La pantera identitaria

di Giovanni Fioravanti

Quando si incita ad affermare la propria identità, in sostanza si invita a sventolarla in faccia agli altri e questo certo non si può dire che sia un gesto di amicizia.

Pensare oggi di porre a coronamento del curricolo del primo ciclo di istruzione l’acquisizione della propria identità nazionale, come sembra nelle intenzioni dell’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito, ispirato dal pensiero della coppia Galli della Loggia, Loredana Perla, rischia di mettere in serio pericolo l’impellente necessità di formare le nuove generazioni a viversi come cittadini di un mondo in cui difendere la convivenza comune e il proprio comune ambiente di vita. Significa non aver appreso la lezione della storia che è apprendimento della “grammatica della civiltà”, la propria e quella degli altri, per non ricadere nelle barbarie del passato.

Non ci sono distinguo che tengano, pretestuose denunce sull’ignoranza della storia e della geografia del proprio paese da parte di studenti e studentesse formati agli apprendimenti e alle competenze prescritte dalle attuali Indicazioni curricolari nazionali per le scuole del primo e del secondo ciclo di istruzione. Se tali carenze ci sono, le cause vanno ricercate altrove, non tanto perché non sia chiaro a cosa debba servire la scuola pubblica, ma, se mai, perché non è chiaro cosa e come la scuola pubblica debba essere.

Agitare l’identità come elemento di compattazione di un popolo nel terzo millennio del mondo dovrebbe rendere avvertiti dei pericoli che oggi comporta, rispetto ai vantaggi che si presume possano derivare.
Lo spirito patriottico dei fautori dell’insegnamento dell’identità, ci trascina tutti due secoli addietro, a quella storia risorgimentale incompiuta di un’Italia fatta che ora doveva preoccuparsi di fare gli Italiani e a questo avrebbe dovuto provvedere l’istituzione della scuola pubblica con la legge di Gabrio Casati. Ha ragione Galli della Loggia a scrivere che la scuola pubblica non può sfuggire a questo destino iscritto nella sua origine.[1]

Ma il problema è, appunto, ancora di quali italiani vogliamo formare, siamo sempre lì, ieri come oggi.
Si ha l’impressione di assistere ai corsi e ai ricorsi storici. Per Croce e Gentile il Risorgimento fu interrotto all’epoca dell’unificazione politica. Il fascismo rappresentava la prosecuzione del Risorgimento e Benito Mussolini la speranza  nel suo possibile compimento. Il primo dovette ricredersi, il secondo rimase radicato nella sua fiducia nella storia come autocoscienza di un popolo, nello specifico del popolo italiano. A questo scopo mise a disposizione del fascismo la sua riforma della scuola con la religione, filosofia del popolo, a coronamento dell’insegnamento delle medie e delle elementari.

Ora i novelli epigoni, Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla, propongono non più la religione come agglutinante disciplinare della scuola di base ma il canone cultural-identitario italiano, attraverso la narrazione, il racconto della storia e della geografia del paese.[2] Non solo,  rilanciano i best seller risorgimentali, Cuore e Le avventure di Pinocchio come modelli di educazione nazionale di rara chiarezza[3], la cui ripresa e diffusione scolastica è necessaria per combattere la deriva scolastico-educativa che ha le sue origini negli anni ‘60[4].

In definitiva Insegnare l’Italia è la copertura per tornare al passato, l’identità da inculcare è sempre quella della scuola gentiliana violata dalla scuola media unica, dall’abolizione del latino e dalla pedagogia progressista, è il Risorgimento che tradito dal fascismo si è realizzato nella Resistenza partigiana e l’autocoscienza generata dalla storia ha preso un’altra direzione anche sul piano dei valori educativi come la consapevolezza di appartenere all’avventura umana.

Storia e memoria vanno insieme, l’una sorregge l’altra e allora succede che non è possibile leggere la storia senza la memoria del prima e del dopo e cioè senza chiedersi che significato assume la parola identità oggi, a un quarto di secolo dall’inizio del millennio.

Nel 2005 Amin Maalouf ha scritto L’identità[5], convinto che negli anni in avvenire il problema dell’identità avrebbe indebolito il dibattito intellettuale e avvelenato la Storia. Una proposta per cercare di dominare la pantera identitaria prima che ci divori.
Amin Maalouf ci ricorda che quando il 9 novembre del 1989 è caduto il muro di Berlino molte persone hanno sperato che sarebbe iniziata in tutti i continenti un’epoca di pace, libertà e prosperità senza precedenti nella Storia. Ma dodici anni dopo, l’11 settembre 2001 questa speranza è svanita insieme al crollo delle Torri Gemelle del World Trade Center di New York.

Più nulla è stato come prima. Maalouf lo spiega sostenendo che con la fine della guerra fredda siamo passati da un mondo in cui gli attriti erano fondamentalmente ideologici a un mondo in cui gli attriti sono fondamentalmente identitari. Se il confronto ideologico fra comunismo e capitalismo si è rivelato pericoloso e rischioso, aveva però un merito, quello di suscitare un dibattito intellettuale permanente, al contrario, gli attriti identitari non suscitano alcun dibattito ideologico. L’identità non è oggetto di dibattito, è un a priori, non deriva da una scelta, un’identità si scopre, si assume, si proclama. Si afferma ad alta voce come appartenenza, come sfida di solito all’alterità, al non-io reale o immaginario che sia.

E, dunque, rilanciare il tema dell’identità significa lisciare il pelo alla pantera identitaria, camminare in equilibrio sul filo sottile che corre fra la diversità del mondo e l’esigenza di universalità.
L’opposto di quello che si propone l’insegnamento della storia prescritto dalle attuali Indicazioni Nazionali per il curricolo del primo ciclo di istruzione: “Nei tempi più recenti il passato e, in particolare, i temi della memoria, dell’identità e delle radici hanno fortemente caratterizzato il discorso pubblico e dei media sulla storia. Un insegnamento che promuova la padronanza degli strumenti critici permette di evitare che la storia venga usata strumentalmente, in modo improprio. […] Occorre, dunque, aggiornare gli argomenti di studio, adeguandoli alle nuove prospettive, facendo sì che la storia nelle sue varie dimensioni – mondiale, europea, italiana e locale – si presenti come un intreccio significativo di persone, culture, economie, religioni, avvenimenti che hanno costituito processi di grande rilevanza per la comprensione del mondo attuale…[6]

È evidente che andare a intaccare questa impostazione costituirebbe una precisa scelta ideologica, come del resto non nega Galli della Loggia il quale sostiene che nell’ambito dell’istruzione e delle scelte didattiche è impossibile la neutralità, l’assenza di una prospettiva ideologico-culturale.[7]

Attenzione, perché in questo modo si inverte, si altera la prospettiva delle attuali Indicazioni nazionali, vale a dire del nostro sistema scolastico nel suo complesso, non più la persona nella sua specificità come punto di partenza del processo di insegnamento-apprendimento ma la cultura di appartenenza come identità da acquisire, un’inversione netta da soggetto a oggetto dell’istruzione.

