Valutare uno studente e misurare un divario non sono la stessa cosa

di Stefano Stefanel

Il dibattito sul merito è subito scivolato sul de-merito. È di questi giorni lo scambio mediatico sull’uso dei voti inferiori al quattro, che ha avuto nel Ministro Valditara uno dei suoi protagonisti. La questione del demerito e dei voti inferiori al quattro rientra in quella passione tutta italiana per la docimologia del negativo che sta letteralmente facendo cadere la questione del merito nella gabbia (non salariale, ma non meno divisiva di quella) del de-merito. I sistemi scolastici più evoluti, come quelli nordici, tendono a diminuire l’esistenza o l’impatto delle valutazioni negative, perché fortemente interessati a quelle positive. Ma anche i sistemi scolastici più selettivi (come quelli dell’estremo oriente asiatico) utilizzano strumenti misurativi per selezionare in ingresso e poi impongono standard di rendimento altissimo, che vedono le valutazioni negative come semplici elementi di blocco al prosieguo degli studi.
Il sistema scolastico italiano invece si definisce inclusivo e ha come suo principale obiettivo la lotta alla dispersione scolastica, per cui non si comprende come la questione della docimologia del negativo venga posta in maniera così sommaria. Mi sfugge, cioè, come sia possibile pensare che uno studente in difficoltà riceva uno sprone a fare meglio da una serie 2 o di 3 dati con l’intento di punire incoraggiando, cioè creando un ossimoro valutativo-punitivo, che dovrebbe fare orrore a chiunque si occupi di pedagogia.


Il dilemma potrebbe essere anche questo: in quanto sistema scolastico quello italiano è interessato alla pedagogia o invece è più propenso a sposare il meccanismo che verifica l’effettiva trasmissione del sapere dalla “testa ben piena” del docente alla “testa ben vuota” dello studente attraverso sistemi misurativi tutti autoreferenziali e tutti per loro natura con tendenza misurativa-punitiva? Il discorso sulla pedagogia si frange contro quello del disciplinarismo, che vede nella pedagogia un elemento di diluizione della disciplina entro metodologie meta-cognitive che allontanano dal risultato cognitivo, elemento necessario per ogni competenza disciplinare. Però se manca l’attenzione alla didattica e alla pedagogia dallo schema didattica trasmissiva/misurazione docimologica non si esce.
Se proviamo a ribaltare la questione pedagogica una pratica interessante è certificare dopo attenta valutazione (non misurazione) se uno studente è in grado di essere valutato su un contenuto o su una abilità o anche su una competenza.
Se voglio assegnare un compito sulle frazioni o sulle derivate (in base all’ordine di scuola) dovrei prima accertarmi se lo studente ha compreso il concetto di frazione e le potenziali operazioni connesse o se ha compreso come ci si muove nelle derivate.
Altrimenti lo studente consegnerà il compito in bianco o cercherà di copiare. Questa certificazione in ingresso impone un’analisi attenta del processo di apprendimento degli studenti al fine della valutazione, non dopo la valutazione. Invece questa certificazione viene effettuata attraverso un passaggio semplice empirico privo di alcun valore scientifico: dato che l’insegnante ha spiegato le frazioni o le derivate questo costituisce di per sé elemento d’accesso alla verifica e quindi alla valutazione sulle frazioni o sulle derivate.
Io ci vedo un salto poco logico, ma forse perché mi occupo troppo di pedagogia e poco di discipline. Nell’ambito di questa impostazione misurativo/valutativo ecco che allora diventa logico accanirsi sulla docimologia del negativo, quella docimologia in cui il 3 è meglio del 2,5 e il 4/5 è peggio del 5. Se noi applicassimo questa mentalità – molto gettonata a livello scolastico e a questo punto anche ministeriale – ad esempio al salto in lungo avremmo giudici che perdono un sacco di tempo a misurare salti di atleti che non hanno raggiunto la sabbia con misure ridicole e inutili. Nel salto in lungo se il salto non è di almeno 3 metri non lo si misura, mentre nelle scuole italiane se il compito vale meno di 5 è tutta un gran misurazione in basso. Qualcuno dirà: ma la scuola non è il salto in lungo. Ovviamente, purtroppo.

Al di là delle paradossalità tutto questo confluisce verso un meccanismo perverso di raccordo tra misurazione e valutazione.
La valutazione molto negativa (quella di cui si è parlato, sotto il 4) se è una vera descrizione di livello e viene inserita in una media matematica non è migliorabile. Se il livello dello studente è 2 o 3 quello studente non sarà mai in grado di prendere 8 e 9 per bilanciare la media (un’insegnante mi ha detto: difficilmente sarà in grado anche di prendere 6) e quindi una misurazione molto bassa che fa media impedisce il recupero.
Se invece la valutazione molto bassa non fa media ma è solo la misurazione di una pessima prova o la punizione allora non si comprende perché venga data e a cosa serve, visto che un semplice 6 è in grado di cancellarla. Devo tornare al salto in lungo, purtroppo: pensate a una giuria fortemente impegnata a misurare i salti che non hanno raggiunto i tre metri e che quindi vanno misurati in pedana e non sulla sabbia e che sono più lunghi da rubricare, e che dica che comunque tutti quelli che saltano più di sette metri sono eccellenti e quindi vincono la gara a pari merito. Quella giuria verrebbe presa per una congrega di pazzi e tutti direbbero che non sono interessati alle misure basse, ma solo a quelle alte, che devono essere precise al millimetro, perché si vince il campionato del mondo o l’olimpiade anche per un centimetro o addirittura per meno. O pensate allo sci dove i migliori si devono misurare in forma elettronica, mentre i meno bravi si potrebbero misurare con un cronometro a mano. Si dirà ancora: ma la scuola non è il salto in lungo o lo sci. Ovviamente, purtroppo.

L’idea che la docimologia del negativo sproni al miglioramento si frange sui dati della dispersione italiana (ancora altissima) e sull’abbandono che conduce verso i due milioni di NEET, cioè dei giovani che dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano e sono tutti passati dalle nostre scuole.
La docimologia del negativo ha una semplice conseguenza: se lo studente è bravo e ottiene buoni risultati è merito dei docenti e della scuola, se i suoi risultati sono negativi è de-merito suo o della famiglia, o del web, o della società, o del degrado dei costumi. Diciamo che la scuola come tutti vuole privatizzare i profitti (buoni esiti merito nostro) e pubblicizzare le perdite (cattivi esiti de-merito degli altri).

