Individualizzazione e personalizzazione, parliamone ancora

di Simonetta Fasoli

Sembra incredibile che il discorso sulla scuola debba ritornare ciclicamente sui medesimi argomenti, in un sortilegio temporale da cui è difficile emanciparsi. Ma tant’è. Succede che un ministro pro-tempore rilanci in grande spolvero il tema della personalizzazione, addirittura facendone il fulcro di provvedimenti che riguardano le politiche professionali e retributive del personale. Così è stato presentato ai sindacati, in sede di informativa, lo schema di decreto sugli aspetti e i criteri attuativi riguardanti le nuove funzioni (“funzioni”, si badi bene, non ancora “figure”…) del docente tutor e del cosiddetto “orientatore”. In questo contesto si inserisce l’affermazione del ministro Valditara, secondo cui “nella legge di Bilancio abbiamo ottenuto lo stanziamento di ulteriori 150 milioni di euro, che sono stati utilizzati per valorizzare il personale della scuola, per favorire una grande riforma che oggi abbiamo lanciato: quella della personalizzazione dell’insegnamento, che prevede l’introduzione del tutor nelle scuole e l’introduzione dell’orientatore, per dare ai nostri ragazzi prospettive di un percorso professionale e formativo che sia realizzante”.
Al solito, si nota una certa enfasi, che caratterizza del resto le comunicazioni dell’Esecutivo su tutta la linea. “Una grande riforma”? Mah…né propriamente riforma (chi ricorda i “Piani di studio personalizzati” dell’era Bertagna?) né tantomeno grande. Sarebbe raccomandabile una certa dose di prudenza in certe affermazioni.
Converrà dunque fare qualche puntualizzazione e proporre qualche riflessione, come antidoto agli entusiasmi governativi, prima che la macchina politico-istituzionale si metta in moto.
Per cominciare, suggerirei un ritorno ai fondamentali, cosa sempre buona e giusta sul piano del buon senso. Mi scuso anticipatamente di sottolineare quello che per gli addetti ai lavori dovrebbe essere ovvio…ma sbanalizzare l’ovvio è una buona strada per contrastare il “nuovismo”, sempre in agguato quando si tratta di scuola e più che mai con un governo impegnato ad accreditarsi all’interno (e all’estero…). Parliamo allora, ancora una volta, di individualizzazione e di personalizzazione: con qualche schematismo, certo, ma con un approccio utile, si spera, ad evitare polarizzazioni strumentali.
Didattica individualizzata. Cosa vuol dire, in buona sostanza, individualizzare? Vuol dire partire da obiettivi comuni definiti nel curricolo di scuola e nella programmazione di classe per diversificare i percorsi finalizzati al raggiungimento di quegli obiettivi. Obiettivi COMUNI, attenzione: vuol dire non astrattamente “uguali”, ma ponderatamente “equivalenti”.
Didattica personalizzata. Possiamo sinteticamente affermare che la personalizzazione consiste nel diversificare gli obiettivi, calibrandoli sulle caratteristiche dei singoli. La diversificazione dei percorsi non è in questo caso una scelta strategica per perseguire quell’equivalenza di cui si è detto, ma una caratteristica strutturale dell’azione didattica che, in quanto tale, è destinata a confermare le differenze.
Da questi sintetici riferimenti si può capire come ci troviamo di fronte a due distinte modalità di impostare l’azione didattica, che non sono intercambiabili nè tantomeno neutre sul piano delle visioni di scuola cui rimandano. Detto questo, sarei personalmente per sottrarci ad un’assunzione unilaterale dell’uno o dell’altro approccio, come sembra fare in questa fase la politica ministeriale: la scuola langue nell’indistinto ma muore di polarizzazioni. Il suo naturale sfondo culturale è di natura “compositiva” (et et) non oppositiva (aut aut): l’educazione, da cui trae ragione e senso l’istituzione della scuola, è in sé stessa dialogica, perciò postula la dialettica delle posizioni che si confrontano.
Dunque, cominciamo con il porre in questione la scelta governativa di correlare il profilo della funzione di tutor (e quella di orientatore ad essa strettamente connesso) alla sola personalizzazione, quasi fosse la chiave di volta dell’intera operazione: ne emerge una visione parziale e distorta del processo di insegnamento-apprendimento.
In questo mio contributo propongo invece di delineare un percorso unitario che coinvolga in un reciproco rimando i due termini astrattamente alternativi. Il punto è un altro: se possono essere presi in considerazione contestualmente, “come” stanno insieme? A me sembra che potremmo pensare all’individualizzazione come al dispositivo didattico approntato dal docente (o meglio, dai docenti nella loro corresponsabilità progettuale) dal versante dell’insegnamento; mentre la personalizzazione è la risposta individuale messa in campo dai discenti rispetto all’azione didattica, dunque si colloca essenzialmente sul versante dell’apprendimento. In questo approccio, le caratteristiche personali non sono cristallizzate ( e le differenze non si traducono in “dati” di natura, invalicabili e definitivi) ma diventano “modi” della risposta alla didattica individualizzata: modi destinati ad evolvere, se l’azione è efficace.
In definitiva, individualizzazione e personalizzazzione si pongono come epifenomeni dello stesso processo, così come è un processo l’insegnamento-apprendimento.
Raffinatezze da “pedagogismi”? Non direi…ma qui il confronto è aperto e legittimo. A me è sembrato utile entrare nel merito, perchè troppo spesso l’azione ministeriale-governativa dà per acquisite le sue premesse “teoriche” (in questo caso, l’idea onnipervasiva di personalizzazione) per l’urgenza di calarle nelle cosiddette “fasi attuative”: un modo per stemperare e annacquare il valore dirimente dei presupposti.
E’ evidente, infine, che non entro qui nel merito delle questioni di politica professionale legate alla funzione del docente tutor e dell’orientatore, che coinvolgono aspetti di assoluto rilievo, anche di natura contrattuale, quali le modalità di individuazione, l’organizzazione del lavoro e la salvaguardia delle prerogative collegiali. In altre sedi e con altro taglio tematico è possibile, anzi opportuno, affrontarli.