[1] E. Galli della Loggia, L. Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Morcelliana, 2023, p. 37
[2] idem. p.79
[3] idem. p. 100
[4] idem. p. 110
[5] Amin Maalouf, L’identità, Bompiani, 2005
[6] Annali della Pubblica Istruzione, Numero Speciale, 2012
[7] E. Galli della Loggia, L. Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Morcelliana, 2023, p. 37




L’empatia perduta

di Cinzia Mion

I recenti fatti di cronaca ci portano a fare delle considerazioni desolanti e insieme molto dolorose, indotte da moti di orrore e direi quasi di ripugnanza. La soggiacente formazione pedagogica però mi porta a cercare di piegare tali emozioni all’interno di una riflessione tesa alla ricerca di un riscatto o almeno ad una svolta educativa correttiva. Non posso darmi per vinta. Non posso…
Tra le derive sociali più preoccupanti da tempo noi persone di scuola segnaliamo l’INDIFFERENZA intesa come NON-CURANZA che sta crescendo in modo preoccupante.
Il filosofo lituano di origine ebraica Levinàs trent’anni fa affermava che il “volto dell’altro mi interpella”, volto dell’uomo sofferente e morente, e dove “l’interpellare” aveva un significato profondo e quasi viscerale di richiamarci alla nostra umanità…
Beh oggi il volto dell’altro non solo non ci interpella più con questo significato ma stiamo purtroppo spesso verificando che invece di sollevarci pietà, lascia via libera non alla semplice indifferenza ma addirittura al “sadismo”, alla “crudeltà”, e addirittura alla “perversione”.
Da troppo tempo stiamo assistendo al fenomeno delle baby gang, formate da preadolescenti carichi di rabbia, ma ora ciò che è successo a Pescara da parte di due sedicenni, nei confronti di un altro sedicenne, ha superato di gran lunga i limiti. Non possiamo tutti noi adulti non auto-interrogarci: famiglia e scuola.
Ovviamente questo episodio si collega anche a quello commesso barbaramente nei confronti del bracciante indiano di nome Singh, da parte adulti travolti da una rincorsa avida e immorale al PROFITTO, costi quel che costi, fino appunto ad un omicidio efferato (perché di questo si tratta anche se commesso per mancanza spietata di soccorso!).
In tutti i casi che stanno purtroppo accadendo ai nostri giorni: dai migranti lasciati morire in mare (con le ONG spedite il più lontano possibile per timore che possano salvarne troppi!!!); a tutti i casi provocati da un caporalato “schifoso” e da troppo tempo ignorato coperto dal famigerato “far finta” di non sapere ciò che alligna nei campi da sud a nord, (modalità tipicamente italiana che si accompagna all’altra famigerata modalità che contrassegna gli italiani “brava gente” che si chiama “furbizia tornacontista”); fino all’agghiacciante fatto dei ragazzini …tutti casi in cui è sparita l’E M P A T I A.

E insieme all’empatia la nostra umanità. Nessuno osi obiettare: non possiamo generalizzare…perché c’è sempre chi è pronto a buttare la palla in tribuna per alleggerire la situazione. Questo per me è il peggiore: più in malafede di tutti perché abituato a manipolare e a portare acqua al suo mulino. Possiamo non sapere di quale mulino si tratta ma se scavate lo trovate!!!
Questa assenza pericolosissima di empatia che un po’ alla volta ci ha inaridito riguarda tutte e tutti. Nessuno escluso.

In cosa consiste l’EMPATIA?
Edith Stein (filosofa ebrea morta ad Auschwitz nel 1942) che ha molto approfondito l’argomento, dice che “è un vissuto specifico …perché esperienza di una “non esperienza” che però ha i tratti emotivi-diretti-intuitivi di un vissuto personale ….: si fonda sull’uscire da sé, sull’incontro e l’apertura all’altro, che non è mai fusione affettiva o sconfinamento”, praticamente evita l’identificazione altrimenti ciò che stai provando è una commozione o un “sentire” che riguarda te stesso e non l’ALTRO….

I NEURONI SPECCHIO

Oggi sappiamo che anche attraverso la cosiddetta “prosocialità” assistiamo ad un’attitudine innata, di cui sono portatori/trici tutti i bambini e le bambine, che fa sorgere una predisposizione all’attenzione all’altro che andrebbe curata sì nelle femminucce ma anche nei maschietti….Conosciamo però anche qualcosa di più scientifico che sono gli esiti delle ricerche delle neuroscienze con la scoperta dei NEURONI SPECCHIO (da parte di Gallese e Rizzolatti) che ci hanno reso edotti sull’ INTERSOGGETTIVITA’, cui siamo tutti programmati fin dalla nascita. Grazie a tale mirabolante scoperta noi dovremmo essere perciò portatori, attraverso la “simulazione incarnata” insieme alla cosiddetta “consonanza intenzionale”, di EMPATIA nei confronti dell’altro con cui stiamo INTER-AGENDO!
Allora, come abbiamo fatto a ridurci così?

LO SVILUPPO MORALE

Un altro aspetto importantissimo, messo in luce da HOFFMAN, che analizza il sorgere dell’empatia nei bambini piccoli, consiste nella relazione tra la condivisione empatica e lo SVILUPPO MORALE.
Hoffman infatti fa emergere le radici affettive del comportamento morale e lascia grande spazio all’educazione e alla promozione degli atteggiamenti positivi verso gli altri. Tutto ciò anche nel contrastare l’aggressività e nel promuovere le relazioni sociali di accettazione reciproca, per quanto le situazioni possano apparire difficili.

GENITORI.