In questa oggettiva confusione pedagogica si apre il grande problema del PNRR-Divari territoriali, del PNRR-Next Generation Labs e del PNRR Next Generation Classroom.
Dal punto di vista misurativo-valutativo gli esiti di questa enorme operazione solla scuola verranno verificati sulle presenze ai corsi, sugli acquisti effettuati dalle scuole e non sulla diminuzione dei divari e quindi sulla riduzione della dispersione. Anche in questo caso si da per scontato che il semplice accesso ad un servizio o ad un’attività produca di per sé un esito positivo in uscita. In realtà non può essere così, perché la differenza le faranno i singoli percorsi e il loro valore pedagogico. E lo faranno anche gli acquisti se messi a sistema con una nuova pedagogia.
In realtà mi sembra che molta scuola italiana sia molto concentrata sul merito che si misura in base al de-merito (cioè tutto quello che non è de-merito è merito, quindi tutti i salti dai tre metri in su sono “meritevoli”) e non mi pare ci si stia rendendo conto che una Ri-Generazione della scuola (terminologia ministeriale) parte solamente dall’idea che la scuola vada rigenerata, perché altrimenti continua a De-Generare. Se devo Ri-Generare qualcosa vuol dire che sta De-Generando, quindi una qualche idea sulla pedagogica come elemento di eliminazione o diminuzione dei divari ci dovrebbe essere. In realtà poiché noi valutiamo misurando (per lo più con una gioiosa attenzione al negativo) la pedagogia ci fa un po’ paura, perché a differenza della trasmissione impone che colui che insegna sia più interessato a quello che gli studenti apprendono piuttosto che a quello che gli studenti ascoltano.
Diciamo che se la mia squadra di salto in lungo fa troppi salti nulli devo allenarli meglio, non misurarli con ossessione sotto i tre metri. E devo cambiare qualcosa perché altrimenti sono costretto ad abbassare a due metri la base di misurazione. Anche qui c’è un’obiezione: ma la scuola non è il salto in lungo. Ovviamente, purtroppo.




I figli e gli allievi perfetti che vorremmo

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE


di Monica Barisone

Ci aspettiamo veramente tanto dai nostri ragazzi. Dovrebbero riuscire ad andare nelle scuole che noi non abbiamo frequentato, portare buoni voti col minimo sforzo, saper fare le scelte giuste già da piccolini, frequentare gli amici consoni a status e interessi, amare in modo equilibrato, essere sportivi con esiti eccellenti e almeno un po’ artisti. Si vorrebbe cioè il trionfo della prestazione sulla giocosità, dimenticando quanto quest’ultima sia di sostegno alle funzioni relazionali, sociali, affettive e cognitive (Di Quirico, 2016).

Che fatica per i figli! Che ansia dover a malincuore manifestare i propri limiti! Ai loro giovani occhi, i genitori, sembrano non reggere l’impatto con la realtà, con gli esiti medi o talvolta scarsi, dei nostri figli. Nella loro fragilità, i genitori credono ingiusti quei risultati modesti, incongrui rispetto all’impegno che si sforzano di impiegare nel garantire le condizioni ritenute ottimali per il loro sviluppo.

La preoccupazione dei ragazzi di oggi è quindi proprio quella di deludere tutti gli adulti di riferimento, genitori, insegnanti, allenatori…Le nuove generazioni non si ribellano, non fanno rivoluzioni. Il senso di inadeguatezza è a volte così bruciante da far pensare che l’unica possibilità di sopravvivenza sia il ritiro sociale.

Siccome per noi adulti possedere un lavoro oggi sembra ancora rappresentare l’unica competenza a vivere necessaria, nella manifestazione del valore personale dei nostri ragazzi tendiamo a porre al centro solo il rendimento scolastico e sportivo, unitamente alla loro competenza a socializzare. Timidezza e riservatezza sono bandite e considerate falle di produzione, dimenticando che, se queste caratteristiche umane sono sopravvissute nel tempo, significa che all’occorrenza potrebbero risultare delle risorse, ad esempio per proteggersi dai male intenzionati. Il mito odierno prevede che i nostri cuccioli e adolescenti siano soprattutto performanti ma questo significa anche sviluppare grandi competenze nella gestione dell’ansia. Queste però raramente gliele insegniamo!

Lo scorso anno mi è stato chiesto di fare un intervento in una classe III elementare proprio sulla gestione delle emozioni. Le insegnanti avevano intercettato segnali di fatica da parte dei bambini (tic, scatti d’ira, cefalee, minzione frequente…) a fronte dell’occorrenza di molte attività extrascolastiche svolte dai bambini ed elevate aspettative genitoriali.

Ho incontrato i bambini per capire di cosa avessero bisogno, quali emozioni li mettessero maggiormente in difficoltà e con grande disponibilità e generosità mi hanno parlato soprattutto delle loro ansie: la preoccupazione di non mettere nello zaino ogni mattina o sera tutti i materiali necessari e anche quelli imprevisti; il sentirsi in colpa per il mancato raggiungimento di risultanti vincenti nelle attività sportive, culturali e musicali, oltre che scolastiche; lo sgomento nel ricordare al risveglio o scoprire all’ingresso a scuola, di non aver svolto un compito.

Ci abbiamo lavorato insieme cercando di costruire strategie di fronteggiamento. Siamo partiti dalla presa di consapevolezza che non è sbagliato provare emozioni di disagio, ma è utile controllarle, cioè elaborarle e reagire in modo sano e utile. Nella classe solo una bambina ed un bambino disponevano già di pattern comportamentali appresi e, proprio grazie ai loro suggerimenti, è stato possibile riflettere insieme sulla possibilità di riprendere il controllo di sé stessi, di modificare le proprie reazioni[1], per esempio a partire dalle modalità che vengono utilizzate in famiglia o da compagni ed amici. Già con bambini di otto anni si può dunque affrontare con serietà e profondità la complessità della gestione delle emozioni.

Risulta invece sinceramente difficile, talvolta, svelare agli occhi ansiosi di mamma e/o papà, o disincantati degli insegnanti, la ricchezza di gesti, pensieri, emozioni, valori che animano questi cuccioli d’uomo ingaggiati nell’avventura della vita.

Anche nel mio lavoro di sportello d’ascolto con gli insegnanti, una delle fasi del colloquio di maggiore efficacia, risulta proprio essere quella della ricerca di ciò in cui il bambino riesce bene, è competente o risulta gratificato, o manifesta ambizione. Questi sono gli spazi del lavoro più produttivo perché portano a modificare l’immagine stessa che abbiamo della bambina o del bambino, ma anche della nostra relazione con lei o lui, e quindi persino l’immagine di noi stessi nella relazione con loro. Una magia miracolosa. Come sottolineava Alba Marcoli (2009), ‘la relazione genitori-figli (adulti-bambini) è un laboratorio’ naturale di ricerca quotidiana sull’esistenza, ‘che trascende le singole età, culture, storie di vita e appartenenze sociali’. Ricordo ancora oggi una mamma che, commossa, era tornata in colloquio proprio per ringraziarmi di averle fatto scoprire chi fosse suo figlio: non era più il mostro che mi aveva descritto e che era arrivata al punto di detestare, ma un ragazzino affettuoso e disponibile a relazionarsi con lei! I loro occhi si erano incontrati e si erano visti l’un l’altra. Aveva vinto la curiosità di conoscersi davvero. Spesso smettiamo di guardare e vediamo solo difetti attesi perché temuti, familiari, irrisolti.

