La nuova emergenza Covid: riparare le ferite dell’infanzia e dell’adolescenza volgendo lo sguardo al futuro

di Antonio Valentino

Tra dati di fatto e percezioni fondate

Sulla questione ‘nuova emergenza Covid’, considererei soprattutto i seguenti aspetti:

  1. Il dato di fatto con cui anche la scuola è costretta a confrontarsi in queste settimane – con la variante ‘Omicron’ che impazza – è che l’uscita dal Covid non ci è ancora dato di vederla all’orizzonte, come si pensava fino ad alcune settimane fa grazie alla vaccinazione di massa in atto da mesi.
  2. Comunque la crescita percentuale del contagio nelle ultime due settimane (10-16 e 17-22 gennaio) ha continuato a scendere: vi sono ormai “evidenze certe di una decelerazione della curva epidemica, in linea con quanto osservato in altri Paesi” (Franco Locatelli, Coordinatore del CTS)
  3. È percezione fondata che il contagio con l’ultima variante non sembra comportare i rischi gravissimi (persone in terapia intensiva e esiti letali) delle prime ondate, a seguito delle misure adottate.
  4. Le consapevolezze dell’attuale situazione – a. la convivenza obbligata col virus però depotenziato nei suoi esiti più dolorosi (il riferimento è alla variante ultima, la più contagiosa); b. gli strumenti di difesa dal Covid sempre più disponibili e mirati – è condizione di un diverso sguardo anche sul futuro prossimo del mondo scolastico.

Proviamo, con i ragionamenti che seguono, a riavvolgere il nastro di questa storia degli ultimi due anni con riferimento alla scuola, per individuare qualche direzione di marcia sensata e possibile, per gestire al meglio la fase sulla base dei dati e delle consapevolezze di cui ai punti precedenti.

A tal proposito, è opportuno richiamare in prima battuta che il blocco delle attività didattica in presenza nel 2020 – e l’avvio della Didattica a Distanza (DaD), è stato certamente l’evento tra i più drammatici che il mondo della scuola abbia vissuto dal secondo dopo guerra.

Va però anche detto che la Dad ha limitato in parte i danni di tale blocco sulla vita delle scuole ed ha, tra l’altro, reso evidente, riportandole in primo piano, non solo le inadeguatezze pesanti della scuola sul fronte delle tecnologie informatiche (strumenti e formazione); ma anche e soprattutto ha ridato evidenza, ulteriormente acutizzandole, alle vecchie ferite del sistema, attraverso le molte ricerche, inchieste, articoli e saggi e commenti che, a partire già dalle settimane in cui si concludeva il primo anno scolastico segnato dalla pandemia, hanno alimentato il dibattito sul presente e il futuro della scuola.

Ricerche e dibattiti che in modo generalizzato  esprimevano preoccupazioni estese e profonde ma anche nuove e generalizzate attenzioni e propositi di una ripartenza che non fosse un ritorno al passato pre-pandemia; che non riproducesse cioè le stesse disfunzioni, arretratezze, traumi, ingiustizie del sistema vigente.

Sul fronte studenti si evidenziavano soprattutto – come è noto -, con sottolineature più o meno preoccupate, oltre al peggioramento pressocché generalizzato degli apprendimenti, anche a. l’aumento delle diseguaglianze nel rendimento scolastico e degli abbandoni, come conseguenza delle disparità sociali e  b. la drammaticità degli effetti del lockdown su bambini e adolescenti, in termini di disturbi comportamentali e psicofisici e di difficoltà di concentrazione; sui quali ci ha richiamati recentemente il Presidente di Proteo Fare sapere nazionale, Dario Missaglia[1].

Sul fronte insegnanti, i dati e le testimonianze raccolte riportavano invece in primo piano – assieme all’ impegno complessivamente generoso e generalizzato del mondo della scuola – le carenze di una cultura professionale non attrezzata a fronteggiare situazioni così nuove e impegnative; e non solo per carenze nella gestione mirata degli strumenti informatici.

In quei mesi – si ricorderà – ‘ripartenza’ e ‘riprogettazione’ entravano con nuova forza nel dibattito sulla scuola tanto, da diventarne parole d’ordine particolarmente diffuse.

Dal bisogno diffuso di “ripartenza” alle tendenze al recupero di una ‘normalità’ pre-pandemia

‘Niente sarà più come prima’ – ricordate? – è stato lo slogan più diffuso di quella stagione che ha caratterizzato soprattutto gli ultimi mesi del 2020 e i primi del ’21. Uno slogan che se da una parte sottolineava che non si poteva più far finta di niente rispetto ai mali vecchi e nuovi che venivano riportati in primo piano, dall’altra includeva anche il richiamo alle opportunità, da saper cogliere, che si aprivano con le tecnologie digitali.

In realtà le parole d’ordine prima richiamate, per quanto ripetute con accenti appassionati, non riuscivano però a tradursi in iniziative evidenti di rinnovamento, per ragioni immediatamente comprensibili.

Le incertezze e una certa confusione nella gestione della pandemia soprattutto nella prima parte dell’anno scolastico, assieme alla mancanza di misure di difesa certa dal virus, hanno di fatto determinato situazioni di stop and go, soprattutto nella secondaria, che hanno di fatto impedito di pensare ad altro che non fosse quello di salvare il salvabile. Certamente le scuole si erano attrezzate al meglio, rispetto all’anno precedente, con le tecnologie necessarie; e gli insegnanti avevano imparato a organizzarsi e a utilizzare le nuove dotazioni messe a disposizione.

