Concorso ispettivo: legulei ed esperti di contabilità dovranno accertare competenze socio-pedagogiche

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Mario Maviglia

A breve (la locuzione avverbiale “breve” nel lessico della burocrazia ministeriale ha un significato del tutto diverso dal linguaggio comune degli umani…) dovrebbe essere emanato il bando di concorso per l’assunzione a tempo indeterminato di 145 dirigenti tecnici con funzioni ispettive del Ministero dell’istruzione e del merito. Data la rarefazione di questo evento (paragonabile, nel nostro sistema politico-istituzionale, alla nomina, ogni sette anni, del Presidente della Repubblica…), l’attesa è quanto mai spasmodica, e infatti molti studi legali si stanno già organizzando per assistere efficacemente i candidati che verranno “bocciati” nell’inevitabile contenzioso che ne scaturirà.

Tutti si augurano, ovviamente, che le cose si svolgano nelle forme più regolari possibili per evitare ricorsi e contenziosi vari, ma siamo in Italia, patria del diritto, e insomma un contenzioso non lo si nega a nessuno.

C’è un aspetto che però i vari legulei forse non considereranno abbastanza nelle loro azioni legali (non si chiede alcun compenso per il suggerimento che ne facciamo qui…) e riguarda la correlazione (match, direbbero gli anglofoni) tra le competenze richieste per svolgere la funzione tecnico-ispettiva (per come si evince dalla bozza di Schema di Regolamento che il MIM ha trasmesso al CSPI per il previsto parere) e la composizione della Commissione giudicatrice del concorso (sempre secondo quanto previsto dallo Schema di Regolamento). Infatti, se si analizzano le competenze richieste ai candidati dirigenti tecnici, troviamo sei settori di competenze molto ben strutturati sul piano tecnico-professionale e che fanno riferimento essenzialmente ad ambiti di tipo socio-psico-pedagogico: a) competenze in ambito educativo, pedagogico e didattico; b) competenze finalizzate al sostegno, alla progettazione e al supporto dei processi formativi; c) competenze finalizzate a supportare il processo di valutazione e di autovalutazione delle istituzioni scolastiche; d) competenze – sotto il profilo tecnico-scientifico – nelle attività di analisi, studio, ricerca sui processi educativi nazionali e internazionali a supporto dell’Amministrazione; e) competenze nell’ambito degli accertamenti ispettivi, con particolare riferimento agli aspetti didattici, organizzativi, contabili e amministrativi, anche nell’ambito del monitoraggio, del controllo e della verifica della permanenza dei requisiti previsti per il funzionamento delle istituzioni scolastiche paritarie e delle scuole non paritarie; f) competenze nell’ambito relazionale.

In realtà le prove d’esame, come sottolinea lo Schema di Regolamento, sono volte anche ad accertare le conoscenze del candidato in vari ambiti e materie, puntigliosamente riportati negli Allegati B) e C) dello Schema, e fortemente marcati in senso giuridico-amministrativo, tanto che il CSPI nel suo parere ha suggerito, in vari passaggi, di dare maggiore spazio a materie quali didattica generale, pedagogia generale e sociale, pedagogia e didattica speciale, sociologia generale, a scapito di materie afferenti lato sensu al diritto. Ma è facile immaginare che saranno soprattutto le conoscenze di tipo giuridico a fare la parte da leone nell’economia complessiva della valutazione dei candidati e questo per un motivo molto semplice legato alla composizione della Commissione d’esame. Infatti, dei cinque membri previsti dallo Schema di Regolamento, tre sono scelti tra i dirigenti appartenenti ai ruoli del Ministero che ricoprano o abbiano ricoperto un incarico di funzioni dirigenziali generali ovvero tra i professori di prima e di seconda fascia di università statali e non statali, i magistrati amministrativi, i magistrati ordinari, i magistrati contabili, gli avvocati dello Stato, i prefetti; e due vengono scelti fra i dirigenti non generali dell’area delle funzioni centrali appartenenti ai ruoli del Ministero. Non viene contemplata esplicitamente la presenza di un dirigente tecnico tra i commissari d’esame, anche se può essere fatta rientrare tra i “dirigenti non generali”. In ogni caso, c’è da chiedersi come può la Commissione verificare il possesso dei sei ambiti di competenze descritti sopra se al proprio interno non vi sono le competenze professionali specifiche. Il problema sembra peraltro tenuto presente dalla stesso Schema di Regolamento laddove prevede che “la commissione esaminatrice e le sottocommissioni possono essere altresì integrate ciascuna anche da membri aggregati esperti in selezione e valutazione del personale e/o in psicologia e/o in risorse umane.” Ma allora perché non inserire questa figura già all’interno della Commissione in forma stabile e non solo come possibilità?

Per tutti questi motivi, è facile prevedere che – come al solito – ciò che maggiormente interesserà i commissari sarà l’apparato burocratico delle conoscenze dei candidati, con buona pace del complesso delle competenze socio-psico-pedagogiche descritte sopra. D’altro canto, se tra i commissari figurano magistrati amministrativi, ordinari, contabili, avvocati dello Stato, prefetti o dirigenti amministrativi, non è azzardato supporre che il loro orizzonte professionale è costituito da norme, leggi e architetture istituzionali. Risulta difficile immaginare che abbiano dimestichezza con Dewey, Vygotskij o De Bartolomeis, o con campi del sapere come il socio-costruttivismo, la pedagogia attiva, le neuroscienze in campo educativo, o la valutazione di sistemi complessi ecc., a meno che, per strane alchimie epistemologiche, nel loro percorso professionale non siano venuti a contatti con questi ambiti. Ma nella selezione di figure così fortemente contrassegnate sul piano tecnico-professionale quali sono i dirigenti tecnici ci si può affidare a esaminatori così fortemente addentro in altri ambiti collaterali? È come se un’azienda nel selezionare psicologi si affidasse a esaminatori come ingegneri nucleari o esperti di marketing o avvocati professionisti.

