Stupri e adolescenti: fine del maschio e infosfera

di Raffaele Iosa

Si parla molto in questi giorni di fine agosto di due terribili storie di  stupri che hanno coinvolto  maschi adolescenti verso ragazze coetanee  fino al limite di bambine (10 e 12 anni). Ne parla la politica, le televisioni grondano  di dibattiti non sempre equilibrati.  Ma non c’è  occasione (informativa o politica) nella quale oltre alle analisi sui luoghi  (in genere “aree a rischio degradate”),  oltre lo  scandalo di registrare e girare via web gli stupri ottenendo migliaia (pare) di giovanissimi guardoni, oltre a tutto questo viene sempre la domanda e la lamentazione: “E la scuola cosa fa?” Cosa potrebbe fare?”.

Di questo vorrei un po’ riflettere qui, perché (che si voglia o meno) la “domanda di scuola educativa” pare stavolta oggetto condiviso come “luogo utile” a formare diversamente i nostri giovani sui costumi  quando questi  sono  così  gravi e sconcertanti.
E sui quali non c’è dubbio che il tema non sia quello banale di una scolastica  “educazione sessuale”, ma di una più complessa “educazione all’affettività e alla relazione”, che innerva la vita quotidiana dei nostri bambini e giovani oltre la sessualità in senso stretto. E che, naturalmente, parte dall’educazione familiare (su cui molti sono i guai del presente), ma che poi potrebbe trovare nella scuola un luogo  di “comunità” che si auto-educa  agendo su valori positivi  realizzati non solo a parole (e certo non con le prediche)  ma nell’agire quotidiano della vita della scuola.

Tra il dire e il fare, due rischi emergono subito ad un lettore che sappia un po’ di scuola. Il primo è di intravedere una nuova “materia”, o nuovi “ docenti esperti” che a scuola in un modo o in un altro intervengano per prevenire e contenere questa specie di follia orgiastica adolescente.
Cioè “lezioni di educazione affettiva” separata dal resto. Questo modo di agire non è nuovo, e in genere ha poco successo.
Il secondo rischio è di  riempire la scuola di “professionisti esperti” che agiscano con diverse forme terapeutiche individuali, di gruppo e così via secondo i guai e le difficoltà di ogni scuola.
In ogni caso entrambi i rischi vedono la questione sesso-affettività come  “altro da sé” dalla scuola, una specie di “emergenza” piuttosto che un tema trasversale (l’affettività e la relazione) che innerva tutta la vita della scuola, dalle lezioni,  ai contenuti disciplinari, alle ricreazioni, alle gite scolastiche, ai  rapporti educativi, all’amicizia tra pari, alla partecipazione delle famiglie.

In attesa che qualche ministro  dell’istruzione dia linee, proposte, burocrazie dedicate, vorrei qui invece sottolineare  due questioni inerenti  questa follia dell’orgia giovanile , che siano strumenti riflessivi di base per gli educatori, qualsiasi siano le azioni che le scuole vorranno, sapranno e potranno voler fare.

LA FINE DEL MASCHIO

La prima ovvia questione da rilevare è  che i “colpevoli” siano giovani maschi. La cosa va detta con realismo e sincerità, per evitare di costruire ancora modelli arcaici di interpretazione per cui alla bambina o alla giovane stuprata si possa dire persino “se l’è voluta”. No, non è così. I maschi sono i colpevoli.

Aggrava questa condizione maschia il fatto che numerosi eventi di stupro avvengano in gruppo, ripristinando l’orgia collettiva in cui lo scambio maschile funziona da alimentatore. Quindi non maschi soli, ma il branco selvaggio. Ma c’è di più e ancora più grave: un’orgia adolescente pare aver senso se “viene filmata”, se diventa pubblica, se supera i confini del segreto, se insomma fa diventare la vita una forma di “esibizionismo online”, ottenendo persino il successo e la fama, con followers  e imitatori.

Forse è ora, per la scuola (e per la società adulta) di riflettere su un fatto più vasto della sessualità  e genitalità inerente all’attuale condizione dei  giovani maschi nel nostro  paese. Ne ho scritto molto e  ne ho studiato il fenomeno da almeno 30 anni , riscuotendo simpatia ma scarso interesse. La mia tesi è che a partire dagli anni 80 sempre  più è emersa una “crisi esistenziale” della condizione maschile cui la scuola e la società non ha pensato con occhio più attento. Alcuni dati per comprendere di cosa parlo: nella scuola media su 10 bocciati 8 sono maschi, i tossicodipendenti maschi sono l’80% del tossici, altrettanto i ragazzi maschi  con reati penali. Ma anche sulla disabilità e la cd. categoria BES sono molto di più i maschi con certificazione.  Un caso? Una questione biologica? Cosa c’è sotto questa esplosione di “mal maschile”?  Potremmo forse  vedere una relazione tra l’aumento della “crisi dei maschi” e il parallelo sviluppo civile e culturale dell’identità femminile  in chiave “femminista” nel senso di differenza nello stile di vita ma eguaglianza nei diritti individuali e collettivi? Cioè: più le femmine sono diventate a pieno diritto “donne” cittadine più il prototipo maschilista  del  padrone non ha saputo  convertirsi  in maschio fratello e amico, con diversi ma pari stili di relazione tra diritti e doveri.

La questione  è culturale nel senso più vasto e profondo del vivere le diverse identità umane. A cui si sommano anche le nuove questioni esistenziali delle scelte sessuali,  dell’identità individuale,  delle tante nuove sfumature dell’identità sessuale oltre quella  biologicamente sessuata.

Dunque, prima ancora di pensare ad un “progetto scolastico sull’affettività” , suggerisco di riflettere come educatori su cosa sia e faccia la scuola oggi per comprendere meglio e più a fondo l’ “essere maschio”. Ci sono pochi studi sul tema, poche esperienze di riflessione e azione per garantire ai maschi un’educazione più seria e dignitosa in fatto di affettività, più ampia di opzioni sugli stili di vita che non abbiano la competizione orgiastica come fine dominante, ma l’umanità solidale e creativa dell’essere umano con un’identità che sappia legare e amare, non dominare e sottomettere l’altro/a da te.

