Dall’Ucraina, la pedagogia del coraggio

di Raffaele Iosa

Nel video pubblicato nel canale youtube di Gessetti Colorati riporto una notizia per me strabiliante: moltissimi insegnanti ucraini si collegano in Dad con i loro ragazzi sparsi per l’Europa.
E’ proprio una pedagogia del coraggio che fa onore a questi colleghi.

Ho ricevuto numerose richieste di informazioni e se si può sapere di più, per avere la necessaria armonizzazione tra la loro Dad e la nostra accoglienza a scuola.


Riporto qui tre primi casi interessanti raccolti, omettendo informazioni delicate (es. da quale città parte la Dad), utili a comprendere che siamo davanti ad un evento pedagogico straordinario.
Continuo a pensare a Svetlana, Olga, Katiusha, Oleg che dai loro rifugi nascosti si collegano con i loro ragazzi. Una pedagogia europea del coraggio che ci insegna molte cose.

DALLA ROMAGNA

Due fratelli, uno primaria (cl. 1-4), l’altro media (cl. 5-9) si collegano ogni mattina con un insegnante che manda 15 minuti prima un messaggio di avvio. Tre ore di diverse “lezioni”, con rotazione degli insegnanti. I due ragazzi vivono con grande partecipazione queste “lezioni”, rivedono i compagni (quasi tutti presenti), ci sono scambi di informazioni semplici e rinforzanti.
La “Dad” è organizzata dalla scuola, non dai singoli insegnanti, segno che c’è una volontà collettiva di realizzare questo impegno, quanto mai gradito dai ragazzi. La scuola romagnola offre per queste tre ore spazi tecnologicamente attrezzati anche con un grande schermo per lavorare meglio. Domani le insegnanti italiane cercheranno di parlare con le colleghe ucraine per “fare squadra” e soprattutto condividere le comuni emozioni di accoglienza. Così la scuola romagnola saprà anche meglio cosa fare per loro a scuola e nel tempo libero, anche in previsione dei patti di comunità per l’estate, per offrire ai ragazzi ucraini opportunità e amicizia.
Visto che la scuola è vicina a casa mia, in settimana vado a salutare i ragazzi e le loro maestre.

DALL’EMILIA

Due fratelli ucraini con la madre. L’iniziativa delle lezioni in Dad non è delle maestre ma della scuola. Per il più piccolo ci sono due maestre, una che trasmette tutti i giorni e un’altra che insegna inglese, informatica ed ed. fisica.
Il fratello maggiore invece segue un programma allargato. Tutti gli insegnanti (fisica, algebre/geometria, biologia, inglese, letteratura …) si collegano. Non hanno un calendario o un orario fisso, ma riescono tutti i giorni. a collegarsi. Non si sa da dove lo fanno e interrompono la lezione solo in caso di sirena per bombardamenti.
Il maggiore ama fare sport, e quindi ci stanno pensando ad offrire opportunità. Si collegano alla Dad dalla scuola italiana frequentata in questi giorni, e poi svolgeranno con noi le altre attività considerate utili a completare il loro curricolo. Ma prima, ovviamente, viene il loro re-incontrare gli insegnanti e gli amici.

DALLA CAMPANIA

Una madre ucraina con due figli è ospitata da un’ insegnante italiana. I bambini non si sono ancora iscritti a nessuna scuola perchè frequentano le lezioni a distanza ucraine. La loro scuola, un gimnasium, ha organizzato la didattica on line. Hanno anche un planning di lezioni. Tutte le insegnanti dei figli stanno tenendo le lezioni da varie parti (una dalla Polonia). Stanno anche seguendo le lezioni per le certificazioni linguistiche.
Come si vede da questi primi piccoli esempi, ci sono diverse risposte, tutte con segnali di un grande impegno delle scuole ucraine a continuare a seguire i propri ragazzi. Un impegno nato dal basso e che non ha “chiesto il permesso” alle scuole ospitanti all’estero per iniziare. Le insegnanti espatriate partecipano anche loro.
Un grande coraggio. Segno di una solidarietà pedagogica e di una cura dei ragazzi ammirevole, se si tiene conto da dove e come partono questi contatti.
Dobbiamo tenerne conto per una scuola “a doppio binario”, per armonizzare i loro contatti con i compagni e gli insegnanti ucraini con cosa noi potremmo offrire loro per un’accoglienza scolastica e umana efficace.
Mi farebbe piacere raccogliere qui altre storie come queste. Farle circolare è strumento utile per noi italiani a comprendere come offrire una migliore accoglienza possibile.
Aspetto quindi, se ne avete, racconti ulteriori da socializzare.