Per le parole d’ordine dei mesi precedenti non c’era però spazio. Erano state confinate – e lo sono ancora – in uno spazio tutto loro, in attesa di tempi migliori.

Lo stesso Il PNRR, nel quale il nuovo Governo Draghi è stato impegnato negli ultimi mesi dello scorso anno scolastico e che pure prevedeva misure importanti e urgenti per la scuola, ben poco l’ha coinvolto anche sul tema della ‘ripresa’, che pure è parola chiave di quel Piano.

In questi ultimi mesi è sembrata prevalere su più fronti la preoccupazione pressocchè unica di recuperare una normalità che sembra avvicinarsi alle forme di quella pre-pandemia.

Di ripartenza si è parlato sempre di meno in quest’anno scolastico e lo slogan prima ricordato non è più sembrato essere molto ‘popolare’.

E questo, nonostante le scadenze per il rinnovo del POFT e la riscrittura del RAV, previste dal calendario scolastico ’21.’22, che sarebbero potuto / dovuto essere una occasione per interrogarsi sul passato recente e derivarne indicazioni per la riprogettazione dell’offerta formativo del nuovo triennio.

L’interrogativo che verrebbe da porsi, alla luce delle considerazioni con cui si è aperta queta nota (le nuove incertezze portate dalla preoccupante contagiosità della nuova variante, ma anche le consapevolezze nuove sopra richiamate), è se l’attuale situazione generale socio-sanitaria, per quanto ancora problematica, possa giustificare del tutto l’accantonamento – o il rinvio – delle questioni della ‘ripartenza’.

“Niente sarà come prima”. Uno slogan ‘perso’?

Recupero qui, in ordine sparso, dalle cose lette e sentite e scritte di quel periodo, alcuni elementi (questioni, attese, priorità) tra quelli che ancora oggi mi sembrano particolarmente significativi.

Si ricorderà certamente che all’inizio dell’anno scolastico 2020-’21, al centro delle preoccupazioni, soprattutto dell’Amministrazione centrale, c’erano questioni più legate agli effetti della situazione che si stava vivendo: il previsto recupero e sostegno per i percorsi formativi ‘saltati’ – più prosaicamente: le parti di programma non svolte (nel secondo quadrimestre dell’a.s. ’19-‘20).

Ma nel dibattito tra gli addetti ai lavori, frequenti e insistiti erano i richiami ai problemi più legati al funzionamento incerto e preoccupato delle scuole e al carico di ansie, difficoltà relazionali e psicologiche che emergevano nei bambini e nei ragazzi e che chiedevano risposte che non arrivavano.

Mi riferisco

  1. alla necessità di superare, nella professione docente, comportamenti autoreferenziali e individualistici, sempre molto diffusi, e di rendere abituali pratiche cooperative e interazioni e, insieme, cura del contesto (i suoi spazi e loro dotazioni), come condizioni per migliorare la partecipazione degli studenti alla vita della scuola e qualificarne la formazione culturale e sociale;
  2. ad una idea di scuola in grado di coltivare – attraverso misure e riconoscimenti opportuni – la sua autonomia non solo didattica e organizzativa, ma anche ‘di ricerca sperimentazione e sviluppo’ (recupero pieno di quanto prevede l’art 6 del Regolamento del DPR 297/99); e di liberarsi dalla vocazione impiegatizia ancora persistente tra i suoi operatori;
  3. ad una filosofia progettuale, per quanto riguarda il ricorso al digitale, che evidenziasse la necessità di un approccio metodologico volto sia a sviluppare la “capacità di imparare a valutare le potenzialità d’uso, le implicazioni etiche, economiche e sociali delle nuove tecnologie”, sia a favorire “la contaminazione fra strumenti nuovi e vecchi, tra digitale e analogico, senza contrapposizioni ideologiche e con un approccio pragmatico” [3].

Questi soprattutto i termini del dibattito già meno di un anno fa. L’impressione che si ha oggi è che la maggior parte di quelle preoccupazioni e di quei ragionamenti si siano un po’ persi per strada, e che il futuro che si tende a prefigurare in questi ultimi mesi – già prima dello scatenarsi della nuova ondata di contagio – non sembra diverso dal quadro complessivo pre-pandemia, che pure si era giurato di voler cambiare in profondità.

Ci sarebbe da interrogarsi sulle ragioni dell’offuscamento (rimozione?) dei propositi prima richiamati; e se non possono essere liquidate semplicemente con la giustificazione – pure immediatamente  comprensibile – delle difficoltà a gestire le scuole in una situazione in cui la pandemia, che di preoccupazioni, ansia e lavoro aggiuntivo – e quindi stanchezza – ne continua a produrre a iosa.

Ragionando sulle ragioni altre della ‘rimozione’.

A volerci pensare su, si potrebbe dire che a facilitare questo ritorno alla scuola pre-pandemia ci siano alcuni elementi endemici della cultura metodologico-didattica e organizzativa della nostra scuola, che riprenderei sinteticamente così:

  • la prevalenza della lezione fatta di spiegazione-compiti-interrogazione-voti (oggi un po’ in crisi, ma mica poi tanto) e quindi
  • la poca diffusione della diversificazione delle strategie di insegnamento e apprendimento e la scarsa attenzione alla relazione di reciprocità (per quanto necessariamente asimmetrica) nella gestione degli studenti;
  • la non generalizzata attenzione al principio di cura, almeno nei termini in cui andrebbe più efficacemente coltivato;
  • la insufficiente attitudine a diffondere e valorizzare le esperienze più significative che pure nelle scuole si realizzano, senza però (quasi) mai farle diventare patrimonio comune e pratiche diffuse.

