La scuola e il “regno della menzogna”

di Pietro Calascibetta

Sulla recensione di Galli della Loggia del volume di Giorgio Ragazzini, “Una scuola esigente”, pubblicata sul CdS del 13/1/23 si è abbattuta una valanga di commenti a volte sarcastici e ironici, a volte molto aspri per usare un eufemismo.
Nel trafiletto di cui parliamo Galli della Loggia si occupa dell’inclusione.
La scelleratezza perpetrata dalla normativa consisterebbe nella scelta di inserire nella stessa classe “unici al mondo” sia i ragazzi con delle difficoltà nella loro completa gamma di situazioni sia quelli che definisce “cosiddetti normali”, diciamo alla Vannucci, con un risultato a suo dire disastroso.
Un’affermazione senz’altro forte e provocatoria.
Non voglio aggiungere nulla, per chiarezza posso dire di condividere pienamente gran parte dei commenti critici che ho letto.
Detto questo vorrei tentare di affrontare invece la polemica che ne è nata toccando un altro aspetto della questione che mi sembra non meno importante dei valori su cui gran parte dei commentatori hanno puntato.

OLTRE AI VALORI C’E’ DELL’ALTRO

Approfittando dell’assist fornito dalla recensione, a me pare che a Galli della Loggia non sia sembrato vero di poter aggiungere un nuovo tassello al suo teorema che la scuola è stata rovinata con le sciagurate riforme fatte per motivi politici e opportunistici dall’allora PCI e dai suoi complici, i fiancheggiatori del compromesso storico e del neoliberismo.
Non è una mia malevola interpretazione, ma è una tesi da lui compendiata addirittura in un saggio per dare supporto scientifico alle sue “opinioni” in merito, espresse a puntate in vari articoli sul Corriere.
Non a caso Galli della Loggia è molto vicino al “benemerito”, come lui lo definisce, “ Gruppo di Firenze” di cui Giorgio Ragazzini è un esponente di spicco da sempre in prima linea su questo fronte.
Sono convinto che Galli della Loggia non sia razzista e non sia Vannacci, ma utilizza l’argomentazione del mondo alla rovescia perché è abbastanza diffusa in quella parte di cittadini convinti come lui che ci sia stata una macchinazione della cosiddetta cultura di sinistra per realizzare una società al contrario, come dimostrano i numerosi lettori dell’ormai famoso generale.
Così facendo sdogana la vulgata popolare secondo la quale per cominciare a risolvere il problema del far funzionare la scuola bisogna liberare i “cosiddetti normali” dalla palla al piede degli altri studenti che, detto tra noi, potrebbero poi essere la maggioranza della classe.
E’ lo stesso ragionamento che lo porta a dire che bisogna liberarsi delle ore di programmazione, dei progetti, delle compresenze, di tutto ciò che non è “lezione” dove c’è un discente che ascolta e un docente che insegna, insomma dell’autonomia.
Parlare dei “cosiddetti normali” è un modo probabilmente strumentale per raggiungere una platea di persone che possano condividere con lui la battaglia contro l’autonomia scolastica, la pedagogia e i pedagogisti, le riforme ecc. il vero cancro a suo parere della scuola italiana che va, possiamo dire parafrasando, “normalizzata”, riportandola dove non si sa, ma è dato intuire, se tutto ciò che è stato fatto dagli anni sessanta in poi non va bene.

IL MORALISTA

Accesa così la fiamma dell’empatia, passa nella sua recensione a giocare la carta “Selvaggia Lucarelli” e afferma di voler smascherare il falso “mito” della scuola inclusiva denunciando che quella che viene esaltata come una scelta di civiltà è “una menzogna” perché non corrisponde alla realtà di una scuola allo sfascio qual è secondo lui la scuola italiana oggi.
Sono sicuro che Galli della Loggia se interrogato sulla questione dirà che lui ha il massimo rispetto per tutti gli studenti con BES, DSA , disabilità ecc. ed è proprio per questo che usa volutamente il termine “menzogna” facendosi così paladino non solo dei “cosiddetti normali”, ma anche di questi studenti fragili che sono stati ingannati e che non riescono ad avere i benefici promessi da questa scuola forgiata dalle riforme facendosi così portavoce di un disagio sicuramente presente e di alcuni problemi che effettivamente esistono nell’inclusione.
È per questo motivo che oltre ad una risposta sui valori è necessaria a mio avviso una risposta chiara e netta sule cause del problema del disagio che lui solleva.

CHI MENTE?

Galli della Loggia mente sapendo di mentire non solo sulla reale dimensioni del problema, ma sulle cause delle difficoltà che l’inclusione incontra effettivamente.
L’autonomia permettendo la flessibilità nella costruzione dei percorsi e nella gestione del gruppo classe è lo strumento più adatto in grado di permettere una didattica inclusiva in un scuola di massa aperta a tutti e non solo alle élite selezionate come era nella visione della scuola superiore di Gentile.
L’autonomia come risposta al problema dell’inclusione.
Perché tutto questo non si è avverato? Per Galli della Loggai perché le premesse erano sbagliate, i “normali” non devono convivere con chi non lo è! I soliti buonisti!