L’ipocrisia ai tempi della guerra

di Mario Maviglia

Chiedo scusa se questo intervento può risultare duro se non addirittura cinico. Mi difendo dicendo che quanto sta succedendo in questo periodo è ancora più duro e cinico.
Il conflitto tra Russia e Ucraina ha messo in luce una mole impressionante di comportamenti ipocriti a vari livelli.

1. Partiamo da quello più vicino al mondo della scuola.
Migliaia di bambini/e e ragazzi/e ucraini/e sono stati accolti (fortunatamente) in Italia come profughi e possono in tal modo avere protezione, assistenza e frequentare la scuola. Per accogliere i profughi ucraini vi è stata una mobilitazione di solidarietà come non si è mai vista in Italia, almeno per quanto riguarda i fenomeni migratori. Eppure nel corso degli ultimi decenni vi sono stati movimenti migratori che hanno massicciamente interessato il nostro Paese, ma non sempre l’accoglienza è stata così solerte e solidaristica, nemmeno nei confronti dei bambini, che pure provenivano da zone dilaniate dalla guerra (Afghanistan, Siria, Iraq, per citarne alcune). Anzi, alcune forze politiche hanno fatto del contrasto all’accoglienza dei migranti (anche provenienti da zone di guerra) la loro parola d’ordine.
Questo comportamento schizofrenico (ipocritamente schizofrenico) può essere spiegato, almeno in parte, dal fatto che i bambini provenienti dall’Ucraini sono bianchi, biondi, occhi azzurri, cristiani ancorché ortodossi, mentre quelli dei Paesi citati sono di pelle scura, capelli scuri, occhi neri, di religione musulmana. Vi sono sicuramente altre ragioni legate alla specifica posizione geopolitica dell’Ucraina e ai particolari rapporti che ha (o tenta di avere) con l’UE e i Paesi occidentali.


Quello che qui si vuole sottolineare è il diverso trattamento che viene riservato ad altre infanzie, altrettanto sfortunate e in pericolo, come se la retorica dell’accoglienza fosse ammantata di un sottile razzismo che classifica inconsapevolmente (?) i bambini in persone di serie A e di serie B.

2. Qualche giorno fa la Camera dei Deputati ha approvato, a larghissima maggioranza, l’aumento delle spese militari per 13 miliardi di euro.
Con questa somma potrebbero essere costruiti circa 4500 nuovi asili nido, o, se si dovessero riadattare edifici già esistenti, un numero ancora più alto. Oppure si potrebbero abbassare le rette per la frequenza degli stessi asili. Secondo un’indagine condotta da Altroconsumo e riportata sul Corriere della sera on line del 13/03/2022  il costo per la frequenza di un asilo nido privato va da 480 a 620 euro al mese. Milano è la città più cara tra le otto esaminate (Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma e Torino) su 350 nidi coinvolti. Eppure la legge 107/2015 e il successivo decreto legislativo 65 del 2017 miravano proprio ad abbattere le rette di frequenza e ampliare il servizio educativo per portarlo al 33% dei potenziali utenti, secondo quanto fissato dalla UE.
Questo obiettivo appare ancora lontano dall’essere raggiunto; in compenso si aumentano le spese militari. Anche in questo caso assistiamo a una grande rappresentazione ipocrita quando si pontifica sull’attenzione da riservare all’infanzia a fronte di scelte politiche che vanno in una direzione opposta; o quando ci si meraviglia che il nostro Paese presenta un tasso di natalità tra i più bassi al mondo. Difficile incentivare la nascita di figli aumentando le spese militari.