La scuola dei desideri è andata all’incontrario

di Raimondo Giunta

Della scuola si parla per dire come dovrebbe essere e quello che dovrebbe fare, dimenticando spesso di dire come veramente è e che cosa ragionevolmente si può realizzare, considerate tutte le sue vere condizioni. Forse è la natura stessa della scuola a favorire questo modo di impostare i discorsi, a spingersi costantemente, ingenuamente o maldestramente nel futuro e a sottovalutare il peso della realtà.  La scuola per statuto non può che lanciare lo sguardo oltre l’ostacolo, lavora in funzione di chi deve pensare al proprio avvenire ed è naturalmente proiettato verso il domani. La scuola ha coltivato sempre l’ambizione di potere dire di se stessa che cosa possa e debba essere; purtroppo oggi, più di ieri, la scuola non sarà come vorrebbe essere, ma come la vogliono gli altri, come la vuole la sua amministrazione. Sono evidenti le intenzioni di farne un’istituzione che replichi le scelte e i comportamenti del mondo economico- aziendale, elevato con animo subalterno a modello da imitare; è palese la volontà di piegarla alle esigenze di una società che pratica largamente la competizione, la discriminazione e la selezione sociale, la gerarchizzazione dei rapporti umani e sociali e che irride ogni forma di sapere che non abbia i crismi dell’immediata utilità.

Nell’organizzazione che si è voluto dare alla scuola l’accoglienza, il successo formativo, le pari opportunità, la partecipazione, il dialogo professionale, di cui si sono nutrite per molti anni le pratiche formative per l’impegno di tanta parte degli insegnanti, col tempo faranno parte delle retoriche da recitare, ma non avranno più incidenza nella quotidianità delle attività scolastiche. Saranno confinate nel mondo delle illusioni e dei pii desideri, di cui devono pascersi le rimanenti belle anime degli insegnanti.  L’organizzazione, si sa, modella le coscienze più di molte prediche pedagogiche. Oltre la sacralizzazione dell’organizzazione, il tema della rendicontabilità e la cultura del risultato sicuro e immediato sono stati i prestiti del mondo economico che con fatuo e indiscriminato zelo si è cercato e si cerca ostinatamente di impiantare nel mondo della scuola, stravolgendo il significato che possono avere questi stessi processi nella formazione, dove di sicuro e di immediato c’è molto poco e nel rendere conto non si possono trascurare le caratteristiche culturali e valoriali del contesto, i tratti costitutivi del sistema scolastico, la carenza delle risorse disponibili, le condizioni economico-sociali delle famiglie. Peraltro non si dà conto solo agli organi superiori, ma nei nostri giorni ad ogni gruppo di pressione che pretende qualcosa della scuola, non conoscendone spesso le modalità operative e le responsabilità istituzionali.

E’ venuta fuori negli ultimi anni una scuola impaziente e frettolosa, stiracchiata da ogni parte, quasi costretta a trascurare la dimensione educativa, che ha bisogno di tempi lunghi di elaborazione e di riflessione. Nè può essere taciuto che senza adeguata vigilanza, la cultura del risultato, costantemente professata e inoculata da parte dell’amministrazione, conduce alla costituzione di un modello di istruzione estraneo ai bisogni reali di formazione degli alunni, che sono contestuali al luogo, al genere, alla condizione sociale e alle tradizioni. La scuola è servizio alla persona e istituzione della società e queste funzioni si esprimono principalmente nella salvaguardia e nella trasmissione delle conoscenze, dei valori, della storia, della cultura, delle tradizioni accumulate nel passato. Nella trasmissione di questo patrimonio la scuola aiuta a definire nella coscienza dei giovani la continuità e l’identità della comunità d’appartenenza, diventa ancoraggio per la salvaguardia della civiltà. Trasmettere è associare una persona ad un percorso, ad una storia; è indicare la lunga vicenda della nostra libertà intellettuale; è fare partecipare all’avventura delle scoperte che ci hanno fatto crescere ed hanno allargato il nostro orizzonte. La funzione cruciale di ogni sistema di istruzione è proprio questa ed è irresponsabile alleggerirla per rendere la scuola ancilla docile delle ingiunzioni del sistema economico.