L’INFOSFERA

L’ex celebre porno attore Rocco Siffredi ha dichiarato, a proposito dell’uso dei social media per far girare i video delle orge giovanili, di essere  pentito di essere stato un produttore di video porno di diversa qualità. Al punto di volersi proporre di uscire dal mercato dei video e eliminare nella rete tutti i suoi prodotti. Segno questo, tra i tanti, di una presa di  coscienza di come il “vedere” sia un elemento scatenante possibile di perversioni imitative. In  giovani menti maschili possono produrre una follia collettiva e individuale che non sa reggere l’equilibrio complesso della sessualità e dell’affettività entro canoni umanamente condivisibili, ma esplodendo anzi in eccessi oltre misura senza alcun limite  etico e perfino estetico.

Dunque si può dire che la cd “infosfera” ( citando Luciano Floridi),  cioè questo mondo tecnologico dove l’online domina sempre più sulla realtà fisica e oggettuale della vita e delle relazioni, stia determinando una nuova follia sociale che pare incontrollabile e sempre più pericolosa. Riflettiamo sul rapporto che c’è tra un adolescente e le tante funzioni del suo cellulare. Queste funzioni  potrebbero non essere più mediate da una visione dialogica e collettiva ma racchiuse in un frenetico mondo istintuale e onanistico che crea relazioni (se le crea) non materiali  ma puramente virtuali. E dunque una possibile follia  del virtuale come realtà che domina e vince. Tema che va oltre la pornografia e che va seriamente discusso nell’evoluzione di tutta la società rispetto all’educazione, al lavoro, alla vita sociale, ai prodotti culturali, e così via.

Dunque, queste orge online aprono alla nostra società adulta e a quella che si occupa di educazione un tema molto serio sui limiti etici, antropologici ed esistenziali che la nostra società (e la nostra educazione) dovrebbero  avere verso il cosiddetto “virtuale”. Saggezza ma prudenza, soprattutto quando si è piccoli. L’online non è un giocattolo come una bambola o una macchinina. C’è di più, molto di più complicato.




La cura dei giovani: spetta alla scuola o alla famiglia?

di Raimondo Giunta

  • SCUOLA E FAMIGLIE: UN RAPPORTO PROBLEMATICO

Le cronache sconvolgenti di violenza giovanile contro le proprie coetanee ammoniscono sul fatto che l’educazione dei giovani, oggi, è diventato un problema serio, grave, che riguarda tutti indistintamente e purtroppo non facile da affrontare, perché la responsabilità educativa è declinata in modo diverso da chi se ne dovrebbe fare carico. La responsabilità educativa nei confronti dei giovani ricade su chiunque per ruolo o per età con loro abbia o sia tenuto ad avere delle relazioni, anche se diverse per gradi di obbligatorietà.
Nessuno, infatti, può essere responsabile nei confronti dei giovani come sono tenuti ad esserlo i genitori. La responsabilità educativa dei genitori costituisce “l’archetipo di ogni responsabilità” (H. Jonas) e si comprende come sia difficile rimediare ai danni procurati quando questa, come sempre più spesso accade, non viene esercitata, perché ai giovani mancheranno la guida, il buon esempio, i consigli e la cura nello sviluppo del proprio carattere, nella costruzione delle capacità di relazione, nella sollecitazione a regolarsi nella vita secondo principi e valori condivisi.

Alla responsabilità educativa dei genitori nelle società evolute e complesse si accompagna quella della scuola.  I loro compiti si intrecciano, ma non sono identici. Quelli dei genitori sono relativi alla dimensione personale dei giovani, quelli della scuola, relativi alla dimensione sociale e pubblica, tendono all’integrazione nella società, a sviluppare un rapporto di fiducia con le istituzioni e ad agire nella legalità.
Questo dovrebbe accadere se ognuno facesse la propria parte. I fatti di cronaca, non solo quelli recenti, dicono che qualcosa in questa divisione dei compiti non funziona, perché qualcuno dimentica di assumersi le proprie responsabilità.
Sicuramente negli ultimi tempi funziona molto poco il collateralismo tra scuola e famiglia che nel passato rendeva proficuo e meno difficile il lavoro scolastico; oggi varcano la soglia delle scuole giovani provenienti da ambienti sociali lontani dal sistema di abitudini, di procedure e di valori della scuola e di fronte a questa novità sociologica la scuola incontra difficoltà a reinterpretare il proprio ruolo e a ripensare l’insieme delle proprie finalità.

FINALITA’ EDUCATIVE E SCUOLA

Il problema delle finalità educative presenta molte sfaccettature, perché continuo è il processo di riarticolazione dei “valori” prevalenti in una società che occorre tenere presenti.  Nel merito non ci sono proposte facilmente condivisibili, perché ognuna di esse evoca una propria visione antropologica e una propria concezione della convivenza umana. Si può tentare, però, una soluzione. L’educazione a scuola in una società pluralistica non può essere improntata ai valori dedotti da un’idea astratta dell’uomo o da una particolare antropologia, ma ai principi di regolazione sociale che possono garantire il massimo di libertà per tutti e il massimo di rispetto altrui. L’educazione di cui si ha bisogno ha un senso, se chiunque ne abbia la responsabilità si impegna a far crescere e sviluppare l’umanità che è in ognuno di noi per essere reciprocamente umani, per essere reciprocamente liberi, per essere rispettosi della propria e della dignità degli altri, garanti dei propri diritti e di quelli degli altri. Sono valori che dovrebbero essere di comune accettazione, se si vuole disporre di principi di riferimento per la nostra convivenza.

Ovviamente in ragione di questa scelta vanno esclusi dalla scuola idee e valori che sono contro i diritti inalienabili della persona e che alimentano la violenza, l’odio verso la diversità, l’ingiustizia di qualsiasi specie.

All’interno di questo quadro di obbligazioni morali la scuola definisce le regole che devono governare la vita quotidiana e la convivenza dei giovani che la frequentano: regole che vanno fatte rispettare e difese con energia. A scuola si impara un mestiere e si impara a stare con gli altri; anzi se non si impara a stare con gli altri riesce difficile imparare un mestiere.
La scuola come istituzione ha una propria identità, costituisce un mondo particolare che può diventare significativo per i giovani,  se intorno agli aspetti della vita scolastica si riesce a sviluppare una consapevole attività educativa, ad organizzare un loro percorso di assimilazione(ordine, puntualità, impegno, responsabilità personale, rispetto delle persone e delle cose, ascolto, dialogo, equità, collaborazione, spirito di sacrificio, primato del sapere e della cultura, sensibilità artistica, spirito critico etc).
Nello spazio scolastico si possono giocare partite molto importanti per la promozione della cultura e di valori morali e si può attivare per giovani provenienti da ambienti a rischio un processo di decondizionamento culturale e sociale.