A proposito di quest’ultima problematica va evidenziato come essa faccia il paio con la cultura individualistica e autoreferenziale di cui si è detto, che continua ad essere ancora prevalente, e che ha generalmente ignorato:

  1. la dimensione collettiva e sociale del lavoro – e dell’apprendere attraverso il lavoro e le esperienze sul lavoro – ai diversi livelli (si pensi soprattutto alle articolazioni funzionali del collegio: dai consigli di classe/interclasse ai dipartimenti e ai gruppi di progetti o di coordinamento -; ma anche al lavoro d’aula),
  2. l’attitudine al diffondersi, anche solo a titolo sperimentale, delle pratiche più efficaci.

Ma si dovrebbe anche richiamare, per chiarire i fattori che stanno probabilmente contribuendo al ritorno quasi automatico alla situazione scolastica pre-covid, che la cultura professionale del nostro sistema scolastico si è generalmente sviluppata dentro orizzonti culturali e professionali che hanno poco valorizzato e coltivato la ricerca pedagogica e didattico-organizzativa di casa nostra (e questo meriterebbe un discorso a parte soprattutto per quanto riguarda i rapporti difficili e sostanzialmente infruttuosi tra università e mondo scolastico – con poche ma importanti eccezioni). Non solo, ma  ha anche sostanzialmente ignorato la ricerca internazionale; privilegiando, anche nella formazione all’insegnamento, pratiche che hanno preso in ben poca considerazione le varie dimensioni dell’apprendere.

Soprattutto, l’importanza di fare squadra e la modalità situata, collettiva della crescita professionale, come anche l’apprendimento fondato sull’esperienza e la riflessione partecipata, non hanno mai toccato più di tanto la maggior parte delle nostre scuole[4].

Concludendo

A questo punto – se non si vuol dare per scontato che le parole d’ordine della ‘ripartenza’ qui spesso richiamate abbiano definitivamente perso valore e senso,  e non debbano quindi trovar posto neanche in seguito, nell’agenda delle scuole, iniziative  volte a  tenerne viva l’attenzione – c’è da chiedersi in qual modo e con quali prospettive recuperare, sulle tematiche che le considerazioni svolte ripropongono, almeno dentro l’orizzonte dei ‘memoranda’ (dalla relazione all’apprendimento organizzativo, dalle strategie plurali dell’insegnamento alla ricerca-azione …), filoni di ricerca e teorie, più o meno recenti, in grado di offrire stimoli e strumenti per fronteggiarle – tali tematiche – con maggiori cognizioni di causa.

Riguardo specificamente ad esse, si vogliono qui richiamare, in aggiunta alle segnalazioni precedenti e in prima battuta, gli studi e le sperimentazioni, nell’ambito delle teorie sociologiche della conoscenza, sviluppati soprattutto negli Stati Uniti[5]  – a partire indicativamente dagli anni 70 del secolo scorso e proseguiti anche nel nuovo millennio.  Studi e ricerche che hanno coinvolto accademici e ricercatori/studiosi di altri paesi e anche di alcune nostre università[6].

Da sottolineare qui in modo particolare, oltre alle loro innovative elaborazioni sulle problematiche sopra richiamate, i loro contributi sul fronte della formazione nella dimensione ‘situata’, sul campo, in quanto condizione particolarmente stimolante per una cultura professionale degli insegnanti attenta ai bisogni formativi e alle attese di studenti e territorio.

Annotazioni, queste ultime, volte a sottolineare – concludendo – che nessuna eventuale ‘ripartenza’ può’ avere sviluppi importanti e innovativi con la semplice logica del fai da te; senza cioè recuperi e ri-appropriazioni di studi, ricerche, esperienze, che siano promettenti quanto a stimoli, allargamento d’orizzonti e proposte operative.

NOTE

[1] “Ricerche condotte in tutto il mondo e con dovizia di dati e numeri anche in Europa (…), ci dicono che il prolungarsi di questa fase di pandemia, con il suo carico di ansie, paure, limitazioni, riaperture e nuove chiusure, ulteriori richiami di vaccino, incertezza sul futuro, sta producendo ferite gravi e profonde nel mondo dell’infanzia e dell’adolescenza” (D. Missaglia, Allarme rosso, in www.proteofaresarere.itnewsnotizie  13.1.2022). In questo contributo il Presidente nazionale di Proteo Fare Sapere esplicita il concetto di pandemia secondaria che “indica la vasta gamma di conseguenze psicologiche, relazionali, emotive, cognitive che risultano compromesse dal prolungarsi della pandemia. Secondaria (…) non per importanza minore rispetto alla pandemia che produce ricoveri in terapia intensiva e decessi quotidiani…”.

[3] Sulle proposte al riguardo ho condiviso soprattutto l’elaborazione del cap. 3 (Il Digitale “Senza se e senza ma, pp. 50-55) del Rapporto finale del 13 luglio 2020: “Idee e proposte per una scuola che guarda al futuro rapporto finale”, del  Comitato di esperti D.M. 21 aprile 2020. Coordinamento:  Prof.  Patrizio Bianchi. Le parti virgolettate sono state stralciate integralmente dal Rapporto.

[4] Non sono ovviamente le nostre scuole le prime indiziate, perché soprattutto altrove vanno individuate le maggiori responsabilità al riguardo.