Negli anni passati si è proceduto a innovazioni curriculari senza adeguato e approfondito dibattito pubblico e non credo che si sia tenuto nel dovuto conto che le scelte effettuate su ciò che si debba insegnare nelle scuole non sono prive di importanza e di significato. A seconda di ciò che si insegna o non si insegna gli studenti acquisiscono diversi valori, diverse competenze sociali o economiche, diverse visioni del mondo. Si sta perdendo il senso del destino della scuola, della sua funzione conoscitiva e della sua funzione politica ed educativa. La scuola dovrebbe essere il luogo della riflessione e dei tempi lunghi e invece si cerca di praticare la soddisfazione immediata delle diverse pulsioni pubbliche che si scaricano dentro di essa. La scuola dovrebbe essere il luogo dell’appropriazione della conoscenza e dell’esercizio a saperla trasferire e invece si esercitano gli alunni alla ripetizione mnemonica e alla risposta immediata ai test da pubblicità o da propaganda. La scuola dovrebbe essere il luogo in cui si professa e si pratica la ricchezza della lingua scritta e strutturata e invece si riducono di numero le prove scritte di ogni genere e i tempi necessari per elaborarle come si deve. La scuola dovrebbe essere il luogo della costruzione del senso di comunità e invece con premi e cotillons si mettono gli uni contro gli altri sia gli insegnanti, sia gli alunni. Si dice società della conoscenza e si fa, invece, la scuola dove si è perduto di vista la funzione autentica della conoscenza, il senso dei saperi e della cultura.




Semi di fiori per farfalle

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone

Mi è sempre piaciuto lavorare con altre persone e da chi ho incontrato ho imparato tantissimo: fare scelte controcorrente e tuffarsi in avventure coraggiose, non temere i furti di ingegno e non invadere spazi altrui, ma anche accogliere la stima e la fiducia per costruire opportunità. Proprio per la gratitudine che sento per questi e altri apprendimenti, che sono stati vitali nella professione, vorrei provare qui a rilanciare il tema della collaborazione tra colleghi e professionisti e spargere semi per fiori che richiamano farfalle. Esiste davvero questo tipo di semi e il risultato è stupefacente. Li regalai la primavera scorsa ad una delle docenti più accogliente e integrante che abbia mai incontrato, e chissà, una delle prossime volte vi racconterò anche cosa stiamo combinando insieme!

Intanto vi vorrei segnalare come nei contesti scolastici e sanitari stia avvertendo folate di demotivazione, disinvestimento emotivo, ansia gestionale, cinismo, finanche disperazione. Dopo anni silenti, descritti soprattutto attraverso termini come flessibilità, liquidità, mobbing, molestie sul lavoro, precarietà, nei contesti lavorativi oggi ricompare il termine burn out.
I giovani non sanno neppure di cosa si tratti ma noi ce lo ricordiamo bene! Una forma di esaurimento o surriscaldamento, legato ad una condizione di stress lavorativo protratto e intenso, che determina un logorio psicofisico ed emotivo associato anche a demotivazione, trascuratezza degli affetti e delle relazioni sociali, difficoltà di concentrazione, irritabilità, senso di colpa, mancanza di iniziativa, assenteismo. A livello fisico può manifestarsi invece con emicrania, sintomi respiratori, insonnia, inappetenza, disturbi intestinali, senso di debolezza.

Coniato nel 1974 da Freudenberger per indicare una sindrome caratterizzata da un particolare tipo di reazione allo stress; sperimentata dagli operatori sanitari e poi estesa ad altre categorie di “helping profession”, fra cui le professioni sanitarie: medici, psicologi, infermieri, operatori sociosanitari; venne studiato soprattutto negli anni ‘80 e ‘90 (Maslach e Jackson,1981). Poi si capì che riguardava anche tutto il mondo scolastico!

Tra le risorse per fronteggiarlo allora si enumerava soprattutto la formazione e infatti proprio in questi mesi stanno ripartendo mille progetti nelle aziende e non solo. La risorsa principe è sempre stata in realtà far gruppo o squadra, come si diceva negli anni ’90 (Quaglino, Casagrande, Castellano 1992). In sostanza si proponeva di reggere insieme le fatiche, scambiare strategie, creare soluzioni e sviluppare le potenzialità diffuse… ‘con-dividere’ cioè possedere insieme, partecipare insieme, offrire del proprio ad altri.