E i genitori oggi educano alla COM-PASSIONE?
La compassione che è diversa dalla “pena” perché in quest’ultima la persona se presta aiuto si riconosce come superiore a quella che in quel momento risulta bisognosa; diversamente, nel caso che chiamiamo com-passione ci riconosciamo simili alla persona sofferente, perché potremmo trovarci a vivere analoghe condizioni di sofferenza…
Ricordo che una quindicina di anni fa, (quando ancora i genitori erano consapevoli di avere bisogno di un sostegno alla genitorialità….) mentre stavo tenendo una relazione serale all’interno di un Istituto scolastico ho chiesto a bruciapelo guardandoli negli occhi: Ma voi educate i vostri figli alla compassione?
Rammento come fosse ora lo sguardo che mi hanno restituito: interrogativo e spaesato…come fossi una marziana!
Ho preso allora il coraggio a due mani e ho raccontato: “Io rammento ancora le parole esatte di mia madre (che era del 1896!) quando stavamo affrontando le difficoltà enormi della situazione di sfollati nel 1944, e per caso incontravamo un mendicante per strada: ”Poverino…vedi questo sta peggio di noi. Non ha niente, nemmeno un tetto sulla testa”. Ricordo perfettamente l’intonazione della voce che cercava di attivare appunto compassione….
Sempre cercando di focalizzare il ruolo genitoriale, dopo aver segnalato la probabile attuale assenza di educazione all’empatia, bisogna anche sottolineare la difficoltà di educare all’assunzione dell’etica della RESPONSABILITA’.
La tendenza diffusissima all’iperprotezione dei figli si prefigura infatti come “indulgenza” deresponsabilizzante. Proviamo per esempio a prendere in considerazione le richieste di giustificazione per “compiti non eseguiti” da parte di ragazzini bighelloni che al momento di andare a scuola davanti al piccolo rischio di essere colti in fallo chiedono ai genitori, e magari ottengono, di sottoscrivere una “scusa falsa”. L’etica della responsabilità, aspetto importantissimo che dovrebbe essere assunto sia dalla famiglia che dalla scuola, consiste nell’insegnare all’assunzione delle “conseguenze “delle proprie azioni….
Quale occasione migliore quella che si presenta allora ai genitori in un caso del genere: “No, non firmo il falso, ora vai a scuola e ti assumi la responsabilità delle “conseguenze” di quello che hai fatto o non hai fatto….!”

CONSIDERAZIONI FINALI

Le derive sociali pericolose che stanno intossicando le relazioni interpersonali sono molte. Ne ho affrontato alcune e nella fattispecie la mancanza di EMPATIA, insieme alla INDIFFERENZA diffusa.
Il rischio ineludibile è che tali derive possano ineludibilmente sommergere tutti, anche i docenti che avrebbero il compito, per dettato e competenza professionale comprovata, di intervenire per raddrizzare il tiro ed evitare il peggio.
Spero che questo grido di dolore arrivi allora anche alla scuola e che non sia troppo tardi…




Spiragli di luce. Qualcosa sulle paure dei ragazzi di oggi

di Monica Barisone 

STARE NELLA RELAZIONE PER IMPARARE E PER INSEGNARE

Non è facile far parlare i ragazzi delle loro paure, non lo fanno spontaneamente, ma a ben guardarli, a volte si coglie come una sorta di pallore, di smarrimento e allora, la fantasia che, sottotraccia, ci sia un lieve senso di paura diffusa, si coagula nella mia mente. Se provo a chiedere, formulando una domanda diretta sull’attuale periodo storico, allora decidono di aprire il vaso di Pandora, ed ecco che l’indicibile comincia a scorrere fuori come una lava incandescente e, attorno, rischia di rimanere solo la cenere.

C’è chi mi racconta di sentirsi messo in difficoltà dal boom mediatico rispetto ad alcuni eventi di cronaca, di vergognarsi di essere uomo. Chi denuncia quanto il contesto mondiale sia ansiogeno, disarmante, e muova soprattutto sentimenti di impotenza. Chi sostiene che sia meglio prendere un cane per difendersi che pensare di generare un figlio in un mondo senza speranza. C’è chi non si fa domande per la paura di rintracciare le risposte. I temi più ricorrenti sono il cambiamento climatico, i conflitti, la violenza agita e parlata.

Ho visto recentemente un video su un social che cerca di raccontare a fumetti quello che ci sta succedendo, violenza, finzione e correzione dell’immagine estetica di sé e del potenziale partner, diffusione di immagini private e lesione della privacy che possono portare al suicidio. Tutti assistono col cellulare in mano, riprendono o fotografano e cadono in un tombino che non vedono. Solo un ragazzino osserva ad occhio nudo e piange.

L’esperienza del lock down, da pandemia Covid, ha depauperato le competenze sociali soprattutto dei giovani adolescenti ed ora i ragazzi annaspano. Sarebbe stata utile un’abbuffata di eventi sociali per pareggiare i conti ma l’ansia di riallinearci su programmi, attività curriculari e no, doveri d’ogni sorta, ha soffocato ogni buona intenzione.

Qualche tempo fa l’ennesimo suicidio di una giovane ha sfiorato le nostre coscienze. Una ragazza, che la conosceva, mi ha raccontato con semplicità che lei, nella sua testa, voleva solo far cambiare le cose, che parlare con lei significava trovarsi a pensare a cose che non conosceva, come il diritto di voto, e sentirla dire che c’era tanta, troppa cattiveria sui social.

Anche tra ragazzi, allora, si comincia a parlarne e qualcuno mi dice che ‘i social non fanno bene, non sono buoni.’ Usano un linguaggio impreciso, generico ma primario, quello che si usa per fare chiarezza dentro di sé, per distinguere tra ‘mi fa stare bene’ e ‘mi fa stare male’, tra giusto e sbagliato, buono e cattivo, sano e malato. 0ra forse cominciano a sollevare di nuovo lo sguardo…dal cellulare alla vita circostante ma ciò che vedono li smarrisce ancora di più.

A chiedere ancora scopri che le emozioni che non sanno gestire sono soprattutto la tristezza e la rabbia; quindi, meglio non riflettere troppo e farsi troppe domande perché poi non saprebbero come contenere il furore, il dolore, la mancanza di senso di questo periodo di vita. Hanno la vaga idea che per conquistare la calma ci vorrebbe del tempo, luoghi sicuri e magari persone fidate con cui confidarsi. Tutti fattori piuttosto dispersi in questo momento. Il tempo è ormai prosciugato da post, like, foto, podcast, correzioni di immagini e voyeurismo. L’unico luogo sicuro sembra essere rimasto, nell’immaginario collettivo, il proprio letto. Gli adulti, poi, sembrano quasi tutti in balia di una resa incondizionata al peggio.

Se chiedo ancora, i ragazzi mi dicono che nelle scuole non si pensa a progetti sul disagio mentale, sulla perdita di motivazione allo studio ed al lavoro, né sulle neurodivergenze, ma piuttosto sulla raccolta differenziata, o tuttalpiù sul bullismo.

In questo panorama di frantumazione delle sicurezze e dunque dell’io, trovare leve di vita, spunti di speranza, ancore di salvezza o appigli per non scivolare nel baratro, diventa davvero complesso.
Gli sprazzi di luce che ho trovato sono davvero anomalie, di nicchia, forse persino un po’ naif o fantasy.
C’è la sfida del superamento della nostra visione antropocentrica del mondo per imparare dalle piante nuove linee guida per abitare il pianeta nel rispetto di tutti gli esseri viventi. In libri come La Nazione delle Piante o La tribù degli Alberi, Stefano Mancuso[1] affronta il tema della superiorità delle piante rispetto all’uomo in modo innovativo e provocatorio. Porta alle nostre orecchie la voce del bosco ‘Perché anche le piante hanno una personalità, delle passioni, ciascuna ha un proprio carattere. Cercano sottoterra per guardare il cielo. Si studiano, si somigliano, si aiutano’. Potrebbero aiutarci, se solo le osservassimo con un pochino di attenzione.