È che tutti, grandi e piccini, siamo fatti di pieni e di vuoti – come dovette ricordarmi un giorno l’insegnante di mio figlio – e questa regolare irregolarità è da sempre la nostra bellezza!

[1]Non rimuginare, abbandonare l’idea di dover controllare o risolvere tutto, tollerare l’incertezza, migliorare la situazione attuale.




Settanta anni fa moriva Maria Montessori: ma sulle monete troveremo Raffaella Carrà

di Alvaro Belardinelli
(articolo pubblicato per concessione dell’autore e del giornale dell’Unicobas)

Notizia del 6 settembre 2022: a rappresentare l’Italia in Europa e nel mondo, nel 2023 la Zecca dello Stato italiano conierà le monete da due euro con l’effigie di Raffaella Carrà (che RaiNews trionfalmente definisce “regina della TV” e “regina del tuca tuca”).
Brava persona, Raffaella Carrà: nulla da eccepire sulla sua professionalità di ballerina e cantante, nonché presentatrice televisiva e donna intelligente. Tuttavia, con tutto il rispetto per donne come lei, se ripensiamo ai tempi (dal 1990 al 1998) in cui le banconote da £ 1.000 riportavano l’immagine di Maria Montessori, qualche perplessità è inevitabile.
Sotto i ponti del Tevere, del Po e del Piave l’acqua continua a scorrere velocemente malgrado la siccità, e i risultati si vedono nella cultura e nella weltanschauung dello Stivale, i cui orizzonti si fanno sempre più angusti e pedestri.
Su monete e banconote della vecchia lira in centoquarant’anni abbiamo avuto i grandi della nostra Storia: Giuseppe Verdi, Maria Montessori, Camillo Benso conte di Cavour, Cristoforo Colombo, Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Giulio Cesare, Raffaello Sanzio, Michelangelo Buonarroti, Marco Polo, Vincenzo Bellini, Alessandro Volta, Gian Lorenzo Bernini, Caravaggio, Galileo Galilei, Guglielmo Marconi, Antonello da Messina, Tiziano Vecellio, Gian Lorenzo Bernini, Alessandro Manzoni.
Nomi e immagini che fanno l’identità di una nazione, la memoria storica di un popolo. Di un popolo che legga, s’intende, e che conosca il proprio passato. Di un popolo che abbia frequentato con successo la Scuola, e che della Scuola abbia compreso, con gratitudine, l’importanza.

La filosofa che educò a un “mondo nuovo” e senza confini

La Scuola, appunto: cui il nome di Maria Montessori è indissolubilmente legato. Filosofa, educatrice, neuropsichiatra infantile, medico, pedagogista, scienziata: Maria Montessori a quarant’anni era già una celebrità mondiale. “The most interesting woman of Europe” fu la definizione che ne diede il New York Tribune nel 1913 quando sbarcò negli U.S.A., accolta con rispetto e considerazione.
Molti sono da allora i personaggi celebri e celeberrimi allevati secondo il “metodo Montessori”. Gabriel García Márquez aveva studiato secondo i dettami della scienziata. Così anche Anna Frank, e molti altri. Come Friedensreich Hundertwasser, architetto, ecologista, pittore e scultore austriaco; Taylor Swift, attrice, cantante, cantautrice statunitense; Yo-Yo Ma, celeberrimo violoncellista d’origine cinese (Maria Montessori considerava la musica fondamentale per la crescita del bambino); Jimmy Wales, imprenditore, fondatore di Wikipedia; Beyoncé Knowles, attrice, ballerina, cantautrice; George Clooney, attore, regista e sceneggiatore, impegnato socialmente e per la pace.
Moltissime sono oggi le scuole Montessori nel mondo: una ogni dodicimila abitanti in Irlanda; una ogni cinquantottomila in Svezia; una ogni sessantottomila negli U.S.A.; una ogni settantunomila in Germania; una ogni settantaseimila in Olanda (paese ove la scienziata morì). Fanalino di coda (come spesso accade quando si parla di istruzione) l’Italia — dove il metodo nacque — con una scuola Montessori ogni quattrocentotrentamila abitanti.
Maria Montessori voleva educare i bambini a un “mondo nuovo” e senza confini: un mondo in cui ognuno si sentisse parte di un corpo unico, quello dell’umanità intera, che è sano se ogni sua parte è sana. Un concetto da medico: Montessori fu infatti una delle prime donne italiane laureate in medicina.
L’educazione montessoriana tende all’autonomia del bambino: perché «insegnare a un bambino a mangiare, a lavarsi, a vestirsi, è lavoro ben più lungo, difficile e paziente che imboccarlo, lavarlo, vestirlo». Educare è creare le basi di un’umanità nuova, perché «il bambino è insieme una speranza e una promessa per l’umanità». Promessa che si mantiene con l’amore: «Più dell’elettricità, che fa luce nelle tenebre, più delle onde eteree, che permettono alla nostra voce di attraversare lo spazio, più di qualunque energia che l’uomo abbia scoperto e sfruttato, conta l’amore: di tutte le cose esso è la più importante». Concetto che ritroviamo anche nella pedagogia libertaria del pedagogista scozzese Alexander Sutherland Neill (1883-1973).

L’educazione fondata sulla libertà

Partendo dallo studio dei bimbi con disabilità psichiche, Maria Montessori arrivò ad elaborare un pensiero pedagogico valido per tutti i bambini. Mirando all’educazione dell’autonomia del fanciullo, il suo metodo segue le inclinazioni del fanciullo stesso, assecondandole. Viene favorita e aiutata la concentrazione della volontà del bambino su uno scopo, mediante esercizi metodici per insegnare a dirigere la volontà stessa. Educazione motoria e intellettuale vanno insieme, conducendo l’individuo ad una crescita armoniosa. La disciplina comportamentale, dunque, non viene più imposta come fine a se stessa, ma diventa una scelta dell’individuo, cresciuto nella libertà ed allenato nella volontà.
Nata nel 1870 presso Ancona da una famiglia di solide tradizioni liberali e risorgimentali (il padre era mazziniano e massone, la madre ancora più progressista), Maria si trasferì molto piccola a Roma con i genitori. Fin da giovanissima mostrò spiccato interesse per le scienze e per la medicina. Si iscrisse a un istituto tecnico (scuola considerata allora inadatta al gentil sesso), e nel successivo percorso universitario dovette studiare tra l’ostilità e lo scetticismo di un ambiente accademico tutto al maschile. Nel 1890 si iscrisse alla facoltà di fisica e matematica, ma nel 1892 passò a medicina. Affinché questa scelta le fosse consentita, dovette prendere posizione il ministro dell’istruzione Guido Baccelli, precedentemente contrario a femminilizzare la professione medica.
Caparbia, emancipata, di idee femministe, Maria non si arrendeva davanti a nessun ostacolo per far quanto riteneva giusto.