3. In questo periodo siamo stati letteralmente investiti da una mole enorme di immagini di guerra attraverso i vari TG, inframmezzati da messaggi pubblicitari di vario tipo in un mix consumistico dove il carrarmato colpito da un missile cedeva il posto all’ultimo modello di auto ibrida e viceversa.
L’aspetto più ipocritamente sconcertante nelle “analisi” dei vari giornalisti è il loro stupore nel registrare distruzione e morte. Ma la guerra ha proprio questo scopo. Forse occorre ricordare, parafrasando Mao, che “la guerra non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La guerra è un atto di violenza.”
L’unico antidoto alla guerra è la pace: ma di questo nei vari TG si parla poco, troppo preoccupati a spettacolarizzare e ad esibire sconcerto davanti al dolore e alla morte. La scuola ne può parlare, e forse può anche educare alla pace, o almeno tentare di farlo. Non è un lavoro semplice perché anche in questo caso occorre andare oltre il generico e ipocrita auspicio del “volersi bene” sapendo che non a tutti si vuole o si può voler bene. Il problema, semmai, è quello di creare un contesto di relazione e di apprendimento dove questi aspetti negativi possano essere percepiti, discussi, analizzati e governati. Sotto questo profilo la scuola può essere una grande palestra di democrazia e di comprensione, se riconosce gli aspetti “bellicosi” che albergano negli alunni e se predispone itinerari formativi per incanalare questi comportamenti in una dimensione di convivenza civile avendo la chiara consapevolezza che costruire è più difficile che distruggere.




Divagazioni e frammenti di riflessione sulla scuola e sui giovani

di Raimondo Giunta

• Per apprendimenti significativi e duraturi ci vuole del tempo e della pazienza, ma a scuola si ha sempre fretta e ci sono tante scadenze, tanti impegni da onorare; tanti progetti da portare a compimento. Al posto della riflessione regna sovrana la concitazione.
E’ forse questa la causa che impedisce di prestare la dovuta attenzione ad ogni alunno; è forse questo il motivo per cui è ancora alta la dispersione. Ma su questo problema non mi pare che si abbia voglia di capire e di andare fino in fondo.