C’è ‘Un mondo a parte’ di Riccardo Milani, un bel film che piace nella sua semplicità e purezza, a sostegno di una buona causa. Persone comuni (quasi tutti) come attori, ritagli di natura (animale, vegetale e umana) da incanto, un buon stare nella necessità che porta lo spettatore a restare in piedi a leggere i titoli di coda, a decidere di tornare a breve a rivedere il film, a restare in quel ‘buon stare’ così opposto al ‘male di vivere’ che opprime un po’ tutti.
C’è la forza di una ragazza, di soli quindici anni, che ha appena ricevuto una diagnosi di sindrome bipolare, dopo due anni di incomprensioni e cure sbagliate, che mi dice, dopo aver versato poche calde lacrime, ‘Cerco di prenderla con ironia e penso che ora con le cure giuste starò meglio’.

[1] Neurobiologo e studioso di neurobiologia vegetale




Come fronteggiare le insidie della I.A.

di Cinzia Mion

Progettazione a ritroso e comprensione profonda

Nel panorama delle offerte che si incontrano, nelle pubblicazioni specialistiche, di esempi di progettazione di competenze, spicca per originalità la cosiddetta “progettazione a ritroso”.

Quando ho scoperto Wiggins e i suoi testi a dire il vero sono rimasta molto affascinata. Mi sono detta: ”Ecco l’uovo di Colombo”.
Finalmente gli insegnanti finiranno di sperare che le competenze possano scaturire come per magia alla fine del percorso tradizionale delle conoscenze come da programma. Si tratta in parole povere di rendersi conto che le “competenze” non possono scaturire dalla programmazione lineare delle conoscenze e dall’applicazione pedissequa del libro di testo.
Bisogna progettarle prima.

Ora invece posso affermare che questo tipo di progettazione, che pone il suo focus sulla competenza “profonda e duratura”, è l’unica che è in grado, ovviamente fino ad oggi, di poter essere considerata adatta a fronteggiare le insidie della Intelligenza Artificiale.
Con il mio contributo non intendo demonizzare tale dispositivo e tanto meno analizzarlo perché non ne ho le competenze.

Dal punto di vista di persona di scuola intendo però evitare che possa inaridire o minimamente compromettere la facoltà più fulgida che appartiene al genere umano, che dovrebbe connotarci sempre anche se negli ultimi tempi è venuto un po’ meno: il pensiero autonomo e riflessivo.
La competenza individuata come importante da far raggiungere agli alunni dovrà essere focalizzata all’inizio del percorso, dovranno poi essere identificate le conoscenze e i “saperi” ineludibili (fatti, concetti e principi), le abilità indispensabili (processi, strategie e metodi).
Inoltre andranno pianificate esperienze di apprendimento da far vivere direttamente in applicazione dell’aspetto teorico, per rendere attuabile il raggiungimento della competenza in questione. Bisogna però sottolineare che le pubblicazioni di Wiggins fanno riferimento alla “teoria” e alla “pratica” di un percorso didattico per la “comprensione profonda e significativa”.

Strada facendo si chiarirà anche il termine “duratura”, vale a dire inserita nella memoria semantica e non solo episodica, quindi in grado di illuminare di “senso” i contenuti in essa depositati. Un senso che va oltre l’occasionalità ma invece in grado di mettere in connessione altri contenuti successivi anche se apparentemente “sconnessi”.

LE DOMANDE ESSENZIALI

Il docente perciò dovrà farsi delle domande molto pregnanti, acquisendo la mentalità del progettista. Insegnare a partire dalle domande significa chiedere retoricamente “se le conoscenze sono fatte di risposte, allora quali erano le domande che hanno dato vita ai libri di testo o che hanno causato le risposte dell’insegnante e le risposte dei contenuti di queste discipline”?
Oppure le rielaborazioni dell’IA?
Questo tipo di domande è molto diverso da quello che normalmente il docente fa per controllare le conoscenze fattuali, per guidare gli allievi verso le risposte esatte. Dovrà infatti chiedersi innanzitutto: cosa è meritevole e degno di essere compreso in profondità? Si capisce immediatamente che il docente che decide di sperimentare questa interessante progettazione accetta di avere un buon rapporto con la fatica di pensare e con la riflessività che ne consegue. Fa parte di questa intensa riflessività la ricerca all’interno dei vari contenuti di “una grande idea” che dovrà avere un interesse durevole anche oltre l’ambito scolastico.

Se mi chiedessero a bruciapelo quale profilo finale vorrei che la scuola italiana si prefigurasse alla fine del corso di studi dalla scuola dell’infanzia fino all’uscita dalla scuola secondaria, direi subito: vorrei dei ragazzi riflessivi e dei cittadini formati all’etica pubblica. Naturalmente non significa “ignoranti” nelle conoscenze fondamentali delle discipline ma che queste siano state strumentali alla formazione delle caratteristiche suddette.

Vi sembra poco? Ragazzi, e ragazze, naturalmente, in grado di pensare con la propria testa, vale a dire curiosi e “problematizzanti” e desiderosi di autointerrogarsi sulle questioni più vitali del mondo, del futuro, della loro vita e della vita degli altri.
Che hanno sviluppato una intelligenza vivace, fertile, connettiva. Vale a dire ragazzi e ragazze che hanno appreso il valore profondo e duraturo delle idee portanti dei saperi e che inoltre hanno appreso e praticano coerentemente i valori del “cosiddetto Bene Comune”, caposaldo dell’educazione alla cittadinanza, evitando i trabocchetti dati dal famigerato “familismo amorale” che, da moltissimo tempo, contraddistingue il popolo italiano, legittimando i “tornacontismi” e gli incredibili livelli di corruzione e ipocrisia, scambiandoli con “furbizia”, considerata un valore al posto dell’intelligenza.

In altre parole che sono in grado non solo di affrontare con buoni risultati il “problem solving”, su cui può essere di valido aiuto anche l’I.A., ma soprattutto in grado di autointerrogarsi sui dilemmi, le questioni, le difficoltà della realtà, in altre parole l’attitudine al “problem posing”.