Una possibile ragione di tutto ciò può essere la seguente: il management politico-amministrativo che ha redatto lo Schema di Regolamento del concorso per DT ha una visione giuridico-amministrativa della scuola, e non può che essere così in quanto quello è l’orizzonte culturale all’interno del quale si muove a proprio agio. Che questo orizzonte sia in grado di selezionare i futuri bravi dirigenti tecnici della scuola è come pensare che un architetto urbanista sia in grado di selezionare i macchinisti dei tram urbani.




Meritocrazia, meritorietà, merito e scuola

di Cinzia Mion

Il sociologo Luca Ricolfi si è rifatto vivo con un libro, ‘La rivoluzione del merito’, in cui riprende le sue vecchie tesi sostenendo “che le politiche egalitarie e iper-inclusive nella scuola abbiano danneggiato i figli dei ceti più poveri, privandoli dell’ opportunità di utilizzare il merito scolastico come strumento di competizione”(Tuttoscuola).
Rispolveriamo allora l’argomento che da un po’ di tempo ha ripreso fiato.
Che il nostro sia il paese delle raccomandazioni, delle clientele, del familismo amorale, delle caste, delle oligarchie, delle corporazioni e della mafie non abbiamo dovuto aspettare Roger Abravanel con il suo famoso saggio “Meritocrazia”, per scoprirlo!
Semmai lui ha rigirato il coltello nella piaga per farci sentire, giustamente, inadeguati, vergognosi e con una gran voglia di riscatto.
Siamo tutti d’accordo finché si invoca in Italia la carenza della valorizzazione del “merito”, al fine di attivare il cambiamento invocando un vero e proprio moto di orgoglio. Tale valorizzazione deve avvenire all’interno dell’economia italiana e deve inoltre far emergere la necessità di produrre leader eccellenti sia nel settore pubblico che in quello privato.
Siamo anche d’accordo che “il circolo vizioso del demerito” ha condotto ad una società basata sulla cooptazione anziché sulle competenze. Osserviamo anche che tale dinamica si fonda su fedeltà amicali e familiari, su vari “cerchi magici” che in cambio di sudditanza garantiscono privilegi, malcostume che come ben sappiamo sta maramaldeggiando dentro a partiti ed ora perfino nelle associazioni professionali .

Possiamo senz’altro essere d’accordo su un’idea di meritocrazia proposta da R. Abravanel per cui ”i migliori vanno avanti in base alle loro capacità e ai loro sforzi, indipendentemente da ceto, famiglia di origine e sesso.”
Non tutti siamo però d’accordo sulla meritocrazia intesa come “il POTERE del merito”, ossia sul principio di una organizzazione sociale che fondi ogni forma di promozione e di assegnazione di potere esclusivamente sul merito.
Effettivamente il sociologo inglese Michael Young che nel 1958 aveva introdotto per primo il concetto di meritocrazia , nel 2001, preoccupato per la piega pericolosa che stava acquistando il concetto, arrivò a lamentarsi che il suo saggio fosse stato interpretato come un elogio della meritocrazia invece che come denuncia di vero e proprio rischio, per cui l’intenzione da parte sua era stata quella di criticarla radicalmente.
Già comunque il filosofo T.Nagel nel 1993 era intervenuto ponendo dei dubbi sull’accettabilità che alcune competenze scientifiche o elevate di produttività, in altri termini le eccellenze, potessero automaticamente essere usate per richieste di pretese politiche o di potere.
Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna, a tale proposito afferma “In buona sostanza il pericolo serio insito nell’accettazione acritica della meritocrazia è lo scivolamento- come Aristotele aveva chiaramente intravisto- verso forme più o meno velate di tecnocrazia oligarchica. Una politica meritocratica contiene in sé i germi che portano alla lunga alla eutanasia del principio democratico”

Meritorietà, merito e scuola
Ben diversa è invece l’organizzazione sociale basata sul “CRITERIO del merito” invece che sul “potere del merito”
Non è infatti giusto che tutti vengano trattati egualmente, come detta l’egualitarismo, però è importante che tutti vengano considerati e trattati come eguali.
Ben diversi perciò sono i concetti di “meritorietà e merito” a scuola.
Il principio “dell’uguaglianza delle opportunità”, che dovrebbe dal tempo del Rapporto Faure ispirare la scuola e l’educazione, significa che davanti a diverse linee di partenza per censo, vantaggio o svantaggio socioculturale, contesti educativi di provenienza più o meno stimolanti, i bambini e i ragazzi devono incontrare, soprattutto alla scuola dell’obbligo, un gran numero di opportune occasioni di crescita tanto da annullare il più possibile gli svantaggi iniziali.
Diventa perciò imprescindibile offrire all’interno delle aule scolastiche occasioni in cui tutti possano avere a disposizione percorsi individualizzati e personalizzati, assaporare il piacere di conoscere, acquisire competenze, comprendere profondamente ciò che viene insegnato, imparare a padroneggiare il pensiero per cogliere relazioni e nessi tra i dati anche quando sembrano sconnessi, riuscire ad interrogarsi sui grandi perché del mondo e dell’umanità, scambiare dati, informazioni, pareri, crescere insieme, appartenere al gruppo in cui esiste un “posto” per tutti dove tutti vengano riconosciuti e valorizzati.
Questa è la scuola “MERITORIA”.

E’ ovvio che al suo interno c’è l’allievo che gratifica di più la fatica, ma anche il piacere di insegnare. Questo non deve indurci a fare una classifica all’interno della classe come tanti invece auspicano. La scuola non è un concorso a premi e nemmeno un concorso per esami e titoli per un posto di lavoro.
La scuola è un’istituzione preziosa e delicata, non può essere piegata a degli slogan di moda senza entrare nelle sue viscere e vedere cosa veramente non va più, cosa deve essere profondamente innovato, quali sono gli aspetti di essa fortemente interrelati per cui se ne tocchi uno puoi travolgerne altri, quali invece vanno tenacemente perseguiti a costo di suscitare rimostranze.
Da parecchio tempo io ritengo che la scuola sia diventata un’istituzione senz’anima.
La passione che la pervadeva negli anni precedenti –dagli anni ’70 fino all’inizio del terzo millennio- si è volatilizzata, tutto è diventato terribilmente faticoso, demotivante, troppo burocratico, senza smalto.