[5] I nomi d’obbligo per quanto riguarda questo filone di ricerca sono – come si ricorderà – quelli di Donald Schön e di Chris Argyris, da noi noti non solo in ambito universitario. Ai quali vanno affiancati Jean Lave e Etienne Wenger, i cui contributi di ricerche e studi, nei decenni soprattutto a cavallo del 2000, sono confluiti nella elaborazione del concetto di Comunità di pratica. Nel quale è fondamentale il fattore solidarietà organizzativa tra soggetti che operano nello stesso ambito e si aggregano perché motivati/sollecitati a migliorare la propria pratica professionale. Le pubblicazioni più citate: C. Argyris, D. SchonApprendimento organizzativo, Guerini e Associati, Milano, 1998; A.D. Schön, (1999) Il professionista riflessivo: per una nuova epistemologia della pratica, Bari, Dedalo; Lave, J & WengerL’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti di apprendimento. Erickson, 2006 (prima pubblicazione: Cambridge University Press, 1991); E. Wenger, R. McDermott, & W. M. Snyder, Cultivating Communities of Practice, Coltivare Comunità di Pratica. Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza, guerinNext editore, 2007 (prima pubblicazione: HBS Press 2002).

[6] In campo universitario mi piace ricordare – ma sarebbero ben più numerosi i nomi da citare – soprattutto Francesco De Bartolomeis e Piero Romei; il primo in modo particolare per ‘La Didattica come antipedagogia’ e per la sue pubblicazioni sul lavorare in gruppo; il secondo, per ‘La scuola come Organizzazione’ in cui si sviluppa la nozione di Unità operativa, avvicinabile, con qualche approssimazione, al concetto di ‘Comunità di Pratica’ di Wenger e Lave. Su autonomia e organizzazione della scuola nella prospettiva di comunità di pratica, pubblicazione ancora stimolante: L. Benadusi, R Serpieri, (a cura di), Organizzare la scuola dell’autonomia, Carocci 2000, con contributi, oltre che dei curatori, di M. Tomassini, A.M. Ajello, V. Ghione, ….. Di quegli anni anche, P.G. Ellerani, La costruzione della comunità di apprendimento sostenuta dal Cooperative Learning. Progetto avviato dalla Provincia di Torino – A.s 97-98, proseguito nel 2003-2005.




Verso la scuola del post-pandemia (purché non sia quella del pre-pandemia)

di Stefano Stefanel

La pandemia che non vuole finire e che ricompare sempre sotto mutate sembianze, costringendo a rincorrere le emergenze, non ha permesso di trovare soluzioni a problemi vecchi e ha messo tutti davanti ad ostacoli nuovi. Se andiamo indietro nel tempo a due anni fa credo nessuno possa sostenere che la scuola, così com’era, funzionava perfettamente e non aveva bisogno di particolari interventi. Venivamo da vent’anni di riforme incompiute e di risultati certificati come non soddisfacenti e le strade che si aprivano non mostravano, comunque, porti sicuri.
Due anni dopo ci siamo spostati da dove eravamo, ma i problemi si sono ingigantiti, senza che venisse in mente a nessuno una soluzione condivisa, un’idea chiara e distinta, una strada con un punto d’approdo certo. Il sistema scolastico italiano riesce ad individuare con chiarezza i suoi mali, ma stenta a trovare i rimedi; individua con altrettanta chiarezza i suoi punti di forza, ma non li fa diventare sistema, preferendo isolarli dentro una sorta di eguaglianza scambiata per equità.

Una delle evidenze maggiori portata allo scoperto dalla pandemia è il tentativo di affrontare con sistemi tradizionali una situazione emergenziale in costante mutamento. A due anni dalla pandemia non solo non è chiaro come ne usciamo, ma nemmeno cosa faremo o dovremmo fare per limitare i danni al sistema scolastico ed educativo che l’emergenza ha prodotto.
Anche perché il nostro sistema scolastico è in perenne affanno ed ha una sua intrinseca fragilità, dentro meccanismi come le graduatorie permanenti, i mansionari rigidi del personale ata, le difficoltà di reclutamento di docenti di valore, la facoltatività oggettiva della formazione, l’alta dispersione scolastica, l’enorme numero di giovani che non studiano e non lavorano.
Da due anni il problema maggiore, però, è quello di come rientrare a scuola tutti insieme e contemporaneamente, per poi ritrarsi davanti a bollettini terribili, a norme di complessa attuazione, a soldi che non sempre aiutano a risolvere le molte contingenze. È vero che tutti speriamo che questa sia l’ultima emergenza e che presto tutti saremo di nuovo insieme dentro le scuole senza distanziamenti, senza mascherine, senza quarantene. Ma è anche vero che in due anni non siamo riusciti a dare un contenuto didattico e formativo all’emergenza. Il primo anno sono stati promossi tutti gli studenti, il secondo anno si è tornati alle bocciature, il terzo anno (questo) sarà una grande finzione di normalità che sfocerà in esiti punitivi su studenti che sono oggettivamente rimasti indietro. Il tutto giocato sempre dentro azioni emergenziali in attesa che “passi la nottata”.