NEL “REGNO DELLA REALTA'”

Nel “Regno della realtà” c’è un’altra spiegazione. Va detto con determinazione che le difficoltà non derivano dalla convivenza di studenti “normali” e di studenti con bisogni speciali, ma dal fatto che l’autonomia scolastica che oggi vediamo, non è l’autonomia quale sarebbe dovuta essere se non fosse stata boicotta fin dal suo esordio e successivamente negli anni non dando le risorse necessarie al suo funzionamento sia finanziarie che normative.
Il fatto che Galli della Loggia dovrebbe conoscere è che l’autonomia la si è fatta con i fichi secchi (passata la festa, gabbato lo santo!) senza mettere a disposizione quanto indispensabile ad attuarla per come era stata concepita, a cominciare da quell’organico necessario a permettere quella flessibilità della lezione, del gruppo classe, delle attività che doveva servire proprio per dare tempi e modalità di apprendere in base ai bisogni differenti degli studenti. Il nocciolo dell’inclusione.
Qualcuno ricorderà sicuramente la sperimentazione dell’organico funzionale subito fatta abortire. Bisogna aspettare la Buona Scuola per trovare finalmente la possibilità di ampliare l’organico in base ai bisogni progettuali di ciascun istituto anche se in modo contraddittorio e molto parziale. Non a caso Berlinguer e Renzi sono considerati da questi signori la coppia che ha rovinato la scuola.
Ma le cause delle difficoltà non stanno solo nell’ organico.
Si è fatta l’autonomia senza modificare la struttura delle cattedre con insegnanti con 8-6 classi che si può immaginare come possano prendersi cura non solo dei ragazzi in difficoltà, ma anche dei “normali”.
Non si è definito il ruolo del coordinatore di classe ora ridotto ad assistente tuttofare, che sulla normativa neppure esiste, che invece dovrebbe essere il project leader dell’équipe di lavoro ; non si è adeguato lo stato giuridico dei docenti alla nuova organizzazione richiesta dalla flessibilità, lo stesso dicasi per il contratto.
Galli della Loggia dovrebbe chiedersi come opinionista il perché di tutta questa resistenza a considerare sullo stesso piano sia l’insegnamento in aula sia l’attività di coordinamento e di progettazione e monitoraggio necessarie a sostenere sul piano pedagogico e didattico la flessibilità del gruppo classe, le attività di scuola attiva e il lavoro di gruppo intorno ai quali ruota la scommessa dell’autonomia e dell’inclusione. Non fanno parte entrambe della professionalità docente? Quale cultura li tiene separate come se fossero due lavori diversi, un lavoro di serie A ed uno di serie B?
L’autonomia prevedeva di cambiare il modo di lavorare dei docenti. Dalla progettazione individuale del singolo docente a casa propria a quella collegiale inserita come parte integrante dell’orario di lavoro nel luogo di lavoro. Viene il dubbio di credere che se questo lavoro è svolto a casa individualmente è professionale, se svolto a scuola con i colleghi è un impaccio burocratico?
L’inclusione in una scuola di massa non è una questione che può affrontare individualmente il singolo docente, ma riguarda il consiglio di classe e l’intera comunità scolastica con tutte le sue componenti.

IL “REGNO DELL’AMNESIA”

