T come tempo scuola e tempo pieno

di Giancarlo Cavinato

Nella pedagogia Freinet assume grande rilevanza l’organizzazione della classe e della scuola, quindi l’uso degli spazi e dei tempi.
Bambini che vivono in un ambiente ‘disordinato’ come i piccoli alunni di borgata del maestro Albino Bernardini  negli anni 60 in cui ‘imparano che i “duri” resistono meglio degli altri” o viceversa in un ambiente iperorganizzato in cui i ritmi e i diversi momenti sono tutti eterodiretti attraverso un’organizzazione cooperativa interiorizzano gradualmente e fanno propri dispositivi e ritmi che consentono collaborazione e sforzo comune. Quanto l’organizzazione del contesto e di ‘sistemi’ diversificati incidano sullo sviluppo umano è stato dimostrato dalle ricerche sull’ecologia dello sviluppo di U. Bronfenbrenner.[1]

L’organizzazione non è neutra ma incide sul sistema di aspettative, sulle interazioni, sull’autostima, sulla fiducia in sé e negli altri, sulle risorse personali e del gruppo.
Nelle scuole francesi ai tempi di Freinet e anche oltre il ritmo della giornata era costituito da un orario antimeridiano di tre ore e un ritorno pomeridiano di due ore in 5 o 6 giorni. Con un unico maestro, spesso in piccole scuole rurali.
Un’organizzazione analoga la condividevano i maestri della cooperazione educativa fino agli anni 70: era l’esperienza di Mario Lodi, di Bruno Ciari, di Giovanna Legatti e tanti altri. Ma con il diffondersi del movimento, della sensibilità nella società civile, di una conoscenza pedagogica adeguata ai tempi dello sviluppo economico e sociale negli anni 60-70, si pose il problema delle grandi scuole cittadine, dell’inurbamento  dalle campagne e dell’emigrazione dal sud di grandi masse che approdavano al mondo dell’industria.
Se a una parte dei bambini che frequentavano la scuola dell’obbligo, scriveva Francesco Tonucci, era garantito il rifornimento culturale composto di antipasto, pasto e dessert, per un’altra gran parte al massimo si prospettava un primo scarso. I primi possedevano già i codici, erano già immersi in cornici culturali omogenee e quanto la scuola offriva (per loro era una specie di surplus), per i secondi l’esperienza e le richieste erano spesso di spiazzamento e incomprensione, così da farli ritenere ‘disadattati’.

La risposta che il mondo della scuola, della ricerca, la nascente sindacalizzazione degli insegnanti e associazioni come il MCE, grazie anche all’immissione di giovani insegnanti disponibili a mettersi in gioco seppero elaborare fu il tempo pieno.
Già nell’esperienza di Lodi e altri/e il tempo scuola risultava insufficiente per sviluppare attività significative che lasciassero traccia negli alunni costruendo reali strumenti di lettura, comprensione e intervento sulla realtà. I maestri del Movimento spesso rientravano a scuola nel pomeriggio con i loro alunni (il doppio tempo, antimeridiano e pomeridiano, era ormai residuale nelle zone rurali; nelle cittadine e nelle città spesso si doveva ricorrere ai doppi turni, quindi o un orario di 4 ore al mattino o di tre ore al pomeriggio a mesi alterni). Si ‘preparavano’ andando a ricercare fonti e materiali, svolgendo una preindagine d’ambiente. Cercavano ‘testimoni’ da portare a scuola e da far intervistare dai ragazzi.

Il tempo pieno, cioè la costituzione di una giornata ricca, varia, stimolante, con attività diversificate al suo interno, con l’apertura delle classi, la contitolarità di due docenti, l’uso di strumenti e tecniche moderne sembrò la risposta alle povertà educative e all’isolamento e alla sopravvalutazione dei ragazzi dei ceti abbienti per una integrazione di modalità, codici, strategie. Una giornata completa di otto ore (forse una formula un po’ ‘operaistica’) comprensiva del tempo mensa (non la ‘mensa dei poveri’ del doposcuola comunale) ritenuto estremamente importante sia per un avvicinamento di gruppi umani spesso incomunicanti una volta adulti sia per il valore educativo del mangiare insieme, del condividere, del superare resistenze e gusti.

Facciamo parlare a questo proposito il grande pedagogista Francesco De Bartolomeis con il suo ‘Scuola a tempo pieno’ del 1972, l’anno successivo all’entrata in vigore della legge 820 che istituiva non il tempo pieno ma posti docenti per ‘attività integrative pomeridiane’ e ‘insegnamenti speciali’. Una formula che venne totalmente rovesciata dalla mobilitazione di insegnanti, famiglie, associazioni e sindacati attraverso lotte che portarono alla formula organica con due insegnanti, attività ‘strumentali’ e laboratori, alternanza dei due docenti senza separatezze mattina-pomeriggio, anche sulla base delle preoccupazioni espresse da pedagogisti quali De Bartolomeis.

De Bartolomeis lucidamente metteva in guardia dai rischi e dagli ostacoli.
[…] Si chiede (alla ricerca) di fare proposte attuabili. Ma a chi? A una classe politica che ha come programma di attuare soltanto la perpetuazione del suo potere di parte. […] L’avvio del tempo pieno nel nostro paese non promette sostanziali rinnovamenti, anzitutto a causa di un tipo di organizzazione sociale che non può esprimere una scuola che lo neghi. Effetti di questo impedimento di base sono, tra l’altro, l’assenza di una impostazione sperimentale, di un piano e di iniziative per la riqualificazione degli insegnanti o per la formazione di nuovi insegnanti, la permanenza della gerarchizzazione tra materie fondamentali e attività integrative. Se manca un rapporto critico con i problemi di radicali mutamenti sociali e politici, entra nel gioco delle deformazioni e delle riduzioni didattiche la richiesta, del resto generica, di definire nuovi contenuti e nuovi metodi, e di provvedere a una diversa organizzazione dello spazio educativo. […] Questa la contraddizione più grave: la scuola di una società classista dovrebbe lavorare contro il classismo.