Quando si credeva che una donna non può essere un genio

Capì che malattie come la tubercolosi e la malaria erano favorite dall’emarginazione sociale, e che pertanto la lotta contro di esse era compito dello Stato. Nel 1896 si laureò: terza donna italiana con laurea in medicina, fu la prima in Italia a esercitare la professione medica. Si dedicò ai malati psichiatrici (soprattutto bambini) in un’epoca in cui soprattutto la psichiatria era territorio maschile. Vedeva “una fiammella d’intelligenza” in ognuno dei suoi piccoli pazienti.
Conseguì quindi una seconda laurea in filosofia. Maria era la prova vivente di cosa la cultura può fare di una donna intelligente. Colpiva tutti la sua capacità di resistere come un uomo alla fatica, al ribrezzo, alle emozioni violente della pratica clinica; nonché la sua fattiva intelligenza di ragazza sola, in mezzo a tanti luminari della medicina: tutti uomini, e tutti convinti che non possano esistere donne di genio.
Giuseppe Sergi, fondatore della Scuola antropologica romana, nel 1893 (quando Maria aveva 23 anni) scrisse perentorio che non esistono “donne di genio”, perché la donna ha come tratto dominante l’”infantilità”. Una donna può al massimo partorire un genio, ma non esserlo lei stessa. Gli scienziati dell’epoca erano scientificamente convinti di tale sciocchezza.
Montessori fu tra le prime a chiamare, con grandissimo coraggio, simili castronerie “cattiva scienza”, e a confutarle proprio dal punto di vista scientifico, mediante argomentazioni tecniche aggiornate ed inoppugnabili: come per esempio il fatto che il “cervello più piccolo” delle donne è in proporzione alla minore massa del corpo, rispetto alla quale il cervello stesso femminile risulta addirittura maggiore di quello maschile!
Maria aveva ventisette anni quando s’innamorò del collega, ricercatore, psichiatra e psicologo Giuseppe Ferruccio Maria Montesano, di due anni più anziano, promessa della psichiatria infantile. Nel 1898 ebbe da lui il figlio Mario, che fu tenuto segreto — perché “illegittimo” — e affidato ad un’umile famiglia di Vicovaro, paesino presso Roma. Successivamente, però, Montesano accettò di sposare un’altra donna impostagli dalla propria madre. A quel punto Maria vestì a lutto e lo lasciò per sempre, provvedendo da lontano — autonomamente — al mantenimento di Mario, che avrebbe poi ripreso con sé quattordicenne, alla morte dell’affidataria, senza mai rivelargli — se non nel testamento — di esser la sua madre vera. Da questa sua esperienza nasceranno (nel 1904) le sue idee sul tema della maternità sociale e sulla necessità che siano le donne a scegliere il proprio compagno, nell’interesse dell’umanità futura.

115 anni fa il “metodo Montessori”

Il 1907 è un anno chiave: a trentasette anni, Maria Montessori apre la prima “Casa dei Bambini” nel quartiere operaio di San Lorenzo nella capitale, per bimbi dai 2 ai 6 anni. Nasce così il “metodo Montessori”, il cui ambiente è studiato per stimolare l’attività del bambino, libero di scegliere il lavoro che meglio risponda ai suoi bisogni del momento. In questo ambiente tutti i bambini sono liberi di muoversi per compiere i propri esercizi, senza disturbarsi a vicenda: la libertà diviene terreno di crescita, base indispensabile della realizzazione umana.
In seguito Maria comprende che il suo metodo può essere applicato anche ai ragazzi più grandi, e lavora per diffonderlo. Viene invitata in tutto il mondo per spiegarne l’essenza, e viaggia ovunque, mentre i suoi libri vengono tradotti in decine di lingue.
È a quel punto che entra in scena Benito Mussolini: il quale si incarica di valorizzare l’“italianissimo metodo” montessoriano, conferendo alla scienziata la tessera del Partito Nazionale Fascista nel 1926 come “membro onorario”. Seppur estranea al fascismo, Maria viene strumentalizzata come simbolo della “rivoluzione” fascista. Col Regio Decreto 781 del 5 febbraio 1928 nasce la Règia Scuola di Metodo Montessori per insegnanti, con sede provvisoria nel nuovissimo quartiere “Della Vittoria” in via Monte Zebio, nella scuola governatoriale “Ermenegildo Pistelli” (dedicata al noto filologo classico morto l’anno prima).
Presto però il Duce fiuta nella libertà insegnata da Montessori qualcosa di totalmente estraneo alla teoria fascista del “libro e moschetto”. Il controllo sulla Règia Scuola si fa asfissiante e sospettoso. Alcune insegnanti sono accusate di antifascismo. Inoltre, in aperta sfida col fascismo, nel 1932 a Ginevra Maria Montessori si esprime in favore dell’educazione alla pace, con parole (“un mondo nuovo per un Uomo nuovo”) certo non gradite al futuro “fondatore dell’impero”.
Nel 1933 Maria e il figlio Mario (ormai trentacinquenne, presentato sempre come “nipote” e anch’egli pedagogista) si dimettono dalla Règia Scuola, rompono col fascio e l’anno dopo riparano in Spagna. Mentre le scuole Montessori in Italia vengono chiuse, scoppia la guerra civile spagnola, e nel 1936 Mario imbraccia il fucile insieme a Nello Rosselli per difendere la Repubblica spagnola. Maria, già sessantaseienne, si rifugia in Olanda. Spostatasi successivamente in India, nel 1940 viene internata dagli inglesi perché di nazionalità nemica. Torna in Europa dopo la guerra, onorata ovunque fino alla sua morte nel 1952.