Se la cosa più importante è sempre stata il tornare a scuola non è nato alcun dibattito su cosa dentro la scuola in cui si è tornati era meglio fare. Personalmente sono tra quelli che hanno sperato (invano, temo) che questa emergenza levasse alcune pratiche del passato molto punitive per il sistema scolastico italiano, ma sono anche tra quelli che prende atto del desiderio predominante di restaurazione. Anche, però, se si è disponibili a ragionare se sia meglio l’innovazione o la restaurazione, non pare ci sia nessuno che abbia realmente voglia di farlo. Prendete tutta la questione del digitale: da un lato si tende alla sua demonizzazione collegandolo alla Didattica a distanza vista come male assoluto, dall’altro si nega alla Didattica digitale integrata una vera cittadinanza, ma dall’altro lato ancora si finanziano progetti con cifre molto consistenti proprio per la transizione digitale.
Ma anche sulla questione dell’ecosostenibilità non si va mai veramente al fondo delle cose per far uscire le materie scientifiche dal loro retaggio passato e autoreferenziale e farle entrare nel mondo del futuro (degli algoritmi, del problem solving, della complessità informatica, delle bio-tecnologie, dell’eco sostenibilità, ecc.). Se un compito in classe vale più di mille lavori di ricerca e di analisi decisamente la transizione ecologica avrà vita piuttosto combattuta in Italia, ma, soprattutto, sarà appannaggio delle multinazionali e non di un Sistema Italia che dia un futuro professionale ai suoi giovani laureati in materie scientifiche.

Un’altra questione di grande interesse, legata all’emergenza, è quella delle rilevazioni nazionali e dei vari monitoraggi. In questo labirinto di numeri ognuno li usa per il suo scopo, magari premettendo che sono numeri inficiati da situazioni alterate dalla pandemia o mitigati nella loro profondità da risultati acquisiti a macchia di leopardo. Ma poi tutto cade dentro il calderone dei dati trattati tutti come sondaggi, come tendenza, come classifica. Non c’è nessun senso critico nell’analisi confusa dei risultati Invalsi (resi deboli da rilevazioni avvenute in emergenza e non complete), dei dati di Eduscopio (totalmente fuorvianti), dei monitoraggi sui contagi a scuola, di quelli sull’uso dei mezzi di trasporto, di quelli sulle connettività, di quelli sugli esami di stato. E quindi ognuno di noi usa i numeri che più gli fanno comodo, si compara con chi decide di compararsi, espone teorie ed opinioni sperando che si trasformino in dati.

La pandemia ha aumentato una tendenza a mostrarsi più forti di quello che siamo, quasi che le nostre debolezze nascessero da nostre inadempienze e incapacità, e non da una situazione oggettivamente drammatica. Tutta la questione delle povertà educative in aumento sta lì a dimostrare che la situazione oggettiva è grave e lascerà strascichi anche in futuro. E allora perché non si è pensato in questi due anni a come supportare i contenuti dell’apprendimento e non solo l’ingresso a scuola? Credo perché abbiamo avuto tutti paura di dimostrarci deboli, paura che le nostre debolezze venissero scambiate per incapacità e dunque cercando di nasconderle.

Invece io credo che dobbiamo avere paura di un futuro che sembri il passato e da questa paura dobbiamo farci nascere una nuova idea di comunità che ci faccia comprendere come valorizzare le eccellenze e dare riparo e aiuto a ciò che non è eccellente. Non servono proclami ed esposizioni, non serve una costante presenza sui social a magnificare sé stessi. Serve, invece, saper dare conto di quello che si fa. Tutto questo non è aiutato dalle incombenze eccessive ed invasive che costringono ogni giorno chi lavora a scuola a sopportare il carico di inutile burocrazia che assale da ogni parte. Penso si debba cominciare ad imparare a misurare il valore aggiunto (dell’apprendimento, dell’insegnamento, della valutazione, delle risorse, delle sinergie, della formazione, dell’efficienza, dell’efficacia), ma partendo dalla reale situazione in cui ci si trova e non richiamandosi ad una passata età dell’oro che non è mai esistita. Essere severi e critici con noi stessi per capire quanto siamo deboli e quanto bisogno di aiuto abbiamo.

La scuola ha bisogno delle società, delle famiglie, della politica, delle amministrazioni locali, delle università, del mondo dello sport e del volontariato, della cultura, del mondo della comunicazione e di altri ancora. Ma anche questi mondi hanno tutti bisogno della scuola e senza la scuola non sanno come fare. Se siamo diventati soggetti formativi ma anche di supporto al welfare, se le famiglie hanno bisogno di noi non solo per l’apprendimento ma anche per avere un luogo dove lasciare i bambini e i ragazzi, se la società ha bisogno che da noi si affini il senso civico allora bisogna costruire alleanze partendo dalle nostre debolezze. Dobbiamo lavorare per una scuola che risponda alle esigenze del futuro e della società, non che ricordi tempi passati e che si condanni così ad essere lontana dai ragazzi che deve formare.




Allarme rosso per infanzia e adolescenza

Per gentile concessione dell’autore e della Associazione Proteo Fare Sapere dal lui presieduta pubblichiamo uno stralcio di una più ampia riflessione disponibile nel sito della associazione stessa.

di Dario Missaglia

I medici, soprattutto coloro che si dedicano alla cura dell’infanzia e dell’adolescenza, la chiamano “pandemia secondaria”.

Il concetto indica la vasta gamma di conseguenze psicologiche, relazionali, emotive, cognitive che risultano compromesse dal prolungarsi della pandemia.

“Secondaria” dunque, non per importanza minore rispetto alla pandemia che produce ricoveri in terapia intensiva e decessi quotidiani, ma perché conseguenza  meno tangibile, visibile e quantificabile di quella primaria che ogni giorno invade le comunicazioni ufficiali. Una pandemia che sembra sfuggire la cronaca, forse per il significato anche politicamente “eversivo” che essa contiene. A differenza infatti della pandemia primaria, la secondaria non si sconfigge soltanto con il vaccino o i farmaci ma con scelte politiche, sociali ed educative che non vediamo all’ordine del giorno del governo.