• Una scuola è davvero scuola di democrazia, se non lascia nessuno indietro e se gli insegnanti si impegnano, affinchè tutti gli alunni posseggano i saperi indispensabili per orientarsi nella vita. Lavorare per raggiungere questo scopo non significa abbassare il livello delle esigenze, ma scegliere la condivisione, piuttosto che la discriminazione; significa volere il successo di tutti e non quello di una minoranza. Gli alunni in difficoltà, come dice Meirieu, rendono un servizio immenso agli insegnanti e ai compagni, perchè li rendono consapevoli dei problemi che bisogna affrontare per crescere e andare avanti. E molti alunni a scuola sono in difficoltà, perchè spesso sono arbitrarie le mete che si dovrebbero raggiungere, arbitrari i livelli da superare, non adeguati i metodi di insegnamento.
• Educazione buona, oggi, significa porre attenzione alle dimensioni affettive e spirituali della persona. A molti ragazzi manca l’affettività della famiglia, ma non dovrebbe mancare quella della scuola. Bisogna preoccuparsi della formazione degli alunni, ma anche dei problemi della loro esistenza. Il mondo è talmente cambiato che i giovani devono reinventarsi tutto (M. Serres)e non possono essere lasciati soli.• Senza la voglia di imparare non si produce apprendimento; non c’è in giuoco , però, solo l’elemento intellettuale, cognitivo e la mancanza di motivazioni nello studio non è solo un problema pedagogico -scolastico. Bisognerebbe essere capaci di trasformare gli scopi della formazione in interessi presenti e quotidiani.
• Bisogna allenare i giovani a sapere utilizzare l’immenso capitale culturale parallelo ed esterno a quello della scuola; farli diventare capaci di discernimento e di selezione delle informazioni. L’educazione e l’istruzione sono oggi una sfida difficile, ma sono le uniche alternative alla stupidità e alla violenza, alla seduzione dei media che non danno conoscenza. La scuola sia per i giovani, che vivono immersi nella realtà virtuale, l’incontro con le cose, le persone, le tradizioni e i valori del mondo circostante. Senza farsi molte illusioni. Lo sviluppo delle sole qualità intellettuali può non avere alcuna influenza sui tratti morali di una persona.
• Si richiedono ai giovani capacità di iniziativa, attitudini al lavoro di gruppo e alla collaborazione, senso di responsabilità; ma come possono acquisirli se in classe si crea un clima competitivo individualistico e si lavora con una didattica autoritaria?
D’altra parte l’educazione al senso di responsabilità non compete solo alla scuola, perché se dovesse appartenere solo alla scuola, non si andrebbe molto lontano con tanti cattivi esempi nelle istituzioni e nella società.
• Il mondo giovanile che riempie la scuola è diventato complesso e a volte indecifrabile a motivo della sua sempre più frastagliata composizione sociale, della sua diversa provenienza nazionale, della sua molteplice appartenenza religiosa. Nella società multietnica e multiculturale è improponibile un solo modello indiscutibile di razionalità, di cultura e di umanità; a scuola non ci dovrebbero essere mondi da civilizzare; l’etno-centrismo delle nostre tradizioni scolastiche non è un fattore di integrazione e andrebbe seriamente discusso.
• E’ cresciuta in modo esponenziale l’insofferenza giovanile verso la scuola, perchè molti non sono preparati a vivervi dentro e ad accettarne regole e ritmi.
E’ cospicua la parte dei giovani che abituati a casa ad un regime di vita di assoluta libertà, a scuola non riescono a trovarsi a proprio agio e ad accettare quelle limitazioni che consentono di potere svolgere regolarmente le attività di formazione. A scuola è necessario che tutti si riconoscano vincolati, per potere stare insieme, da quei principi che consentono nello stesso tempo di rispettare le altrui esigenze e le proprie; gli altrui convincimenti e i propri e che lo spazio comune di convivenza sia gelosamente delimitato e difeso.
• Bisogna chiedersi che tipo d’uomo e di società si vuole. Il primo dei compiti della scuola è quello di dare gli strumenti ai giovani per costruire il proprio progetto di vita, per potere partecipare alla vita democratica. Non si diviene umani da soli, ma con l’educazione che ci rende membri di diritto, eredi consapevoli del patrimonio di conoscenze e di valori della società a cui si appartiene ed oggi persone accoglienti, dialoganti, aperte alla comprensione e all’accettazione delle diversità. Le differenze vanno capite, rispettate, ma non coltivate. Bisogna trovare una comune visione del futuro.




A scuola si va come si deve e non come ci pare

di Raimondo Giunta

A scuola, nei rapporti quotidiani, capita che sul modo in cui debbano vestirsi e parlare gli alunni ci possa scappare l’incidente.
Per evitare umilianti controversie e penose campagne di stampa, considerando come si è diventati, credo che debbano essere dettate delle norme precise al riguardo.
Una volta francamente non ce n’era bisogno.
Però bisogna dirlo. A tanti sembra indebito che la scuola stabilisca un minimo di regole sul modo di comportarsi e anche sul modo di vestirsi.
Per alcuni e forse per molti è importante solo che i giovani a scuola ci vadano e ci restino.
Sinite parvulos venire ad me…
E’ un’idea senz’altro accattivante, ma non credo che sia seria.
La scuola è altro rispetto alla vita e lo deve essere proprio per preparare alla vita; una realtà che deve avere le proprie regole: quelle che sembrano essere le più efficaci per mantenere le promesse che fa a chiunque entri dal suo portone d’ingresso.
Si dice in chiesa con i santi e in taverna con i briganti.
Si potrebbe citare Machiavelli che cambiava abito, quando si metteva a leggere e a scrivere.
Questa condiscendenza, ai limiti dell’irresponsabilità, non aiuta i giovani.