Alcune delle condizioni per un tempo pieno che quanto meno limiti i danni di una scuola del consenso sono indicati da De Bartolomeis nell’ordine: […] considerare il modulo organizzativo della scuola in termini di struttura fisico-spaziale (aule laboratorio, spazi per la socialità,..)
[…] è in questione non l’insegnante singolo ma la progettazione educativa del gruppo di insegnanti e di altri esperti, e l’insieme dei materiali, degli strumenti e delle procedure indispensabili per l’attuazione
[…] i problemi dei rapporti interpersonali e della dinamica di gruppo. La trattazione di questi problemi richiede tra l’altro una competenza psico-pedagogica (conoscenze e abilità) capace di vedere nella cosiddetta normalità le difficoltà di adattamento, i conflitti, le contraddizioni, le frustrazioni, l’ansia, le difese dall’ansia,.ecc.
[] non una dilatazione dell’orario che lasci immutato tutto il resto: scuola senza classi, collaborazione degli insegnanti in compiti non solo di educazione ma anche di programmazione, grande varietà di attività,  conformità ai ritmi biopsichici, nuovi contenuti, ricerca, sostituzione delle aule  con i laboratori, vita sociale abolizione di un orario avverso ai processi di incubazione, a quella che possiamo chiamare creatività temporaneamente improduttiva
[…] la collocazione di ogni individuo nel sistema sociale, quindi la sua mobilità in esso, le aree di attività e di decisione che può raggiungere [2]

Forti di questo viatico, giovani insegnanti neoimmessi in ruolo, ci accingemmo all’opera. Con molti dubbi e interrogativi. Ad esempio. Quello che funzionava così bene nella classe di Mario Lodi o di Bruno Ciari, il piano di lavoro, la discussione, la corrispondenza, il testo libero, la stampa, il calcolo vivente, la ricerca… ma con ragazzi di ambienti molto disomogenei, classi numerose, in città, avrebbe funzionato lo stesso? E come si componeva con gli orari della nuova scuola, le attività di classe e i laboratori?

[1] Bronfenbrenner U. (2002) Ecologia dello sviluppo umano Il Mulino, Bologna
[2] De Bartolomeis F. (1972) Scuola a tempo pieno, Feltrinelli




Chat GPT non sa nulla di De Bartolomeis! Ma, ce ne facciamo qualcosa?

di Marco Guastavigna

ChatGPT, chi è il pedagogista Francesco De Bartolomeis?

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Mi dispiace, ma al mio attuale livello di conoscenza, non sono a conoscenza di un pedagogista di nome Francesco De Bartolomeis. Potrebbe essere una persona poco conosciuta o potrebbe non esserci informazioni sufficienti disponibili su di lui al momento. È possibile che sia un professionista meno noto nel campo della pedagogia o potrebbe essere una persona privata con lo stesso nome. In ogni caso, non posso fornire ulteriori dettagli su di lui o sul suo lavoro.

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Who is the pedagogist Francesco De Bartolomeis?

Francesco De Bartolomeis was an Italian pedagogist, critic of art and politician. He was born in Pellezzano, Salerno, Italy, on January 20, 1918, and died in Turin, Italy, on June 29, 2023. He was a professor of pedagogy at the University of Turin from 1956 to 1988
De Bartolomeis was a student of Ernesto Codignola, and he was influenced by the theories of John Dewey. He was also interested in existentialism, and he wrote a book on the subject titled “Esistenzialismo e idealismo” (Existentialism and Idealism).

De Bartolomeis was a proponent of the school of thought known as “pedagogia attiva” (active pedagogy), which emphasizes the importance of student participation and experiential learning. He was also interested in the reform of education, and he played a role in the creation of full-time schools in Italy.
De Bartolomeis was a prolific writer, and he published over 100 books on pedagogy, art criticism, and politics. He was also a regular contributor to newspapers and magazines.
De Bartolomeis is considered to be one of the most important Italian pedagogists of the 20th century. His work has had a significant impact on the development of education in Italy.

Here are some of his most notable works:

  • La pedagogia come scienza (Pedagogy as a science)
  • Esistenzialismo e idealismo (Existentialism and Idealism)
  • La scuola attiva (The Active School)
  • La riforma della scuola (The Reform of Education)
  • L’arte come esperienza (Art as Experience)

De Bartolomeis was a respected and influential figure in the field of pedagogy. His work continues to be studied and debated today.

Francesco De Bartolomeis è stato un pedagogista, critico d’arte e politico italiano. Era nato a Pellezzano, Salerno, Italia, il 20 gennaio 1918, ed è morto a Torino, Italia, il 29 giugno 2023. È stato professore di pedagogia all’Università di Torino dal 1956 al 1988. De Bartolomeis fu allievo di Ernesto Codignola, e fu influenzato dalle teorie di John Dewey.
Si interessò anche di esistenzialismo e scrisse un libro sull’argomento intitolato “Esistenzialismo e idealismo”.
De Bartolomeis è stato un sostenitore della scuola di pensiero nota come “pedagogia attiva”, che sottolinea l’importanza della partecipazione degli studenti e dell’apprendimento esperienziale.
Era anche interessato alla riforma dell’istruzione e ha svolto un ruolo nella creazione di scuole a tempo pieno in Italia. De Bartolomeis fu uno scrittore prolifico e pubblicò oltre 100 libri di pedagogia, critica d’arte e politica. Collaborò regolarmente con giornali e riviste. De Bartolomeis è considerato uno dei più importanti pedagogisti italiani del 20 ° secolo. Il suo lavoro ha avuto un impatto significativo sullo sviluppo dell’istruzione in Italia.
Ecco alcune delle sue opere più notevoli: La pedagogia come scienza Esistenzialismo e idealismo (Existentialism and Idealism) La scuola attiva (The Active School) La riforma della scuola (The Reform of Education) L’arte come esperienza (Art as Experience)
De Bartolomeis fu una figura rispettata e influente nel campo della pedagogia.
Il suo lavoro continua ad essere studiato e dibattuto oggi.




La scuola: una comunità di adulti che ha cura di una comunità di alunni

di Raimondo Giunta

Frammenti di riflessione sull’azione educativa

1) La pedagogia è l’attività di riflessione che si esercita sull’azione educativa per poterne delineare in modo persuasivo le finalità e le procedure ad esse congruenti. Riflette sull’educazione come oggetto e sull’educazione come progetto, soprattutto se e quando si vuole mettere in campo un’idea di umanità e di società che abbia come valori fondanti la libertà, la dignità e la responsabilità delle persone. In una società democratica i valori dell’educazione sono quelli che rendono possibile l’esercizio della democrazia. Con questa necessaria e continua opera di riflessione la scuola può essere ancora un luogo di speranza per i giovani e affrontare le sue quotidiane difficoltà. La pedagogia è, quindi, l’educazione che si pensa, che si parla, che si giudica, che si progetta.
“La pedagogia è l’insieme delle strategie che l’intelligenza dispiega in una società, affinchè l’arbitrarietà di un’educazione bene o mal fatta ceda il posto alla scelta di fare meglio”(E. Durkheim-1911). La riflessione pedagogica è indispensabile per contestualizzare il discorso formativo e per poterne rinnovare le pratiche in una situazione di sovvertimento continuo dei saperi e dei paradigmi scientifici. La pedagogia è situata all’incrocio tra educazione reale, educazione possibile ed educazione “sperata”. E’ impossibile educare senza credere, senza sperare, senza preoccuparsi dello stato in cui si trova il bene più prezioso di una società: i suoi giovani.