Più che il “regno della menzogna” la scuola sembra essere il “regno dell’amnesia” .
Ci si è dimenticati che la stessa piattaforma unitaria dei sindacati confederali della scuola del 2002-2005 sottolineava la necessità nella nuova scuola dell’autonomia di “un’attività organizzata su modelli di lavoro differenziati, professionalità articolate, itinerari di ricerca continui in un contesto relazionale che, oltre a valorizzare l’impegno individuale dell’insegnante, si connoti con una dimensione cooperativa.”
Quali sono stati gli interventi contrattuali e normativi per dare all’autonomia quello che era necessario per poter funzionare?
E’ ovvio che se l’autonomia fonda le sue basi nell’art. 6 del Regolamento e nel lavoro cooperativo dei docenti e poi non c’è uno spazio e dei tempi adeguati per lavorare con questa modalità, i numerosissimi compiti collegiali che le riforme e l’autonomia stessa richiedono ai consigli di classe e ai docenti con un lavoro collegiale finiscono per essere ridotti ad adempimenti burocratici per necessità pratica e per sopravvivenza.
Tolta l’elaborazione creativa, rimane il verbale taglia e incolla.
E’ facile poi mettere in evidenza la burocratizzazione della scuola e lo svilimento professionale.
Insomma con un’espressione non elegante la scuola dell’autonomia è “cornuta e mazziata”.
Se tutte le attività non di insegnamento sono considerate attività aggiuntive, alcune di queste svolte su base volontaria, pagate con un compenso chiamato accessorio prelevato da un fondo da contendersi gli uni con gli altri, come si può chiamare ancora autonomia questa umiliante condizione di lavoro? E’ comprensibile il disagio dei docenti.
Galli della Loggia dovrebbe scrivere che se la scuola è in difficoltà non è per le riforme e per l’autonomia, ma perché in Italia si fanno le riforme, ma poi non ci si preoccupa di renderle realmente operative. Nella scuola e altrove.
Pensiamo al ruolo previsto dalle riforme per i GLI, Gruppo di Lavoro per l’Inclusione, in cui dovrebbero essere presenti anche i referenti delle strutture sanitarie che per i tagli alla sanità sono invece assenti; pensiamo alla mancanza di finanziamenti per la psicologia scolastica in una società dove la scuola dovrebbe rappresentare un presidio per affrontare i disagi sempre più diffusi negli adolescenti come i disturbi alimentari , l’ansia, gli attacchi di panico, ecc, pensiamo alla scomparsa del medico scolastico dalle scuole facendo mancare anche un suo ruolo nell’educazione alla salute tanto che durante il Covid si è dovuti ricorrere ad un docente come referente con mansioni, queste si, che non avevano nessun rapporto con la funzione docente; , pensiamo ai docenti e ai supplenti nominati in ritardo , al cambio dei docenti ogni anno, tutto imputabile ad una cattiva gestione dell’amministrazione e non alle riforme.
Mi sembra che ci siano sufficienti argomenti per dire che la convivenza di studenti “normali” e di studenti non “normali” è un’opportunità e una ricchezza non utilizzata come si dovrebbe e non valorizzata per l’indifferenza che ormai da tempo connota l’azione politica e il regno dei “cosiddetti normali” verso i ragazzi e i giovani..
Sarebbe il caso che gli opinionisti si assumessero la responsabilità di cominciare a dire il vero separando, quando scrivono sui media, i fatti nella loro complessità dalle opinioni strettamente personali soprattutto se ideologiche.




Abrogazione del reato di abuso d’ufficio: un colpo di scure su un pilastro di civiltà giuridica

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

Il potere nella società crea gerarchie e subordinazione; c’è chi comanda e c’è chi subisce e deve obbedire.  Ma non basta.
E’ connaturata a chi detiene posizioni di potere nella società la tentazione di mantenerle a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo.  Per non farne le spese, nel corso della storia, non sempre fortunata e felice, quanti sono stati collocati in condizione di subalternità hanno cercato di contenere o di sconfiggere la volontà di dominio e di sopraffazione che scaturisce spesso dal possesso del potere.

Si è riusciti a imporre limitazioni, regole e procedure di alternanza e di reversibilità del potere.
Si è inventata la democrazia, al cui sostegno sono necessari sia la divisione del potere sia un sistema di equilibri e di contrappesi, che se non devono impedire di prendere decisioni, devono essere in grado di neutralizzare scelte arbitrarie e pericolose per la società.
Si è riusciti a contrastare gli arbitri del potere, solo quando la lotta contro di essi è stata sostenuta da forti, robuste convinzioni morali e politiche.  Senza queste fondamenta a lungo andare non regge il regime di tutele dei diritti e della dignità personale di ogni cittadino. Ripetuti sono, infatti, i tentativi di metterlo a soqquadro in funzione di specifici interessi oligarchici e di ceto politico.  Le buone leggi che impediscono di essere sopraffatti e umiliati dagli uomini che gestiscono potere sulle persone possono essere mantenute, solo se non viene a mancare la vigilanza civica e democratica a loro difesa.

Appartiene all’ ambito di queste civilissime disposizioni di legge la norma che sanziona l’abuso d’ufficio (art. 323 codice penale, modificato con il d. l.  76/2020 convertito in legge 120/2020) che così recita “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni”.

Si riscontra, quindi, il reato di abuso d’ufficio quando un pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, nell’esercizio delle sue funzioni, produce un danno o un vantaggio patrimoniale che è in contrasto con le norme di legge.
Il bene giuridico tutelato dall’art. 323 c. p.  è identificato nell’imparzialità, nell’efficienza, nel buon andamento e nella trasparenza della Pubblica Amministrazione, ossia nella tutela dei principi cui deve conformarsi l’attività amministrativa, così come viene richiamato dall’art.  97 della Costituzione (“I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione“).

La norma che sanziona il reato dell’abuso d’ufficio finora ha cercato di impedire che venisse alterata a piacimento la “par condicio civium” di fronte alle scelte della pubblica amministrazione, ma negli ultimi tempi a non pochi uomini che gestiscono potere nei vari luoghi delle istituzioni è sembrata una camicia di forza di cui liberarsi al più presto, per potere procedere senza intralci e senza timori nell’attività amministrativa.
Incuranti se con le loro scelte si possa procurare intenzionalmente un vantaggio patrimoniale ingiusto o un ingiusto danno ad altri.