COMPRENSIONE PROFONDA E DUREVOLE

Quando Wiggins parla di grande idea il suo riferimento è ad una idea “perno”, essenziale per interpretare la realtà ed essenziale anche per costruire i famosi “compiti di realtà”, funzionali a cogliere quanto la competenza auspicata e realizzata si è incarnata nel repertorio delle acquisizioni degli allievi.
Una volta individuata l’idea perno, risposta desunta da una serie di domande essenziali di “senso”, si procede con il percorso. Una domanda di senso potrebbe essere: quanto questa idea perno può coinvolgere l’alunno dentro al nucleo centrale della competenza e quanto questa idea può essere determinante per fare chiarezza e sciogliere gli equivoci?
Vediamo ora cosa si intende per comprensione profonda. Significa che se una conoscenza o un’abilità non diventa lettura e comprensione della realtà, difficilmente si trasforma in significativa o flessibile o in comprensione profonda. Al contrario è molto probabile che rimanga astratta, disincarnata, scolastica.

I SEI ASPETTI DELLA COMPRENSIONE

Il primo aspetto è “la spiegazione”. L’allievo deve essere in grado di presentare resoconti di fenomeni, fatti e dati. Si tratta di dimostrare di essere in grado di rispondere alle famose cinque domande, tipiche fra l’altro del giornalismo: chi, cosa, dove e quando. Si richiede pertanto non solo la risposta esatta ma la spiegazione, si sollecita il collegamento di fatti specifici e la capacità di sostenere tali collegamenti e le loro conclusioni.

Il secondo aspetto è “l’interpretazione”. Si tratta di affrontare l’argomento attraverso esempi, aneddoti, narrazioni, ecc che possono costituire contenuti di testi, poesie, filmati, ecc. L’allievo deve saper rispondere a domande del tipo: quello che hai letto o scritto cosa significa? Cosa spiega dell’esperienza umana? In che modo ha a che fare con te?(es. i flussi migratori cosa ti rivelano del genere umano?)

Il terzo aspetto è “l’applicazione”. Questa dimensione verifica la possibilità di affrontare i famosi compiti autentici, che , proprio per essere autentici, non devono essere scollegati completamente dalla realtà dell’allievo e dalle sue esperienze, tanto da apparire stravaganti e bizzarri, come qualche volta capita di incontrare. Senz’altro il livello dell’applicazione richiede di usare le conoscenze in nuove situazioni e in vari contesti. Bisognerebbe che l’allievo potesse rispondere alla domanda : In quali modi le persone applicano questa comprensione nel mondo fuori dalla scuola? Come dovrei modificare il mio modo di pensare e il mio agire per rispondere alle esigenze di questa particolare situazione?

Il quarto aspetto è “la prospettiva”. Avere prospettiva prevede la competenza del decentramento e della “lungimiranza” e la capacità di rispondere alla domanda: questo argomento da quale punto di vista è stato affrontato? Capire il punto di vista significa possedere lo spirito critico per riuscire a smascherare assunzioni e conclusioni che non sono state sottoposte a controllo. Le Indicazioni per il curricolo, che hanno sostituito i programmi, chiedono più volte la competenza di essere in grado di cambiare punto di vista, anzi considerano questo obiettivo, in questa società multiculturale e multireligiosa, fondamentale e peculiare dei tempi.
Chissà se l’I.A. è in grado di indurre la flessibilità che richiede il “decentramento del punto di vista” come competenza personale consolidata, non come soluzione ad un quesito del momento. Faccio riferimento alla competenza interculturale e all’assunzione del paradigma della complessità come vera e propria forma mentis.

Il quinto aspetto è “l’empatia”. Questa dimensione viene definita come la capacità di entrare nei sentimenti e nella visione del mondo di un’altra persona. Significa saper mettersi nei panni degli altri, si tratta di sviluppare le intelligenze personali di cui parla Gardner, quella “intrapersonale” ma soprattutto quella “interpersonale”. Oltre che a sviluppare questo importante tipo di intelligenza si tratta anche di correggere la deriva sociale dell’indifferenza o “noncuranza”. L’aspetto più degno di nota dal punto di vista cognitivo è che il mutar d’animo può essere l’inizio del cambiamento di opinione e del superamento di eventuali pregiudizi.
Dubito molto che l’I.A. possa incidere sul “sentire” cosa prova l’altro, avvertirne la portata emotiva, le vibrazioni che ciò comporta. Può essere che io abbia una visione parziale e distorta di questo tipo di intelligenza perché nel mio immaginario la assimilo ad una “macchina pensante” ma non “senziente”!

Il sesto aspetto è “l’autoconoscenza”. Si tratta di riuscire alla fine a cogliere il nostro modo di conoscere, lo stile apprenditivo, quali sono i nostri schemi di pensiero, i nostri meccanismi di difesa che possono compromettere la nostra comprensione. Gli allievi dovrebbero essere in grado di risponder alla domanda “ quali sono i limiti della mia comprensione? Cosa tendo a comprendere erroneamente a causa dei miei pregiudizi, abitudini e stili mentali? “
Ovviamente questo aspetto deve riguardare prima di tutto i docenti sia per quanto attiene la loro “comprensione profonda“ delle conoscenze più significative; dei nuclei fondanti delle discipline che hanno il compito di insegnare, ovviamente dopo averli padroneggiati; del modo più accessibile e chiaro di tradurre tali concetti sostanziali e validati, in una didattica abbordabile e facilitante la comprensione da parte degli allievi. Speriamo così di solleticare la curiosità professionale di molti docenti, stimolati in questo modo all’ “autointerrogazione”: una delle strategie più sane per la Scuola ma anche per la Vita.

E alla fine si tratta di interrogarsi su come utilizzare l’Intelligenza Artificiale, di quali vantaggi può offrire ma soprattutto di quali conseguenze anche negative possono scaturirne e di come poterle minimizzare. Di come, per esempio, riprogettare il proprio lavoro come ho provato a fare io con il presente contributo

 




Ci sono saperi e saperi

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

Ci sono saperi che valgono in sè e sono quelli che danno un orientamento per dare un senso alla propria vita e ci sono saperi che valgono per orientarsi nel mondo del lavoro; l’approccio per competenze come spesso definito, proposto e incentivato questa distinzione tiene a non farla, tant’è che dappertutto si è visto ridurre il peso delle discipline umanistiche e delle stesse discipline teoretiche della scienza.
Che esistano saperi inerti è una favola da Confindustria; che l’inerzia sia congenita a determinate discipline è un’altra fatta propria dagli apostoli delle competenze.
Ogni sapere è vivido e fruttuoso se viene problematizzato; se si fa comprendere che si è costituito come risposta ai problemi che l’uomo ha dovuto affrontare nella sua storia.
E per la storia è opportuno ricordare che nei tecnici e nei professionali si è sempre considerato il rapporto col mondo del lavoro come proprio principio costitutivo.
Contrariamente a quel che viene detto la scuola che non si lascia trascinare nel dogmatismo dell’approccio per competenze è un scuola che dà strumenti di libertà; la scuola che predica la spendibiltà dei saperi predispone all’accettazione servile, all’adeguamento puro e semplice ai dati del mercato del lavoro.
Un matematico che aveva insegnato negli Stati Uniti e in Italia disse che dal punto di vista della produttività intellettuale è meglio insegnare geometria parlando di segmenti piuttosto che di bastoncini; non c’è nulla di più produttivo di un insegnamento teorico serio, rigoroso e profondo.
Un personaggio come M.Crahay, a cui si deve la realizzazione in Belgio di uno dei primi se non del primo curriculum per competenze in Europa dice della competenza che non ha fondamento e che è simile alla caverna di Alì Babà; non posso tralasciare, infine, B.Rey che delle competenze cosiddette trasversali ha mostrato tutta la loro debolezza, se non proprio l’insostenibilità.
P.S. Le competenze senza conoscenze sono vuote; si è competenti perchè si sa e si sa ciò che viene appreso in materie umanistiche, scientifiche e professionali.