Nel tempo abbiamo assistito ad un decadimento progressivo, ad una disaffezione diffusa che ha travolto e contaminato moltissimi (troppi) operatori scolastici. Non tutti per fortuna ma quelli che continuano a vivificare la scuola non hanno la forza di contaminare tutti gli altri. Il sistema sta boccheggiando.
Passione e senso di appartenenza all’Istituzione
I problemi e le eventuali soluzioni partono dalla consapevolezza della necessità di ridare passione e “senso di appartenenza” a tutti coloro che abitano questa Istituzione che è la più significativa di un Paese. In secondo luogo appare immediatamente le necessità non solo di implementare l’innovazione ma di accompagnarne adeguatamente il suo incarnarsi ed evolvere.
Una buona legge di riforma deve parlare di innovazione ma non solo organizzativa, pur necessaria, ma quella che avviene all’interno del rapporto “insegnamento-apprendimento”.

Una innovazione pregnante e significativa che oggigiorno deve riguardare contenuti e metodi, che tenga presente che a fronte dell’obsolescenza dei contenuti e la facilità di accedere ad Internet ciò che conta è la “comprensione profonda” (Wiggins) ,non superficiale e meccanica delle conoscenze, conoscenze però accompagnate da schemi di mobilitazione tanto da farle diventare competenze che nella vita serviranno a chiarire una situazione o a “risolvere un problema”. Una innovazione che possa definitivamente confinare al posto marginale che merita la prassi della spiegazione, studio individuale e restituzione della lezione – alla base del cosiddetto PENSIERO ROFLETTENTE – o l’abilità procedurale per giungere alla risposta esatta (ciò che risulta più significativo è invece saper problematizzare) o lo smalto spesso illusorio dell’eccessiva enfasi sulla digitalizzazione se questa aiuta a nascondere l’incapacità della connessione “mentale” offerta invece dal PENSIERO RIFLESSIVO.
Anche Edgar Morin nel suo ultimo pamphlet “Svegliamoci!” parla di CRISI DEL PENSIERO.

Non vi stuzzica questo richiamo ai brividi mentali del saper pensare e comprendere profondamente? Lasciamoci contagiare da questa meritevole passione, che va riscoperta, e trasmettiamola ai nostri ragazzi!
E’ questo il MERITO AUTENTICO di cui ha bisogno la scuola e il PAESE.




Scuola: sorvegliare e punire. Problemi complessi, risposte semplici

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Mario Maviglia

Nel recente decreto Caivano, approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 settembre scorso per contrastare il disagio giovanile e la criminalità minorile, vi sono alcune misure che riguardano anche la scuola e i minori. In particolare, viene introdotta la pena fino a due anni di reclusione nei confronti di quei genitori che si rendono responsabili dell’abbandono scolastico dei figli; gli stessi genitori possono andare incontro anche alla revoca dell’assegno di inclusione, qualora destinatari. Com’è noto, attualmente i genitori che si rendono responsabili dell’evasione scolastica dei figli rischiano un’ammenda di 30 euro, come previsto dall’art. 731 del codice penale.

Una vasta letteratura (anche ministeriale) ha dimostrato che i fenomeni di abbandono scolastico nascono in quelle situazioni caratterizzate da degrado sociale, economico e culturale all’interno delle quali le figure che dovrebbero esercitare una funzione educativa di guida e di sostegno ai ragazzi nel loro sviluppo di crescita (i genitori, in primo luogo) non appaiono in grado di assolvere adeguatamente a tale compito. Pensare che un inasprimento delle pene previste possa risolvere o attenuare un problema così complesso è pura utopia, o, forse più correttamente, astuta demagogia.

La lotta all’abbandono scolastico implica infatti il coinvolgimento di diversi soggetti istituzionali e richiede interventi di vario tipo che vanno dall’offrire opportunità di incontro e socializzazione nel territorio per i giovani; alla possibilità di esprimere i propri interessi sportivi, musicali, culturali, ludici, espressivi, di tempo libero ecc. in spazi socialmente definiti e organizzati; alla disponibilità di edifici scolastici accoglienti e attrezzati; a una didattica attiva e personalizzata; a misure di sostegno (anche economico, es. libri di testo o di consultazione gratuiti) per chi ha difficoltà sotto questo profilo; alla possibilità di fare ricorso ad educatori di strada per creare ponti tra contesti di vita dei ragazzi e ambiente scolastico. E altri interventi ancora, che prevedano anche il coinvolgimento del terzo settore o comunque delle agenzie educative e sociali radicate nel territorio e che possono esercitare una funzione di promozione sociale nei confronti dei giovani a rischio.

La lotta alla dispersione scolastica è tremendamente complicata proprio perché non è solo scolastica, anche se la scuola purtroppo talvolta vi contribuisce attraverso forme di didattica che non riescono ad intercettare gli interessi dei ragazzi. Quando a scuola si sta seduti per ore, o si susseguono i vari docenti in un carosello di discipline il cui senso sfugge ai ragazzi, quando ci si annoia o si ha la percezione che il tempo non passi mai, o quando non ci si sente coinvolti, motivati o ascoltati nella gestione dell’impresa educativa, è facile supporre che i ragazzi più fragili o problematici si sentano estranei e la tendenza all’allontanamento dalla scuola non è solo fantasticata ma agita. E questo soprattutto quando il contesto familiare e sociale di riferimento non appaiono in grado di sostenere e motivare i giovani nel loro processo di crescita e apprendimento.