A sostegno di queste aspettative è arrivato, come promesso, il DDL presentato dal Ministro della Giustizia e già transitato nell’apposita commissione del Senato, il cui art. 1 così recita:  ”Art.  1.  Abrogazione del reato di abuso d’ufficio. L’articolo 323 del codice penale è abrogato”.
Punto e basta. Un colpo di scure su un pilastro di civiltà giuridica e amministrativa. Con l’approvazione nei due rami del Parlamento con questa norma si renderà di fatto insindacabile la posizione dominante dell’uomo di potere, grande o piccolo che sia.  Inizierà il percorso di espropriazione dei diritti di cittadinanza, che non avrebbero modo di sussistere nell’abbandono della trasparenza e dell’imparzialità nelle scelte amministrative. Si approfondirà l’ostilità di parte della società nei confronti delle istituzioni e della politica. Si andrà verso il connubio sistematico tra amministrazione e malaffare.  Si ritornerà all’arroganza e alla violenza del potere, da cui era sembrato di esserci a liberati con tanta fatica.

E a scuola che bisogno ci sarà dell’Educazione Civica e dell’Educazione alla Cittadinanza se gli uomini che gestiscono il potere nelle istituzioni, compresa la scuola, non risponderanno degli abusi che commetteranno nell’esercizio delle proprie funzioni?
Perchè gli abusi di potere scompariranno dal codice penale, ma non nei rapporti quotidiani tra cittadini e istituzioni. Senza adeguato e forte contrasto politico e civile con l’abolizione del reato di abuso d’ufficio si ridiventerà pedina manovrabile dell’arroganza e dell’autoritarismo di chi detiene posizioni di potere; verrà messo a repentaglio il proprio diritto ad essere amministrato con giustizia e imparzialità.

 




E’ morto il maestro Lando Landi

E’ morto in queste ore Lando Landi, maestro elementare, straordinario testimone del Movimento di Cooperazione Educativa

Questo il ricordo degli amici del MCE di Venezia

Caro Lando, ti salutiamo con il ricordo del laboratorio che hai tenuto alla scuola primaria Virgilio a Mestre nel 2008. Ci hai insegnato una grande varietà di tecniche grafiche, pittoriche, corporee, manuali, Ci hai fatto vivere nella preistoria, portati nel mondo di Hula, e l’anno successivo nel castello medievale.

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La questione del presepe: ovvero laicità e scuola

di Cinzia Mion

Mi sento ancora una volta tirata per i capelli a dover intervenire i merito alla questione della laicità dell’Istituzione scolastica, che discende da quella dello Stato. Per chi dovesse nutrire ancora dei dubbi sulla laicità dello Stato, e di conseguenza della Scuola statale, ricordo la sentenza della Corte Costituzionale dell ’11 e 12 aprile 1989  che, interrogata proprio in materia scolastica, si pronuncia in modo incontrovertibile affermando: “I valori richiamati (art.2, 3, 19) concorrono con altri ( art.7, 8, 20 della Costituzione) a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma dello Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica”.
E’ il caso allora di tornare a spiegare ai giornalisti della carta stampata e delle varie TV locali e nazionali, ma soprattutto ai politici o politicanti ignoranti (nel senso che ignorano) che con la revisione del Concordato (1984) devono prendere atto e cercare di spiegare ai loro lettori o fruitori o elettori che, tra le conseguenze della revisione del Concordato ora nella scuola hanno diritto di cittadinanza la “cultura” religiosa ma non più gli atti di “ culto”.
Questi ultimi erano e sono : il segno della croce, le preghiere prima delle lezioni, le benedizioni a Natale o a Pasqua o comunque durante le cerimonie, le messe durante l’orario scolastico, la realizzazione del presepe, ecc.
La preghiera, è stato chiaramente spiegato, poteva essere analizzata, verso per verso, ma non recitata. Aggiungo che il presepe, che Papa Giovanni Paolo II ha definito “atto di fede “, diventa in questo modo un atto di culto, se gli viene affidato il vero significato “religioso e simbolico” e non viene realizzato semplicemente come si dipingono le finestre delle scuole con i fiocchi di neve oppure si innalza un abete con i pendagli .
Anche durante la lezione facoltativa di religione cattolica (quindi in presenza di alunni che hanno scelto tutti di frequentare questa attività) valgono le stesse regole!
Ah,  dimenticavo, il Vescovo di Vittorio Veneto e quello di Treviso, di una trentina di anni fa, in occasione di una gazzarra successa per il presepe,  raccomandarono entrambi ai genitori degli alunni di lasciare che la scuola facesse il lavoro per cui è deputata e di considerare le famiglie le vere responsabili dell’educazione alla “fede “ dei propri figli.
Io credo che nessuno abbia il potere di de-potenziare la LAICITA’ della scuola, né il Ministro con strumenti amministrativi (ricordo a suo tempo Misasi che con quella “nota “ strumentalmente usata da chi voleva forzare la situazione, faceva riferimento alla decisione del Consiglio di Circolo, assumendosi in quel modo un potere che non aveva, come ha ben dimostrato le sentenza del T.A.R. Emilia Romagna, la n. 250 del 17 giugno 1993) né i vari direttori Regionali, che magari si affannano a dimostrarsi più sudditi delle gerarchie ecclesiastiche che delle Leggi dello Stato e tanto meno una oscura onorevole di Fratelli d’Italia che ora, con una improponibile proposta sul presepe, dimostra incompetenza giuridica, campo in cui dovrebbe essere esperta!
Non c’entrano niente gli alunni di altre religioni e i bambini figli di immigrati. Spieghiamolo anche ai docenti che a volte accampano motivazioni di questo tipo.
A dire il vero non ci sarebbe da stupirsi se con l’aria che tira succedesse anche una sconfessione sia della laicità della Scuola sia della sua Autonomia.
Magari senza il benestare delle gerarchie che, (tranne in un caso del TAR Umbria, da cui è partita il 30/11/2005 la sentenza n° 677 in cui si permettevano le benedizioni pasquali “perché durano poco e non lasciano tracce” sic) sono però molto ben informate sui limiti che il Concordato ha posto (anche se qualche volta forzano contando nella remissività degli interlocutori).
La via che si segue in genere, ed anche ora, è quella della strumentalizzazione del senso comune della gente che può non sapere che la Costituzione ha trasformato uno stato confessionale in una Repubblica democratica laica (e la Scuola è una istituzione della Repubblica) che può non sapere che la revisione del Concordato tra Stato e Chiesa ha rivisto le norme che regolano la religione a scuola, che può non sapere quali sono i confini tra religioso e culturale, tra sacro e non sacro, tra tradizione e consuetudine, tra innovazione e cambiamento.