2) L’attività educativa ha una dimensione naturale di progettualità, di futuro e di liberazione; solo per abdicazione può essere piegata ad una logica dell’adattamento alle condizioni date. Senza finalità non c’è attività educativa. Le finalità ci conducono a scelte di valore che oltrepassano sempre quelle pragmatiche dell’efficacia e dell’efficienza, alle quali si finisce per rifugiarsi talvolta in nome di un malinteso senso di razionalità. Le finalità sottintendono una particolare figura d’uomo: quella che vorremmo è l’uomo consapevole della sua posizione, libero, cittadino, capace di affrontare in modo razionale i problemi, aperto alle novità, disponibile all’accettazione della diversità e al dialogo. Dovrebbero cogliere aspetti della sua consistenza e tentare una configurazione della sua complessità. Devono rispondere alle domande “Chi”, “Perchè” e “Per quale scopo” istruire ed educare. Le finalità devono aiutarci a comprendere in quale mondo vogliamo vivere, quale avvenire speriamo per i nostri figli, quali saperi occorre trasmettere, quale tipo di cultura si dovrebbe privilegiare. La problematizzazione delle finalità educative è la pedagogia.


3) C’è buona educazione dove e se si coltiva la libertà dell’uomo, dove ci si può costruire in libertà e dignità a partire dalle condizioni in cui ci si trova. L’essere umano è una libertà che si forma e deve sfuggire ad ogni logica di potere e di dominio. Educare, allora, per promuovere la libertà di ciascuno e non per agire in conformità ad un gruppo di appartenenza, anche se non si possono mettere in opposizione emancipazione e integrazione sociale. Il principio di libertà è essenziale nell’educazione se non si vuole che essa diventi manipolazione, quello di integrazione se si vuole valorizzare la dimensione sociale della persona.
Solo in quanto soggetto, autore e attore della propria vita capace di mettersi in rapporto con altri soggetti e con le appartenenze che li caratterizzano (etnica, religiosa, politica, locale etc.) la persona può dare un senso e una direzione alla propria esistenza. Il soggetto di cui si deve occupare la pedagogia è il soggetto che costitutivamente è posto tra gli altri.

4) L’educazione è una relazione asimmetrica, necessaria, ma provvisoria la cui attività deve scomparire man mano che comincia ad emergere l’autonomia del soggetto e la sua capacità di valorizzare le potenzialità, che lo distinguono. Per questo obiettivo è necessaria la rinuncia ad esercitare il potere sulla volontà altrui per ritrovare il potere, senza riservarselo, sulle condizioni che permettono all’altro di “farsi opera di se stesso” (Pestalozzi). L’apprendimento non si decreta, non è il risultato dei doni naturali, nè è casuale; dipende dagli sforzi e dall’impegno di renderlo possibile.
“Lasciare ciascuno libero di apprendere vuol dire rassegnarsi alle ineguaglianze, perchè i poveri non sanno che cosa si guadagna ad apprendere”(Lettera ad una professoressa-Scuola di Barbiana);

5) Educare significa formare l’intelligenza e forgiare la personalità dell’alunno, accettarne l’estraneità e anche l’avversione, prenderlo com’è e rinunciare al rapporto di forza, curare l’umanità nelle relazioni pedagogiche. Proprio per questo vi è della sofferenza nel rapporto educativo, perchè ogni costrizione è una sconfitta. Per educare bisogna avere dell’umiltà. Il buon educatore è colui che fa posto all’esistenza dell’alunno, alla sua singolarità tra programmi, regole e valutazioni e ne capisce, quando sopravvengono, le sue resistenze, le sue difficoltà, i suoi rifiuti.
L’educatore si interroga sulle resistenze dell’altro e non tenta di violarle. Per paradosso si può dire che compito dell’educatore è quello di educare gli ineducabili.
Il momento educativo si realizza nell’accettazione di un qualcuno che non si lascia dimenticare e che non vuole essere ricondotto all’anonimato di un gruppo indifferenziato (classe, istituto, ambiente).
E’ impossibile e non ha senso pensare di dominare l’irriducibilità del soggetto. Questo ci ricorda la buona pedagogia.
“Andare fino in fondo all’esigenza di singolarità è darsi la più grande chance di accedere all’universalità”(P. Ricoeur);

6) La pedagogia non è una scienza e non le si conferisce dignità pretendendo che lo sia; sarebbe peraltro una scienza senza l’onere e la responsabilità di portare le prove. . .
La pedagogia non è nemmeno l’insieme delle cosiddette scienze dell’educazione, in grado forse di rispondere alla domanda “COME”, ma non a quella “PERCHE’ ” educare e che non sono riuscite finora a rimpiazzare la riflessione filosofica sull’uomo.
E senza antropologia di supporto non c’è pedagogia e nemmeno buona educazione. I sospetti sulla pedagogia sono a volte un esercizio di superbia accademica che stride con la problematicità e la drammaticità dell’azione educativa nella società contemporanea. Istruire senza educare è un mito positivista che non funziona più. Istruire è sempre scegliere un tipo d’uomo e di società anche quando si pensa di non farlo. Nel processo formativo ci si illude di evitare le scelte di valore.

7) Come ogni attività che abbia come campo d’applicazione ciò che è umano l’attività educativa rinvia al discernimento, alla capacità di cogliere le occasioni e di decidere alla luce di conoscenze solide e con l’aiuto di tutti i mezzi disponibili nella consapevolezza dei problemi da affrontare. C’è dell’arte e dell’intuizione nell’attività educativa. L’educazione sfugge all’epistemologia disciplinare. In quanto praxis l’educazione non può pretendere di avere fondamenta inconfutabili. Il suo discorso può essere allora più che una dimostrazione un racconto o l’esplicitazione di un “exemplum”. Pensare l’educazione come praxis aiuta ad accettarla come incontro con l’alunno con tutte le sue difficoltà e resistenze. “L’educazione è l’insieme dei processi che permettono ad ogni bambino di accedere progressivamente alla cultura essendo la cultura ciò che distingue l’uomo dall’animale”(O, Reboul(1989)-La filosofia dell’educazione).
“L’uomo non è uomo se non per l’educazione”(Kant). Si educa , perchè si ritiene che sia possibile e doveroso farlo.