A settant’anni dalla morte di Maria Montessori, onoriamo la Carrà

Settant’anni dopo, la Zecca italiana sceglie di dedicare una moneta a Raffaella Carrà. Quanto conta nell’Italia di oggi la Scuola? Quanto la pedagogia? Quale visione del mondo, dell’umanità, della società, del futuro alberga nelle menti e nei cuori delle nostrane classi dirigenti? O meglio, esiste una tale visione? Esistono questi cuori e queste menti?
Come pedagogia sembra esistere solo quella sociale implicita: implicita nel fatto che gli insegnanti, considerati impiegati di serie C, vengono retribuiti come operatori ecologici (i quali, con tutto il rispetto, svolgono mansioni nobilissime, ma senza le responsabilità civili e penali degli insegnanti, e senza dover studiare molto per svolgerle). Una “pedagogia sociale”, quella dello Stato neoliberista italiota del 2022, il cui messaggio subliminale è: lo studio, l’impegno, gli ideali non servono a nulla. Lasciate ogni speranza o voi che studiate, che credete, che vi impegnate in qualcosa. Lasciate che a guidarvi, a governarvi, a comandarvi, siano quelli di sempre. Sarete ricompensati con spettacoli luminescenti, pieni di ballerine, cantanti, ricchi premi (disvalori, preconcetti, stereotipi, sponsor) e cotillon. I divi che più vi incanteranno saranno glorificati, santificati, iconizzati su monete, banconote, francobolli e monumenti. Perché molti servigi avranno reso alla Patria: primo fra tutti, quello di rendere il popolo bue ancora più bue.




“Scuola media unica”: sessant’anni portati male

di Giovanni Fioravanti

La scuola media unica ha sessant’anni, la legge istitutiva li ha compiuti il 31 dicembre scorso. Anche la sua gestazione è stata lunga, circa altri sessant’anni prima di vedere la luce. Nel 1905 la Reale Commissione, istituita per volontà dell’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi, si era pronunciata a favore della scuola media unica, ma l’opposizione si manifestò subito soprattutto da parte liberale e socialista, tanto che si opposero Salvemini e Galletti, Croce, Gentile e Codignola. Poi come è andata la storia è ormai cosa nota.
Del resto nel dicembre del 1962 a votare contro la legge numero 1859  non furono solo missini e monarchici, ma anche i comunisti, sebbene con motivazioni differenti.

Ma di scuole di “mezzo” non ne abbiamo più, né inferiori né superiori. L’istruzione è ora organizzata per cicli: primo e secondo. Poi le scuole sono primarie e secondarie.

L’articolo 1 della legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 affidava alla scuola media unica il compito di concorrere “a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi della Costituzione” e a favorire “l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”.
Cinquant’anni dopo, nel 2012, le Indicazioni nazionali per il curricolo del Primo Ciclo, a proposito di finalità da affidare alla scuola, puntano direttamente allo scopo: “La finalità è l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità fondamentali per sviluppare le competenze culturali di base”.

“Conoscenze”, “abilità”, “competenze”, un trinomio e una consequenzialità inedita.
Nuova rispetto anche ai programmi per la scuola media, quelli che furono scritti nel 1979, dopo importanti provvedimenti come la legge n. 517 del 1977, che aboliva i voti e dava avvio all’integrazione scolastica nella scuola di tutti, dopo i Decreti delegati del 1974, che  hanno aperto la strada alla partecipazione democratica nella scuola.
Conoscenza, abilità, competenza disegnano un itinerario di apprendimento molto preciso, ben definito nei suoi contorni: la conoscenza deve trasformarsi in abilità e una volta divenuti abili allora è  possibile mettere alla prova la propria competenza.

Una visione dell’apprendimento assai avanzata rispetto alla genericità dell’articolo 1 della legge istitutiva della scuola media unica ed alla fumosità dei programmi del 1979: “la scuola media risponde al principio democratico di elevare il livello di educazione e di istruzione personale di ciascun cittadino e generale di tutto il popolo italiano”.
Ma se siamo arrivati alla scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 lo dobbiamo alla strada che è stato possibile percorrere partendo da quella data di sessant’anni fa: il 31 dicembre del 1962.

Da allora sono accadute tantissime cose, che prima non c’erano, che hanno contribuito a mutare la cultura italiana sulla scuola, anche se questa cultura in gran parte nuova non è stata recepita da tutti.
Alcuni, sia all’interno che all’esterno dell’istituzione, l’hanno subita, altri non l’hanno compresa e hanno continuato a pensare e ad agire come se non fossero intervenute importanti novità sul versante dell’istruzione del paese.
C’è chi, invece, ha continuato a lavorare ostinatamente, non sempre con successo, perché non venisse meno la spinta al rinnovamento della nostra scuola, indispensabile per evitare di fallire il compito assegnatole dalla Costituzione, quello che sta scritto soprattutto nell’articolo 3 dei suoi principi fondamentali.

Il paesaggio scolastico italiano si è arricchito di quanto in quell’inverno del ’62 forse era inimmaginabile: gli asili nido, le scuole dell’infanzia, una nuova scuola primaria, le scuole a tempo pieno, gli istituti comprensivi, una scuola inclusiva. Nuovi compiti hanno qualificato il profilo degli insegnati dalla programmazione curricolare, all’individualizzazione dell’insegnamento, le verifiche e la valutazione, l’interdisciplinarità, la ricerca d’ambiente, le osservazioni sistematiche, il master learning.
Compiti nuovi di una professionalità docente ripensata, non sempre vissuta con la disponibilità giusta da tutti gli insegnanti. Compiti spesso subiti come pratiche burocratiche da evadere per mancanza di preparazione sia dei singoli che della struttura, più spesso per il mancato sostegno da parte di chi è stato chiamato a dirigere il dicastero dell’istruzione e per la inadeguatezza della politica.

Il rischio reale oggi è che la strada percorsa fin qui finisca in un vicolo cieco. Perché la scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 è molto più impegnativa di quella prospettata dalla scuola media unica, che pure resta la pietra miliare di una grande conquista democratica. Rappresenta i passi avanti che, anche per effetto di quella riforma, ha compiuto il pensiero della scuola in questo paese.
Un pensiero che impegna la scuola a far acquisire “le competenze indispensabili per continuare ad apprendere lungo l’intero arco della vita” con “particolare attenzione ai processi di apprendimento di tutti gli alunni e di ciascuno di essi”. Tutti e ciascuno, proprio ogni singolo, preso uno per uno.

Qui sta il nodo vero: competenze indispensabili all’istruzione permanente e forte individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento. Più che individualizzazione sarei tentato di usare l’espressione “singolarizzazione”. Tutto nella prospettiva di accrescere in ciascuno l’individuale autonomia di studio.
O questi nodi si affrontano con una cultura nuova o, nonostante la prescrittività delle Indicazioni nazionali, la nostra scuola secondaria di primo grado continuerà a funzionare né più né meno come la sua progenitrice scuola media unica.
E allora l’Istat tornerà a fornirci dati sempre più imbarazzanti come quelli che fanno registrare il 40% degli studenti di terza media non sufficienti in italiano  e in matematica. Una scuola soprattutto ininfluente nel colmare non solo gli svantaggi sociali e culturali,  ma anche quelli accumulati nel corso degli anni scolastici.
Ciò significa che la sfida democratica lanciata sessant’anni fa dalla scuola media unica non è stata ancora vinta.
La scuola di oggi, già a partire dalle Indicazioni nazionali, si dichiara impotente a realizzare le proprie finalità senza il concorso con “altre istituzioni” e non può pensare di perseguire “con ogni mezzo il miglioramento della qualità dell’istruzione” se le condizioni strutturali ed organizzative sono sempre quelle del 1962: classi, cattedre, orari, discipline.

