Stamattina ho visitato un luogo che fino ad ora per me era stato o una mediocre trasmissione di Mediaset o una pratica tipica dei giovani statunitensi: sono infatti entrat* per la prima volta in un drive-in.
A darmi l’occasione il mio medico di base, che mi aveva segnalat* sull’apposito portale, perché stat* a contatto diretto con soggetti risultati positivi, anche se non presentavo – e tuttora non presento – sintomi.
Il covid19, da oggetto di troppo spesso grottesche dispute sui “social” e di generico timore personale, parzialmente attenuato da mascherine FFP2, igienizzanti, lavaggio delle mani e osservanza delle regole di distanziamento, era insomma diventato una componente concreta e vincolante della mia vita, biologica e affettiva.
Lo era già stato durante il lockdown, ma questa volta lo dovevo affrontare faccia a faccia.
Intorno alle 10, ho abbassato il finestrino del guidatore e effettuato il tampone: un giovane infermiere (non credo fosse un medico), bardato con tutte le protezioni necessarie, ha preso la mia tessera sanitaria, mi ha chiesto la ragione per cui ero lì, ha preparato la provetta, ha controllato la corrispondenza dei dati, mi ha fatto appoggiare il capo sul poggia-testa della mia vettura e ha prelevato un campione dalle mie narici, dicendomi che avrei avuto l’esito in settimana, dal mio curante.