Azioni, competenze che sicuramente possono giocare un ruolo fondamentale in qualsiasi campo lavorativo, si sa; eppure, anche nella pratica didattica risulta difficile, talvolta, condividere con altri una propria esperienza o un proprio modo di fare. Entrano in gioco le nostre competenze sociali: saper avviare, sostenere e gestire un’interazione di coppia o di gruppo, spontaneamente e con continuità. Ciò che in realtà proponiamo e valutiamo anche nel lavoro con bambini e ragazzi!

Si tratta di competenze naturali ma anche oggetto di apprendimento, dunque, potenziabili attraverso attività che riguardano la percezione di sé, l’ascolto, la rappresentazione sociale, il gruppo. Questo per tendere a diventare un po’ come musicisti jazz che “ascoltandosi reciprocamente e ascoltando sé stessi, sentono in che direzione sta andando la musica e di conseguenza adattano il loro modo di suonare…” (D. A. Schön, 1983), cercano cioè di armonizzare la propria prestazione con gli altri, al fine di contribuire tutti al meglio all’opera che stanno producendo.

Questo, che sembra un atteggiamento quasi magico, è in realtà applicabile in ogni contesto lavorativo. Qualche anno fa ho partecipato ad un progetto[1], che ricordo spesso e a cui sono grata[2] ancora oggi. Un gruppo multiprofessionale nell’area canavese, cui partecipavano educatori, insegnanti della scuola d’infanzia, assistenti sociali, psicologi… Da che mi occupavo di formazione e supervisione, si trattava di una situazione pressoché unica nel suo genere!

Ci siamo conosciuti, abbiamo cercato di costruire un linguaggio comune, abbiamo discusso insieme di situazioni davvero complesse, condividendo tutto il possibile in termini di competenze e sapere, ci siamo sostenuti gli uni gli altri nei momenti più difficili (perdita del lavoro, smembramento di team, cambi di sede…) e sui temi più sfidanti (morte, abuso, dipendenze…). Un’esperienza di comunità scientifica[3] che ho sempre sognato di vivere e respirare.

Poi è arrivata la pandemia e allora ci siamo inventate un sostegno a distanza e abbiamo riflettuto su come stessimo vivendo un periodo così anomalo. Volevamo tornare nel mondo reale per cambiarlo almeno un po’ e far fronte con forza e coraggio ai prevedibili contraccolpi che sarebbero arrivati nel medio e lungo periodo. La speranza di poter eliminare il distanziamento era diventata quasi un’urgenza emotiva e cognitiva. Ma c’era anche il desiderio di reinventare l’essere educatori. C’era la consapevolezza di non voler scendere a compromessi, la fiducia nel cambiamento e la capacità stoica ed organizzata di reagire. Ci siamo salutate prima dell’estate e approfitto di questa sede per ringraziare ancora tutte e tutti!

Pensare a loro mi ha fatto ricordare come il primo gruppo di cui sia occupata veramente sia stato quello dei bambini e ragazzini del mio cortile. Nel turn over tra piccoli e grandi, per un’estate, ero rimasta l’unica un po’ più grande con una masnada variopinta di cuccioli. Ci siamo divertiti un sacco e si sa, anche in una sola estate, siamo cresciuti davvero tanto insieme.

Nella mia vita ho svolto davvero tanti mestieri, frequentato tanti contesti e tanti gruppi, crescendo ogni volta un po’. Il percorso con questo gruppo multiprofessionale del Canavese è stato tutt’altro che banale. Diversissimi ma uniti da un solo centro, i bambini, abbiamo ‘giocato’ insieme a lungo e con passione. E sono cresciuta ancora, perché dagli altri si impara sempre e dai bambini di più! Spero sia stato così anche per loro.

In un periodo storico di individualismo estremo, ho imparato di nuovo che insieme si arriva più lontano e si costruiscono cose nuove, che prima non c’erano. Ho imparato che ascolto a racconto viaggiano sempre insieme, che quando si sbaglia strada si può tornare indietro e ripartire, che è meglio se si fa a turno nel prendere la posizione di guida, che quando si brancola nel buio, ma si è in tanti, ad un certo punto arriva sempre qualcuno con un po’ di luce, con un sorriso, con una speranza, un’idea.

Buon lavoro e buona vita a tutte le farfalle con cui ho volato!

[1] Progetto Cipì – Canavese Insieme per l’Infanzia
[2] Ringrazio in particolare Reginaldo Palermo per avermi messo in contatto con questo prezioso Gruppo di Lavoro
[3] Alcuni di questi brani provengono proprio da quell’esperienza durata alcuni anni.