8) A scuola si deve coltivare la capacità riflessiva come requisito per esplorare il significato dei valori costitutivi della cittadinanza e per appropriarsi della dimensione sociale e problematica dei saperi. Ricondurre il sapere ai problemi che l’hanno generato è necessario per recuperarne la connotazione esistenziale, per comprendere cosa sia una “theoria” autentica. Curiosità e spirito critico sono le espressioni naturali dell’atteggiamento problematico, che occorre orientare e sviluppare la prima naturalmente proiettata verso il futuro, il secondo alla ricerca dei fondamenti dei problemi. Bisogna apprendere l’arte di suscitare il desiderio di apprendere. L’obiettivo più alto dell’educazione è comprendere, più alto ancora di quello di riuscire.

9) Educare perchè si impari a porre e a porsi delle domande; a pensare il rigore e la radicalità delle domande: bisogna dare gli strumenti per potere discutere e dialogare, per potere resistere al sovvertimento delle evidenze con cui quotidianamente si cerca di manipolare le coscienze.
Per educare a porre domande, ogni lezione dovrebbe essere un’interrogazione sul senso del sapere. La scuola dovrebbe essere un luogo dove si può sbagliare, senza rischiare nulla (Meirieu).
“La classe è un luogo dove la verità di una parola non è relativa allo status di colui che la pronuncia”(B. Rey). Una pedagogia aperta deve misurarsi, però, con quella parte di disordine, di negoziazione che essa comporta. In pedagogia non è possibile aprire il registro delle certezze.

10) Uno dei compiti più difficili da affrontare oggi è quello di ricondurre i giovani cresciuti nel mondo virtuale alla serietà dei problemi del mondo reale.
Rompere l’involucro gratificante dell’irrealtà per misurarsi con le fatiche quotidiane di conoscenza e di lavoro non sarà facile, ma è la nuova missione educativa della scuola e degli insegnanti.

11) L’educazione dei giovani è un’impresa collettiva e non il risultato casuale di contributi individuali degli insegnanti e di altre figure di adulti. Il problema è lavorare insieme, imparare l’uno dall”altro; essere una comunità professionale, dove si è reciprocamente risorsa per l’altro. Dare e ricevere aiuto non significa essere incompetenti, ma partecipare alla ricerca comune per rendere migliore l’apprendimento dei giovani.

12) Una buona scuola è una comunità di adulti che prende in carico una comunità di alunni e non un guazzabuglio informe di ore di lezioni.




Non lo psicologo ma tanta psicologia per curare le patologie della scuola

di Giovanni Fioravanti

Composizione geometrica di Gabriella Romano

Lo psicologo a scuola c’è ormai da tempo, con un eccesso di certificazioni per ogni disturbo specifico dell’apprendimento, per ogni bisogno educativo speciale.

È la scuola che non è mai ricorsa all’ausilio di uno psicologo per curarsi, eppure è da tempo che si segnalano vere e proprie malattie, crisi di identità, malesseri, sintomi di disadattamento e di sfinimento, addirittura pare che sia la scuola ad essere dannosa a se stessa. Ma non è attraverso il continuo ricorso alla clinica che la scuola può pensare di guarire dalle sue patologie.

La scuola più che di psicologi ha bisogno di psicologia a tutti i livelli.
Nelle professioni di relazione la competenza psicologica è fondamentale. Nella scuola questo vale dall’ultimo dei collaboratori scolastici fino al primo dei dirigenti.

Ma la relazione tra psicologia e scuola nel nostro paese non è mai stata delle più felici.
Ci aveva tentato, all’indomani della Liberazione, Carleton Washburne, pedagogista statunitense, a capo della ricostruzione della scuola italiana, mandando cinque insegnanti della scuola elementare all’Università di Ginevra perché apprendessero le teorie di Piaget. Ma il progetto naufragò perché il governo italiano di allora non aveva i soldi per pagare il viaggio e il soggiorno.


Il resto l’hanno fatto lo spiritualismo e il personalismo per anni imperanti nella scuola italiana, di fatto ostacolando una compiuta formazione psicologica dei suoi operatori.

David Paul Ausubel è stato uno psicologo statunitense, seguace delle teorie di Jean Piaget. Ha fornito contributi significativi nel campo della psicologia dell’educazione, delle scienze cognitive e della didattica delle discipline scientifiche.
Ha introdotto la differenza tra l’apprendimento di qualcosa che ci interessa e qualcosa di noioso che abbiamo acquisito in modo meccanico.
Nel primo caso parliamo di apprendimento profondo, di apprendimento significativo, di un apprendimento costruito e legato al bagaglio di conoscenze che già si possiedono, in cui l’individuo svolge un ruolo attivo ristrutturando e riorganizzando le informazioni.
Come si può intuire la teoria di Ausubel è influenzata dal costruttivismo: per Ausubel la vera conoscenza è costruita dal soggetto attraverso le sue interpretazioni.
Allora già qui si pone il problema. L’ apprendimento non è una questione di condotta, di disciplina, di attenzione passiva. L’apprendimento si costruisce, richiede una partecipazione attiva del soggetto, l’apprendimento significativo è un apprendimento relazionale.

In una scuola il cui perno organizzativo ancora ruota intorno alla disciplina e alla condotta è difficile concepire una didattica della relazione, della reciprocità.
La didattica che ancora prevale è quella condizionata dal comportamentismo, stimolo-risposta, da un “istruzionismo” meccanico e ripetitivo anziché da una prassi costruttivista della conoscenza.

E già questa è la prima patologia della scuola, non di chi la frequenta.

Attenzione, condotta e disciplina alimentano l’errore di Cartesio, segnalato dal neuroscienziato Antonio Damasio.
Classe, cattedra, banco, voti, rigidità degli orari impongono il divorzio tra intelligenza ed emozione. Tra intelletto ed emotività.
Del resto l’intelligenza richiesta dalla scuola non è mai quella del pensiero divergente, ma se la mente deve convergere sull’unica direzione della cattedra di quale intelligenza parliamo? Dunque altra patologia della nostra scuola.

Howard Gardner con le sue intelligenze multiple ha offerto alla scuola l’opportunità di curarsi dai suoi disturbi, ma dimostrazioni che si sia sottoposta a sedute terapeutiche di questo tipo non mi ritornano.