Credo che se a scuola trovassero insegnanti capaci di fargli assaggiare giorno per giorno il sapore del sapere, i ragazzi a scuola ci andrebbero volentieri anche con giacca e cravatta.
L’alterità delle regole della scuola rispetto a quelle della famiglia e del gruppo dei pari è condizione per collocarsi nel migliore dei modi rispetto alla responsabilità individuale di crescere e di imparare.
Quand’ero in servizio, ma erano altri tempi, non dettavo regole sull’abbigliamento, anche perché pensavo e credevo che i genitori ci tenessero a insegnare le buone maniere ai propri figlioli e che li osservassero bene e come si deve prima di vederli uscire da casa per andare a scuola.
Esercitavo, però, l’ironia su qualche eccesso degli alunni e anche degli/delle insegnanti.
Si toglievano subito il piacere di stupire con le stranezze piuttosto che con l’impegno e con i risultati.
Non so se oggi funzionerebbe e quando succedono fatti come quelli del liceo romano, ringrazio il Padreterno di essere in pensione.
A distanza di tempo incontro spesso gli alunni che diventati, ormai, genitori mi ringraziano per le scelte che allora facevo da preside.
Perché, prima o poi, anche gli studenti scapestrati diventano grandi e capiscono il senso di quello che prima non volevano accettare.




Studenti in piazza, dalli allo studente!

di Giovanni Fioravanti

E così in un solo giorno la scuola affettiva del ministro Bianchi, la comunità educante della pandemia si sono frantumate sotto i colpi dei manganelli della polizia. In un paese che non ha imparato ad essere adulto perché privo di adulti degni di questo nome.
Una generazione di adulti mai diventati tale, che scarica la propria inconsistenza in applausi, simili ad ole parlamentari, per un presidente rieletto, perché incapaci di sceglierne uno, in un record di ascolti per il festival di San Remo come catarsi della propria immaturità.

Botte, castighi, punizioni, sospensioni tutto il repertorio della pedagogia repressiva del secolo scorso e dei secoli prima. La rivincita del padre di Kafka e del metodo “Pestalozzi”.
Eppure questi studenti da anni, ancora prima della pandemia, chiedono agli adulti di essere adulti, di assumersi le loro responsabilità, di crescere, di non continuare a protrarre la loro adolescenza in un’età adulta inconcludente, priva di decisioni, perché orba di visioni, di prospettive, di sogni di futuro da condividere con le loro figlie e i loro figli.

Invece no. I giovani così complicati, così poco decifrabili dal cervello elementare di questa generazione di adulti, che a cinquant’anni sono no vax, mentre i loro “incomprensibili” figli fanno la coda agli hub per farsi vaccinare, queste generazioni “maneskin” sono la zavorra di questa società.
Pongono troppe questioni a un mondo di adulti impreparati, troppo presi a gestire loro stessi e i loro casini, a tentare di cavare fuori i piedi dalla loro vita, da non avere tempo per cercare di capire i loro figli.
Ognuno si trastulli con i propri “giochini” e non stia a creare troppi problemi. Si facciano lo spinello, facciano i bulli, stuprino pure ai festini, che tanto è roba da ragazzi che hanno bisogno di socializzare.

E ora, proprio ora la scuola con la DAD gli impedisce di stare insieme, di sfogare la loro pubertà crescendo degli psicopatici, disturbati mentalmente e nei comportamenti.
Se poi socializzano troppo occupando la scuola che, pilotata dagli adulti, si è arenata contro il muro del passato, allora giù botte, come gli schiaffoni degni dei genitori di una volta che usavano la cinghia, contravvenendo ogni principio pedagogico predicato e ostentato di educazione  libertaria da Tolstoj a Montessori, da Steiner a Alexander Neill, da Danilo Dolci a Noam Chomsky.

È un fermo immagine. Anzi, no. È il riavvolgimento della pellicola di un film che non avremmo voluto rivedere in tempi di DVD.
A leggere Recalcati pareva che dovessimo galvanizzare classi di studentesse e di studenti con il fascino erotico dei discorsi dalla cattedra. Per non parlare dei vari Galli della Loggia, Mastrocola, Ricolfi e Canfora con le loro elucubrazioni sul futuro della scuola, sarebbe il caso che si affrettassero a chiedere asilo politico dove la scuola è come la pensano loro, se sono in grado di trovare un luogo simile. Anni che la stampa e la cultura italiana con scandalosa incompetenza macinano idee a vuoto sulla formazione dei giovani in questo paese. Che si leggessero la Mission 4 del Piano Nazionale di Rinascita e Resilienza e scopriranno che il futuro della scuola italiana non è più nelle nostre mani, a riorganizzare il nostro sistema formativo ci sta pensando mamma Europa con le sue condizioni e i suoi vincoli.