Basta scorrere i siti dedicati delle diverse associazioni, per rendersi conto che il livello di allarme è oramai altissimo e stridente con la realtà dichiarata. Perché, mentre grazie a una campagna vaccinale che si è fatta sempre più intensiva, sono diminuiti  i decessi, anche se crescono i contagi, sulla pandemia secondaria cala il silenzio delle fonti ufficiali. Ma la consapevolezza del fenomeno c’è perché oramai  innegabile. Ricerche condotte in tutto il mondo e con dovizia di dati e numeri anche in Europa (la nostra rubrica “Europanews” ne offre ampia documentazione), ci dicono che il prolungarsi di questa fase di pandemia, con il suo carico di ansie, paure, limitazioni, riaperture e nuove chiusure, ulteriori richiami di vaccino, incertezza sul futuro, sta producendo ferite gravi e profonde nel mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Solo per citare una fonte autorevole e istituzionale, l’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, nel maggio scorso ha pubblicato il  rapporto su “Covid19 e adolescenza” in cui documenta ampiamente il processo di aggravamento delle condizioni dell’adolescenza: insonnia, abuso di alcool e medicinali, chiusura in se stessi, cyberbullismo, scatti violenti, crisi del rapporto genitoriale, stati d’ansia e depressione, episodi di autolesionismo e tentativi di suicidio.

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Ripensare la riapertura delle scuole in presenza

di Aluisi Tosolini

Qualche giorno in 15 dirigenti scolastici abbiamo rivolto un appello al Presidente Draghi e al Ministro Bianchi chiedendo loro di ripensare la decisione di riaprire le scuole in presenza dal 7 gennaio.
In 12 ore l’appello è stato firmato da 2200 colleghi.
Non era e non è un invito a 15 giorni di vacanza in più.
Credo che in questi ultimi due anni abbiamo dimostrato nei fatti quanto la Didattica Digitale Integrata sia e possa essere un significativo strumento di interazione educativa.
Di certo molto meglio della situazione cui stiamo assistendo in questi tre giorni con un aumento impressionante di casi di studenti e docenti positivi e contatti stretti di positivi.
Le regole per la gestione dei casi positivi, e dei contatti stretti, a scuola sono poi semplicemente NON applicabili.


Da dirigente dello stato applico le norme e faccio di tutto, assieme agli insegnanti, agli studenti e al personale, perché la scuola che dirigo possa offrire la migliore esperienza educativa possibile e da giorni assieme a tutti i colleghi stiamo lavorando senza sosta per applicare le norme.
Ma, sempre da dirigente dello stato, è mio dovere parlare quando reputo che le scelte fatte siano illogiche e controproducenti.
Il Collega Di Terlizzi, commentando la situazione, ha ripreso giorni fa una famosa frase attribuita al filosofo tedesco Hegel: “Wenn die Tatsachen nicht mit der Theorie übereinstimmen, um so schlimmer für die Tatsachen” (Se i fatti non concordano con la teoria, tanto peggio per i fatti).
Credo sia quello che sta succedendo: i fatti (l’evoluzione del covid) non vanno d’accordo con la teoria che sostiene che la scuola deve restare in presenza a tutti i costi e che la Didattica Digitale Integrata sia il peggiore dei mali possibile.
In risposta i neo hegeliani dicono: PEGGIO PER I FATTI.
Ma la realtà ed i fatti sono cocciuti.
Ne riparliamo fra qualche giorno.
Buona scuola a tutti e tutte




Dedicato a Valeria. Storia di un’insegnante

Pubblichiamo con commozione questo ricordo scritto dai colleghi dell’Istituto Professionale Alberghiero “Rossini” di Agnano (NA) 

La scuola è un luogo speciale, se ci sono persone che ogni giorno sanno chiedersi come dare senso alla crescita umana e culturale di giovani in formazione.
E ci sono, tra questi, insegnanti che lo sanno fare con una tale energia travolgente ed una straordinaria dedizione da essere un polo di attrazione per chiunque ci creda: alunni, colleghi, genitori.
Ci sono, poi, tra questi, persone dal cuore disponibile e dalla mente aperta, la cui “bellezza” è visibile a tutti coloro che abbiano avuto il privilegio d’incontrale.
Valeria è stata e sarà tutto questo per noi del Rossini.
Non potremmo mai ringraziarti abbastanza, per questo ci impegniamo a portare avanti il tuo esempio di forza, di generosità e soprattutto di amore per ciò che facciamo.




L’ultimo gol. In memoria di Zaki Anwari

di Diego Palma
(Presidente dell’Associazione La Voce della Scuola LIVE)

Era un classico lunedì di agosto. Fermo con gli allenamenti,
pensavo alla nuova stagione calcistica intanto che la vita scorreva come sempre. Giocavo con gli amici per strada come tutti i ragazzi della mia età. Seduto su un muretto, immaginavo il mio futuro.
Pensando mi sdraiai, addormentandomi e sognando la partita della vita. In quel mondo onirico riesco a dare sempre il meglio di me. Mi vedo controllare magnificamente la palla, superare con facilità gli avversari, correre verso la rete e segnare. Gol!
Le urla di gioia del pubblico sugli spalti rimbombano.
Mancano cinque minuti al termine della partita e l’ultima azione è un calcio d’angolo a nostro favore. La palla arriva al centro dell’area, mi avvito su me stesso per eseguire una perfetta rovesciata. L’impatto con il pallone è da manuale, il portiere spiazzato, immagino già l’esultanza mentre mi accingo a cadere sul campo di gioco. Ma mentre sognavo di toccare il suolo, mi svegliai a terra, spinto dai miei amici.