Il decreto Caivano, per la verità, prevede il potenziamento dell’organico dei docenti nelle scuole del meridione caratterizzate da alta dispersione scolastica, ma il problema – lo ripetiamo – non è esclusivamente scolastico: è soprattutto sociale e se non si interviene su questo versante si rischia di fare il solito buco nell’acqua. Le misure repressive danno una risposta semplice a un problema complesso, anche se presentano il vantaggio (sul piano politico) di offrire all’opinione pubblica l’immagine di un intervento pronto e deciso, secondo il consolidato modello pavloviano S-R (Stimolo-Risposta). D’altro canto, questo paradigma repressivo sembra informare tutto il decreto governativo: il daspo urbano, ossia l’allontanamento obbligatorio da una città, prima applicato solo ai maggiorenni, adesso può riguardare anche i quattordicenni; si abbassa anche l’età per ricevere l’avviso orale del questore (da quattordici a dodici anni) a comportarsi bene per evitare il carcere da uno a tre anni. Insomma, le decisioni in materia dell’attuale Governo, come acutamente nota Giuseppe Rizzo, “ci riportano allo splendore di quei supplizi, come li chiamava Michel Foucault, ovvero al buio della galera per i minorenni.”[1]

Si tratta, com’è intuibile, misure che danno un vantaggio effimero, che placa momentaneamente la richiesta di giustizia o di ordine dei cittadini, ma passato il blitz del momento i tanti Caivano d’Italia rimarranno con i loro endemici, irrisolti problemi. Anzi, con un problema in più, come qualcuno ha ironicamente messo in luce: nel caso in cui i genitori, in base alle nuove norme, vengano effettivamente arrestati per abbandono scolastico, chi accompagnerà i ragazzi a scuola?

[1] https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/giuseppe-rizzo/2023/09/11/decreto-carcere-minori; M. Foucault, sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976

 




Ciao maschio …

di Cinzia Mion

Il recente femminicidio che ha visto come vittima una ragazza di 29 anni incinta di sette mesi, di nome Giulia, ha sconvolto il Paese e non solo. Al di là dell’attenzione morbosa che ha suscitato questo evento, dobbiamo sapere che dopo ne sono successi altri e che le statistiche affermano che per mano di un uomo muore una donna ogni tre giorni.

Il femminicidio è un termine specifico che definisce in maniera non neutra gli omicidi contro le donne, in tutte le loro manifestazioni, per motivi legati al genere. Quasi sempre ad opera dei compagni o da parte soprattutto degli ex. Quante volte abbiamo sentito dire: lei lo lascia e lui l’ammazza!
Il termine “genere” sta ad indicare l’identità di genere su cui sarà necessario dare qualche delucidazione perché su questa definizione sono sorte moltissime deformazioni informative, quasi tutte in malafede. Lasciamo da parte per ora il tema dell’orientamento sessuale e quello della “disforia di genere” altrimenti mettiamo troppa carne al fuoco. Ne riparleremo se vi interessa. E tralasciamo anche il problema orripilante degli stupri che richiede un capitolo a parte.

Simone de Beauvoir aveva detto che “femmine” si nasce e “donne” si diventa, ovviamente anche “maschi” si nasce e “uomini “ si diventa. Il passaggio dall’identità sessuale, biologica, all’identità di genere che è invece culturale è lento e dipende dal contesto socio-storico-culturale di appartenenza. Tutti noi sappiamo infatti che per una donna è diversa l’identità di genere in un paese occidentale o, per esempio, in Arabia Saudita.
E’ un’identità che matura, processo che va costruito e accompagnato, al fine di raggiungere delle identità il più possibile rinnovate e lontane dai vecchi stereotipi ma anche critiche nei confronti dei modelli offerti dai media che rischiosamente vengono assorbiti acriticamente dai bambini e dalle bambine se non ci sono i filtri offerti dai genitori o dalla scuola.

Le discriminazioni di genere e gli stereotipi sessisti sono duri a morire anche se l’emancipazione femminile, cominciata lentamente in Italia negli anni sessanta ad opera del movimento femminista, ha permesso di fare notevolissimi passi avanti.
Il fenomeno del maschilismo rimane però ancora fortemente sullo sfondo.

Stereotipi sessisti

Maschio: razionalità, iniziativa, responsabilità, protagonismo, decisionalità, forza (non solo fisica: sesso forte, non aver paura), competitività, machismo, ecc
Femmina: sentimento, emotività, dolcezza, adattamento, accettazione, sensibilità, sottomissione, arrendevolezza, acquiescenza, angelo del focolare, ecc

Questi stereotipi di genere vengono assunti inconsapevolmente fin dalla nascita. Le pratiche di accudimento, i giochi e i giocattoli messi a disposizione, i primi divieti e i permessi, le emozioni legittimate e quelle tacitamente interdette, sono tutte variabili intrise di stereotipi.
Ci sono delle frasi che un tempo, ma secondo me qualche volta anche adesso, vengono pronunciate in famiglia e che vengono recepite dai soggetti in crescita come vere e proprie “ingiunzioni”:
– non piangere, non sei una femminuccia…
– non devi aver paura, solo le femmine hanno paura (in un colpo solo così si svaluta il genere femminile e si costruisce una “gabbia” per quello maschile)…
– gli uomini non chiedono mai…
– eppoi tutta la retorica sulle “brave bambine” che non si arrabbiano e non pestano i piedi…

Oggi i ruoli sociali sono però cambiati: la donna uscendo di casa e andando a lavorare ha scoperto la sua capacità di assumere responsabilità, prendere decisioni, essere protagonista della propria vita, ecc.
In altre parole ha legittimato la sua parte “maschile”.
Ovviamente ora ci aspettiamo che anche l’uomo accetti e legittimi la sua parte “femminile”.

La via, per ora, della nuova virilità è quella della nuova paternità, con la legittimazione della parte tenera.
I nuovi padri, infatti, stanno rifiutando il ruolo storico del padre “autoritario” e punitivo, desiderano assumere il ruolo fin da quando il figlio è neonato: hanno così imparato a prendersi cura di lui e il contatto con il corpo tenero del “cucciolo” fa emergere la loro tenerezza, nascosta da anni all’interno dello stereotipo della “rudezza”.

L’identità di genere e la preadolescenza.

