come scoperta personale il possesso del sapere e “rapportarsi ad esso con uno spirito amichevole e curioso”(D.Nicoli).
E’ indispensabile fare almeno un tratto dell’itinerario intellettuale dell’apprendimento sul modello della scoperta, che nei luoghi scolastici non può che essere inquadrato, semplificato, didatticizzato; lontano comunque dall’insegnamento ex-cathedra.

“Imparare a essere scienziati non è la stessa cosa di imparare le scienze: è imparare una cultura con tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna”(J.Bruner).
Lavorare per enigmi, dibattiti, situazioni-problemi, piccoli progetti di ricerca, esperimenti comporta un radicale cambiamento dell’insegnamento.

E’ fondamentale per una buona formazione tenere sempre sotto osservazione il rapporto che si viene a istituire tra alunno e il sapere, per cercare in tutti i modi che non si frappongano ostacoli, remore di qualsiasi genere che possano determinare un atteggiamento difensivo, diffidente o cinico verso una disciplina, una nozione, un metodo, una posizione intellettuale (Ph.Perrenoud).

Per raggiungere questo risultato una buona scuola deve dare spazio alla negoziazione, al dialogo, alla riflessione perché in questo modo l’alunno può crescere bene e trovare fiducia nelle sue forze.

Ai metodi e ai modelli didattici si deve richiedere di favorire e di stimolare l’autonomia dello studente, di collocare l’apprendimento in contesti realistici, di agevolare la “costruzione” delle conoscenze entro una esperienza sociale di collaborazione con l’insegnante e con i pari, di promuovere e incoraggiare l’autoconsapevolezza nel processo di apprendimento.

Le nuove concezioni dell’apprendimento e la cultura pedagogica più attenta alle trasformazioni della società ridisegnano sia il ruolo del docente sia il ruolo dell’alunno.

Il docente diventa il regista del processo di formazione e gli alunni ne diventano gli attori.

Gli alunni responsabilizzati e coinvolti nel loro apprendimento possono diventare in alcune attività aiuto per l’insegnante ,risorse di apprendimento per i propri pari

L’insegnante favorisce la comunicazione interattiva tra gli alunni, valorizza i punti di forza di una prestazione; permette a tutti di esprimersi e ne apprezza i suggerimenti; valorizza la partecipazione e i contributi degli alunni, stimola con le sue domande e riporta a coerenza col modello didattico prescelto le attività che vengono svolte; favorisce l’identità e la consapevolezza individuale e dei gruppi di lavoro.

E’ presenza fondamentale nei momenti preliminari, e soprattutto durante l’attività didattica. E’ un ruolo di guida ,ma deve accettare che il centro dell’azione didattica si sposti dalla cattedra all’intera aula, che si instauri una forma di democrazia nelle relazioni pedagogiche. Non deve considerarsi un dispensatore di saperi, che spezza ogni giorno il pane della verità. Collocato in una comunità d’apprendimento assume il ruolo di adulto significativo, capace di mobilitare i talenti degli studenti in esperienze importanti, concrete, sfidanti che suscitano interesse curiosità e desiderio di apprendere.

Il buon esito del lavoro di formazione dipende dalla capacità dell’insegnante di testimoniare in modo convincente il proprio amore per il sapere, di costituirsi come modello plausibile di persona appassionata del proprio lavoro di studio e di ricerca.
Deve far vedere che ha in sé il fuoco che vuole accendere negli altri: fatto che oltrepassa la competenza didattica e interpella le altre sue dimensioni umane.

 




Figli rubati

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

Lavorando nelle scuole, mi è successo frequentemente di raccogliere i vissuti di impotenza di insegnanti ed operatori sociali rispetto alla tendenza di molti genitori a sottrarsi al proprio ruolo educativo, ludico ed affettivo. Ho avuto anche occasione, purtroppo, di confrontarmi con situazioni di ridotte o quasi assenti competenze genitoriali. Intendo quelle funzioni che secondo la metanalisi di Visentini (2006) sono otto: protettiva, affettiva, regolativa genitoriale, normativa, predittiva, significante, rappresentativa e comunicativa, triadica. Oggi le si può valutare in modo obiettivo (con test psicologici, colloqui clinici, osservazioni comportamentali, raccolta di informazioni) su mandato dell’autorità giudiziaria (M. Nicastro, G.B. Camerini) e i risultati sono a volte molto netti, possiamo dire dolorosi. Questo è sicuramente un problema di estrema complessità epistemologica e di altrettanto complessa risoluzione.

In questa sede però vorrei dar luce a situazioni diverse, meno evidenti, potremmo dire opposte, ma altrettanto significative per la ricaduta sui bambini e i ragazzi.