Eppure le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione avrebbero dovuto permettere di  far compiere al nostro sistema di istruzione un salto di qualità: dalla scuola media unica all’unitarietà della scuola del primo ciclo.
Unitarietà tradotta nell’impianto curricolare delle Indicazioni nazionali per obiettivi di apprendimento e per competenze da acquisire al termine della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado. Impianto che avrebbe dovuto riuscire rafforzato dalla scelta organizzativa degli istituti comprensivi. Il “comprensivo” come ambiente di “apprendimento” esperto di “apprendimenti”, di educazione comprensiva dai 3 ai 14 anni.

Il comprensivo come luogo di un far scuola rinnovato, come mondo di un apprendimento diverso.
E invece i risultati parlano d’altro, di scuola media come buco nero, come anello debole della catena. Come è possibile? Come spiegarlo?
Forse perché la scuola media da unica è restata unica, separata in casa in un comprensivo che non ha saputo divenire comprensivo, comprendere e comprendersi nonostante dieci anni di Indicazioni nazionali.
Allora viene il sospetto che la cultura di questo paese e di tanta parte dei suoi insegnanti sia ferma alla scuola di sessant’anni fa o forse anche molti di più a leggere i frequenti inviti a rinverdire la riforma Gentile rilanciati dalle pagine dei nostri quotidiani nazionali.




Didattica del recupero o didattica da recuperare?

di Simonetta Fasoli

Ho letto in questi giorni in articoli dedicati alla scuola nell’ambito del territorio romano, spesso con toni comprensibilmente allarmati, dati e commenti circa l’avvenuto, sensibile incremento di corsi pomeridiani di recupero attivati nelle Scuole primarie. Ricorre il tema delle competenze linguistiche basilari (si parla di “comprensione del testo”) e logico-matematiche in vistosa carenza, per cui si rendono necessari tempi suppletivi (in orari pomeridiani) programmati dalle scuole.
Ferme restando la variabilità dei fatti e la complessità della casistica, che vietano giudizi sommari, penso sia opportuno, e perfino urgente, accompagnare la conoscenza dei dati con qualche considerazione e qualche spunto di riflessione. A partire dal concetto di “recupero” e dalle modalità con cui viene realizzato: spesso, infatti, si confondono i piani. Si devono recuperare i “contenuti” (nel senso più ampio) o non piuttosto gli strumenti di approccio? Nel primo caso, il riferimento sono gli obiettivi fissati; nel secondo sono i percorsi.

Nel primo caso, prevale un criterio quantitativo, per cui è sensato intervenire su un incremento del tempo scolastico. Nel secondo, è analizzata la qualità dell’apprendimento, che suggerisce di rivedere le metodologie del processo di costruzione della conoscenza.
Ma c’è una questione di fondo che, a mio parere, comprende entrambe le ipotesi e che potrei formulare così: più che di una didattica del recupero, parliamo del recupero della didattica!

Fuori dal gioco di parole, è un invito a spostare l’attenzione dall’apprendimento (“non ce la fanno”…e via alla ricerca dei “colpevoli”, identificati volta a volta nei telefonini, negli esiti della pandemia e dell’isolamento…) all’insegnamento e alla didattica che ne è in qualche modo la parte visibile, la messa in opera. Di fronte a questo guado, a me pare che la Scuola tenda a chiamarsi fuori, a non mettersi davvero in gioco, prendendosi il rischio di autoriformarsi dal basso. Di qui, la via, impegnativa e certo non indolore, di organizzare tempi e setting aggiuntivi.
Proviamo a rovesciare il punto di vista. Se il problema nasce nel tempo e nella didattica ordinari, la strategia di contrasto va individuata nello stesso registro dell’ordinarietà, più che nella predisposizione di percorsi gestiti in ambito extracurricolare. Se è il gruppo di apprendimento la risorsa essenziale, non è la separatezza la risposta adeguata per chi si senta o sia stat* esclus*. Questo lo ha recepito la cultura dell’inclusione e lo ha tradotto in principi e percorsi fin dagli anni Settanta del secolo scorso: si vedano in proposito pietre miliari quali il documento della Commissione Falcucci (1975) e la legge 517/77. A chi fosse sensibile a questa tematica, segnalo quanto è scritto, con esemplare semplicità ed efficacia, nel seguente breve passo della direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, che disciplina la vasta materia dei BES (Bisogni Educativi Speciali):
“[…] Si è detto che vi è una sempre maggiore complessità nelle nostre classi, dove si intrecciano i temi della disabilità, dei disturbi evolutivi specifici, con le problematiche del disagio sociale e dell’inclusione degli alunni stranieri. Per questo è sempre più urgente adottare una didattica che sia “denominatore comune” per tutti gli alunni e che non lasci indietro nessuno: UNA DIDATTICA INCLUSIVA PIÙ CHE UNA DIDATTICA SPECIALE.”
È mio il carattere cubitale.
Ripensare con la necessaria radicalità la didattica ordinaria comporta, va ribadito con forza, un netto cambio di direzione delle politiche scolastiche, che parta dalle condizioni strutturali: risorse e stabilità di organico, investimento sulla qualità degli spazi educativi e sul patrimonio edilizio, formazione del personale mirata a criteri di qualità dei percorsi e non ridotta ad adempimento burocratico, quando non a pratica vessatoria.
Non c’è tempo da perdere: il tempo è adesso, sono queste e non altre le generazioni che reclamano i loro diritti. Massimamente, quando non hanno voce.




Caro Ministro, l’orientamento educativo è altra cosa

di Simonetta Fasoli

Quasi sul finire dell’anno, il ministero dell’Istruzione e del Merito ha emanato un provvedimento che adotta Linee guida concernenti l’orientamento, il D.M. 328 del 22/12/2022.
Si tratta di un testo che si presenta con l’ambizione di assumere un’ottica di sistema, e non solo perché investe i diversi segmenti del sistema di istruzione secondaria di primo e secondo grado, ma anche perché mira ad inserirli in un’unica cornice istituzionale, pur nelle distinzioni dei rispettivi ordinamenti. Il filo conduttore è nell’idea di orientamento che attraversa l’intero percorso delineato, quasi a farne una chiave di volta.
Se questa è, come sembra, l’operazione, è il caso di fare qualche riflessione di approfondimento.
Il testo, in più di un passaggio, parla di “orientamento educativo”: ebbene, partiamo da questa espressione, per sottrarla al rischio di usarla come una formula che da sé basti a dare senso (vorrei dire, “dignità pedagogica”) alle indicazioni date.