Non a caso sono scesi in piazza gli studenti delle medie inferiori e delle superiori, come quelli che hanno risposto all’appello di Greta Thunberg per la salvaguardia dell’ambiente.
Dimostrando ancora una volta di essere i veri adulti, adulti prima del tempo, perché l’adultità non è una questione anagrafica, ma una questione di responsabilità, di capacità di guardare lontano, di guardare avanti.

Sono scesi in piazza perché fa tristezza pensare di essere figli di generazioni di adulti che non sono neppure capaci di fermarsi e di urlare che è un orrore, non un incidente, morire a diciott’anni durante uno stage scuola-lavoro. Un paese che non si ferma a riflettere, i grandi sindacati inerti, attoniti, come se si trattasse di uno dei tanti incidenti sul lavoro che in questo paese continuano ad alimentare le statistiche.

Che i giovani non vogliano vivere in un paese così dimostra che non mancano di uno spiccato senso della realtà, soprattutto non mancano della consapevolezza del presente.
Un mondo di adulti che poi si autoassolve, dimentica tutto dopo i riti televisivi delle bare bianche portate a spalla dai compagni. È scandaloso, è soprattutto un mondo di adulti che poi non può pretendere di dare a scuola ai suoi giovani lezioni di educazione civica, perché l’educazione civica insieme a quella etica neppure la conoscono.

Si è toccato con mano il fallimento, il fallimento di una generazione che ha distrutto la politica, messo a rischio la democrazia, condannato generazioni di figli a non avere un futuro.
E allora tutto entra in un grande calderone di confusione, scuola, lavoro, ambiente, i mali endemici del paese e del suo sistema formativo, la grande nebbia che offusca le viste.

Anche scendere in piazza a protestare non è facile quando i tuoi interlocutori non hanno la maturità oltre che l’intelligenza per capire e si difendono dietro gli scudi della polizia, dietro i provvedimenti disciplinari della scuola di sempre, dietro le denunce.
I giovani hanno realizzato che il futuro è loro e che non possono lasciarlo in mano ad una generazione di genitori inetti, di famiglie inette, di educatori, insegnanti, intellettuali inetti: platealmente non idonei.

C’è un’emergenza istruzione, come c’è un’emergenza ambiente, le due cose vanno di pari passo. Come l’hanno fatto con l’ambiente ora lo faranno con la scuola perché questa scuola sempre
identica a se stessa non funziona e loro non hanno tempo da sprecare.
L’istruzione è il capitale più prezioso che hanno da conservare ed arricchire e non certo da giocarsi in una scuola che gli vuol far credere di essere formativa, in grado di prepararli al futuro del 2030, del 2050, i numeri che danno gli adulti, imponendogli gli scritti all’immarcescibile rito dell’esame di maturità ormai divenuto solo il simbolo dell’immaturità di un intero paese e della sua classe dirigente.




Cosa significa “salvare il futuro della scuola“ ?

di Cosimo Quero

Il giornale la Repubblica, il 30 gennaio u.s., affida a un dibattito con Luciano Canfora, Paola Mastrocola, e Luca Ricolfi, il “salvataggio “(!) del “futuro della scuola“.
Chiedo al giornale la Repubblica se ritiene appropriato, preciso ed efficace, affidare tale argomento a tradizionalisti, nostalgici della vecchia scuola, (salvando il grande filologo, storico del mondo antico, Luciano Canfora).
Se con la loro (di Ricolfi e Mastrocola) “laudatio temporis acti “, sia possibile spiegare la complessita’ della situazione della scuola italiana.
La “scuola di classe, selettiva, elitaria del passato”, di cui i due Nostri propugnano il ritorno, cosa aveva prodotto, in termini di diritto allo studio e alla cultura, dei giovani provenienti dalle classi sociali più disagiate e povere?
Se ci si informa: la mortalità scolastica e la conseguente finale esclusione dalla laurea.
Sostenere ancora “la scuola progressista come macchina della disuguaglianza “, come scrivono nel loro libro, Ricolfi e Mastrocola, significa non aver letto bene la storia (gloriosa !) della Scuola italiana, né prima né dopo le grandi riforme dei Governi progressisti.