Ad un’educazione così come è stata delineata per grandi tratti negli ultimi tempi è mancato il contributo di tante famiglie, molte delle quali esposte alla precarietà dei propri rapporti interni, disperse e umanamente impoverite nell’anonimato di quartieri senza servizi e senza opportunità di incontro o dove hanno perso capacità di attrazione,  se ancora esistono e resistono :l’oratorio, il sindacato, il partito, l’associazione sportiva etc.
Quartieri dove scompaiono i piccoli negozi e i laboratori artigianali, luoghi dell’umano traffico quotidiano. Questa assenza educativa spesso si trasforma in diffidenza e nell’aperta ostilità dei genitori, interessati a tutelare i propri equilibri familiari e i propri interessi, più che alla crescita e alla formazione dei propri figli. Con la scuola un rapporto forse obbligato, forse utilitaristico, ma non di collaborazione.

Fa fatica a educare i giovani anche la scuola. E questa non è una notizia nuova e tantomeno buona.
E’ il problema dei problemi, perché la maggior parte del tempo dell’educabilità dei giovani trascorre dentro gli spazi degli istituti scolastici. Fino ai 19 anni è più il tempo passato a scuola che quello passato in famiglia e nella società. Le ragioni di questa difficoltà sono diverse e bisognerebbe considerarle ognuna nella propria specificità.
A scuola si cerca in genere di fare educazione alla cittadinanza, ma emerge dai fatti di cronaca la necessità di andare oltre, perché non si ha bisogno solo di questo. Su questo argomento nelle scuole si è spesso solo a livello di esigenza, ma non di convincimento forte e corale e si dimentica quanto è possibile fare partendo, come è stato detto sopra, dagli aspetti della vita quotidiana a scuola.
E’ un dato di fatto che la funzione educativa della scuola non abbia avuto il rilievo che avrebbe dovuto avere. A scuola si è spesso occultato lo spazio delle finalità e si è avuto quasi fastidio ad usare il lessico pedagogico che rinvia a temi etici e che propone il compito della responsabilità educativa.

Per alcuni insegnanti e operatori della scuola l’educazione morale, quella affettiva e l’educazione come sapere stare al mondo o in comunità spetta ai genitori.
E’ lunga la tradizione che vuole gli insegnanti solo come professionisti della trasmissione dei saperi e la scuola come luogo eletto degli apprendimenti delle conoscenze e delle tecniche.
E’ forte l’avversione per attività che si ritengono di altrui competenza. Ma se anche il sapere, le conoscenze fossero le uniche ragioni che spiegano e fondano il rapporto docente-alunno, l’attività scolastica è un’attività comunitaria e questa si può sviluppare con beneficio di tutti se alcune regole, che non possono essere se non regole di ordine morale, vengono rispettate da tutti.
L’insegnante non può essere solo uno specialista che insegna la propria disciplina, in grado di possedere e di dominare una certa area di conoscenza e di controllare tutti gli aspetti della comunicazione ad essa relativi.
L’insegnante deve sapere non solo cosa insegna e come, ma anche chi sono i suoi allievi, di che cosa hanno bisogno, in che ambienti e in quali famiglie vivono, in che genere di società crescono. In altre parole la cura degli alunni, l’attenzione ai loro problemi, l’accompagnamento nei loro processi di crescita non sono azioni possibili “del” e “nel” rapporto educativo, ma atti necessari e senza di essi non si genera la formazione, non si genera la crescita umana.

GLI OSTACOLI

Se anche la scuola volesse sul serio farsi carico dei compiti educativi che le spettano, compresi quelli nuovi che emergono dai fatti di cronaca, bisogna vedere a quali condizioni sia possibile farlo. Non mancano, infatti, gli ostacoli che si frappongono all’assunzione e allo svolgimento di questi compiti.  Il più serio di questi ostacoli è costituito dall’organizzazione stessa degli istituti,  così come la si è voluta configurare negli ultimi anni :

A) La dimensione prescritta degli istituiti per avere e per conservare l’autonomia comporta per il dirigente scolastico un aggravio consistente dei compiti gestionali, che anche involontariamente possono essere svolti a scapito di quelli culturali e pedagogici;

B) Non pochi interventi legislativi hanno messo a dura prova gli equilibri interni e la logica stessa della scuola come comunità educativa, perché alimentano non casualmente i conflitti e rischiano di mandare fuori orizzonte la preoccupazione educativa;

C)La precarietà di parte significativa del personale docente rende aleatori i legami dentro i consigli di classe, unici luoghi di armonizzazione degli stili professionali e di attenzione educativa. E se non funzionano i consigli di classe ogni preoccupazione educativa diventa superflua;

D)L’organizzazione del tempo scolastico diventa ogni giorno sempre più incompatibile con quella del tempo di lavoro e del tempo vissuto nella famiglia e questo causa una contraddizione sempre più stridente tra quotidianità e scuola, tra bisogni vitali della famiglia e organizzazione scolastica;

E)L’assenza in molte scuole di spazi,  di tempi e di strutture di convivialità, che non aiuta a praticarsi,  ad accettarsi e a rispettarsi. Ci sono scuole senza palestre e senza cortili…

Non sono solo le questioni gestionali e organizzative dei singoli istituti a rendere complicato e a volte evanescente il compito educativo. Qualcosa va ricercato anche all’interno della stessa struttura curriculare.
L’affollamento delle discipline, ma con relativa diminuzione di quelle umanistiche, allontana le possibilità di un apprendimento riflessivo e quindi di maturazione intellettuale e di fatto impedisce l’applicazione di metodologie collaborative nei tempi limitati dell’orario settimanale di lezioni: risorsa fondamentale per motivare, responsabilizzare e fare crescere nella capacità di ascolto. L’ossessione valutativa che si accanisce sulla scuola fa il resto del lavoro, perché finisce per dare rilievo solo ai risultati di apprendimento, costi quel che costi.

PROVVEDIMENTI DISCIPLINARI O EDUCATIVI?