Tutto impolverato mi arrabbiai ed esclamai: “Perché mi avete svegliato, avremmo vinto la partita!”. Loro risposero: “Scappa stupido, altro che partita!”.
Svegliato di soprassalto non compresi la gravità della situazione. Mi girai attorno e vidi
tanta paura: la gente scappava e si riversava in strada. I convogli americani si dirigevano verso l’aeroporto. Non mi resi conto di cosa stesse accadendo tutt’intorno, ma le urla erano
così forti che capii che era successo qualcosa di grave. Pensavo ad una guerriglia urbana, alla peggio un piccolo bombardamento, eventi a cui eravamo abituati… anche se al male e al dolore non ci si abitua mai. Tuttavia, stavolta era più grave la situazione.
Per strada sentivi urlare: “Sono tornati! Sono tornati!”. Pur non avendoli conosciuti perché nato “libero”, purtroppo sapevo di chi stessero parlando. Vidi una folla immensa di persone in fuga, una nube di polvere sollevata dai mezzi militari americani.
Il frastuono dei Kalashnikov dei Talebani che festeggiavano il ritorno a casa dalle orecchie s’infiltrava nel cuore, facendolo tremare. Posizioni diverse, contrastanti tra loro: paura, rabbia, odio, gioia e arroganza miscelate nell’aria erano più esplosive di una granata. Ripensai al mio sogno, l’ultima partita di calcio. Mi chiedevo spesso perché fossi nato qui, il perché di tutto questo dolore. Ho indossato con orgoglio la maglia delle giovanili della mia nazionale. Ho sempre sostenuto “sei tu il pittore del tuo destino, non lasciare che siano gli altri a decidere per te”. Da piccolo ho sempre sperato che la mia patria potesse essere come tutte quelle nazioni nelle quali i giovani coltivano e realizzano i loro sogni.
Ma oggi la vita mi ha mostrato la triste e disillusa condizione di chi per caso è nato qui, in questa remota parte del mondo, dove si cerca un respiro che possa nutrire l’anima reclusa nel terrore, dove la vita viene schiacciata dalla morte. Non avevo il coraggio di tornare indietro, non sapevo se la mia famiglia fosse in fuga, sentivo solo tanta paura e tanta rabbia. Avrei voluto abbracciare mia madre e dirle che sto bene, che avrei voluto scappare ma non sapevo dove e come. In lontananza scorsi i miei amici che inseguivano i mezzi americani, nel vano tentativo di fuggire. Mi rialzai, le lacrime si mescolarono con la polvere sul mio viso.
Iniziai a correre e per non pensare a quello che mi stava accadendo intorno, rimandai la mente alla partita dei miei sogni.
Correvo evitando gli oggetti personali dispersi e i corpi. Continuavo a correre, cercando di raggiungere la meta. Non mi fermai nonostante il dolore e la stanchezza.
Arrivai all’aeroporto e con sgomento notai del filo spinato bloccare l’ingresso. Ma decisi di non arrendermi! Corsi lungo il perimetro alla ricerca di un varco, senza sapere se fosse la cosa giusta.
Vidi un aereo pronto a partire che si posizionava in pista e corsi fino allo stremo delle forze, raggiungendolo, e mi aggrappai alla fusoliera con le poche forze che mi erano rimaste.
Non ero fiero di ciò che stavo facendo, ma in cuor mio immaginavo la libertà di ritornare a casa come calciatore professionista e di poter aiutare la mia famiglia. Mi tenni stretto e cercavo di
scacciare la paura con quelle immagini a me tanto care di quel sogno, di quel gol che era mio, seppur in un mondo tutto dei sogni. L’aereo iniziò a prendere quota e mi sentii come nell’area
di rigore, sollevato da terra, pronto a segnare ed esultare.
Stavolta riuscivo a vedere la palla in rete, ma io ero ancora sospeso in aria. L’arbitro fischiò, era gol! Rimasi lì, felice a mezz’aria, incapace di tornare a terra. Sentivo l’esultanza dei miei amici, della mia famiglia e dell’intera mia nazione.
All’improvviso diventò tutto blu attorno a me: avevo paura e chiusi gli occhi. Ad un certo punto, mi sentii scivolare e graffiare il corpo dal vento. Riaprii gli occhi, volgendo lo sguardo al cielo, e vidi l’aereo in lontananza volare sopra di me, realizzando di non avercela fatta. Ero caduto, ma avevo segnato e non tutto era stato inutile: ora ero libero. Tu che sei qui ad ascoltarmi, rendi la tua vita speciale come il mio ultimo gol e insegui i tuoi sogni.
Ricorda “sei tu il pittore del tuo destino, non lasciare che siano gli altri a decidere per te”.




La dimensione teatrale nell’insegnamento: tra resistenze e sottovalutazione

di Antonio Valentino

Un contributo stimolante di Maviglia e Bertocchi per rilanciare la dimensione teatrale del mestiere dell’insegnante

Nei percorsi formativi per il personale della scuola – e probabilmente non solo – il noto studioso austriaco di leadership e apprendimento, Michael Schratz, discostandosi dalle pratiche più comuni nel suo paese (e anche dal nostro), prospetta, già dagli inizi del secolo,  un modello che prevede di partire non già dalla consapevolezza di non avere competenze adeguate, ma piuttosto dalla incompetenza non-consapevoleunconscious incompetence – (essere inconsapevoli di non avere le competenze richieste) per giungere alla prima tappa: la incompetenza consapevole  – conscious incompetence – (sapere di non sapere).
Pertanto la prima preoccupazione del formatore dovrebbe essere quella di aiutare le persone a diventare consapevoli dei propri bisogni. Solo questa consapevolezza (della mancanza e dei suoi risvolti negativi) permette di procedere verso la competenza consapevole[1].