Uno degli apprendimenti più importanti fatti in questi anni di lavoro negli Sportelli d’Ascolto, riguarda l’importanza del ruolo delle famiglie all’interno del percorso di counseling, come pure nelle prese in carico degli adolescenti (Lancini 2020). Inizialmente si riteneva che lo spazio d’ascolto dovesse essere riservato soprattutto ai docenti ed ai ragazzi ma gradualmente ci si è accorti che qualcosa non stava funzionando…senza la collaborazione dei genitori veniva a mancare la continuità nel progetto educativo pensato per i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze.

Iniziammo a coinvolgerli con alcune conferenze sui temi dell’età evolutiva e gradualmente cominciammo a restituire l’esito delle nostre osservazioni, e dei dialoghi con gli insegnanti, anche ai genitori. Per qualche strana credenza inizialmente ci rivolgemmo soprattutto alle mamme, lasciandoci convincere del fatto che i papà non potessero essere presenti ai colloqui o addirittura non ne fossero assolutamente interessati. Fu proprio a causa delle situazioni più intricate e apparentemente senza via d’uscita, che decidemmo di tentare invece con quest’ultima opportunità e ci imbattemmo in una piacevolissima scoperta. Ai papà interessava, e non poco, delle difficoltà dei propri bambini e spesso disponevano anche di informazioni utili nella ricerca di strategie e soluzioni. Come ricorda Daniel Stern (2000) il padre, infatti, non è semplicemente la luce che illumina la diade madre-bambino ma è, assieme a loro, l’essenza di un quadro in cui ogni singola parte ha senso solo in relazione alle altre.

Quello fu uno dei casi in cui mi accorsi che troppo di frequente bambini, bambine, ragazzi e ragazze venivano ‘rubati’ in qualche modo ai propri genitori. Vi potrà sembrare un’espressione eccessiva ma credo in realtà possa esprimere una qual consuetudine a sottrare i piccoli alla relazione educativa ed affettiva con uno dei propri genitori o adulti di riferimento. Questo rischio ovviamente si amplificava nelle circostanze che potevano venire a crearsi a seguito delle separazioni, soprattutto quelle conflittuali.

Un altro caso analogo riguarda l’intrusione dei nonni nello spazio educativo che spetterebbe invece ai genitori. In diverse occasioni, proprio a partire da quelle conferenze, che si trasformarono in incontri di gruppo tra genitori, partecipai a racconti di incongruenze educative anche molto nette in comportamenti e atteggiamenti di genitori e nonni. Incontrai la fragilità di tanti genitori, soprattutto mamme separate, pressati dalle aspettative delle famiglie d’origine sulla crescita dei nipoti. Si trattava di genitori più o meno giovani, soggetti a costanti giudizi svalutanti, paternali circa le proprie dubbie capacità di guidare con polso i propri bambini, o di gestire l’articolazione tempo lavorativo e tempo familiare, sino alle scelte delle compagnie e dei percorsi scolastici. Sembrava difficile trasmettere loro la necessità di assegnare un termine, una scadenza ai mandati educativi dei nonni a favore di quelli genitoriali.

Non si tratta, in questi casi, di disconoscere il valore sociale, familiare, affettivo ed anche educativo dei nonni, segnalato tra l’altro in modo inequivocabile, oggi, dalla quantità e qualità di tatuaggi, ad essi dedicati, presenti sui corpi di adolescenti e giovani. Si tratta di collocarli proprio nella giusta proporzione e posizione nella gamma dei ruoli e delle figure cui i piccoli fanno riferimento per definire il loro progetto futuro. Ad ognuno il proprio posto. Riappropriarsi, o appropriarsi per la prima volta, del proprio posto di guida accanto a bambini e ragazzi richiede fiducia nelle proprie capacità e risorse. In questo possono avere un ruolo davvero significativo insegnanti e educatori, andando a svolgere un reale sostegno alla genitorialità, scambiando strategie e informazioni per sostenere la gestione prima di nanna, pappa, pianto, rabbia, ansia…poi per potenziare la capacità di ascolto dei bisogni, di sostegno dell’autonomia e dell’assunzione graduale di responsabilità in modo autorevole. Merita infatti ricordare che i bambini di genitori autorevoli sono i più capaci, poiché i genitori stabiliscono con loro un buon equilibrio tra controllo e autonomia, sono fiduciosi delle possibilità del proprio figlio, tendono a far sviluppare la loro indipendenza. In questi giorni nel racconto di una mamma, dopo tanta rabbia, ho finalmente trovato la volontà di voler ascoltare il proprio figlio adolescente fortemente in crisi, di volerlo sostenere e proteggere, persino dagli attacchi dei nonni aggrappati ancora all’idea di dover raddrizzare l’albero finché è piccolo, perché più cresce storto, più sarà difficile farlo dopo.

Nello slancio confuso d’essere d’aiuto, a volte con un po’ di avidità verso rapporti non vissuti in gioventù con i propri figli e magari con un sotterraneo desiderio di rimediare e riparare, questi nonni non si erano accorti di aver sconfinato.