L’educazione è fatta di buone testimonianze e di esortazioni; è fatta di divieti, di regole da rispettare e di sanzioni per chi non li rispetta, che devono essere funzionali all’educabilità, ma anche al regolare andamento della vita scolastica. A scuola ci sono minorenni e ci sono maggiorenni e questo dato impone una diversificazione degli eventuali provvedimenti disciplinari. Di fronte a fatti ripetuti che incidono sulla sicurezza e l’incolumità delle persone o come si deve talvolta constatare sulla dignità delle istituzioni e di chi le rappresenta, se le norme disciplinari interne si rivelano insufficienti, bisogna ricorrere ad altre norme. E nelle proprie norme non si può escludere l’allontanamento dalla scuola, quando dopo tutti i tentativi messi in opera questa misura è l’unica alla quale affidarsi per tornare alla normalità in una classe o in un istituto.
Non si può restare disarmati rispetto a chi deliberatamente vuole fare del male alle persone con cui divide lo spazio di una classe e di un istituto e per farlo deliberatamente non è necessario essere maggiorenni.

Se un istituto deve avere delle norme interne di vivibilità, questo non comporta l’installazione di telecamere nelle classi e nei corridoi per facilitare il compito; una scuola non deve diventare un istituto di sorveglianza. Le norme di vivibilità hanno bisogno solo di adulti che le rispettino costantemente, come proprio compito e che dimostrino nei fatti e quotidianamente di amare il proprio mestiere e di volere il bene delle persone che loro sono state date in affidamento.

Il dramma è proprio questo.
Una scuola che non si curi o che non è messa nelle condizioni di curarsi dei giovani rischia di non potere assolvere i compiti di formazione delle competenze e di trasmissione dei saperi, per i quali istituzionalmente esiste. Il compito educativo che le compete, però, non può essere svolto nel pieno di una costante campagna di delegittimazione o con l’ostilità crescente dei genitori. Il compito educativo a scuola è un compito plurale e di collaborazione e la collaborazione non è la competizione, la corsa al primato individuale che si è voluto innestare nel corpo professionale.

Deve essere pensato e progettato nel collegio dei docenti e svilupparsi nei consigli di classe.
E’ l’intero istituto che deve porsi come luogo di accoglienza e di reciproco rispetto. Per educare non è necessario inventarsi l’ora di educazione morale o di quella affettiva, ma solo far vivere nei gesti quotidiani di ogni attività scolastica, a partire da quella didattica, il rispetto di sé e degli altri.




L’educazione del giovane fascista si fa sul lago di Garda

di Mario Maviglia

Si scrive “campo estivo” si legge “formazione fascista”. È quanto emerge dall’articolo che Paolo Berizzi su Repubblica dedica al campo estivo organizzato dal 21 al 23 luglio 2023 sul lago di Garda da Gioventù Nazionale-Azione Studentesca[1]. L’iniziativa, giunta alla sesta edizione, è denominata Agoghè (ἀγωγή, guidare). Nel greco antico questo termine indicava l’ammaestramento degli animali; nell’antica Sparta veniva usato in riferimento al processo di addestramento dei ragazzi per prepararli a diventare maschi robusti sul piano fisico e pronti ad affrontare la guerra. (Agoghè è il titolo di una collana editoriale delle edizioni Passaggio al Bosco il cui editore Marco Scatarzi è stato uno dei relatori al raduno oltre che autore di un testo dedicato proprio a Sparta[2]. Passaggio al Bosco è la casa editrice “di riferimento dei giovani camerati che pubblica testi apologetici del fascismo, inneggianti al nazionalismo e alla difesa della razza bianca”[3])
Qualcosa di analogo era già stato organizzato lo scorso anno in una casa scout di Montecolombo, nelle colline riminesi, a cura dell’associazione Evita Perón (braccio “femminile” del movimento di estrema destra Forza Nuova)[4].

Il raduno organizzato quest’anno sul lago di Garda ha registrato l’autorevole presenza della Sottosegretaria del Ministero dell’Istruzione e del Merito, Paola Frassinetti, che non ha mai nascosto le sue simpatie verso l’estrema destra.
Da quel che è dato capire, queste manifestazioni riesumano, sotto mentite spoglie, le attività che il partito fascista organizzava tramite l’Opera Nazionale Balilla, istituita nel 1926, “con il compito di controllare tutta l’attività giovanile, all’interno di un apparato strutturato per fasce di età: Figli della Lupa (6-8 anni), Balilla (8-14 anni), Avanguardisti (14-18 anni), iscritti ai Fasci giovanili di combattimento (18-21 anni). Queste organizzazioni svolgevano attività ricreative, sportive e assistenziali, con lo scopo di inquadramento e indottrinamento dei giovani. Nel 1937 confluirono tutte nella Gioventù Italiana del Littorio (GIL), che aveva 8 milioni di aderenti e dipendeva direttamente dal segretario del PNF, Achille Starace. Nel 1941-42 il 99,9% degli studenti delle scuole superiori risultava iscritto a queste organizzazioni.”[5]
È facile immaginare che nel nuovo clima politico creatosi oggi in Italia queste manifestazioni, di chiaro stampo parafascista, abbiano maggiori opportunità di manifestarsi e addirittura di avere l’imprimatur di figure istituzionali.

Non abbiamo notizie sui programmi di formazione di questi campi estivi, ma, leggendo i documenti reperibili in rete e analizzando l’apparato iconografico disponibile, è facile inferire che tutto sia incentrato sull’esaltazione della forza e dell’obbedienza, parenti prossimi di quel mito della violenza studiato dagli storici[6] e ancora fortemente presente nelle organizzazioni di estrema destra. Un altro dato è il disprezzo verso la diversità, soprattutto di tipo culturale. È emblematico che nella colonia estiva di Montecolombo non venissero accettati i ragazzi stranieri. E d’altro canto il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, in un intervento tenuto al congresso del sindacato Confederazione italiana sindacati autonomi lavoratori (Cisal) il 18 marzo 2023, ha paventato il pericolo di una “sostituzione etnica” parlando di denatalità in Italia. Il terreno di coltura di queste idee è l’ideologia della supremazia ariana sulle altre razze, teorizzata tanto dal fascismo[7] quanto dal nazismo[8].