Mario Lodi: “La pace va fatta prima della guerra”. Firma l’appello

di Roberto Lovattini

Mario Lodi era convinto che la Pace andasse fatta prima della guerra e non dopo. Per questo motivo dedicò tutto il suo impegno come maestro, educatore e scrittore all’educazione alla Pace.

Con l’appello che noi del Comitato Scuola Pace Costituzione abbiamo promosso nelle scuole e nel mondo educativo, è a lui e al suo lavoro di professionista militante che pensiamo mentre siamo impegnati a  raccogliere adesioni chiedendo, non una generica firma, ma  l’impegno personale di uomini e donne che lavorano nel campo dell’educazione.

Pensiamo che spetti a noi, adulti ed educatori, parlare con bambini e ragazzi, fare in modo che  possano acquisire l’abitudine a confrontarsi, esprimere pareri e partecipare alle decisioni che li riguardano come prescrive la Dichiarazione dei Diritti dell’Infanzia.

Questa abitudine possono impararla se compiono tante esperienze pratiche partendo dalla  vita reale, quella vissuta a scuola ma anche e soprattutto in quella grande scuola che è il mondo. Dai problemi scolastici e relazionali, ai conflitti bellici che rischiano di spazzare via l’umanità intera.

Infatti sempre Mario Lodi nel numero 3 di A&B (A come Adulti e B come Bambini) nel 1983 proponeva “di usare i soldi, invece che per le armi, per costruire case, ospedali, scuole e infine fare un referendum in tutto il mondo, facendo votare anche i bambini, per decidere se il popolo vuole i missili o no sul suo territorio.”

Qualche anno fa la classe 5^ della scuola primaria Caduti sul Lavoro –  anno scolastico 2006/07, al termine di uno studio approfondito, propose la creazione del Ministero per la Pace.

Ecco: facciamo affidamento sui docenti, ma non solo, per educare alla Pace e alla nonviolenza nelle scuole e nei luoghi dove i giovani si ritrovano ( centri educativi, parrocchie, centri culturali e ricreativi, dopo scuola). Sappiamo che  in questo momento anche a scuola, è difficile  parlare la lingua della nonviolenza, del dialogo e del confronto. Esiste una certa tendenza, speriamo minoritaria e che non faccia breccia nella scuola, a rivalutare linguaggi e idee messe al bando dalla storia, a distinguere popoli buoni da altri cattivi e a non confrontare le ragioni degli uni e degli altri. Si tenta di far rientrare a scuola messaggi e contenuti che richiamano lo spirito militaresco, come il tentativo, ritirato per le proteste, di introdurre nelle scuole zainetti con scritte militari.

Occorre però resistere, dobbiamo farlo come forma di rispetto nei nostri confronti e nei confronti dei nostri alunni che devono vedere in noi dei punti di riferimento e come forma di solidarietà per i  morti nelle guerre in corso, tra cui tanti bambini.

Sappiamo però che il pericolo più grande è quella forma di indifferenza, il non voler prendere posizione, che è tutto il contrario del motto milaniano ”I care” (mi interessa, me ne faccio carico), che è l’unico che può coinvolgere e appassionare studenti e studentesse.