L’insegnante è come un regista, gli alunni sono gli attori

di Raimondo Giunta

Non c’è deduzione tra finalità educative e procedure didattiche ,ma ci sono tentativi e percorsi di avvicinamento.
I principi si possono incarnare in pratiche differenti, adattabili a contesti diversi e a diversi alunni, a diversi contenuti dell’apprendimento.
Questo non significa che si è liberi da qualsiasi vincolo di coerenza ,ma che bisogna con discernimento orientarsi verso quei modelli didattici ritenuti più adeguati alle situazioni date, sapendo in partenza che a-priori non ci sono metodi universalmente buoni e sempre efficaci.

Il problema non è quale pratica adottare, ma quali apprendimenti si devono conseguire e misurare su questi la pertinenza dei mezzi e delle procedure usati, tenendo presente che una pratica non può essere separata dalle intenzioni che l’animano e dal modo in cui viene messa in atto.

Ogni apprendimento impegna l’attività intellettuale di colui che apprende e ne porta il segno; ogni conoscenza è legata al contesto sociale e culturale in cui scaturisce e nei luoghi di formazione il protagonismo dei discenti e le pratiche sociali di cui è quotidianamente partecipe non possono essere trascurate.

L’alunno deve sentire come scoperta personale il possesso del sapere e “rapportarsi ad esso con uno spirito amichevole e curioso”(D.Nicoli).
E’ indispensabile fare almeno un tratto dell’itinerario intellettuale dell’apprendimento sul modello della scoperta, che nei luoghi scolastici non può che essere inquadrato, semplificato, didatticizzato; lontano comunque dall’insegnamento ex-cathedra.

“Imparare a essere scienziati non è la stessa cosa di imparare le scienze: è imparare una cultura con tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna”(J.Bruner).
Lavorare per enigmi, dibattiti, situazioni-problemi, piccoli progetti di ricerca, esperimenti comporta un radicale cambiamento dell’insegnamento.

E’ fondamentale per una buona formazione tenere sempre sotto osservazione il rapporto che si viene a istituire tra alunno e il sapere, per cercare in tutti i modi che non si frappongano ostacoli, remore di qualsiasi genere che possano determinare un atteggiamento difensivo, diffidente o cinico verso una disciplina, una nozione, un metodo, una posizione intellettuale (Ph.Perrenoud).

Per raggiungere questo risultato una buona scuola deve dare spazio alla negoziazione, al dialogo, alla riflessione perché in questo modo l’alunno può crescere bene e trovare fiducia nelle sue forze.

Ai metodi e ai modelli didattici si deve richiedere di favorire e di stimolare l’autonomia dello studente, di collocare l’apprendimento in contesti realistici, di agevolare la “costruzione” delle conoscenze entro una esperienza sociale di collaborazione con l’insegnante e con i pari, di promuovere e incoraggiare l’autoconsapevolezza nel processo di apprendimento.

Le nuove concezioni dell’apprendimento e la cultura pedagogica più attenta alle trasformazioni della società ridisegnano sia il ruolo del docente sia il ruolo dell’alunno.

Il docente diventa il regista del processo di formazione e gli alunni ne diventano gli attori.

Gli alunni responsabilizzati e coinvolti nel loro apprendimento possono diventare in alcune attività aiuto per l’insegnante ,risorse di apprendimento per i propri pari

L’insegnante favorisce la comunicazione interattiva tra gli alunni, valorizza i punti di forza di una prestazione; permette a tutti di esprimersi e ne apprezza i suggerimenti; valorizza la partecipazione e i contributi degli alunni, stimola con le sue domande e riporta a coerenza col modello didattico prescelto le attività che vengono svolte; favorisce l’identità e la consapevolezza individuale e dei gruppi di lavoro.

E’ presenza fondamentale nei momenti preliminari, e soprattutto durante l’attività didattica. E’ un ruolo di guida ,ma deve accettare che il centro dell’azione didattica si sposti dalla cattedra all’intera aula, che si instauri una forma di democrazia nelle relazioni pedagogiche. Non deve considerarsi un dispensatore di saperi, che spezza ogni giorno il pane della verità. Collocato in una comunità d’apprendimento assume il ruolo di adulto significativo, capace di mobilitare i talenti degli studenti in esperienze importanti, concrete, sfidanti che suscitano interesse curiosità e desiderio di apprendere.

Il buon esito del lavoro di formazione dipende dalla capacità dell’insegnante di testimoniare in modo convincente il proprio amore per il sapere, di costituirsi come modello plausibile di persona appassionata del proprio lavoro di studio e di ricerca.
Deve far vedere che ha in sé il fuoco che vuole accendere negli altri: fatto che oltrepassa la competenza didattica e interpella le altre sue dimensioni umane.