Invito i due nostri Autori a considerare le enormi innovazioni della nostra scuola, dalla primaria alla secondaria:
°L’introduzione della prima e seconda lingua straniera ;
° Lo svecchiamento dei programmi di studio;
° Le innovazioni organizzative;
° La diffusione del tempo pieno;
° La dimensione europea dell’educazione;
° L’introduzione delle nuove tecnologie, ecc.
Non si sono accorti che i limiti formativi e alcune insufficienze linguistiche degli allievi possano dipendere e risalire alle situazioni socioeconomiche delle famiglie e alla sottrazione di risorse alla scuola ad opera proprio dei Governi retrogradi di cui i due Nostri propugnano la “scuola efficace“?
Sarebbe necessario, specialmente per un sociologo come Ricolfi, entrare più spesso nelle scuole italiane e leggere bene i numeri riferiti agli studenti costretti a lavorare anche durante gli studi!
Cosa affermano i due nel dibattito con Luciano Canfora sul giornale del 30 gennaio u.s., la Repubblica:
° Si é creata, secondo Ricolfi, una maggiore diseguaglianza”.
Osservo: Consideri le statistiche del periodo precedente le riforme.
° Paola Mastrocola : “ Per aiutare chi non ce la fa si deve abbassare il livello “, come dire, si é abbassato il livello:
Osservo: Si é introdotta, invece, maggiore qualità nella scuola per far diminuire il fenomeno della dispersione scolastica .
Canfora dice, e bisognerebbe intenderlo bene: “Bisognerebbe forse prevedere una rete di insegnanti che nel pomeriggio guidano gli scolari nello svolgimento dei loro compiti “.
Ritengo di non proporre ulteriori imprecisioni storiche e tecniche da passatisti retrogradi !
Ai due Nostri dico solo: esaminate la provenienza sociale, la situazione familiare a monte, la politica scolastica di certi governi (quelli sì, per una scuola elitaria; per intenderci, quelli che hanno tagliato i fondi alla scuola e all’università); l’impossibilità a mantenersi all’Università
di molti giovani costretti al lavoro prematuro; la politica scolastica, a volte assente, a volte sbagliata di molti Enti locali; et similia.
Per comprendere che non è nella scuola (almeno non sempre e non solo!) che occorre rinvenire le cause degli insuccessi.
Se poi il confronto delle ricerche sul successo\insuccesso scolastico degli studenti avviene con i Paesi europei, allora, signori Autori della “Scuola progressista come macchina della diseguaglianza”, andate a vedere quali sono le condizioni operative dei docenti europei, rispetto a quelli italiani; andate a vedere le strutture edilizie e le attrezzature didattiche, nonché i tempi e le durate degli insegnamenti.
Sul piano logico non regge: non c’é nesso causale tra “suola progressista” e ritardo\insuccesso nella formazione !!
I nostri docenti subiscono le insufficienze della politica “non progressista “. Sono le vittime, signori miei!




Istruire è diverso da forgiare (a proposito delle competenze non cognitive)

di  Giuseppe Bagni
(per gentile concessione dell’autore della Associazione CIDI)

Si fa fatica a commentare il Ddl approvato alla Camera l’11 gennaio scorso che vuole l’introduzione di competenze non cognitive nei percorsi formativi. Verrebbe voglia di fermarsi a una alzata di spalle, scuotere la testa in sala insegnanti e continuare il proprio lavoro nella scuola reale.
Quella che evidentemente è sconosciuta nelle sedi parlamentari. Eppure si deve commentare, perché la deriva verso cui si sta andando è grave e non può essere ignorata né minimizzata. La proposta approvata nel primo passaggio parlamentare mette in evidenza la convinzione che la scuola debba ammodernarsi rompendo il dominio del cognitivo e del formale per essere, come ha dichiarato Valentina Aprea, “volano delle economie innovative e creative, per poter consentire crescita, sviluppo e risoluzione dei problemi del nostro tempo in una prospettiva originale…”
Il propugnare un qualunque livello di originalità risulta paradossale se confrontato con il progetto di mettere le mani fin nella sfera più interna degli allievi per forgiarne il carattere.
Come se l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura mentale fossero attitudini insegnabili direttamente dalla cattedra invece che il risultato della metabolizzazione personale delle conoscenze acquisite, dei legami costruiti, delle testimonianze offerte loro nella scuola.
Una scuola secondo Costituzione non forgia il carattere, non cerca elementi di valutazione nell’animo dei suoi allievi; crea e offre le condizioni per favorire “lo sviluppo armonico e integrale della persona”.
Le competenze non cognitive non sono oggetti misteriosi per la scuola: le norme e i suoi documenti vi fanno riferimento da molti anni.