Oggi come ai tempi di Lodi abbiamo la necessità di non lasciare soli i bambini con le loro domande e le loro paure “I bambini  […] sanno che l’uomo, con la sua intelligenza ha inventato una quantità di macchine utili, ma nello stesso tempo ha prodotto armi che possono distruggere la vita sul pianeta. Essi sanno che il mondo è diviso e che su ogni parte stanno puntati missili pronti a partire, carichi di bombe. Sanno che in pochi minuti la terra può essere distrutta e gli uomini morire. E loro, i bambini, non avere il diritto di vivere la loro vita.” ( sempre Lodi “La Pace nelle poesie di bambini e adulti).

A scuola i bambini e i ragazzi hanno bisogno di punti di riferimento, di persone che vivano l’ “I care”.

Sta a noi con il nostro lavoro quotidiano contribuire alla formazione di una mentalità pacifica e che rifiuta l’uso della violenza per risolvere le questioni, dai litigi personali ai conflitti tra gli stati. E’ così che possiamo dare concretezza alla nostra Costituzione e a quanto scritto nelle “Indicazioni Nazionali per il curricolo.”

Per questo motivo invitiamo tutto il mondo della scuola, dell’università e dell’educazione a sottoscrivere il nostro appello compilando il form che trova sulla nostra pagina facebook -scuola pace costituzione – oppure direttamente cliccando qui.
Senza la Pace tutto è perduto! Con la Pace tutto si può sperare di ottenere!




Quando l’educazione all’affettività si faceva anche senza Valditara e senza gli influencer

di Nicola Puttilli       

Alcuni giorni fa un’insegnante della scuola che dirigevo a Nichelino, realtà allora particolarmente problematica dell’hinterland torinese, mi ricordava con un messaggio che più di una ventina di anni fa istituimmo nella scuola elementare un laboratorio di educazione all’affettività e alla sessualità, osservando, con una punta di ironia, come già allora fossimo all’avanguardia, anche senza il supporto degli influencer.

Influencer o meno l’avvio del laboratorio fu reso possibile grazie a quel poco di organico funzionale e di risorse aggiuntive (L 440/97) che accompagnò la prima attuazione dell’autonomia scolastica, voluta dall’allora ministro dell’istruzione, recentemente scomparso, Luigi Berlinguer.
Il laboratorio, così come lo stesso tentativo di dare vita a una vera, per quanto iniziale, autonomia, ebbe breve vita. Il ministro che, come non bastasse l’autonomia, si era messo in testa di riformare anche gli ordinamenti scolastici, sostanzialmente risalenti alla riforma Gentile, fu presto trafitto dal fuoco amico e costretto alle dimissioni.

Dal 2001, ministro Letizia Moratti, cominciarono gli anni delle vacche magre: tagli indiscriminati, di finanziaria in finanziaria, fino a praticamente dimezzare in poco più di un ventennio la quota di PIL destinata all’istruzione. Operazione, quest’ultima, in cui si distinse per accanimento e perseveranza la ministra Gelmini.

L’autonomia scolastica si tradusse presto nello scarico verso le scuole di tutte le procedure burocratiche e amministrative che prima facevano capo ai provveditorati agli studi. Gli organici funzionali furono rapidamente dimenticati e nella scuola primaria tagliate drasticamente  le compresenze sul tempo pieno, rendendo sempre più difficili quelle preziose esperienze laboratoriali che ne avevano caratterizzato la nascita negli anni’70.
Negli altri ordini di scuola è costantemente lievitato il numero di alunni per classe e per converso drasticamente diminuito il numero di autonomie scolastiche (istituzioni oggi per lo più sovradimensionate, cariche di compiti amministrativi, con il dirigente scolastico sempre più lontano dai temi educativi e didattici che dovrebbero invece maggiormente caratterizzarne la dimensione professionale).

Gli esiti di questa fallimentare politica scolastica purtroppo li conosciamo bene: risultati di apprendimento insoddisfacenti, deficit relazionali e comportamentali, dilagante analfabetismo di ritorno, tassi di abbandono e dispersione tra i più alti d’Europa e con fortissimi squilibri regionali e territoriali.

Con l’eccezione della legge 107/15, anch’essa peraltro declinata burocraticamente, dopo Berlinguer i governi e i ministri che si sono succeduti hanno praticamente rinunciato a occuparsi di scuola, considerandola una riserva di caccia per le leggi finanziarie e limitandosi a interventi di piccolo cabotaggio (chi ricorda il “cacciavite” di Fioroni?) o, peggio, tesi a lasciare una qualche traccia purchessia della propria presenza (per onor del vero c’è stato anche il caso del ministro Fioramonti che si è dimesso perché gli investimenti promessi non erano stati confermati, o almeno così ha dichiarato, caso unico per quel che riguarda le dimissioni, regola confermata per i mancati investimenti).