 




Figli rubati

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone 

Lavorando nelle scuole, mi è successo frequentemente di raccogliere i vissuti di impotenza di insegnanti ed operatori sociali rispetto alla tendenza di molti genitori a sottrarsi al proprio ruolo educativo, ludico ed affettivo. Ho avuto anche occasione, purtroppo, di confrontarmi con situazioni di ridotte o quasi assenti competenze genitoriali. Intendo quelle funzioni che secondo la metanalisi di Visentini (2006) sono otto: protettiva, affettiva, regolativa genitoriale, normativa, predittiva, significante, rappresentativa e comunicativa, triadica. Oggi le si può valutare in modo obiettivo (con test psicologici, colloqui clinici, osservazioni comportamentali, raccolta di informazioni) su mandato dell’autorità giudiziaria (M. Nicastro, G.B. Camerini) e i risultati sono a volte molto netti, possiamo dire dolorosi. Questo è sicuramente un problema di estrema complessità epistemologica e di altrettanto complessa risoluzione.

In questa sede però vorrei dar luce a situazioni diverse, meno evidenti, potremmo dire opposte, ma altrettanto significative per la ricaduta sui bambini e i ragazzi.

Uno degli apprendimenti più importanti fatti in questi anni di lavoro negli Sportelli d’Ascolto, riguarda l’importanza del ruolo delle famiglie all’interno del percorso di counseling, come pure nelle prese in carico degli adolescenti (Lancini 2020). Inizialmente si riteneva che lo spazio d’ascolto dovesse essere riservato soprattutto ai docenti ed ai ragazzi ma gradualmente ci si è accorti che qualcosa non stava funzionando…senza la collaborazione dei genitori veniva a mancare la continuità nel progetto educativo pensato per i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze.

Iniziammo a coinvolgerli con alcune conferenze sui temi dell’età evolutiva e gradualmente cominciammo a restituire l’esito delle nostre osservazioni, e dei dialoghi con gli insegnanti, anche ai genitori. Per qualche strana credenza inizialmente ci rivolgemmo soprattutto alle mamme, lasciandoci convincere del fatto che i papà non potessero essere presenti ai colloqui o addirittura non ne fossero assolutamente interessati. Fu proprio a causa delle situazioni più intricate e apparentemente senza via d’uscita, che decidemmo di tentare invece con quest’ultima opportunità e ci imbattemmo in una piacevolissima scoperta. Ai papà interessava, e non poco, delle difficoltà dei propri bambini e spesso disponevano anche di informazioni utili nella ricerca di strategie e soluzioni. Come ricorda Daniel Stern (2000) il padre, infatti, non è semplicemente la luce che illumina la diade madre-bambino ma è, assieme a loro, l’essenza di un quadro in cui ogni singola parte ha senso solo in relazione alle altre.

Quello fu uno dei casi in cui mi accorsi che troppo di frequente bambini, bambine, ragazzi e ragazze venivano ‘rubati’ in qualche modo ai propri genitori. Vi potrà sembrare un’espressione eccessiva ma credo in realtà possa esprimere una qual consuetudine a sottrare i piccoli alla relazione educativa ed affettiva con uno dei propri genitori o adulti di riferimento. Questo rischio ovviamente si amplificava nelle circostanze che potevano venire a crearsi a seguito delle separazioni, soprattutto quelle conflittuali.

Un altro caso analogo riguarda l’intrusione dei nonni nello spazio educativo che spetterebbe invece ai genitori. In diverse occasioni, proprio a partire da quelle conferenze, che si trasformarono in incontri di gruppo tra genitori, partecipai a racconti di incongruenze educative anche molto nette in comportamenti e atteggiamenti di genitori e nonni. Incontrai la fragilità di tanti genitori, soprattutto mamme separate, pressati dalle aspettative delle famiglie d’origine sulla crescita dei nipoti. Si trattava di genitori più o meno giovani, soggetti a costanti giudizi svalutanti, paternali circa le proprie dubbie capacità di guidare con polso i propri bambini, o di gestire l’articolazione tempo lavorativo e tempo familiare, sino alle scelte delle compagnie e dei percorsi scolastici. Sembrava difficile trasmettere loro la necessità di assegnare un termine, una scadenza ai mandati educativi dei nonni a favore di quelli genitoriali.