Quando si parla di partecipazione, di cooperazione per il conseguimento di obiettivi comuni, oppure di capacità di iniziativa autonoma, di utilizzo delle risorse per risolvere un problema, di cosa si parla se non ci competenze non cognitive? Ma collaborazione, consapevolezza del compito, rispetto delle regole comuni sono qualità osservabili (e indubbiamente da osservare e valutare) nel processo di apprendimento di ciascun allievo.
Sono le soft skills di cui tanto si parla che sicuramente la scuola deve sviluppare perché importanti per il successo scolastico e fondamentali per la formazione del cittadino.
Ma altra cosa è saccheggiare la psicologia della personalità per proporre character skills che fanno riferimento alla personalità di ciascuno.
Vogliono i parlamentari che la scuola insegni in base ai livelli “giusti” di estroversione, di creatività, di stabilità emotiva degli allievi? E chi li stabilisce? Questa è un’ipotesi degna di un film distopico. Che le character skills siano l’ultima novità alla base dei test del mondo produttivo centrati sulla valutazione della personalità dei candidati non fa altro che confermare la forza (purtroppo crescente) della visione che vuole la scuola suddita delle logiche economiche.
Colpisce l’unanimità del voto in favore del disegno di legge perché dimostra una volta di più quanto sia diffusa l’ignoranza sulle norme della scuola, ma soprattutto allarma che non ci si sia resi conto che in gioco qui non è la riaffermazione, abbastanza scontata, che vi sia la necessità di curare la persona nella sua interezza e integrità, ma una precisa visione di scuola che vuole l’abbandono della cosiddetta “egemonia del cognitivo”, seguendo le tesi di alcuni teorici che vorrebbero la scuola centrata sulle character skills integrate con un “cognitivo” limitato al classico saper leggere, scrivere e far di conto, con l’aggiunta dell’informatica e dell’inglese.
Questa sarebbe la modernità? No, sarebbe la fine della scuola pubblica e il tradimento del suo mandato costituzionale. Qui non si vuol difendere la scuola così com’è: la scuola ha bisogno di cambiare per svolgere il compito che la Costituzione le ha assegnato, ma l’innovazione necessaria non è quella sottesa alla visione che sta dietro (e nemmeno tanto nascosta) alla proposta propugnata nel disegno.
La scuola deve educare la persona, offrendo il contesto migliore per il libero sviluppo della personalità, valorizzando le dimensioni relazionali ed emozionali di chi apprende. Ma educa solo se istruisce. Se qualcuno vede in questo l’egemonia del cognitivo, pace. Questa è la scuola della Costituzione. Solo se insegniamo a formalizzare l’esperienza che si fa del mondo mettendo a disposizione i diversi sguardi delle discipline si può sviluppare le potenzialità di ciascuno, valorizzando il patrimonio informale e non-formale che ogni allievo e allieva porta nel suo zaino in classe.
E qui si apre un altro tema: cosa sono i nostri studenti? Una tabula rasa da modellare secondo le esigenze del mercato? Sono anime perse, soggetti pericolosi da plasmare? Personaggi in cerca di autore? No, sono gli autori. La sceneggiatura spetta a loro.
La scuola non può essere il luogo della normalizzazione e omologazione. Non può darsi l’obiettivo di un loro adattamento al “possibile” – qui e ora – che disperda l’immensa risorsa del “pensabile” per il loro futuro. Che poi è quello di tutti noi.