Si sono così ripetute, a seconda degli echi di cronaca del momento, le misure, più o meno andate a segno, tese ad imporre dall’alto ore aggiuntive praticamente su tutto. Dall’educazione stradale in caso di incidenti gravi, all’educazione motoria cara al ministro già insegnante di educazione fisica, nella primaria. Dall’orientamento quando la pubblica opinione discute del disallineamento tra offerta formativa delle scuole ed esigenze del mondo imprenditoriale, all’educazione civica se il tema del giorno è quello del bullismo, fino all’ educazione alle relazioni e ai sentimenti (per la sessualità si può sempre aspettare) in caso di femminicidio, senza dimenticare le ore di religione cattolica già presenti dal 1984.

Nella mente dei nostri ministri continua a prevalere l’idea dei vasi da riempire, come se i comportamenti derivassero più dalla quantità dei contenuti appresi che dalla qualità degli stessi e, soprattutto, dalla qualità degli approcci metodologici e delle relazioni che gli insegnanti sono in grado di impostare fin dalla scuola dell’infanzia e a prescindere dalla specifica disciplina di insegnamento, in ogni istante del loro rapporto con gli studenti.

I problemi della scuola italiana sono enormi e strutturali, a poco servono interventi- immagine e ore aggiuntive distribuite qua e là. Anche se le riforme di sistema, nella scuola in particolare, non hanno mai pagato politicamente, sarebbe forse ora di assumersi la responsabilità di ritornare a una visione generale, a un progetto di grande respiro in grado di dare speranza alla nostra scuola.
Le vie individuate da Luigi Berlinguer più di venti anni fa possono ancora  essere un importante punto di riferimento: sia la riforma dei cicli utile a contrastare la selezione precoce e la successiva dispersione scolastica sia, e soprattutto, una vera autonomia scolastica.

Più di vent’anni fa a Nichelino IV circolo eravamo stati in grado di intercettare le esigenze del territorio e di fornire risposte significative, senza imbeccate ministeriali e tanto meno interventi di influencer o simili dell’epoca. La scuola italiana ha bisogno di investimenti importanti, dalla sicurezza delle scuole alla  qualità degli ambienti di apprendimento, fino alla formazione del personale- Non sarebbe male cominciare con il rispedire agli uffici ministeriali territoriali scartoffie e pratiche burocratiche varie e dare fiducia e mezzi, in termini di organici funzionali e di risorse, ai nostri insegnanti e ai nostri dirigenti scolastici, riprendendo, là dove l’avevamo lasciata, la strada di una vera autonomia scolastica.




Tutta colpa del patriarcato? Forse manca la “cultura del Noi”

di Raimondo Giunta

Si è sperato per qualche giorno che non succedesse l’irreparabile, ma non è stato così. Giulia Cecchettin è stata massacrata dal suo ex ragazzo. Dopo il ritrovamento del suo corpo martoriato un’ondata di indignazione ha scosso la società, colpita dalla crudeltà con cui è stata stroncata la sua vita ad opera di un giovane, che sembrava molto lontano dalla capacità di compiere questo efferato delitto.

Con forza si è riaperto il dibattito politico e culturale sulle responsabilità delle istituzioni, sui rimedi e sugli strumenti ritenuti adatti per contrastare ogni forma di violenza contro le donne e soprattutto i femminicidi, la cui frequenza in tempi di profonde trasformazioni dei costumi è uno scandalo ingiustificabile.
Il problema interpella drammaticamente la coscienza di ognuno di noi ed esige riflessioni e risoluzioni all’altezza della sua gravità.

I ragionamenti che farò rispecchiano i miei attuali e provvisori convincimenti e non hanno alcuna pretesa, se non quella di fare un po’ di chiarezza per me stesso; sono relativi agli strumenti e alle conoscenze in mio possesso.

Il ricorso sempre più frequente all’uccisione delle donne nei conflitti e nei rapporti interpersonali è un fenomeno che va analizzato in tutti i suoi aspetti, senza alcun preconcetto.  In più di un intervento viene richiamata per i crimini contro le donne la violenza che deriva dai cascami della cultura “patriarcale”, ancora operante a parere di tanti nel comportamento e nelle scelte di molti uomini.

Ragionamento questo che non mi risulta del tutto convincente.  Avrebbe piena validità, se ancora l’istituzione familiare avesse quella struttura e quella stabilità che aveva creato la tradizione del capofamiglia, padrone della sorte dei suoi componenti, sempre pronto ad esigere la sottomissione delle donne, della moglie e delle figlie soprattutto.

Questo tipo di famiglia sopravvive in zone sempre più limitate della società, ma da tempo è stato sostituito da un altro in cui si praticano non facilmente, ma si praticano la parità tra uomo e donna e rapporti tra genitori e figli in cui è difficile trovare l’autoritarismo dei tempi passati.

Parte rilevante degli autori e delle vittime di molti femminicidi hanno un’età che li porta fuori dalla stagione del patriarcato imperante e li colloca nei decenni in cui hanno frequentato la scuola, fino alle superiori, in classi miste, in cui ragazzi e ragazze per tanti giorni e per alcuni anni hanno preso l’abitudine di stare insieme, di conoscersi e di praticarsi.