Dopo Gardner non è andata meglio neppure con Daniel Goleman e la sua “Emotional Intelligence”, in Italia appare nel ’97 con il titolo “L’intelligenza emotiva che cos’è, perché può renderci felici.”
Si tratta di un aspetto della nostra intelligenza che consiste nella capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole sia le nostre emozioni che quelle altrui.
È appunto di quelle altrui che la scuola patologicamente non sa occuparsi. L’educazione emotiva non riguarda solo gli studenti, che si pretenderebbe di formare alla resilienza ed altre varie amenità, come certi progetti di legge prospettavano e forse prospettano ancora.
Chi si deve formare all’emotività in questo caso è l’istituzione. Ciò spiega l’incompetenza delle scuole di fronte alle difficoltà e al disagio di adolescenti e bambini.
È in gioco la relazione tra sistema e comportamenti disfunzionali degli studenti che richiedono non reazioni disciplinari ed emarginalizzanti, ma capacità empatiche che aiutino a ricercare risposte alternative. Pause di attenzione, tempi di decantazione, accompagnamento, cura, pluralità di opzioni, ma soprattutto accoglienza e capacità di riflessione, di ripensamento, flessibilità da parte del sistema stesso.

C’è un’altra patologia di cui soffre istituzionalmente la scuola che si chiama classe e classificazione.
In sostanza l’idionsicrasia conclamata nei confronti del sé. Una classe con troppi sé è una depressione o un’esplosione. A volte sono solo scintille isolate, che immediatamente vengono spente con l’espulsione diretta o indiretta, tale sempre da non turbare il normale follow up della programmazione.
Potremmo riassumere il concetto di sé come fiducia in se stessi e nelle proprie capacità.
Elemento delicato soprattutto per un giovane, per il quale il concetto di sé è fortemente condizionato dagli adulti che entrano in relazione con lui.
Il concetto di sé non è qualcosa di statico, è dinamico perché in noi giocano le aspettative e le prospettive. Vale a dire i “Sé possibili”, i Sé orientati al futuro. I sé possibili sono quelli che alimentano il desiderio di raggiungere un certo obiettivo, di migliorare un certo stato, di crescere, di realizzarsi, sono la molla della motivazione ad agire, sono la spinta del sé agente.
La scuola mette in gioco i sé possibili e i sé futuri, molti troppo spesso rimangono sacrificati sul campo, ma di questo la scuola non si preoccupa perché neppure se ne accorge.

C’è poi la patologia dell’identità incerta di un luogo che non ha mai risolto il suo rapporto con i saperi e la conoscenza, limitandosi a fornirli in dosi già confezionate, prendere o lasciare, tipo i libri di testo.
Pertanto non si comprende se la scuola abbia una chiara consapevolezza della sua identità, schiacciata dalla schizofrenia mai risolta, dissociata tra “prendere” e “ap-prendere”. Come passare da un imparare passivo (prendere) ad un imparare attivo (ap-prendere), cos’è che fa dell’imparare un apprendimento?
È come ricevere le conoscenze senza sapere nulla delle conoscenze, della loro natura, come funzionano, come si riversano nella mente, come si combinano quando entrano nel nostro cervello e incontrano quelle che già possediamo. Si chiama meta-cognizione.
La Metacognizione per tradursi in apprendimento ha necessità che le cognizioni calde e fredde si incontrino: intelligenza, motivazione, consapevolezza di sé.
Ha bisogno di attivare quelle abilità mentali superiori che vanno oltre i “semplici” e scontati processi cognitivi primari come ad esempio: leggere, ricordare, calcolare, in pratica si tratta di stimolare il soggetto a controllare come lavora la sua mente.
La scuola soffre di identità mai risolte, di malessere e sfinimento prodotti dalla ripetitività, tali da renderla insofferente al cambiamento.
Il rapporto con il cambiamento è un grosso ostacolo per un’utenza che cambia, la cui peculiarità è il cambiamento, in quanto in via di sviluppo. In queste condizioni il conflitto è inevitabile, è inutile fingere di ignorarlo, porlo a tacere.

Ma poi cos’è lo sviluppo, cosa sarà mai? Ne siamo sempre usciti tutti.
E qui sta il più grande deficit psicologico della scuola che rende particolarmente fragili le relazioni con la sua utenza, dentro e fuori della scuola.
Allo sviluppo è connesso il cambio di stato, sviluppo non è solo crescita, non è soltanto passaggio da una fase all’altra della vita.
Sviluppo è cambiamento. E questo del cambiamento è un fattore importante per chi esercita una professione di relazione con chi deve cambiare per crescere, perché implica l’inaspettato, la sorpresa, come la fiducia.

Umberto Galimberti nel suo Nuovo Dizionario di Psicologia definisce lo sviluppo come: “Processo evolutivo di un organismo con modificazioni di struttura, di funzione e di organizzazione per tre ordini di cause: maturazione intrinseca, influenza dellambiente e apprendimento che avviene assumendo una posizione attiva nei confronti dell’ambiente.”
Qui ci interessa sottolineare “la posizione attiva nei confronti dell’ambiente”, di tutti gli ambienti, compreso l’ambiente di apprendimento: la scuola e l’insegnamento.
È la posizione attiva nell’ambiente che consente di apprendere dall’ambiente, di organizzare le conoscenze e maturare le nostre funzioni superiori: ragionamento, memoria, attenzione, elaborazione delle informazioni.

Ce n’è abbastanza per mandare sul lettino dello psicanalista la scuola e il suo personale, compreso lo psicologo di cui il ministro vorrebbe rifornire le scuole.




Bruno Ciari e le tecniche Freinet

di Giancarlo Cavinato

Nel 2023 ricorre l’anniversario del centenario della nascita di Bruno Ciari che il MCE è impegnato a ricordare e a diffonderne il pensiero e l’azione.
Un comitato si è costituito per predisporre iniziative e strumenti di presentazione della figura e dell’opera del maestro di Certaldo. Accanto a convegni e ad incontri in alcune delle città dove maggiormente ha inciso la presenza di Bruno e del MCE- Bologna, Firenze, Torino, Roma, sono stati messi a punto alcuni materiali per consentire di offrire  uno sguardo a tutto campo e una documentazione del contesto in cui ha operato Bruno e degli esiti del suo intervento accanto ai compagni del Movimento: una mostra sul giornalino scolastico; dei reprint dedicati agli aspetti centrali del suo pensiero, con una selezione di scritti organizzati per temi: il pensiero scientifico, la didattica della matematica, l’educazione linguistica, il rapporto metodo-contenuti/tecniche e valori, il progetto di scuola unitaria, l’espressione del fanciullo.
Sono estratti da articoli che Ciari scrisse per Cooperazione educativa e per Riforma della scuola, e dalle sue opere, ‘Le nuove tecniche didattiche’, ‘I modi dell’insegnare’, ‘La grande disadattata’ (queste ultime due a cura di Alberto Alberti). Sono materiali pensati per la diffusione all’interno del movimento con la proposta del comitato Ciari di organizzare dei gruppi di lettura da parte dei gruppi territoriali MCE così da acquisire chiavi di lettura e di analisi utilizzabili nella scuola di oggi.