Lo spoil system dei curricoli

di Pietro Calascibetta

Non c’è di peggio che distruggere ciò che si vorrebbe valorizzare imponendo delle scelte di parte invece di prendere atto della realtà.
E’ il caso del curricolo di storia che il ministro Valditara vorrebbe rivedere per salvare la scuola valorizzando l’identità italiana.
Mentre le vacche italiane sono minacciate da quelle francesi e gli artigiani italiani da quelli olandesi, non si capisce da chi sia minacciata la storia nazionale.
Il ministro non si è accorto che nonostante i proclami reiterati per anni e le leggi che alcune forze politiche sono riuscite ad introdurre, l’Italia è un Paese ormai multietnico e lo sarà ancor di più anche solo con le quote legali di ingressi decise dal governo.
La realtà in cui vivono i nostri studenti italiani e i nostri docenti italiani nelle aule non solo delle grandi città è una realtà multietnica.
Mentre i dinosauri vivono nei libri, nei film e nei fumetti, i compagni ucraini, siriani, filippini, cinesi, somali, palestinesi, ecc. sono accanto a loro tutti i giorni e con loro condividono non solo l’aula, ma le emozioni, i ricordi, la cultura.
Ciascun docente è consapevole che se vuole che l’apprendimento sia efficace deve creare un gruppo classe coeso e una cultura del gruppo e non delle fazioni contrapposte.
Maschi e femmine, italiani e stranieri, con e senza bisogni speciali.
Il problema quindi non è valorizzare “l’identità italiana” con un lavaggio del cervello agli stranieri e contemporaneamente iniettare una siringa di italianità agli studenti italiani che magari hanno il nonno emigrato in Argentina, ma semmai capire come fare a valorizzare l’italianità come cultura tra le culture in una realtà già multietnica.
Lavorare per problemi non è purtroppo nella prassi di una nuova politica che si è fatta da sé.
La coordinatrice della commissione fantasma che Valditara ha costituito per questa operazione di spoil system è la professoressa Loredana Perla e uno dei membri Ernesto Galli della Loggia.
Dimmi con chi vai ti dirò chi sei recita un detto popolare.
Per capire quali saranno le “linee guida” che seguirà la commissione nel suo lavoro è molto facile, basta leggere il volumetto di 128 pagine, pubblicato nel settembre dello scorso anno e scritto a due mani da entrambi i membri della commissione, dal titolo “Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo”.
Qui possiamo trovare tutto quanto occorre per un commento ex ante senza paura di essere smentiti.
Lo farò attraverso una recensione di questo volumetto scritta da Luigi Cajani su Historia Ludens “L’Identità colpisce ancora. Un libro sul curricolo scolastico di Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla “.
Una recensione molto interessante perché riapre una discussione mai conclusa su come debba essere impostato un curricolo di storia per i nostri studenti di oggi e di cui il ministro pare non interessarsi, interessato com’è nel seguire le indicazioni direttamente dal suo segretario di partito.
E’ bene ricordare a tutti che da tempo è in atto una “battaglia dei curricoli” , come la definisce Cajani, tra i sostenitori di un insegnamento identitario e quelli di un insegnamento scientifico della storia, una questione apparentemente burocratica e formale, ma che non va sottovalutata soprattutto in questa fase in cui ciascuna parte politica è alla ricerca della propria individualità perduta e la destra è desiderosa di affermare la propria a suon di decreti.
Non si tratta di una questione di “lana caprina” né riservata ai soli esperti, ma dovrebbe riguardare l’intera collettività perché un’’impostazione non è uguale ad un’altra nell’effetto che produce perché se la proposta di Galli della Loggia e di Perla dovesse tradursi realmente in indicazione nazionale influenzerà la cultura e il modo di pensare di un intero Paese nei prossimi anni.
Ecco perché l’interesse elettorale ha preso il posto dell’interesse alla coesione sociale che un sistema democratico dovrebbe avere a cuore.

Non si sa se il ministro coinvolgerà soprattutto le scuole e le associazioni professionali dei docenti nella discussione del testo che sicuramente verrà alla luce, cioè coloro che vivono sulla loro pelle la questione della coesione sociale e della tenuta delle loro classi.
Ciò che si vuole introdurre è quel curricolo identitario che Galli della Loggia prefigura nel volume e che ha sicuramente dei limiti, ma anche degli aspetti originali che Luigi Cajani pur evidenzia nella sua recensione.
Ciò che mi interessa mettere in evidenza qui, in relazione ai lavori della commissione, è la contraddizione che un tale approccio sottende e di cui lo stesso Galli della Loggia si accorge senza però trarne le dovute conseguenze.
Scrive l’autore della recensione che Galli della Loggia si trova di fronte a una spinosa contraddizione che dichiara candidamente, da una parte si domanda “se sia lecita l’acculturazione forzata all’«italianità» che in qualche modo verrebbe così imposta a giovani provenienti da culture diverse, anzi per lo più diversissime, da quella italiana” dall’altra afferma con disappunto che oggi “ siamo convinti che ogni persona abbia una sorta di diritto naturale a mantenere integri la propria identità antropologica, la propria storia, i propri costumi, la propria religione, e ci sembra che ogni aspetto della nostra civiltà il quale tenda a mettere in discussione queste cose costituisca un’insopportabile manifestazione di arroganza eurocentrica” (pp. 42-43 del volume).
A queste considerazioni Galli della Loggia risponde da sé dicendo che “se la scuola deve perseguire l’obiettivo dell’inclusione, in che cosa mai dovranno essere inclusi i giovani immigrati o figli di immigrati se non in un ambiente italiano e per ciò stesso necessariamente in buona misura italocentrico?” (pp. 44).»
Uno strano ragionamento. Ammette che l’operazione sarebbe una “acculturazione forzata” , ma poi afferma implicitamente che l’uso della forza è giustificato come conseguenza di questa convinzione diffusa e dura da sradicare che gli stranieri abbiano un diritto naturale a mantenere integra la propria identità, mentre il diritto deve essere garantito agli autoctoni.