Non si tratta, in questi casi, di disconoscere il valore sociale, familiare, affettivo ed anche educativo dei nonni, segnalato tra l’altro in modo inequivocabile, oggi, dalla quantità e qualità di tatuaggi, ad essi dedicati, presenti sui corpi di adolescenti e giovani. Si tratta di collocarli proprio nella giusta proporzione e posizione nella gamma dei ruoli e delle figure cui i piccoli fanno riferimento per definire il loro progetto futuro. Ad ognuno il proprio posto. Riappropriarsi, o appropriarsi per la prima volta, del proprio posto di guida accanto a bambini e ragazzi richiede fiducia nelle proprie capacità e risorse. In questo possono avere un ruolo davvero significativo insegnanti e educatori, andando a svolgere un reale sostegno alla genitorialità, scambiando strategie e informazioni per sostenere la gestione prima di nanna, pappa, pianto, rabbia, ansia…poi per potenziare la capacità di ascolto dei bisogni, di sostegno dell’autonomia e dell’assunzione graduale di responsabilità in modo autorevole. Merita infatti ricordare che i bambini di genitori autorevoli sono i più capaci, poiché i genitori stabiliscono con loro un buon equilibrio tra controllo e autonomia, sono fiduciosi delle possibilità del proprio figlio, tendono a far sviluppare la loro indipendenza. In questi giorni nel racconto di una mamma, dopo tanta rabbia, ho finalmente trovato la volontà di voler ascoltare il proprio figlio adolescente fortemente in crisi, di volerlo sostenere e proteggere, persino dagli attacchi dei nonni aggrappati ancora all’idea di dover raddrizzare l’albero finché è piccolo, perché più cresce storto, più sarà difficile farlo dopo.

Nello slancio confuso d’essere d’aiuto, a volte con un po’ di avidità verso rapporti non vissuti in gioventù con i propri figli e magari con un sotterraneo desiderio di rimediare e riparare, questi nonni non si erano accorti di aver sconfinato.




E’ difficile farcela, forse impossibile… La scuola e la “fatica” di Sisifo

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Domenico Sarracino

La scuola è preposta da sempre alla preparazione alla vita delle nuove generazioni. Non era cosa da poco ieri e, in una situazione così liquida ed articolata come quella attuale, non lo è oggi. Bisogna ribadire un assunto determinante: la scuola non è un opificio in cui il processo produttivo, se bene organizzato, dà sempre risultati standardizzati, previsti e prevedibili. Anche in una scuola che fosse priva di carenze e perfettamente organizzata i risultati sarebbero sempre aperti ed esposti al rischio ed all’insuccesso, perchè essa ha a che fare con la vita che cambia, con il nuovo che si presenta, con ciò che freme e fermenta nella società…

Fare scuola è tentare e ritentare, cercare e sperimentare; è sempre una navigazione in mare aperto, in cui la rotta va continuamente controllata.

Fare scuola (quando non si cede al vivacchiare) è un mestiere difficile in partenza. Meriterebbe da parte di tutti ben altra attenzione e considerazione. Invece accade che da sempre ed in particolare negli ultimi tempi di essa si parli tanto, ma poco si fa soprattutto da parte di chi ha le più alte responsabilità; e la scuola resta quello che è; ora tirata di qua ora di là, sempre più fa pensare alla punizione di Sisifo, costretto da Zeus a fare tanta fatica per trascinare in su un masso destinato irrimediabilmente a ricadere in basso. E quel poco che fanno quelli che reggono il sistema-scuola è più per apparire che per esserci sul serio, è estemporaneità ed improvvisazione, fuoco d’artificio volto a dare fumo negli occhi e a far finta di fare, senza un disegno strategico, senza continuità, mezzi adeguati, coerenza; senza un disegno strategico che parta dallo stato reale delle cose.

Ma un altro fattore incide sulla situazione che si sta descrivendo e che chiama in causa altri soggetti che segnano la vita sociale e la contaminano, un fattore che interviene potentemente e profondamente sulla formazione dei giovani il cui peso è ancora troppo poco presente e considerato.
Parlo dell’educazione indiretta, quella che il mondo adulto, i responsabili della cosa pubblica e chi svolge alte funzioni politiche economiche e sociali diffondono col loro agire; i quali molto spesso danno continui esempi di doppiezza, di corruzione e disonestà: predicano una cosa e ne fanno un’altra, mentono, spergiurano, raggirano, perseguono interessi personali, accecati dalle carriere, dalle cordate, dai posti di potere. E parlo, nel contempo, di quel fenomeno ancor più insidioso ed insinuante che riguarda la comunicazione, l’intrattenimento e il mondo dei social, che pervade società complesse ed articolate come la nostra, in cui tutto si fa spettacolo, in cui vincono e colpiscono la trasgressione, il gesto sopra le righe, l’atteggiamento spavaldo, la voce grossa, l’intolleranza e la sopraffazione, dove a dettare i palinsesti sono i dati dell’audience. E allora: se la nostra società funziona così, “educa così”, la scuola, fosse pure senza alcuna pecca, con concorrenti così efficaci- ahimè- dispero che potrà farcela. C’è una tabe intorno a noi, quella che genera il malcostume crescente e i gesti dei tanti Blanco.
Credo che chi tiene ad un futuro migliore, di costruzione e progresso nella libertà, nella responsabilità e nella cooperazione solidale non può non interrogarsi su questi fenomeni.