Per dire, anzitutto, che un percorso di orientamento è “educativo” se
* si discosta nettamente da ogni forma, esplicita o implicita, di addestramento al lavoro
* si propone di formare soggetti capaci di riconoscersi parte attiva delle proprie scelte di vita
* non adotta il punto di vista del mercato come luogo di incontro della domanda/offerta, sovrapponendo in ultima istanza le sue esigenze economiciste ai percorsi formalizzati di istruzione/formazione
*non restringe lo sguardo dei soggetti in crescita nei tempi e negli spazi angusti di una idea fuorviante di “prossimità”, del territorio e delle sue caratteristiche produttive

Se tutto questo è vero e plausibile, l’orientamento “educativo” attraversa allora l’intero sistema di istruzione/formazione, perché coincide con i processi di crescita in tutto l’arco della vita: senza precocismi e senza fughe in avanti. È la premessa pedagogica forte e irrinunciabile di ogni successiva opzione di vita. È l’antidoto a ogni interpretazione mercificante di interessi e attitudini; è la trama stessa della conoscenza, che nella sua piena accezione investe, come si sa, dimensioni relazionali, affettive, cognitive.
Suggerisco a chi fosse interessato di svolgere una ricognizione sul tema con uno sguardo alle sue matrici nel tempo, per evitare di prendere per buona ogni ricerca di “novità” fine a sé stessa. E di andarsi a rileggere, in questa prospettiva, le pagine illuminanti dei Programmi della Scuola media (D.M. 9 febbraio 1979). Qui si trova, a mio parere, esemplarmente riportato un impianto pedagogico ricco di implicazioni per il discorso che in questa sede mi interessa. Si vedrà agevolmente che la Scuola media (secondaria di Primo grado) è orientativa perché IN SÉ STESSA ORIENTANTE: cosa altro vuol dire, se non questo, l’espressione “scuola che colloca nel mondo”? Ne discende che la trama disciplinare concorre a promuovere “conoscenza di sé e del mondo”: due movimenti interconnessi di un unico processo. E che ogni disciplina, correttamente intesa, è un “modo” della realtà che essa racconta, nella specificità della sua “grammatica epistemologica”, del suo linguaggio e del suo metodo. Un’impostazione originaria che le Indicazioni nazionali del Primo Ciclo nelle diverse edizioni (2007, 2012 e 2018) hanno ulteriormente declinato, ma non superato né tantomeno resa obsoleta.
Devo confessare che, pur nell’attenta lettura del decreto ministeriale, non ho trovato traccia articolata di questa idea di orientamento qui in sintesi richiamata: la dimensione “educativa” resta un’evocazione senza radici culturali e pedagogiche, un mero artificio retorico. Di qui, duole dirlo, un travisamento che si ripercuote sull’intero disegno, coinvolgendo anche le declinazioni riguardanti la scuola secondaria di secondo grado. Qui si dà luogo, a me sembra, ad una vera e propria “commedia degli errori”, in cui gli aspetti meramente “informativi” dell’orientamento fanno agio su quelli propriamente formativi, in un frequente salto di dimensioni, in una confusione disfunzionale di obiettivi e metodi di approccio.
Il tutto condito da un’enfasi degli aspetti gestionali e dei risvolti organizzativi, spesso molto dettagliati, che non riesce a nascondere, semmai fa risaltare, la pochezza dell’approccio culturale e l’insufficienza della consapevolezza dei problemi affrontati.
No, cari signori del ministero soi-disant del merito, non ci siamo… Si raccomanda una rilettura dei “fondamentali”, un paziente lavoro di ripensamento, senza nostalgie certo ma senza nuovismi. L’orientamento è un tema strategico per il sistema di istruzione, solo se parliamo davvero di educazione e non di un restyling intrapreso su mandato, neanche tanto surrettizio, del sistema produttivo.




L come Laboratorio

di Giancarlo Cavinato

Cosa caratterizza un laboratorio seguendo la pedagogia Freinet?
Intanto un laboratorio è, per sua definizione, un’attività pratica finalizzata a una produzione e che coinvolge diversi soggetti in un determinato contesto appositamente predisposto e si avvale di materiali, strumenti, tecniche e organizzazione. Il laboratorio è, scriveva Levi[1], una mente collettiva in funzione.

La classe cooperativa fin dai tempi di Freinet è una classe laboratorio. Ma con l’istituzione del tempo pieno, con attività che coinvolgono più classi in  modalità di classi aperte, con la presenza di una pluralità di insegnanti, è l’intera organizzazione scolastica che può essere progettata e realizzata come un insieme di laboratori che affrontano i diversi ambiti dell’esperienza e delle realizzazioni umane: gli aspetti artistici, corporei, materici, scientifici, tecnologici, espressivi e creativi.

Gli alunni possono in tale ‘sistema’ fare esperienza di ciascuno di tali ambiti, capirne la rispondenza a bisogni umani,  ed essere in grado di sviluppare propensioni, affinità e preferenze per qualcuno di tali ambiti così da orientarsi nelle possibili scelte quando dovranno decidere il loro percorso grazie anche alle esperienze che avranno avuto occasione di fare.

In un paio di volumi[2] due maestre del Movimento di cooperazione educativa, Gisella Galassi Ricci e Francesca Rossi Gardelli documentano il loro percorso  nei cinque anni di scuola elementare a Forlimpopoli.
Gisella era ‘specializzata’ in educazione linguistica. Frequentava il gruppo nazionale lingua del MCE e il linguaggio era la sua passione, vissuta come una sfida al superamento delle povertà linguistiche e culturali. Francesca seguiva il gruppo matematica del MCE.
Loro due, in una scuola di quattro ore antimeridiane, si  organizzavano con attività di interclasse aprendo le classi prima che la legge 517 lo ‘consentisse’. Sperimentavano.
E si scambiavano, ognuna insegnava la disciplina di propria elezione in ciascuna delle due classi e insieme, mescolando i gruppi, sviluppavano ricerca d’ambiente e ricerca storica.
In assenza di un tempo scuola più adeguato, di compresenze per lavorare a piccoli gruppi, riuscivano comunque a fare ricerca con i loro alunni, a ricostruire quadri di significato, categorie mentali per l’orientamento nel tempo e nello spazio.
Formando ragazzi-cittadini- consapevoli, critici, padroni di una pluralità di codici e funzioni linguistiche e logiche.

Nella consapevolezza, da parte delle due insegnanti, che spesso il passaggio da una cultura orale, da un dialetto, da una lingua madre intrecciata di affettività, interazione in presenza, a uno scritto come codice comunicativo della distanza, richiede un vero e proprio salto antropologico. Una cura della identità di ciascuno/a, della memoria, della cultura dei soggetti perché non vada dispersa e soffocata dalla molteplicità di messaggi.