In una società in costante evoluzione Ciari intendeva formare nei propri alunni uno spirito civico e una sensibilità democratica e solidale in controtendenza con le prospettive che si andavano affermando nell’epoca del consumismo e dell’individualismo. Per stimolare la formazione di atteggiamenti aperti e critici e non assuefazione e conformismo Ciari si avvaleva degli strumenti concreti, operativi, di una didattica della manualità, dell’interezza, dell’autodisciplina. Formando al senso del valore di appartenere a una comunità, piccola ma centrale nel periodo della crescita, la classe.

L’organizzazione della classe è uno dei fondamentali delle tecniche Freinet.  Nella classe cooperativa esse trovano spazio e significatività, dal piano di lavoro al calcolo vivente, dalla discussione alla messa a punto collettiva dei testi alla corrispondenza al giornale scolastico. Sono questi gli strumenti della ‘scuola del fare’  freinetiana, che consentono a ciascuno/a di acquisire uno status, un ruolo, di espletare delle funzioni in un contesto dinamico, di proiettarsi nelle attività con le procedure che queste richiedono e che si articolano in fasi che richiedono consapevolezza e previsione.

Ciari afferma la profonda incidenza nello sviluppo di atteggiamenti cooperativi e prosociali delle tecniche Freinet, che “non hanno il loro valore essenziale nel procedimento, ma nelle motivazioni profonde che promuovono, negli slanci di vita che accendono nelle classi, nelle possibilità che esse possiedono di creare una comunità organica… in esse si attua una serie di valori umani che il fanciullo non possiede di per sé e che può assimilare […] col realizzare un complesso di rapporti sociali che implicano una determinata concezione del mondo.” (Ciari, I modi dell’insegnare, Editori Riuniti).

L’uso degli strumenti della comunicazione sottende precise scelte etiche, valori pedagogici che la comunità condivide. Si tratta della destinazione sociale del pensiero, del circuito espressione-comunicazione che attraverso precisi dispositivi si attivano e si potenziano reciprocamente. Non c’è un parlare astratto ma diversi momenti e diversi livelli di impegno, personale, di gruppo, collettivo in una classe così organizzata con spazi tempi ritmi adeguati alle attività, sperimentandone l’efficacia, modificandone le modalità ove necessario. Una scuola per la vita, rivolta al futuro.
Non a caso le tecniche di base, alla portata di ognuno, sono tecniche inclusive, che non emarginano nessuno, a cui tutti possono contribuire secondo le loro capacità e le loro propensioni; tecniche, appunto, ‘di vita’. Ben diverse dalle ‘prove autentiche’ cui oggi spesso si fa riferimento nel pur lodevole intento di attribuire significato alle attività svolte dagli alunni.

Attraverso la proposta dei 4 passi per una pedagogia dell’emancipazione (strumenti di democrazia, ricerca, classi aperte e laboratori, valutazione formativa) il MCE è impegnato a valorizzare un tale impianto organizzativo nella sua composizione modulare che va adattata alle esigenze dei singoli contesti e ad attualizzare per l’oggi le tecniche e i loro supporti tecnologici. Mantenendo la forza e le potenzialità delle esperienze che esse sottendono: il discutere e decidere insieme, l’appartenere a diversi gruppi nella propria e con altre classi con impegni e sviluppi diversi, il fare ricerca, il senso di autorealizzazione, la possibilità dio maneggiare e consultare una pluralità di testi e di fonti, il collegarsi con classi di altre parti del paese e del mondo e la sensazione di condividere speranze e obiettivi,  il veder nascere e svilupparsi un prodotto come il giornale il libro il video…

C’è un futuro per la pedagogia attiva nel solco di maestri come Ciari, Lodi, Alberti, Maviglia, don Milani.




Esame di Stato primo ciclo: come prepararsi serenamente al colloquio

di Annalisa Filipponi[1]

L’esame di stato conclusivo del primo ciclo dell’istruzione torna nella sua veste conosciuta (tre prove scritte e un colloquio orale) prima della pandemia. La Nota ministeriale informativa n° 4155 del 7 febbraio 2023 del Ministero dell’Istruzione del Merito in relazione al colloquio conclusivo recita: “Il colloquio (DM. 741/2017, articolo 10), condotto collegialmente dalla sottocommissione, valuta il livello di acquisizione delle conoscenze, abilità e competenze descritte nel profilo finale dello studente previsto dalle Indicazioni nazionali per il curricolo, con particolare attenzione alle capacità di argomentazione, di risoluzione di problemi, di pensiero critico e riflessivo, di collegamento organico e significativo tra le varie discipline di studio. Il colloquio accerta anche il livello di padronanza delle competenze connesse all’insegnamento trasversale di educazione civica.

La prima domanda da porsi è quella relativa all’efficacia del colloquio d’esame della Secondaria di I grado, condotto dagli insegnanti di classe a pochi giorni dalla fine della scuola e come ultimo momento di un ciclo di studi, con una modalità che molto spesso si risolve in una carrellata di contenuti raccolti in una “tesina” o con risposte del discente a domande specifiche dell’insegnante quasi esclusivamente correlate alle singole discipline. Una attenta lettura della nota ministeriale nella parte centrale del suo articolato sul colloquio (“particolare attenzione alle capacità di argomentazione, di risoluzione di problemi, di pensiero critico e riflessivo, di collegamento organico e significativo tra le varie discipline di studio”) apre la possibilità a valutare se vi possono essere altre modalità, oltre a quelle conosciute, per condurre un esame che soddisfi appieno la norma e al tempo stesso costituisca un elemento di novità e un’occasione formativa per gli studenti nell’ultima parte e nel primo esame del loro percorso scolastico nel Primo ciclo d’istruzione.

Per questo l’Accademia di Argomentazione e Debate del Friuli-Venezia Giulia- DeAFVG.APS- ha avviato in due importanti Istituti comprensivi del Friuli-Venezia Giulia delle azioni formative per preparare gli studenti e le studentesse a nuove modalità e nuovi moduli didattici che li conducano con rinnovata motivazione al colloquio d’esame. Una delle due esperienze innovative ha carattere sperimentale e introduce il Debate come modalità facoltativa di svolgimento del colloquio d’esame; l’altra invece si sviluppa in alcuni moduli formativi propedeutici al colloquio, liberamente scelti da allievi e famiglie, e utilizza la metodologia del Dialogo euristico peer to peer in Comunità di ricerca oltre a porre le basi del Public Speaking.