La tesi sostenuta è che “il lavoro dell’insegnante sia fortemente intriso di teatralitàspesso agita in modo del tutto inconsapevole da parte dei docenti – anche se dentro un quadro contraddistinto da una serie di condizionamenti e aspettative. Quadro nel quale, come ben sappiamo, e nel libro si richiama esplicitamente, ogni insegnante, “recita la sua propria parte – un po’ come fa un attore – in base ad un personale copione[2], più o meno elaborato e più o meno efficace, rispetto agli obiettivi perseguiti”.
Dove il termine copione traduce il cosa e il come viene rappresentato nella classe, ben assimilabile ad una scena definita ‘educativa’ per le sue specifiche caratteristiche.
Il convincimento, esplicitato già dalle pagine iniziali della prima delle due parti, redatta da Maviglia, è che l’acquisizione di un copione più evoluto raffinato e flessibile passa necessariamente attraverso una specifica formazione; a partire dalle competenze proprie della comunicazione verbale e non verbale (tratto fondamentale del profilo docente). E ciò, nonostante gli studi e le ricerche che, almeno dagli anni ’70 del secolo scorso si sono susseguite meritoriamente nel panorama internazionale e anche nazionale[3].

Opportunamente Maviglia richiama i contributi di prestigiosi studiosi e ricercatori delle teorie dell’apprendimento (soprattutto dell’apprendimento situato e basato sulla pratica) e ne riporta, con scelte efficaci, i passaggi più significativi e illuminanti.
Quanto al senso delle riflessioni e delle proposte riportate, esso viene fatto consistere essenzialmente nel rendere consapevole l’attore-insegnante del ruolo che il comportamento verbale e quello non verbale assolvono nella scena educativa.
E questo perché, come afferma Simeone[4], in un passaggio riportato nel libro, “La comunicazione dei sentimenti e delle emozioni si avvale più frequentemente di segnali non verbali e analogici che palesano in modo più preciso gli aspetti affettivi e sociali dell’interazione”.

Interazione che resta – aggiungerei – la competenza tra le più alte per sviluppare apprendimenti che sappiano caratterizzarsi anche sul versante della reciprocità.
Purtroppo però, a differenza di quanto avviene nei contesti espressivi altri – del teatro soprattutto – si evidenzia che “gli insegnanti sono stati e rimangono spesso ben lontani da una utilizzazione riflessa delle intonazioni dei gesti e della mimica”.

Un tema generale che attraversa tutto il libro – e per questo mi è parso ovvio partire per queste considerazioni dai ragionamenti di Micael Schartz – è certamente la formazione dell’attore-insegnante, opportunamente considerata necessaria, urgente e mirata.

Al riguardo vale la pena riportare, dalle ultime pagine del libro, una frase suggestiva di Rivoltella[8] evidentemente assunta, sul tema, come direzione di lavoro e, insieme, traguardo: “Occorre passare sempre più da un insegnante seduto, solo testa, che comunica verbalmente a un insegnante attore-testa corpo-cuore che comunica con il gesto, con la mimica, con la voce, con il modo di disporsi nello spazio e di muoversi in esso. Occorre recuperare cioè la dimensione attoriale dell’insegnamento, di appropriarsi di tecniche che non sono più insegnate proprio perché l’idea della professione prevalente è un’altra, quella di un impiegato e non di un ‘capo comico’ con la sua ‘compagnia’”.

La considerazione della Bertocchi nelle pagine finali rende ancora più interessante il discorso della formazione di tipo attoriale per gli insegnanti: “Conoscere e padroneggiare i vari strumenti espressivi e comunicativi non costituisce solo un potenziamento della propria professionalità ma è un atto di rispetto nei confronti dei propri studenti che ogni giorno hanno diritto di fruire di una rappresentazione ragionevole e sensata e coinvolgente”. (corsivo mio).

Considerazione quest’ultima che si accompagna alla segnalazione del Centro Teatrale Bresciano (CTB) che offre percorsi di formazione finalizzati a “rendere consapevole il docente del suo agire contestualizzato”, sviluppando capacità di autoanalisi e autoregolazione e di riflessione sulla propria esperienza.

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[2] Nella psicologia dell’apprendimento degli anni 70, copione indica – come ci ricorda Maviglia – l’insieme delle azioni che si compiono in un determinato contesto per raggiungere determinati scopi.

[3] Tra gli altri, Argyle, Schon, De landsheer e Delchambre, Wenger e Lave, Perrenoud, Goffman, Watzlawick. Tra gli italiani, soprattutto Bonfiglio, Gallino, De Bartlomeis, Rivoltella, Margiotta, Pizzorno, Riva, Simeone.

[4] Da D. Simeone, La consulenza educativa, Vita e pensiero, 2011. Cit. a p. 85.

[5] Pag. 90

[6] Trattata dal sociologo americano Erving Goffman nell’opera La vita quotidiana come rappresentazione, citata a p.15.

[7] Vengono soprattutto citati Argyle  e Corsi, i cui testi di riferimento sono riportati, rispettivamente nelle note alle pp. 17 e 13

[8] A p. 122.