Le ragazzine hanno oggi accanto una madre che comunque rappresenta di fatto un’emancipazione rispetto agli stereotipi storici, sono molto sicure di sé.
A volte forse anche un po’ troppo…
I ragazzini invece, messi in crisi i vecchi stereotipi, appaiono spaesati e disorientati…

Spesso si chiedono: – Sono un vero uomo?
Cosa significa oggi essere veri uomini?
Per non restare nel disagio e nella paura di essere inadeguati alcuni intraprendono la strada del bullismo (in questa tipologia rientrano anche gli stupri di gruppo ostentati nei social) perché la prepotenza dà loro l’illusione di contare, di essere protagonisti, di essere considerati.
Inoltre il tono muscolare contratto, indotto dalla violenza e dalla rabbia, dà loro la sensazione di controllare e dominare la “paura” soggiacente.
Ma i nostri preadolescenti non possono aspettare di diventare padri…allora sono i giovani uomini (25-45 anni) che devono fare delle riflessioni sulla nuova identità maschile, come abbiamo fatto noi mezzo secolo fa (o anche più), ed offrirle come esempi e riferimenti ai ragazzini che stanno crescendo.

A dire il vero l’identità maschile è più difficile da sempre da realizzare.
Infatti Stoller, per affermare questa convinzione, poggia le sue argomentazioni sulla “protofemminilità”.
Questo concetto sottolinea come l’ovulo fecondato, che inizia il suo percorso verso la maturazione biologica, se è XY, quindi destinato ad evolvere verso la mascolinità, per 5/6 settimane risulta però essere femminile. Poi subentrerà l’ormone del testosterone a deviare la formazione delle gonadi embrionali da ovaie a testicoli. In altre parole l’identità femminile è un binario diritto, quello maschile invece “deviato”. Inoltre nato da un grembo femminile, cullato da una voce femminile, impregnato perciò da una gestalt femminile ad un certo momento avverte e ascolta la spinta a differenziarsi. Quasi sempre per caratteristiche declinate però al negativo…non devi, non puoi perché tu sei un maschio, ecc
Inoltre le statistiche dicono che su 10 aborti naturali 7 sono maschili e 3 femminili. Tutte queste considerazioni sostengono perciò la tesi, come dicevo, che l’identità maschile è biologicamente più fragile.

Le donne invece incontrano più difficoltà durante il corso dell’esistenza: doppio lavoro, (in casa e fuori casa), donne storicamente destinate al lavoro di cura; la ricerca dell’occupazione; la maternità e il mantenimento del posto di lavoro; dover sopportare spesso molestie nel lavoro; “soffitto di cristallo” sulla la propria testa – sopra il quale camminano gli uomini – rendendo difficile per le donne stesse raggiungere posizioni apicali!

Il virilismo

Sandro Bellassai, il fondatore del sito www.maschileplurale.it, afferma che il genere maschile non ha ancora però elaborato fino in fondo il lutto per il potere perduto, di quel potere trionfale, indiscusso.
“In qualche modo siamo rimasti in mezzo al guado. Dobbiamo fare i conti con un mondo che è cambiato”.
Afferma però anche che nello stesso tempo non c’è ancora una vera uguaglianza, una vera parità, perché quelle ragioni che spingevano gli uomini a difendere la gerarchia, il dominio, il piedistallo del potere nei confronti della donne, sono ancora tutte lì….
E riguardano la paura maschile delle donne, l’incapacità di pensarsi in un ordine “repubblicano e non monarchico
Per questo ogni tanto la frustrazione, l’angoscia, la paura maschile, buttate fuori dalla porta rientrano dalla finestra. E pare che l’uomo si senta rassicurato solo se riconosciuto superiore!
In tutti questi anni di emancipazione lenta ma costante le donne infatti hanno acquistato consapevolezza di sé, del loro valore, attraverso anche l’autorealizzazione. Gli uomini, protetti dal patriarcato invece non hanno lavorato su di sé, sulla loro posizione identitaria. Sono vissuti di rendita.
Ad un certo momento però è come se si fossero svegliati, abbiano preso coscienza della crescita femminile e sono entrati in crisi.
L’esperienza della crisi, mai sperimentata prima, ha disorientato e in alcuni di loro ha fatto aumentare l’arroganza per farvi fronte.
Recalcati dice, a proposito dell’uomo femminicida: “la sua fatica è data dalla difficoltà a riconoscere la libertà della donna…Si tratta di eliminare una esistenza differente, eccedente, irriducibile al potere fallico della ragione maschile”.

Elisabeth Badinter

Badinter si è interessata dell’”identità maschile” (XY L’identità Maschile) con la casa editrice Longanesi nei primi anni 90! E’ abbastanza singolare ma significativo che abbia affrontato questa tematica per prima una donna.
Alla fine del suo intrigante saggio la Badinter scrive: “Fino a quando le donne partoriranno gli uomini, e XY si svilupperà in seno a XX, sarà sempre più lungo e un po’ più difficile fare un uomo che fare una donna. Per convincersene, basta pensare all’ipotesi inversa: se le donne nascessero da un grembo maschile, cosa sarebbe del destino femminile?
Quando gli uomini presero coscienza di questo svantaggio naturale, crearono un palliativo culturale e di grande portata: il sistema patriarcale.
Oggi, costretti a dire addio al patriarca, devono reinventare il padre e la virilità che ne consegue.
Le donne, che osservano questi mutanti con tenerezza, trattengono il respiro….”




Stupri e adolescenti: fine del maschio e infosfera

di Raffaele Iosa

Si parla molto in questi giorni di fine agosto di due terribili storie di  stupri che hanno coinvolto  maschi adolescenti verso ragazze coetanee  fino al limite di bambine (10 e 12 anni). Ne parla la politica, le televisioni grondano  di dibattiti non sempre equilibrati.  Ma non c’è  occasione (informativa o politica) nella quale oltre alle analisi sui luoghi  (in genere “aree a rischio degradate”),  oltre lo  scandalo di registrare e girare via web gli stupri ottenendo migliaia (pare) di giovanissimi guardoni, oltre a tutto questo viene sempre la domanda e la lamentazione: “E la scuola cosa fa?” Cosa potrebbe fare?”.