Nel campo estivo tenuto sul lago di Garda tutti i partecipanti erano di sesso maschile; il posto delle femmine, ça va sans dire, è a casa, ad accudire alle faccende domestiche e a procreare per la Nazione per evitare la “sostituzione etnica” di cui sopra.
Tra le attività proposte ai ragazzi, la parte da leone viene svolta dall’attività fisica, in tutte le sue varie forme: esercizi ginnici, gare, prove di resistenza e di coraggio. Per quanto riguarda la parte “spirituale”, è facile desumere che l’indottrinamento ideologico sia alla base degli interventi degli autorevoli relatori, tutti esponenti di estrema destra e soprattutto di Fratelli d’Italia (Frassinetti, Mollicone, Roscani, Punzio, Maschio, Donazzan, Scatarzi).
In maniera del tutto arbitraria e sapendo di fare una forzatura (ma qualche politico del passato aveva detto che “a pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”[9]), possiamo immaginare gli argomenti prediletti da tali esponenti, almeno a livello inconscio: a) Dio, Patria, Famiglia; b) Credere, Obbedire, Combattere; c) L’olio di ricino e i suoi derivati; d) Gli ariani e i rapporti con le sottospecie umane; e) L’obbedienza come forma suprema di identità col capo; f) Vitalità della destra vs pappamollismo della sinistra; g) La violenza come atto naturale e viscerale di controllo politico[10]; h) Foibe e faziosità dei libri di testo; i) Gli eroi della RSI; j) La disuguaglianza contro l’omologazione.
La sottosegretaria Frassinetti avrà sicuramente tratto molti spunti che le torneranno utili per la gestione del sistema scolastico italiano. Le vogliamo solo ricordare un piccolo particolare che le consigliamo di condividere con i giovani che incontra nei campi estivi: l’Italia è una Repubblica democratica e antifascista nata dalla Resistenza.

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[1] P. Berizzi, Coraggio e addestramenti: così i campi estivi in stile ‘Sparta’ formano i baby-patrioti della destra meloniana, “La Repubblica”, 1 agosto 2023, https://www.repubblica.it/politica/2023/08/01/news/giovani_destra_meloni_campi_estivi_lago_di_garda-409685661/

[2] M. Scatarzi (a cura di), L’ esempio di Sparta. Storia, eredità e mito di una civiltà immortale, Passaggio al Bosco, Roma, 2021

[3] P. Berizzi, op. cit.

[4] C. Tadini, La “colonia estiva fascista” dove i bambini intonano inni patriottici e gli stranieri restano fuori,
https://www.today.it/cronaca/colonia-estiva-fascista-ravenna.html

[5] https://www.istitutostorico.com/la_fascistizzazione_dei_giovani

[6] E. Gentile, Storia del fascismo, Editori Laterza, Bari-Roma, 2022

[7]Oltre alle leggi razziali approvate dal regime fascista nel 1938, si veda il Manifesto della razza, pubblicato, con il titolo Il fascismo e i problemi della razza, il 14 luglio 1938 su Il Giornale d’Italia, e la rivista quindicinale La difesa della razza, diretta (5 agosto 1938) da Telesio Interlandi e pubblicata dal 1938 e fino al 1943

[8] R. Cecil, Il mito della razza nella Germania nazista. Vita di Alfred Rosenberg, Feltrinelli, Milano, 1973

[9]https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-05-06/pensare-male-altri-peccato-144959.shtml?uuid=Abb06WtH&refresh_ce=1

[10] M. Millan, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Viella, Roma, 2014

 




Lamberto Borghi, un grande pedagogista da non dimenticare


Educazione e autorità nell’età moderna
 è il titolo di un importante libro di Lamberto Borghi pubblicato per la prima volta nel 1951 ma riproposto di recente in una nuova edizione curata da Carmen Betti e Franco Cambi.
Lamberto Borghi è stato uno dei più noti pedagogisti italiani del secondo dopoguerra, autore di saggi di straordinario interesse.
Profondo conoscitore del pensiero di John Dewey si deve proprio a lui il merito di aver diffuso in Italia le opere del grande pedagogista statunitense.
Essendo di origine ebraica alla fine degli anni ’30 emigrò negli Stati Uniti e rientrò in Italia solamente nel 1948 iniziando subito a collaborare con Ernesto Codignola sia presso l’Università di Firenze sia per il lavoro editoriale con Nuova Italia.
Lamberto Borghi era un convinto difensore dell’attivismo pedagogico e della laicità della scuola; era lontano dall’idealismo gentiliano ma anche dai rischi del dogmatismo “di sinistra”.
Quella di Borghi può essere considerata un pedagogia “libertaria” tanto che alcuni lo considerano un pedagogista anarchico.
Risale al 1964 un altro suo importante volume (Scuola e comunità) in cui mette in evidenza il ruolo della scuola e dell’educazione rispetto allo sviluppo sociale e la necessità di promuovere l’autonomia della scuola e delle strutture educative in modo da garantire un corretto rapporto fra scuola e società.
Di Borghi, del suo pensiero e della sua opera parliamo in questa bella intervista a Carmen Betti, già docente di pedagogia all’università di Firenze.




Album di famiglia, a proposito del “kennediano di Piadena”

di Enrico Bottero

Una delle ragioni per cui in Italia le pedagogie attive non sono riuscite a incidere nell’Istituzione scuola e la sua pedagogia è la divisione tra due interpretazioni politiche delle stesse: a sinistra c’era chi le considerava un modo importante per cambiare la società a partire dalla scuola e chi, invece, ritenendo prioritaria anche temporalmente la battaglia politica contro il capitalismo, pensava che fosse del tutto inutile, anzi controproducente, cercare di cambiare un’istituzione borghese che sarebbe di per sé repressiva e quindi meritava di sprofondare. Quest’ultima posizione era sostenuta, ad esempio, dai Quaderni Piacentini.
Quaderni Piacentini era una Rivista politica trimestrale fondata da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi nel 1962. E’ stata un’importante rivista della sinistra extraparlamentare.