Entrambe le sperimentazioni sono tese verso uno sviluppo problematizzante della dialettica argomentativa per costruire, insieme agli studenti e ai loro insegnanti, una modalità che sposti la comunicazione in sede d’esame dalla sola esposizione ad una argomentazione ragionata. Dunque, la finalità che accomuna le due diverse esperienze è quella di poter osservare e valutare le competenze acquisite da ciascun discente nel processo cognitivo maturato nel corso del triennio della Secondaria di I grado.

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L’attività sperimentale condotta in un Istituto vuole verificare gli effetti della trasformazione del colloquio d’esame attraverso l’utilizzo del
Debate, levando quella prova sia dalla sua forma tradizionale (esposizione di un argomento e poi eventuali domande sulle varie materie di studio), sia da forme sperimentali ma trasmissive (redazione ed illustrazione di tesine, power point, ricerche, ecc.). Si tratta di cercare di spostare il focus del colloquio dalla trasmissione di contenuti all’utilizzo, in quella sede, di abilità analitiche, critiche, argomentative e di vere competenze comunicative anche nell’ambito di diversi contenuti, da presentare e rielaborare per sostenere un colloquio d’esame sereno, divertente ma profondo.
Il Debate possiede tutte le caratteristiche per toccare gli elementi sopra citati, nell’ambito di un apprendimento critico in cui l’argomentazione si costruisce per un’azione comunicativa efficace e approfondita. La sperimentazione trasforma il colloquio d’esame in una forma di innovazione didattica di Debate formativo, che non ha alcun valore agonistico, ma permette allo studente di usare la struttura argomentativa come strumento di comunicazione trasversale di contenuti didattici. Le conoscenze disciplinari saranno utilizzate per rendere solida la ricerca documentale, che costituisce la basa strutturale della prova, dato che l’esame si svolgerà a coppie di studenti e in forma dialettica, all’interno di argomentazioni PRO e CONTRO su una Mozione data. La Mozione, comunicata agli studenti una quindicina di giorni prima dell’esame, sarà formulata dai docenti esaminatori e verterà su argomenti afferenti ai curricoli disciplinari e/o di educazione civica analizzati in classe durante l’anno.

Si tratta, dunque, di un modo innovativo di condurre l’esame di stato, in cui lo studente non deve solo assemblare contenuti e argomenti, ma scegliere quali contenuti e quali argomenti supportano la sua posizione (pro o contro) in rapporto alla Mozione. Si tratta della metodologia del Debate, adattata però ad una funzione non competitiva, ma solamente formativa. Ciascun allievo cercherà di convincere la commissione del livello di competenze acquisite lungo il triennio non attraverso la sola trasmissione di contenuti, ma utilizzando i contenuti come elemento cardine della loro rielaborazione cognitiva, che comunicherà tramite argomentazioni a sostegno o a confutazione di una tesi data.

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La seconda esperienza formativa coinvolge gran parte degli studenti di due Scuole secondarie di un Istituto comprensivo e si fonda su un processo formativo che tocca alcuni elementi del Debate e delle pratiche argomentative più collaudate come la Comunità di ricerca e il Public Speaking. Infatti, i moduli su cui si è sviluppato il percorso preparatorio hanno cercato di produrre un processo di apprendimento significativo, al fine di sviluppare un reale apprendimento cognitivo, con l’analisi e, quindi, lo sviluppo di diversi stili comunicativi dentro contesti plurali, con una base argomentativa preparata per cercare di coinvolgere chi ascolta. Il corso preparatorio è stato strutturato su tre cardini didattici:

 

  1. La Comunità di ricerca per un dialogo euristico tra pari (saper ascoltare, rielaborare un pensiero proprio su un testo dato, imparare a comunicarlo in modo corretto ed efficace).
  2. Saper comunicare in modo efficace: il Public Speaking.
  3. Saper tenere il focus in un colloquio rielaborando alcuni collegamenti interdisciplinari raccordandoli tra loro con i connettivi appropriati.

Gli esiti di queste nuove modalità di approccio al colloquio d’esame conclusivo del Primo ciclo dell’istruzione si potranno analizzare solo al termine dell’anno scolastico, ma fin d’ora si può indicare la metodologia formativa proposta, come esperienza vissuta con vero entusiasmo dai/dalle giovani studenti/studentesse che l’hanno scelta.
Le docenti formatrici esperte esterne sono state affiancate, in entrambe le azioni formative, da un docente tutor facente parte della commissione d’esame. Il tirocinio formativo ha visto alunni ed alunne sperimentare il passaggio dalla trasmissione di contenuti (propria delle interrogazioni, anche delle più problematizzanti) allo sviluppo argomentativo di una tesi, incentrata su un’area tematica di interesse. In questo modo alunni ed alunne si confronteranno con un compagno o una compagna che sta sostenendo le tesi opposte in una delle due scuole; mentre trasformeranno l’esposizione di contenuti in una tesi argomentativa nell’altra scuola. Non si tratta di un esercizio di retorica, ma dello sviluppo della competenza che permette di verificare un argomento da diversi punti di vista. In questo modo si forniscono agli studenti competenze che rendono attivo l’ascolto, che permettono anche nella fase adolescenziale di affrontare questioni complesse, che consentono di esporre le proprie ragioni e ascoltare quelle degli altri interlocutori, ma solo dopo aver analizzato attentamente la Mozione o l’argomento scelto non sull’onda di un’interlocuzione basata sull’improvvisazione emotiva, ma attraverso un approfondimento centrato sul lavoro preparatorio.

L’attività così progettata sposta le potenzialità argomentative da un indistinto luogo libero (in cui ognuno può dire quello che vuole) ad un esame di stato in cui la qualità della propria argomentazione viene valutata nella sua profondità, pertinenza, coerenza logica, anche nello scambio dialogico, dalla commissione d’esame. Si cerca di passare, in questo modo, dall’esposizione di una “tesina” o dall’illustrazione di un power point, ad una prova di dialettica argomentativa dentro una vera prova di realtà qual è l’esame di stato.