Di questo vorrei un po’ riflettere qui, perché (che si voglia o meno) la “domanda di scuola educativa” pare stavolta oggetto condiviso come “luogo utile” a formare diversamente i nostri giovani sui costumi  quando questi  sono  così  gravi e sconcertanti.
E sui quali non c’è dubbio che il tema non sia quello banale di una scolastica  “educazione sessuale”, ma di una più complessa “educazione all’affettività e alla relazione”, che innerva la vita quotidiana dei nostri bambini e giovani oltre la sessualità in senso stretto. E che, naturalmente, parte dall’educazione familiare (su cui molti sono i guai del presente), ma che poi potrebbe trovare nella scuola un luogo  di “comunità” che si auto-educa  agendo su valori positivi  realizzati non solo a parole (e certo non con le prediche)  ma nell’agire quotidiano della vita della scuola.

Tra il dire e il fare, due rischi emergono subito ad un lettore che sappia un po’ di scuola. Il primo è di intravedere una nuova “materia”, o nuovi “ docenti esperti” che a scuola in un modo o in un altro intervengano per prevenire e contenere questa specie di follia orgiastica adolescente.
Cioè “lezioni di educazione affettiva” separata dal resto. Questo modo di agire non è nuovo, e in genere ha poco successo.
Il secondo rischio è di  riempire la scuola di “professionisti esperti” che agiscano con diverse forme terapeutiche individuali, di gruppo e così via secondo i guai e le difficoltà di ogni scuola.
In ogni caso entrambi i rischi vedono la questione sesso-affettività come  “altro da sé” dalla scuola, una specie di “emergenza” piuttosto che un tema trasversale (l’affettività e la relazione) che innerva tutta la vita della scuola, dalle lezioni,  ai contenuti disciplinari, alle ricreazioni, alle gite scolastiche, ai  rapporti educativi, all’amicizia tra pari, alla partecipazione delle famiglie.

In attesa che qualche ministro  dell’istruzione dia linee, proposte, burocrazie dedicate, vorrei qui invece sottolineare  due questioni inerenti  questa follia dell’orgia giovanile , che siano strumenti riflessivi di base per gli educatori, qualsiasi siano le azioni che le scuole vorranno, sapranno e potranno voler fare.

LA FINE DEL MASCHIO

La prima ovvia questione da rilevare è  che i “colpevoli” siano giovani maschi. La cosa va detta con realismo e sincerità, per evitare di costruire ancora modelli arcaici di interpretazione per cui alla bambina o alla giovane stuprata si possa dire persino “se l’è voluta”. No, non è così. I maschi sono i colpevoli.

Aggrava questa condizione maschia il fatto che numerosi eventi di stupro avvengano in gruppo, ripristinando l’orgia collettiva in cui lo scambio maschile funziona da alimentatore. Quindi non maschi soli, ma il branco selvaggio. Ma c’è di più e ancora più grave: un’orgia adolescente pare aver senso se “viene filmata”, se diventa pubblica, se supera i confini del segreto, se insomma fa diventare la vita una forma di “esibizionismo online”, ottenendo persino il successo e la fama, con followers  e imitatori.

Forse è ora, per la scuola (e per la società adulta) di riflettere su un fatto più vasto della sessualità  e genitalità inerente all’attuale condizione dei  giovani maschi nel nostro  paese. Ne ho scritto molto e  ne ho studiato il fenomeno da almeno 30 anni , riscuotendo simpatia ma scarso interesse. La mia tesi è che a partire dagli anni 80 sempre  più è emersa una “crisi esistenziale” della condizione maschile cui la scuola e la società non ha pensato con occhio più attento. Alcuni dati per comprendere di cosa parlo: nella scuola media su 10 bocciati 8 sono maschi, i tossicodipendenti maschi sono l’80% del tossici, altrettanto i ragazzi maschi  con reati penali. Ma anche sulla disabilità e la cd. categoria BES sono molto di più i maschi con certificazione.  Un caso? Una questione biologica? Cosa c’è sotto questa esplosione di “mal maschile”?  Potremmo forse  vedere una relazione tra l’aumento della “crisi dei maschi” e il parallelo sviluppo civile e culturale dell’identità femminile  in chiave “femminista” nel senso di differenza nello stile di vita ma eguaglianza nei diritti individuali e collettivi? Cioè: più le femmine sono diventate a pieno diritto “donne” cittadine più il prototipo maschilista  del  padrone non ha saputo  convertirsi  in maschio fratello e amico, con diversi ma pari stili di relazione tra diritti e doveri.

La questione  è culturale nel senso più vasto e profondo del vivere le diverse identità umane. A cui si sommano anche le nuove questioni esistenziali delle scelte sessuali,  dell’identità individuale,  delle tante nuove sfumature dell’identità sessuale oltre quella  biologicamente sessuata.

Dunque, prima ancora di pensare ad un “progetto scolastico sull’affettività” , suggerisco di riflettere come educatori su cosa sia e faccia la scuola oggi per comprendere meglio e più a fondo l’ “essere maschio”. Ci sono pochi studi sul tema, poche esperienze di riflessione e azione per garantire ai maschi un’educazione più seria e dignitosa in fatto di affettività, più ampia di opzioni sugli stili di vita che non abbiano la competizione orgiastica come fine dominante, ma l’umanità solidale e creativa dell’essere umano con un’identità che sappia legare e amare, non dominare e sottomettere l’altro/a da te.

L’INFOSFERA

L’ex celebre porno attore Rocco Siffredi ha dichiarato, a proposito dell’uso dei social media per far girare i video delle orge giovanili, di essere  pentito di essere stato un produttore di video porno di diversa qualità. Al punto di volersi proporre di uscire dal mercato dei video e eliminare nella rete tutti i suoi prodotti. Segno questo, tra i tanti, di una presa di  coscienza di come il “vedere” sia un elemento scatenante possibile di perversioni imitative. In  giovani menti maschili possono produrre una follia collettiva e individuale che non sa reggere l’equilibrio complesso della sessualità e dell’affettività entro canoni umanamente condivisibili, ma esplodendo anzi in eccessi oltre misura senza alcun limite  etico e perfino estetico.