In questo articolo del 1971 (è pubblicato integralmente sul sito di Gessetti Colorati) Mario Lodi, definito il “kennediano di Piadena” viene accusato di “riformismo didattico”. Il riformismo sarebbe ingenuo e pericoloso perché manipolerebbe i ragazzi con una forma edulcorata di potere invece di renderli consapevoli della lotta di classe in cui l’avversario sarebbe anche l’insegnante (viene alla mente, ad esempio, “Quel brutale, finalmente? “  un classico di quegli anni).
Il rapporto educativo sarebbe di per sé autoritario, dunque la classe cooperativa non sarebbe altro che un mito borghese, un inganno.
Le riforme con cui Lodi (e molti come me) lavoravano negli anni Settanta e le tecniche didattiche sarebbero stati dunque una manovra del potere per mantenere il suo sfruttamento di classe. E via discorrendo. In questo articolo (mancano le firme delle persone, secondo una consolidata prassi per cui non ci si assume la responsabilità personale ma solo quella del collettivo) l’intolleranza ideologica prevale su tutto. Non si lavora per un’educazione alla tolleranza e alla democrazia ma per radicalizzare un conflitto radicale tra il bene e il male, dove il bene sta naturalmente dalla parte degli autori dell’articolo. Tutte le utopie, quando si trasformano in concezioni provvidenziali della storia, finiscono lì.
L’utopia della speranza si trasforma in utopia della certezza, dei detentori della verità. Questo articolo è importante perché, riaprendo l’armadio dei ricordi della sinistra, svela ambiguità presenti ancor oggi e su cui non si è ancora ampiamente riflettuto.
Cadute le illusioni palingenetiche, queste posizioni oggi si ripresentano sotto una veste diversa, quella della deistituzionalizzazione e della critica radicale della scuola in nome di un’idea di rifiuto totale di qualsiasi autorità, considerata di per sé repressiva (rifiuto che, questo sì, è un mito: il rifiuto totale di qualsiasi autorità non elimina l’autorità ma ne introduce una forma più sottile, quella della seduzione).
E’ un rifiuto a cui vengono spesso arruolati educatori come Oury o Freinet, che però non sostenevano affatto queste tesi. Oggi tutti osannano Mario Lodi ma allora molti a sinistra lo condannavano duramente.
Se non vogliamo comportarci come le Chiese laiche o religiose più integraliste (da vivi li condannano come eretici, e dopo morti li fanno santi, tanto non possono più parlare) sarebbe bene ragionare su tutto questo e chiedersi se non siano ancora presenti logiche settarie che non fanno che ostacolare l’impegno comune a favore delle pedagogie attive e dell’impegno per una società più giusta e solidale.




Francesco De Bartolomeis: la pedagogia oltre la pedagogia

di Renzo Stio

È davvero ampio, non solo come arco temporale, il contributo di Francesco De Bartolomeis alla pedagogia della seconda metà del ‘900 e degli anni a seguire. Molti temi sono noti, tanti ancora da esplorare. Avendo avuto la fortuna di stringere con lui un rapporto di sincera amicizia, vorrei provare a tratteggiare il profilo dell’uomo, e dell’uomo di scienza, attraverso qualche nota che va oltre, pur rimanendo assolutamente coerente, l’ambito strettamente pedagogico.

De Bartolomeis è noto nella storia della pedagogia italiana come uno dei principali interpreti dell’attivismo e come il teorico dell’”antipedagogia”, intesa come antidoto alla mera trasmissione del sapere quando questo serve solo ad affermare l’egemonia di una cultura dominante classista e reazionaria.
Molti di meno sono quelli che hanno conosciuto il De Bartolomeis attratto dal mondo fatto di problemi, enigmi, domande, esplorazioni, sperimentazioni di cui si nutre l’esperienza artistica.
Insignito a 99 anni del titolo di “Accademico ad honorem” della storica Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, è stato tra i più attenti estimatori e studiosi del genio di Lucio Fontana[1], col quale trascorse lunghe giornate a osservarlo nel suo studio per comprenderne il lavoro.

È stato anche tra i pochi a dichiarare con onestà e senza infingimento alcuno, che i famosi “tagli” dell’artista – tratto di riconoscimento divenuto marchio internazionale – ad un certo punto hanno assunto interesse da supermercato a dispetto di tanti altri ambiti di ricerca di Fontana molto più promettenti sul piano della capacità di indagine dei problemi formali dell’arte. Un atteggiamento che lo ha sempre portato ad esprimersi con radicale e autentica onestà rispetto alla qualità dell’arte e degli artisti, con quella stessa limpidezza mentale e di coscienza che lo condusse a sviluppare argomentazioni critiche sull’idealismo di Benedetto Croce, il quale pure gli scrisse “… il suo lavoro è ben altro che dei soliti” [2], rintracciando peraltro una consonanza col suo pensiero che in verità De Bartolomeis non ha mai avuto. Ma erano tempi in cui, probabilmente, l’onestà intellettuale e la sincerità dei rapporti avevano un valore almeno pari alla tensione all’affermazione di sé e delle proprie idee.

Ha scritto tanto di arte e – come ebbe a dichiarare in un breve saggio [3] – ha dipinto anche lui, proprio per quella sua tendenza a discutere solo di ciò di cui “realmente” aveva contezza. Oltre al merito di aver contribuito alla conoscenza del lavoro di Fontana, è opportuno ricordare saggi quali: L’esperienza dell’arte (1989); La tridimensionalità nell’arte contemporanea (2004); Con l’arte con gli artisti, amici, parole, segni (2004); Arte oggi: il nuovo, il banale, l’offensivo (2007); Insieme agli artisti cerco di capire (2017); Se Lucio Fontana non avesse fatto buchi e tagli (2021); La cultura dell’arte (2022); La realtà dell’arte (2022); I bambini, l’arte, la cultura (2022).

Per tornare al lavoro di pedagogista e formatore, a lui si devono alcune “invenzioni” come la formula ante litteram scuola dell’infanzia sostitutiva dell’anacronistica e fuorviante scuola materna; l’idea del sistema formativo integrato, anticipatore dei concetti di continuità orizzontale e verticale; l’idea di una scuola-laboratorio, che traduce l’attivismo in forme di lavoro cooperativo attraverso quelli che oggi chiamiamo “compiti di realtà”; la necessità di considerare come corpo unico il sistema 0-6, oggi all’attenzione delle riforme finanziate con il PNRR. E ancora giova ricordare le collaborazioni con Ernesto Codignola – di cui fu assistente –, Lamberto Borghi, Loris Malaguzzi. Non vado oltre per non lasciare dietro tanti altri nomi di spicco del panorama nazionale.