Il ‘segreto’ del successo formativo degli alunni di Gisella e Francesca risiedeva appunto nella attenzione ad ognuno/a, nel non lasciare indietro nessuno, nel garantire a tutti una formazione per la vita; e nel lavoro paziente, su tempi lunghi, per formare menti ‘ben connesse’ in grado di leggere, analizzare, criticare il presente, pensare al futuro. Un lavoro che non poteva essere costituito da sequenze di lezioni ma da una prosecuzione di attività dotate di senso e che richiedevano una forte partecipazione e rielaborazione sia da parte degli alunni che delle insegnanti.

Il terzo elemento è il non lavorare isolatamente ma il consultarsi e progettare assieme.
Senza questo aspetto fondamentale non si può pensare di uscire dal circolo vizioso lezione-interrogazione-verifica.

Se esperienze con gruppi di alunni di classi parallele o con età diverse nelle pluriclassi erano già attive allora, grazie alla sensibilità e alla preparazione di insegnanti particolari, è con l’istituzione del tempo pieno e delle attività integrative che tale modalità organizzativa e pedagogica trova pieno sviluppo e realizzazione.

Sarà Francesco De Bartolomeis, con il suo ‘sistema dei laboratori’ a descrivere e prospettare lo sviluppo di una scuola organizzata per gruppi di ricerca e di operatività. [3] Proponendo una teoria dei laboratori fondata su una concezione produttiva e sociale della cultura, volta a comprendere i mutamenti di carattere sociale.
Solo un’organizzazione flessibile e mobile per classi aperte e laboratori operativi permette di realizzare una scuola della ricerca, della narrazione, della discussione.

I contenuti e la loro scansione  non sono indifferenti ma strettamente dipendenti da scelte  metodologiche e da uno sfondo che sappia intessere significati, relazioni, pratiche comunitarie.
Rispetto alla ‘moda’ corrente delle UDA ( unità di apprendimento) oggi molto diffuse ma che rischiano di essere documenti ricchi di buone intenzioni,  costruite  però in rapporto a una classe come sistema omogeneo e chiuso al proprio interno, la proposta  di unità di lavoro ci interroga su cosa di significativo si possa fare in una classe ( e fra più classi)  rispetto a un tema di comune interesse, con quali materiali, cogliendo interessi e motivazioni, provando a imbastire uno sfondo, un contesto, un piano di attività di ricerca.

Diverse unità di lavoro possono costituire la mappa del lavoro dell’anno di più classi in rapporto di scambio e condivisione.  La mappa verrà via via arricchendosi e ampliandosi grazie alle capacità connettive e all’ estensione dei temi che diversi gruppi  alunni metteranno in campo e a cui si dedicheranno.

Ogni scelta tematica infatti si colloca in una catena di problemi e di argomenti che si richiamano gli uni con gli altri, costituendo un tessuto reticolare e molteplici configurazioni come  si può realizzare con producendo con i sette pezzi del  tangram infinite combinazioni.
Si  intende così  valorizzare il pensiero infantile, le preconoscenze, le ipotesi, fondandosi su effetti quali la sorpresa, l’inciampo, il conflitto cognitivo, la metodologia dell’animazione.[4]

I temi che emergono dalle proposte dei ragazzi nel corso della messa a punto del piano di lavoro personale e della classe e dagli stimoli proposti dagli insegnanti   verranno sviluppati suddividendosi  a gruppi secondo gli interessi (ogni aspetto affrontato può essere elaborato sul piano temporale, spaziale, artistico, scientifico, teatrale,…)

Il tempo pieno, strumento imprescindibile per affrontare le povertà educative e i divari socio-culturali, permette di arricchire e articolare le proposte didattiche, con la possibilità di organizzare in modo diversificato i tempi di acquisizione di conoscenze e competenze praticando diversi linguaggi e offrendo una pluralità di stimoli, e rendendo possibile la differenziazione didattica, è stato e  potrebbe tornare ad essere la sede per un’organizzazione scolastica centrata sui laboratori come luoghi delle attività umane.
Ma in cosa consiste l’attività di laboratorio?  Nel MCE Veneto e negli incontri fra scuole a tempo pieno della provincia di Venezia avevamo individuato alcune fasi che ci sembravano consentire, al di là delle diverse tematiche, di sviluppare dei percorsi organici con le stesse strutture di base:

  1. l’individuazione di un problema che catturava l’attenzione e a cui si voleva trovare risposta
  2. una prima fase di emersione di ipotesi, idee preesistenti, convinzioni [5]
  3. una fase di raccolta di materiali, fonti, esemplificazioni per convalidare o ‘falsificare’ le ipotesi
  4. la fase della produzione/preparazione/lavorazione
  5. la messa alla prova: la fase della verifica
  6. nuovi problemi, nuova fase di esplorazione di idee e possibilità

Si tratta di un percorso ricorsivo che descrive efficacemente Paul Le Bohec[6]  descrivendo a sua volta le fasi che denomina  dell’osservazione, del provare, del tornare a vedere-sentire.toccare, del riprovare, fino ad elaborare un modello applicabile in varie situazioni.

Alfieri, rifacendosi a Bruner [7], descrive un simile modello ‘a loup’ (lente d’ingrandimento dei processi) in una serie di articoli sulle riviste ‘L’educatore’ e ‘Cooperazione educativa’. Si parte dal livello 1, ‘definizione dell’argomento’, si passa al 2, ‘le parole per parlarne’, al 3, la prima narrazione’, al 4, ‘la teoria ingenua’, al 5 ‘le integrazioni’, al 6 ‘la teoria consolidata’, al 7 ‘la seconda narrazione’: un modello ricorsivo che cresce su se stesso e si amplia ripercorrendo le diverse fasi.

Una scuola di laboratori è una scuola della discussione, della narrazione, dell’avventura.

[1] Levi P. ‘il sistema periodico’, Einaudi, Torino, 1975
[2] Galassi G., Rossi F.,  ‘Più fatti che parole’, ed. La Linea, Padova, 1977
[3] De Bartolomeis F. ‘Il sistema dei laboratori’, Feltrinelli, Milano, 1978
[4] Bachelard G. ‘La formazione dello spirito scientifico’, Raffaello Cortina, Milano, 1996
[5] Giordan A., ‘Il bambino e l’educazione scientifica’, Giunti e Lisciani, Teramo, 1987
[6] Le Bohec P.,Campolmi B.,  ‘Leggere e scrivere con il metodo naturale’, Junior, Bergamo, 2000
[7] Bruner J.S. ‘La cultura dell’educazione’, Feltrinelli, Milano, 2000