Si tratta di un escamotage per giustificare una scelta tutta ideologica. Tutti sanno che in un qualsiasi immigrato le identità si mescolano e si integrano senza la necessità di eliminare l’identità di origine come se potesse inquinare la purezza del contesto in cui si trova. Vale per i pugliesi a Milano piuttosto che per gli italiani a New York o in Argentina.
La perdita o soprattutto la paura di perdere quel pezzo della propria identità più preziosa, che è quella di origine, porta i figli di seconda e terza generazione a rivendicare le proprie origini con una conflittualità esasperata spesso come accade spesso nella banlieue parigina ed è questo il vero pericolo per l’italianità. E’ questo che si vuole? Rompere la coesione nelle nostre aule?
Una politica dell’istruzione che favorisca un’integrazione basata sul rispetto delle identità di origine e il rispetto dei valori della comunità in cui si vive è la vera garanzia per valorizzare l’italianità culturale del paese.

A questo punto vengono spontanee due considerazioni e alcune domande per me cruciali sulla questione che rivolgerei alla neonata commissione ministeriale.

1) Se marcare la propria identità di origine di noi italiani è così importante tanto da ricorrere ad un’acculturazione forzata degli stranieri, perché non deve essere altrettanto importante almeno riconoscere il valore che ha per un immigrato la propria identità di origine?
L’inclusione degli immigrati non può avvenire attraverso altre strade ad esempio potenziando con un apprendimento laboratoriale l’insegnamento dell’educazione civica che, basandosi sulla Costituzione scritta da esponenti di culture diverse, dovrebbe insegnare i valori e i principi di un’italianità condivisa forse più della storia di Roma ?
Oppure la conoscenza degli usi, delle tradizioni e dei costumi degli italiani del Nord come del Sud non è forse valorizzare l’italianità ? (Ricordo un manuale molto usato a scuola negli anni ’70 sui dialetti e le realtà regionali di Tullio De Mauro quando la difesa dell’italianità era finalizzato alla coesione sociale ) .
Sono gli immigrati coloro ai quali spetta l’onere di inserirsi acculturandosi all’italianità o il processo di inclusione riguarda anche gli italiani a cui spetta l’onere di accettare gli immigrati in quanto persone, magari conoscendo qualcosa di più della loro identità di origine?
Gli studenti lo fanno già sia parlando nei corridoi e aiutandosi vicendevolmente, sia in attività che i docenti svolgono proprio per fare della classe un gruppo di lavoro.
Non abbiamo pensato che forse può favorire meglio l’inclusione uno studio curricolare della storia, soprattutto nella scuola di base, in grado di dare ad entrambi gli studenti italiani e immigrati una formazione comune in grado di permettere agli immigrati di capire cosa sia l’italianità e agli italiani di capire il mondo e le diverse identità ? Insomma un curricolo basato sul “pensiero critico, ……sull’epistemologia della storia, sull’approccio multi-prospettico e sulle più recenti acquisizioni della ricerca” come scrive Cajani.

2) Alla viglia delle elezioni europee il ministro per sorreggere la campagna elettorale del suo partito preferisce l’approccio identitario di Galli della Loggia e di Perla dell’ “Insegnare l’Italia”.
Invece di domandarsi in che modo incentivare l’identità europea senza perdere quella italiana. Ancora una volta è Galli della Loggia a dire la sua. In un articolo del Corriere della Sera del 3 aprile 2024 scrive: «L’Ue insomma ha mancato a quello che avrebbe dovuto essere invece il suo primo compito: fare gli europei. Nel solo modo in cui ciò è sempre avvenuto: dando agli abitanti del continente il senso della loro storia dei valori (anche religiosi) cui essa ha dato vita, dell’unicità e, se è permesso dirlo, della grandezza e dell’importanza dell’una e degli altri.»
A questo punto mi domando, cosa intenda Galli della Loggia per “fare gli europei” e quale Europa voglia un ministro dell’istruzione che rappresenta tutti gli italiani e non solo gli italiani che hanno votato il suo partito.
Se fare gli europei vuol dire favorire, valorizzare, creare un’identità europea, mi sarei aspettato una commissione diversa e un approccio diverso al problema dell’inclusione che oggi non può che essere strettamente legato ad un’inclusione tra gli abitanti dell’Europa.
Un curricolo identitario alla vigilia delle elezioni europee dovrebbe essere almeno sull’identità europea. Di questo si ha bisogno oggi.
Forse potrebbe valer la pena di cambiare prospettiva per affrontare gli aspetti culturali legati all’immigrazione. guardando non solo all’Italia, ma all’Europa..
Anche gli immigrati potrebbero trarne beneficio perché è in Europa che vogliono andare, che sognano come loro futuro e forse hanno più di noi il seme per un’identità europea.
Un curricolo di storia realmente europeo non può non raccontare come le storie dei popoli che nelle diverse epoche hanno abitato e abitano il continente si siano intrecciate tra loro continuamente, dalla preistoria ai Romani, dall’Impero alle invasioni, dagli Stati nazionali a Napoleone. alle guerre mondiali.

Una storia comune tra i popoli che hanno abitato l’Europa scritta insieme nel bene e nel male che ha prodotto e che ha lasciato segni molto profondi anche nelle cosiddette identità nazionali odierne che si vorrebbero esaltare come se fossero fiorite dal nulla.
Chi più dei Romani, tanto citati dai puristi dell’”etnia” , ha costruito una società multietnica!
Immaginare una proposta identitaria sull’Europa innovativa rispetto ai curricolo già esistente sarebbe stato troppo per Galli della Loggia e per il ministro .

E’ sempre Galli della Loggia nell’articolo citato del Corriere a darsi la risposta sul perché l’Europa ha fallito nel fare gli europei, diventando così il campione delle contraddizioni.
«Certo, per tutto ciò sarebbe stato necessario sfidare qualche luogo comune del politicamente corretto e soprattutto decidere che cosa si è: che cosa si vuole essere o non essere. Dunque compiere qualche scelta ideale, forse addirittura qualche scelta coraggiosa, indicare un passato e a partire da esso avere un progetto un sogno.»
Si affretta a concludere che questo dovrebbe essere compito della politica che purtroppo non c’è, ma aggiungo io può anche essere compito dell’insegnamento della storia e di un ministro dell’istruzione che voglia superare la contrapposizione politica a tutti i costi per fare l’interesse non di un partito ma di chi frequenta le scuole della Repubblica che a guardar bene sono italiani e stranieri in altre parole sono quelli che si chiamano STUDENTI , studenti che hanno tutti diritto all’istruzione e ad un’educazione ad una cittadinanza democratica come vuole la Costituzione.