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Il colloquio d’esame si trasforma, dunque, in una vera prova esperta, dentro il campo reale dell’argomentazione, cogliendo in pieno il senso della nota ministeriale citata.
Il lavoro è ambizioso, ma collega formazione, innovazione e ricerca didattica al fine di sperimentare le potenzialità del Debate e del Dialogo euristico tra pari in Comunità di ricerca in una logica che sposta l’attenzione dello studente dalla comunicazione trasmissiva (propria della scuola) o istintiva (propria dei social) a quella del discorso connesso ad un’organizzazione preventiva del sapere argomentato da comunicare.

Collocare tutto questo in un esame di stato vuol dire cercare di costruire percorsi di senso dentro una preparazione scolastica che, comunque, attesta la fine di un importantissimo ciclo dell’istruzione.

  1. Docente e formatrice. Presidentessa dell’Accademia di Argomentazione e Debate del Friuli Venezia Giulia e della Sezione Friuli Venezia Giulia della Società Nazionale Debate Italia.



Apprendimento permanente, per affrontare le sfide del XXI secolo

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

Era la scommessa dell’Illuminismo il cittadino cosmopolita del sapere, come dire che solo la ragione può unire il mondo, perché l’uomo razionale non accetta barriere nazionali.
La società della conoscenza nasce nutrendosi della fiducia nell’universalità del sapere come forza unificatrice contro le spinte scioviniste dei vari nazionalismi.
La seduzione dell’apprendimento permanente, per tutta la vita, è l’enunciazione di un particolare atteggiamento illuministico verso esistenze guidate dalla ragione, dalla compassione per l’altro, dalla continua ricerca di innovazione e cambiamento, in cui l’unica cosa che non è una scelta è compiere delle scelte.

L’apprendimento è un processo continuo che non tollera più d’essere relegato alle sole aule scolastiche e alle loro forme rituali di istruzione, perché la vita esige sempre un di più di conoscenza per affrontare problemi e innovazioni che non hanno un punto di arrivo, cambiamenti che richiedono responsabilizzazione e processi decisionali i cui effetti non riguardano solo il singolo individuo, ma l’appartenenza collettiva alla comunità mondiale.
Siamo entrati nel tempo del problem solving, dell’apprendere a risolvere problemi, dove non è più sufficiente essere istruiti su problemi già risolti da altri, ma piuttosto è necessario imparare come dare soluzione a quelli che hanno da venire, per i quali non esistono ancora formule ed eserciziari.

L’apprendimento permanente è la risposta sociale moderna all’esigenza di diventare cittadini della Terra, della Terra Patria, come ci ricorda Edgar Morin,  accedendo a una cultura condivisa, dotati di strumenti intellettuali ed emotivi per vivere una cittadinanza planetaria.
La società come luogo pedagogico, di cui scriveva John Dewey agli albori del secolo scorso, è ora la Terra intera con la potenza del pluralismo e della molteplicità delle sue comunità e culture nelle quali ogni giorno si costruisce il destino comune.
La parola apprendimento è diventata indispensabile per parlare di noi stessi, degli altri e della convivenza con l’ambiente.

Le scienze dell’educazione si sono tradizionalmente occupate dello studio delle istituzioni che forniscono l’istruzione formale, ma oggi  è importante  l’espansione e la diffusione del paradigma pedagogico in aree non tradizionalmente considerate educative, in qualsiasi parte del mondo l’istruzione non è solo una questione di ciò che si insegna a scuola, ma è, in nome dell’apprendimento permanente, qualcosa che permea il governo di tutte le attività sociali.

Diventa importante per gli insegnanti sostenere gli alunni a trovare il modo migliore  di sviluppare la capacità di capire e gestire il proprio futuro, le narrazioni nel contesto dell’istruzione sottolineano che il mondo è diventato sempre più mutevole e difficile da prevedere. Una delle voci all’interno di queste narrazioni chiede come la scuola potrebbe prepararsi per un futuro di cui sappiamo meno ma di cui dobbiamo sapere sempre di più. La risposta data riguarda lo sviluppo di talenti per essere in grado di gestire nuove situazioni.
Il compito più importante per l’insegnante è quindi quello di organizzare ambienti e contesti di apprendimento stimolanti che supportino processi esplorativi in cui l’individuo in modo attivo acquisisca conoscenza e dove la conoscenza è considerata un processo piuttosto che un prodotto.

Una componente cruciale nel processo di apprendimento è, dunque, la metacognizione, come produrre conoscenza su noi stessi, capire come la conoscenza funziona nella pratica, progettare i nostri propri processi di apprendimento come un oggetto di ricerca, una meta-prospettiva per il futuro.
Pertanto, una dimensione centrale della formazione degli insegnanti è la capacità di sviluppare conoscenze su come la conoscenza è prodotta e costituita. In questo contesto, la conoscenza e i processi di apprendimento degli studenti diventano a loro volta una pratica di conoscenza per la produzione e lo sviluppo della conoscenza degli insegnanti. Senza dubbio “imparare” nelle narrazioni contemporanee significa qualcosa di diverso rispetto a quelle di altri periodi storici. Viviamo in una società rischiosa, incerta e in continua evoluzione. In questo contesto diventa indispensabile la svolta epistemologica che iscrive l’apprendimento permanente e la costante formazione e produzione di conoscenza nella pratica quotidiana come chiave per un futuro gestibile.

Pianificare il futuro significa pianificare le disposizioni e le sensibilità interiori che ordinano i modi in cui le persone risolvono i problemi in quanto cittadini orientati al futuro. La realizzazione del futuro diventa così un progetto individuale di apprendimento permanente. Non più l’alunno, l’allievo, lo scolaro della tradizione, ma il soggetto singolo pensato come il primo organizzatore del proprio destino.

Considerare l’intera società come luogo di conoscenza, come un luogo di apprendimento diffuso che investe la responsabilità dei singoli soggetti in termini di lifelong e life wide learning costituisce una condizione indispensabile alla governance del ventunesimo secolo.

Bibliografia

Biesta, G. (2006)
‘What’s the point of lifelong learning if lifelong learning has no point? On the democratic deficit of policies for lifelong learning’, European Educational Research Journal, 5: 169–80.
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Teaching and Learning: Towards a Learning Society, Luxembourg: Office for Official Publications of the European Communities.
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Commission Staff Working Paper, Memorandum on Lifelong Learning, Brussels: European Commission.
Fejes, A., Nicoll, K. (2008)
Foucault and Lifelong Learning. Governing the subject, Routledge, NY.
Field, J. (2000)
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Gustavsson, B. (2002) ‘What do we mean by lifelong learning and knowledge?’ International Journal of Lifelong Education, 21: 13–23.
UNESCO (1996)
Learning: The Treasure Within, Report to UNESCO of the International Commission on Education for the Twenty-first Century, Paris: UNESCO.