Mi sia consentito di ricordare un episodio che forse racconta meglio di ogni altro esempio il profilo umano – non dissociabile da quello scientifico – di Francesco De Bartolomeis. Il 15 novembre del 2005 ebbi il mio primo incontro con Francesco. Ebbi la fortuna e l’onore di averlo ospite a Salerno nell’ambito di un convegno, del quale curai l’organizzazione, dal titolo “Pedagogia, arte, epistemologia”. Nel corso del convegno ci fu spazio anche per la presentazione di un mio libro appena pubblicato che trattava proprio delle intersezioni tra pensiero artistico e prospettive pedagogiche. Fu l’ispettore Umberto Landi, al quale non finirò mai di essere grato, a proporre di invitare De Bartolomeis, sapendo del suo interesse per l’arte. Con mio stupore e piacere, accettò l’invito anche perché fu per lui l’occasione di ritornare nei suoi luoghi di origine (Pellezzano, Comune in provincia di Salerno). Si trattenne qualche giorno e, ovviamente, volle visitare il suo paese. Era la sera che precedeva l’evento. Un saluto istituzionale del Sindaco nella Casa Comunale e poi la visita al luogo della sua casa natia. Quando arrivammo sul posto l’edificio – una sorta di casolare di campagna – era ancora lì. Francesco lo osservò attentamente, poi mi guardò e disse: “Lo ricordavo più piccolo, sarà la mia tendenza a ridimensionare ogni cosa”.
Una risposta che va decisamente contro l’esperienza comune di ogni adulto che, a distanza di anni, rivede i luoghi della sua infanzia, inevitabilmente sovradimensionati nella percezione fisica ed emotiva di un bambino. Una risposta “controcorrente”, come la sua antipedagogia. Una risposta intrisa di umiltà, modestia, senso della realtà, consapevolezza dei limiti delle nostre tesi.

Da quel momento ci siamo incontrati diverse altre volte a casa sua a Torino. Il piacere di ascoltare il racconto di un secolo di storia della cultura del nostro Paese dalla viva voce di chi quegli episodi li aveva vissuti dall’interno e con grande coinvolgimento, era per me un incredibile dono. In tutti questi anni gli ho scritto spesso e ogni volta, puntualmente, mi ha risposto col linguaggio asciutto di chi sa che è sempre meglio dire con dieci parole ciò che vorremmo dire con cento. Abbiamo discusso di scuola, di politica e di arte. Non gli ho mai telefonato. Con una sorta di implicito accordo, abbiamo costruito il nostro dialogo coltivando l’esperienza sempre più marginale e sincopata della scrittura epistolare, capace di dare la forma migliore alle idee prima di esprimerle, dotandole di quel senso che altrimenti rischierebbe di evaporare.

Francesco De Bartolomeis ci consegna il testimone di una ricerca senza fine. Temi su cui continuare a riflettere, “Pensieri su cui pensare” (De Bartolomeis, 2022) e per i quali vale la pena continuare a spendersi.

[1] F. De Bartolomeis, Segno antidisegno in Lucio Fontana, Edizioni d’arte Pozzo, Torino, 1967.
[2] F. De Bartolomeis, Percorsi educativi nelllo spazio e nel tempo, Zeroseiup, Città di Castello, 2022, p. 8.
[3] F. De Bartolomeis, Io e l’arte. Riflessioni Fantasie Disorientamenti, Comune di Pellezzano, novembre 2005.




Intelligenza artificiale, libri di testo, riassunti

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Stefano Stefanel

L’intelligenza artificiale e, soprattutto, il suo uso umanistico ha preso alla sprovvista tutti. La scuola, come sempre avviene, tende ad arretrare davanti ad ogni novità e la scandaglia con i crismi della conservazione, chiedendosi, piuttosto attonita, in che modo la sua tradizionale concezione del sapere venga scossa da ogni nuova “diavoleria” in arrivo. L’intelligenza artificiale, sotto le spoglie nemmeno troppo anonime di Chapt A.I., sta dando alle certezze della scuola una scossa quasi pari a quella data dalla pandemia, che ha trasformato in una settimana gli insegnanti in “esperti” sull’utilizzo delle piattaforme digitali, con modalità di apprendimento molto veloci anche se un po’ caserecce e artigianali.

La prima domanda che ci dobbiamo porre è quella relativa alla proprietà di un testo e quindi al confine che deve esistere tra plagio, citazione, rielaborazione. Il plagio è quando copio qualcosa da qualcuno e non dico che l’ho copiata; la citazione è quando copio qualcosa da qualcuno ed evidenzio chiaramente che cosa ho copiato e dico pubblicamente da chi l’ho copiato (di solito in nota), la rielaborazione è quando prendo spunto da qualcosa scritta o detta da qualcuno, la rielaboro e me ne approprio (e a volte “questo qualcuno” lo cito, mentre altre volte non lo cito). Personalmente sono stato convinto da quanto sosteneva San Tommaso D’Aquino, l’ho imparato all’Università quasi cinquant’anni fa, non ho mai avuto dubbi che alla base di ogni corretta pedagogia ci fosse quel pensiero.
Durante i quolibet all’Università di Parigi nel Trecento gli studenti dovevano sostenere una discussione su un tema introdotto dal San Tommaso. Lo dovevano fare appoggiandosi alle autorità del passato classico o alla contemporaneità del sapere cristiano, spesso contaminata da elementi arabi.

Su una cosa San Tommaso non transigeva: lo studente doveva citare la fonte da cui aveva tratto la sua argomentazione. Se non lo faceva veniva punito duramente o addirittura espulso dall’Università parigina perché aveva peccato contro Dio che lo favoriva facendolo studiare e contro la sua famiglia che pagava gli studi.
E aveva peccato di un peccato gravissimo per San Tommaso: l’arroganza di ritenere, da studente, di aver pensato qualcosa di originale, che qualche grande maestro del passato o del presente non aveva mai pensato prima. Quindi per San Tommaso l’unico sapere vero è quello che si riferisce ad una fonte, autorevole (nel caso suo spesso anche un po’ troppo autoritaria) e certa. Quindi bisognava copiare, dire cosa si aveva copiato e da che autore ci era “abbeverati”.

Questa idea non è quella della scuola italiana, che invece pare amare l’originalità degli adolescenti, spesso costruita su orribili argomentazioni nate non si sa bene dove ed ha orrore assoluto della copiatura, sia questa un ingiustificabile plagio, sia questa una corretta citazione. La scuola italiana ritiene che il riassunto sia invece ciò che produce apprendimento. Il libro di testo manualistico è un riassunto, le citazioni antologiche toccano i punti salienti di un testo e quindi ne riassumono i tratti essenziali, la spiegazione frontale del docente è un riassunto spesso di un altro riassunto (il manuale). Tutto insomma si tende a fare a scuola, tranne un sano lavoro sul testo senza mediazione alcuna.