I sentimenti alle diverse età hanno la stessa dignità. Quando i genitori si separano

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

di Monica Barisone

È sempre sorpresa quando qualcuno ci confida sentimenti! A volte si può provare persino rabbia quando non si condivide la scelta del nostro confidente. E sì, perché non è facile ricordare che l’amore, provato a qualsiasi età, meriti rispetto; non è facile soprattutto quando ad essere coinvolti sono i nostri figli, o studenti o amici o addirittura genitori. Quest’ultimo caso forse è quello più tormentoso e tormentato.
Le rotture dei rapporti sentimentali nella coppia genitoriale provocano sì il disagio della mancanza, ma anche il disagio di eventuali nuove presenze.
Anni fa incontrai un’amica esterrefatta perché i figli, più che adolescenti, non riuscivano ad ‘accettare’ il compagno che aveva finalmente accolto nella sua esistenza dopo molti anni di solitudine.
Questo dopo un’esistenza da sempre dedita unicamente ai figli ed al lavoro. E a seguire negli anni mi vennero descritti molti altri casi di rifiuto viscerale per compagni scelti dopo separazioni e divorzi. A cosa si potevano ricondurre queste posizioni così radicali? Un accesso di egoismo? Eccessiva centratura su di sé? Mancata elaborazione del lutto? Disorientamento? Sicuramente era presente una grande fatica, forse nel riconoscere o ipotizzare nel genitore la presenza di sentimenti definiti, degni di cura e rispetto.

Non so, si potrebbero annoverare tra le manifestazioni di una educazione sentimentale, o forse meglio, alla affettività, oggi un po’carente a causa della rapidità e virtualità dei rapporti sociali. Unitamente all’educazione alla sessualità, l’educazione emotiva e sentimentale consente di accrescere le abilità affettive e favorire buone relazioni interpersonali. Lì per lì potrebbe sembrare una priorità educativa e formativa, in realtà nelle scuole se ne tratta poco e frettolosamente ed esistono pochi progetti culturali che se ne prendano cura.

L’unico esempio, per me locale, che ricordi è stato il bellissimo laboratorio spettacolo ‘Romeo e Giulietta ai balconi di Settimo’ che nel 2003 aveva coinvolto 300 ragazzi delle scuole elementari e medie ed i loro insegnanti.
‘Fu un momento unico in cui il teatro diventò un potente veicolo per insegnare la bellezza del sentimento’ (Venturini 2022). L’ideatrice e coordinatrice del progetto, Antonia Spaliviero, me ne aveva parlato quasi con timidezza e ritrosia, sottodimensionando la portata sociale della sua creatura. Andai a vedere lo spettacolo conclusivo ‘Noi: Romeo e Giulietta’ che si teneva proprio nella piazza del Municipio, il cuore della cittadina.

Vedere quelle danze accennate da ragazze e ragazzi, splendidi nel loro affacciarsi alla giovinezza, vederli sincroni e flessuosi in movimenti corali o a coppie, appassionati e guidati dalla splendida musica, mi produsse un tonfo al cuore, uno stordimento per l’emozione intensissima, un concentrato di sentimenti di estrema potenza.

Chi ha avuto la fortuna di incontrare amore vero, nelle sue molteplici possibili manifestazioni, sa di cosa stia parlando, sa che non esistono limiti di età né di identità o relazione o contesto. I giovani, proprio per la brevità della loro esistenza, questo ancora non lo hanno sperimentato, sentito, acquisito. Così si intimoriscono dinnanzi a novità relazionali dei propri genitori e le vivono soprattutto come potenziali terremoti che potrebbero minare la loro già instabile visione della vita quotidiana. Questo rischio è ancora più probabile se il figlio o la figlia sono erroneamente scivolati andando ad occupare il posto venuto a mancare accanto al genitore, o se non hanno ben compreso le motivazioni della decisione di separarsi o ancor peggio, non credono sia definitiva.

Ogni volta che una coppia di genitori separati da poco, o in procinto di farlo, sono venuti a trovarmi per riflettere sulle modalità da mettere in atto con i figli, abbiamo dovuto dedicare la maggiore attenzione ed energia proprio alle comunicazioni da fornire per ridurre al minimo dubbi e fantasmi. Mettere ordine consente di creare spazio, nella mente e nel cuore di tutti coloro che andranno a confrontarsi con gli effetti della separazione. Ciò che interessa ai ragazzi, me lo hanno confidato spesso, è che i genitori non tradiscano il rapporto con loro, la relazione di fiducia e stima costruita insieme sino a quel momento; desiderano sapere mentre gli eventi accadono, poter stare accanto ai loro genitori mentre soffrono (limitatamente alle loro possibilità di contenere le emozioni adulte), non essere abbandonati e dimenticati ma anche capire cosa succederà loro dal punto di vista meramente organizzativo.
Credo che proprio restare con loro in una relazione affettivamente significativa, possa rappresentare sia un fattore protettivo rispetto all’elaborazione del dolore della separazione familiare, sia un’opportunità per costruire ponti verso il futuro e consentire di accogliere gli amori che verranno, a volte anche poco comprensibili a chi non li stia vivendo.