Dunque si può dire che la cd “infosfera” ( citando Luciano Floridi),  cioè questo mondo tecnologico dove l’online domina sempre più sulla realtà fisica e oggettuale della vita e delle relazioni, stia determinando una nuova follia sociale che pare incontrollabile e sempre più pericolosa. Riflettiamo sul rapporto che c’è tra un adolescente e le tante funzioni del suo cellulare. Queste funzioni  potrebbero non essere più mediate da una visione dialogica e collettiva ma racchiuse in un frenetico mondo istintuale e onanistico che crea relazioni (se le crea) non materiali  ma puramente virtuali. E dunque una possibile follia  del virtuale come realtà che domina e vince. Tema che va oltre la pornografia e che va seriamente discusso nell’evoluzione di tutta la società rispetto all’educazione, al lavoro, alla vita sociale, ai prodotti culturali, e così via.

Dunque, queste orge online aprono alla nostra società adulta e a quella che si occupa di educazione un tema molto serio sui limiti etici, antropologici ed esistenziali che la nostra società (e la nostra educazione) dovrebbero  avere verso il cosiddetto “virtuale”. Saggezza ma prudenza, soprattutto quando si è piccoli. L’online non è un giocattolo come una bambola o una macchinina. C’è di più, molto di più complicato.




Generale Vannacci, Luca Ricolfi lo difende

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di CinZia Mion

Lettera aperta a Luca Ricolfi.

Mi ha colpito moltissimo, prof. Ricolfi, il suo intervento apparso sul Gazzettino il 25 agosto dal titolo “Quale potere può limitare la libertà di pensiero”.
Il riferimento è presto detto: il caso del generale Vannacci.

Dopo una dotta introduzione in cui lei ha addirittura fatto riferimento al concetto hegeliano di “eterogenesi dei fini” (che stringi stringi non significa altro che ottenere risultati opposti a quelli desiderati) lei entra nel merito della sua tesi.
Le dico subito che se non si fosse già esposto con un saggio sulla Scuola, insieme alla moglie, la prof.ssa Mastrocola, probabilmente non avrei letto l’articolo.
Non ero d’accordo con la vostra tesi espressa in quel saggio e non sono d’accordo con quello che ha argomentato lei a lungo in difesa di Vannacci, nell’articolo succitato.
Mi presento: sono un’anziana dirigente scolastica che ha speso la vita molto oltre all’età della pensione per la Scuola. Non per la scuola elitaria come fate voi, ma per la scuola più difficile, quella faticosa che richiede passione, non solo per il Sapere, ma passione per i ragazzi, anche quelli caratterizzati da “povertà educativa”, quelli che hanno bisogno di docenti motivati profondamente e indefessamente alla ricerca della didattica più adeguata per farli arrivare non solo all’apprendimento ma al piacere della “comprensione”, a quell’effetto illuminante che io descrivo come brivido mentale.
Ma ritorniamo più pedestremente alla questione del “Generale” e al suo diritto a dire quello che pensa.
Se Lei non fosse una persona che discetta di scuola non avrei raccolto la provocazione. Ma lo ha fatto e lo farà ancora per cui sento il dovere di intervenire. Mi ha colpito sentire che in primis connota i media che ne hanno dato notizia come “progressisti”, usando questo termine chiaramente con una punta di sarcasmo spregiativo (poi si capirà, perché l’intenzione sarà quella di contrapporre a questa espressione quella di “conservatore” nella connotazione nobile) ma poi continua in punta di diritto per cercare di individuare chi mai può permettersi di porre dei limiti alla libertà di espressione. La ricerca si infrange sulla domanda retorica : dove si colloca il reato? E lì comincia una sfilza che ovviamente non riprendo per arrivare alla conclusione che non si ravvisa nessun reato.
Io credo fermamente invece che ciò che ha violato il Generale sia l’articolo 3 della Costituzione, nei suoi aspetti più profondi e delicati, vale a dire ha attaccato in modo indecoroso il concetto di “diversità” negandone il pieno diritto all’”uguaglianza”. Non sarebbe grave se fossero concetti espressi solo dall’uomo della strada, magari non acculturato, allevato in un terreno di coltura pieno di stereotipi, non dico di cultura conservatrice ma di destra, quella più sboccata, senza freni inibitori (vedansi le espressioni riferite agli omosessuali, oppure alle persone di colore) non avvezzo ad interrogarsi, abituato ad esprimersi come si fa con gli amici al bar (dopo aver sbevazzato, però). Ma sono concetti espressi da un personaggio con funzioni pubbliche e come tale con vincoli di “etica pubblica”, senza tralasciare il dovere di “disciplina e onore”.
In un certo senso difendendolo, sia pure a livello giuridico, lei professore si è comportato però nello stesso modo, ossia non ha preso in considerazione uno dei “valori” fondamentali della nostra Costituzione!
Esimio professor Ricolfi, so che lei si occupa di “psicometria” e quindi non può non sapere che il paradigma culturale che caratterizza i nostri tempi è quello della “COMPLESSITA’”, che richiede il superamento della logica binaria e del pensiero dicotomico (normale o anormale, per es.). Non può non sapere che in questo clima culturale, chiamato anche postmoderno, le certezze sono saltate e dobbiamo fare i conti sempre con la riflessività per riorientarci in questo mare di incertezza. Non può non immaginare che i ragazzini che frequentano oggi la scuola abiteranno ancora di più sia la complessità, all’interno della quale dovranno imparare a coniugare le logiche anche contrapposte, sia l’incertezza e il dubbio.
Non può non sapere che le identità personali, per non andare in pezzi, dovranno crescere in modo da essere forti nel senso di resilienti, ma “flessibili”, per essere in grado di vivere nella tolleranza e accettazione dell’altro, il “diverso” appunto.
Non può non sapere che dall’anno 2012 le Indicazioni Nazionali per il primo ciclo e le Linee guida per la Scuola secondaria raccomandano di formare alla capacità di decentrare il proprio punto di vista per poter vivere da “protagonisti partecipi” in una società sempre più multiculturale, multietnica, multireligiosa.
La società che vagheggia il soggetto che lei difende non solo è monoculturale, ma anche immobile nel tempo, non direi nemmeno vecchia ma ormai inesistente….
Contento lei di avere sprecato il suo tempo, contenti tutti.
Io ho speso il mio per mandare un messaggio alle persone di scuola, a quelle più fragili che potrebbero sentirsi tentate di appoggiare una tesi come quella di cui stiamo parlando perché “deresponsabilizza”, richiede meno “riflessività”, è facile e può trarre in inganno.
Se non avesse vinto la destra con questo largo margine non mi sarei preoccupata. Avrei pensato