Certo, se si pensa con quanto entusiasmo donne e uomini hanno affrontato a partire dagli anni ’70 le lotte che hanno trasformato la vita di tutti, la lunga catena dei femminicidi ci ammonisce sul fatto che certe conquiste non sono diventate patrimonio di tutti. Qualcuno è rimasto ai margini assente e anche ostile. Dopo quella stagione, che con qualche ragione si può definire la stagione del Noi, la stagione dei beni comuni, ne è subentrata un’altra in cui si è fatto prevalere il privato sul pubblico, l’egoismo sull’altruismo, fino al punto di storpiarne le ragioni e la serietà affibbiandogli il nome insolente e offensivo di buonismo. Una stagione che ha esaltato la competizione in tutte le varianti, comprese quelle che ricorrono all’aggressività e alla scorrettezza; che ha premiato il ricorso alla menzogna, il dileggio e l’offesa a danno del rispetto; una stagione in cui si è inneggiato sempre ai vincitori e si sono derisi i diversi, gli sconfitti della vita, in cui si sono adulati i ricchi e si sono mortificati e disprezzati i poveri; una stagione in cui la prevaricazione ha cancellato ogni forma di dialogo.

Potevano i frutti velenosi di questa lunga e insopportabile stagione lasciare indenni le relazioni tra le persone e le relazioni tra uomini e donne? Credo proprio di no.

Al peggioramento della qualità delle relazioni umane non sono estranei i messaggi continui e invasivi delle tv, dei film e della pubblicità che riducono la donna al solo suo corpo, facendone preda destinata alle voglie e ai capricci degli uomini; possesso da cercare e mantenere per i propri piaceri e per certe forme aberranti di autostima.

A parte va considerato un altro aspetto del problema, che è quello della difficoltà, dell’imbarazzo e dell’invidia maschili nell’accettazione del crescente successo delle donne nelle occupazioni di rilievo pubblico nella società.

E’ facile inneggiare all’autonomia intellettuale e morale delle donne, ma a non pochi uomini riesce difficile convincersi che le donne possano rivelarsi migliori per qualità e per capacità. La libertà della donna, la sua autonomia, il rispetto delle sue esigenze e delle sue legittime ambizioni vanno collocati al vertice della trasformazione e del miglioramento dei costumi, ma hanno bisogno della pratica quotidiana del dialogo e del rispetto della dignità di ogni persona.

Sia che ci riferisca a giovani coppie, sia che ci si riferisca a coppie mature la violenza e gli assassini delle donne ci riportano ad una cultura sempre più estesa e radicata in cui la vita soprattutto quella degli altri non conta nulla, in cui la ragione appartiene a chi è più forte e chi è più forte crede di avere nelle proprie disponibilità chi è più debole, perché è donna, perché è povero, perché è straniero, perché è meridionale, perché è disabile, perché è disoccupato, perché non ha una casa e nemmeno una macchina.

L’ondata dei femminicidi non proviene solo dai residui della cultura patriarcale, ma anche dall’insieme dei valori praticati che ha reso difficile il rispetto di ogni persona e della donna in molti episodi ed occasioni della vita quotidiana. Il rispetto delle donne non può essere un’eccezione al rispetto che va portato ad ogni persona in ogni ambito dei suoi diritti. E non saranno solo i provvedimenti e le misure più stringenti in ambito penale e processuale, come quelli approvati, a risolverne le sorti, se resta tutto intero l’impianto delle decisioni e della cultura che produce scarti, disuguaglianze e odio sociale. Se rimane in piedi l’apparato dell’informazione e dei media che ha mercificato la donna ed esalta gli istinti predatori degli uomini.

Solo una ripresa in grande stile della cultura del Noi col tempo potrà contenere e sconfiggere il femminicidio; la scuola non ha bisogno di alcun progetto di cultura del rispetto. Per farla funzionare si sa che se non c’è rispetto reciproco non si riesce a fare nemmeno un’ora di educazione fisica e che ci sono tanti di quegli argomenti da cui estrarre ricchi insegnamenti per questo scopo. Sono le famiglie che devono riprendersi la responsabilità educativa, che in questo genere di problemi non ha mai funzionato tanto bene. Sin da piccoli si insegni e si pratichi il rispetto delle bambine e si contrastino le soperchierie dei ragazzi; non si giustifichino e non si coprano le forme di violenze che vengono praticate in casa e fuori e il marito rispetti la moglie, e il fratello la sorella e si considerino fratelli e sorelle tutte le persone con cui si entra in relazione.

E questo il campo in cui le parole, da chiunque pronunciate, non contano niente. Contano solo buoni e costanti esempi.

“Un’educazione davvero valida per i giovani come per gli adulti non consiste nel prodigarsi in consigli, ma nel mostrare che viviamo mettendo in atto i moniti che siamo pronti a rivolgere ad altri” (Platone-Leggi(729 b)