Su questo meccanismo che continua a ritenere che la lezione frontale sia il metodo migliore per trasferire apprendimenti da una testa ben piena (quella del docente) ad una testa ben vuota (quella dello studente) si è abbattuta l’intelligenza artificiale e soprattutto Chapt A.I. che, a velocità irraggiungibile per qualunque essere umano (sulle possibilità dei replicanti si sa poco), produce testi ben scritti, corretti, banali, informati. Testi che comunque possono far prendere bei voti, perché spesso sono molto migliori di quelli prodotti con grande fatica da molti studenti. Personalmente ritengo che se un testo qualcuno lo scrive meglio di me sia corretto che lo scriva lui o lei e non io. Se poi l’intelligenza artificiale mi aiuta a produrre relazioni o testi divulgativi che io poi rielaboro e faccio miei non avrò scrupoli ad usarla, magari citando in calce l’aiuto che ho ricevuto. In questo momento sto scrivendo di mio pugno, anche perché sto esponendo una tesi che trovo molto difficile far interagire con Chapt A.I.

La tesi è questa: perché studiare su un libro di testo (manuale) che riassume qualcosa sia migliore che interrogare Chapt A.I. (o un motore di ricerca) su un qualunque argomento?
Personalmente sono da sempre contrario ai libri di testo e alla loro adozione, perché in un’ottica curricolare non capisco che cosa si possa realmente apprendere dentro un sapere stantio e immobile prodotto altrove in rapporto molto stretto con i vecchi programmi ministeriali. Ma ai docenti italiani piace il libro di testo (manuale), piace spiegarlo, piace risentirlo raccontato dai propri studenti, piace decidere di non utilizzarlo anche se è stato fatto comprare, piace corredarlo di molte fotocopie. E allora perché non piace anche l’intelligenza artificiale, che trasmette, in tempo reale, il libro di testo nella sua realizzazione più immediata e aggiornata? Questa domanda permette di entrare nella logica della scuola (non solo italiana) dove il sapere è controllo e non ricerca.
Una delle idee-base è che è necessario riferirsi ad un sapere certo e codificato per poterlo trasmettere, perché la base dell’apprendimento è comunque di tipo trasmissivo. Da qui ci si sposta poco e lentamente: un salto era stato fatto con la pandemia che aveva imposto idee nuove e nuovi orizzonti. Ma la fine della pandemia ha prodotto il più grande tentativo di restaurazione della storia della pedagogia italiana: tentativo molto forte che sta producendo danni irreparabili ed esiti di apprendimento con molti elementi critici.
A chi chiede un ritorno indietro (magati al 1967) bisogna rispondere che il ritorno c’è già ed è forte, ma trova qualche impedimento e l’intelligenza artificiale, nel campo umanistico, è uno di questi.

Molto spesso intellettuali, docenti e giornalisti irridono l’intelligenza artificiale perché fornisce risposte sbagliate. E’ balzato alle cronache mondiali un avvocato americano che ha citato in dibattimento sentenze inventate dall’intelligenza artificiale, che, successivamente interrogata sul motivo della sua trasmissione di dati falsi, ha chiarito  che aveva solo fatto un esempio tecnico di come si doveva strutturare una mozione che facesse riferimento a vecchie sentenze, che erano state inventate per meglio esemplificare. Tutti sostengono che la mente umane sia più profonda dell’intelligenza artificiale, anche se nessuno sostiene che è più veloce. Ma allora chiedo io: perché il libro di testo sì e l’intelligenza artificiale no? Visto che entrambi non vanno direttamente alla fonte se non in forma antologica o riassuntiva, non vanno direttamente sul testo ma lo selezionano antologizzandolo? Tra un riassunto manualistico e un riassunto dell’intelligenza artificiale c’è solo una differenza:   il manuale trasmette ciò che gli autori sanno mentre lo scrivono, l’intelligenza artificiale sa ciò che i suoi “gestori” in quel momento hanno immesso, e che cambia e si alimenta ogni giorno. Perché il riassunto del sapere posseduto dal soggetto che scrive il libro di testo vale più del sapere posseduto da un motore di ricerca o dall’elaborazione fatta in questo momento dall’intelligenza artificiale?

Il problema dell’apprendimento è stato messo a nudo da Chapt A.I.: se non si va direttamente al testo, si deve procedere per riassunti e tutti i riassunti, vanno rielaborati, analizzati, compresi, rifatti. Il problema si sposta dalla trasmissione del sapere riassunto all’elaborazioni di una argomentazione che poggia su un sapere conosciuto.
Mi sfugge perché le scuole adottino manuali di storia e non semplicemente Wikipedia (facendo risparmiare un sacco di soli ai propri studenti), che in tempo reale, può portarci dentro l’argomento che in quel momento ci interessa. Non mi soffermo su una dato certo: i manuali contengono più errori di Wikipedia, infatti nessuno adotta il manuale nell’edizione del 1998, ma sempre quella del 2023 per il semplice motivo che quella del 1998 è un’edizione con troppi errori, imperfezione, cose superate. Che però sono state insegnate fino a poco prima. Chapt A.I. fa lo stesso: è un manuale a domanda, che interagisce col soggetto che fa le domande. Si tratta di passare dalla valutazione dell’elaborazione e della sua originalità, alla valutazione delle competenze di controllo e rielaborazione. Quindi lo studente non deve “ripetere”, ma deve rielaborare e argomentare imparando a citare correttamente la fonte.

Il passare dal sapere trasmesso al sapere costruito, dalla riscrittura o ripetizione del riassunto alla gestione argomentata del riassunto, dalla staticità delle informazioni ad informazioni in movimento, dai dati acquisiti ai dati cercati può essere aiutato e non poco dall’intelligenza artificiale. Allora forse è il momento di rimuovere la diffidenza verso la tecnologia per far comprendere agli insegnanti la tecnologia e il suo uso, dentro formazioni di senso e non procedure “fai da te”. Credo si debba riflettere su questo: l’intelligenza artificiale è un libro di testo che risponde solo alle domande che vengono fatte. Quindi bisogna insegnare a farle.

Ah, dimenticavo, poi ci sono i testi. La Critica della ragion pura di Kant non teme l’intelligenza artificiale. E’ stata scritta così e così va letta. E’ perfetta perché non c’è nulla da cambiare. Ma questa è, veramente, un’altra scuola.