: ma i docenti non si fanno ingannare da un simile “cantastorie” ma oggi, purtroppo, non ne sono più sicura come un tempo…
Impieghi il suo tempo prezioso, professor Ricolfi, per qualche obiettivo più nobile, come saprà fare senz’altro. Credo che abbia scritto questo articolo su commissione. Non mi piace pensare che l’abbia fatto spontaneamente. E questo torna a suo favore.




Diplomi facili e lacrime di coccodrillo

di Mario Maviglia

Puntuale come un orologio atomico di ultima generazione, ogni anno, a conclusione degli esami di Stato, scopriamo che alcuni istituti paritari registrano un andamento anomalo nel numero di diplomati. Una sorta di bolla speculativa ciclica, ampiamente prevedibile, drammaticamente tollerata. Il fenomeno è ben noto ed esiste da decenni; io stesso (quando ero in servizio come ispettore scolastico) presi parte come consulente tecnico, nel 2004, all’operazione “Diplomi no problem”, coordinata a livello nazionale dalla Procura di Verona (magistrato Papalia) e coadiuvai gli inquirenti ad Agrigento nell’indagine che interessò una delle 32 scuole superiori oggetto di indagine in tutta Italia.
Ecco perché è quasi commovente la meraviglia con cui i vari commentatori ancora oggi presentano notizie simili e desta empatica vicinanza la rituale promessa del Ministro di porre fine allo scandalo[1].

La rivista Tuttoscuola[2] dà un resoconto ben documentato di quanto è successo quest’anno in occasione degli esami di Stato 2023. I risultati sono stati ripresi dal quotidiano Repubblica[3], soprattutto in riferimento alla particolare situazione di alcuni istituti paritari della Campania, e segnatamente di Napoli.
Il meccanismo è molto semplice e, peraltro, del tutto legittimo, oltre che ampiamente noto. In sostanza, nel passaggio dalla classe quarta alla classe quinta (ossia, la classe terminale del secondo ciclo di istruzione) alcuni istituti paritari registrano un andamento del tutto anomalo nelle iscrizioni (la bolla speculativa di cui sopra).
In particolare, Tuttoscuola ha individuato 92 istituti paritari (che rappresentano il 6,5% dei 1.423 istituti paritari che portano studenti all’esame di maturità) dove gli iscritti tra il quarto e il quinto anno registrano incrementi che vanno da +1.500% a +6.800%. (Avete letto bene! Da  1.500 a  6.800% in più di incremento).

È facile immaginare che per questi istituti paritari gli esami di Stato costituiscono un vero e proprio business, e infatti il costo per conseguire un diploma va da 2.500-4500€  (sempre secondo i dati forniti da Tuttoscuola), ma in alcuni casi si arriva a 8.000 o addirittura 10.000 €.
Se a tutto ciò si aggiunge che tra recupero degli anni scolastici (da 1.500 a 3.000, più tassa di iscrizione da 300 a 500 €) ed esami di idoneità (da 1.500 a 3.000 €), c’è da chiedersi se questi istituti più che fornire istruzione non siano meri (e costosi) distributori di diplomi, con buona pace del “merito” così di moda in questo periodo. Questa situazione arreca danno non solo al sistema nazionale di istruzione in sé, in quanto “droga” il mercato (per usare una metafora economicistica), ma soprattutto a quelle scuole paritarie (e sono tante) che svolgono un lavoro serio e di qualità e che rischiano di essere percepite dall’opinione pubblica come centri di malaffare a causa di queste mele marce.

La cosa interessante, peraltro, è che le scuole “palancaie” sono ampiamente conosciute e dunque potrebbero (volendo) essere tenute sotto stretta sorveglianza, anche per quanto concerne il piano fiscale o altri aspetti inerenti il funzionamento.
Ma più in generale si potrebbero introdurre delle modifiche legislative per stroncare il mercimonio dei diplomi; una, ad esempio, potrebbe prevedere una percentuale massima di iscrizioni nelle classi finali in rapporto agli iscritti della classe precedente (10% in più?). Per essere concreti: chi ha solo 11 studenti in classe quarta può accogliere solo il 10% in più in classe quinta (ossia uno studente in più). In tal modo verrebbe rotto l’artificioso meccanismo dell’aumento degli studenti nel passaggio dalla classe quarta alla quinta e correlativamente il giocattolino del produci-soldi.
C’è da chiedersi però quale Ministro abbia voglia di intraprendere un’azione moralizzatrice di questo tipo, mettendosi contro gruppi di potere consolidati. Il problema è politico. Ed è per questo che l’anno prossimo, di questi tempi, saremo ancora qui a presentare e discutere i risultati scandalosi di questo mercimonio. Il merito può attendere.

[1] https://tg24.sky.it/cronaca/2023/07/29/diplomi-facili-ministero-indagine

[2] Tuttoscuola, Maturità, boom di diplomi facili, 14 agosto 2023 in https://www.tuttoscuola.com/maturita-boom-diplomi-facili-dossier/

[3]ttps://napoli.repubblica.it/cronaca/2023/08/25/news/scuola_la_campania_felix_della_maturita_facile_linvasione_dei_23_mila_iscritti_solo_al_quinto_anno-412181393/