Revisione delle Indicazioni nazionali. Il partito dei programmi

di Nicola Puttilli

Sul wikidizionario alla voce partito si legge: “raggruppamento politico di cittadini che professano idee comuni per la gestione dello stato e delle amministrazioni pubbliche”. Il ministro Valditara esibisce orgogliosamente sul bavero della giacca il distintivo della Lega, lo stesso partito che nell’Italia centrale presenta capolista alle elezioni europee il generale Vannacci, quello che vuole le classi separate per i disabili, considera anormali gli omosessuali e da ultimo anche le persone con i capelli rossi. Il ministro si è limitato a dichiarare che “nessuno ha fatto più della Lega per l’integrazione dei disabili” (ipse dixit) ma non ha ritenuto di dissociarsi apertamente da simili deliranti affermazioni, né risulta abbia manifestato difficoltà o imbarazzo nel farsi rappresentare in Europa da tale personaggio. Del resto lo dice anche il dizionario pop “cittadini che professano idee comuni”.

All’ombra di questo ameno paesaggio culturale il ministro in questione annuncia la nomina di una commissione incaricata di formulare proposte per la revisione delle Indicazioni nazionali e  delle Linee guida per tutti i cicli scolastici.
Sembra che sia quasi un dovere d’ufficio per ogni buon ministro dell’istruzione tentare, dopo qualche mese dal proprio insediamento, di lasciare un segno indelebile del proprio passaggio a viale Trastevere e riformare i programmi scolastici è una di quelle imprese che può assicurare un passaggio nella storia. Possono ben aspettare i controsoffitti che crollano, gli stipendi degli insegnanti e gli abbandoni precoci, la revisione dei programmi viene prima. Per fortuna ben pochi ci riescono.

I programmi scolastici invece arrivano dopo. Dopo un ampio e diffuso consolidamento culturale derivante da una visione comune di società e della  sua proiezione futura, da un’idea di scuola sufficientemente assimilata e condivisa, con una scansione temporale di lungo periodo, più o meno trentennale (a parte tentativi parziali di riforma che hanno avuto breve durata e scarso impatto sulla scuola reale).
Così è stato per i programmi della scuola elementare del ’55, quelli del bambino tutto “sentimento e fantasia”, specchio fedele dell’Italia da poco uscita dalla guerra e presto collocata sotto l’ala protettrice della democrazia cristiana e dell’alleanza atlantica. Per contro i programmi della scuola media del ’79, della scuola elementare dell’ 85 (il bambino della ragione) e della scuola dell’infanzia del ’91 rappresentano nel loro insieme la rivoluzione culturale e pedagogica che ha percorso gli anni ’60 e ’70, sotto la spinta della pedagogia attiva e del cognitivismo. Le Indicazioni nazionali del 2012, oltre a recepire nuovi fenomeni sociali planetari  presto diventati categorie concettuali come la complessità e la globalizzazione, sono la logica conseguenza dell’autonomia scolastica che decreta l’obsolescenza dei programmi rigidi e uguali per tutti in favore di curricoli ispirati sì a linee di indirizzo nazionali, ma in grado di valorizzare al massimo le risorse e le progettualità dei singoli territori e delle singole scuole.
Sul piano culturale e valoriale complessivo le Indicazioni del 2012 si pongono in linea di continuità con i programmi precedenti, aggiornandone semmai l’impianto concettuale e gli approcci metodologici.

A questo punto una domanda, come si diceva un tempo, sorge spontanea: in poco più di un decennio dalle ultime Indicazioni nazionali sono cambiate in modo così significativo la percezione e le chiavi di lettura della realtà sociale e culturale che ci circonda, comunque tale da giustificare una complessiva revisione dei programmi scolastici? Certamente l’avvento del governo di destra nel nostro Paese ha enfatizzato alcune scelte valoriali a scapito di altre date a lungo per acquisite: la valorizzazione esasperata dell’identità nazionale in contrapposizione al principio di multiculturalità e di accoglienza, l’idea di merito inteso come dato originale e del tutto personale disgiunto dai condizionamenti socioeconomici di provenienza, lo stesso concetto di inclusione che, come abbiamo visto, rischia derive prima impensabili.

Quasi una scelta di campo appare, in tale contesto, anche la recente decisione del governo italiano di votare contro la mozione UE sui diritti LGBT,  schierandosi al fianco delle repubbliche dell’ex impero sovietico, contro le tradizionali democrazie occidentali d’Europa.

Anche sulla scuola spira un’aria forte di restaurazione, le difficoltà poste dalla scolarizzazione di massa e dalla scelta di accoglienza e di piena inclusione non hanno trovato risposta in riforme e investimenti adeguati, inducendo in parte della cittadinanza e dell’opinione pubblica la ricerca di facili soluzioni rivolte al passato: rafforzata enfasi sul principio di autorità, reintroduzione del voto numerico nella primaria con buona pace della valutazione formativa, validità del voto di condotta per l’ammissione all’esame, pressioni sull’autonomia scolastica come nel caso della scuola di Pioltello, ecc.
Si tratta senza dubbio di segnali importanti e da non sottovalutare, rimane tuttavia la sensazione di passaggi troppo accelerati, frutto più di successive forzature imposte dal potere politico che non di reali processi di cambiamento, che in ambito sociale e scolastico richiedono tempi non brevi per essere accettati e metabolizzati. La stessa frenesia delle innovazioni, decise unilateralmente, senza troppi confronti e mediazioni, suggerisce la volontà di voler procedere troppo  velocemente, quasi a voler recuperare in fretta e a qualunque costo, una minorità a lungo subita, soprattutto sul terreno della cultura e della comunicazione.

E’ vero che la società attuale produce innovazioni a ritmi sempre più accelerati e che dal 2012, anno delle ultime Indicazioni nazionali, si sono evidenziati nuovi fenomeni di rilevanza planetaria come la transizione ecologica, l’intelligenza artificiale generativa, l’aumento delle disuguaglianze, il ritorno della guerra, anche in terre a noi vicine, come strumento di risoluzione dei conflitti, di cui la scuola non può non tenere conto. E’ pur altrettanto vero che dovrebbe essenzialmente trattarsi, in questo caso, di un aggiornamento con prevalente riferimento ai contenuti delle discipline, mentre la nomina di soli pedagogisti nell’ambito della commissione, lascia presagire la volontà di voler intervenire sulla premessa e quindi sul sistema valoriale e sull’impianto complessivo delle stesse Indicazioni. Una trasformazione incompatibile con lo stato attuale della nostra scuola e della nostra società, l’ennesimo strappo che rischia questa volta, in considerazione della assoluta rilevanza del tema, di essere particolarmente dannoso e pericoloso.