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Dall’Ucraina, la pedagogia del coraggio

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di Raffaele Iosa

Nel video pubblicato nel canale youtube di Gessetti Colorati riporto una notizia per me strabiliante: moltissimi insegnanti ucraini si collegano in Dad con i loro ragazzi sparsi per l’Europa.
E’ proprio una pedagogia del coraggio che fa onore a questi colleghi.

Ho ricevuto numerose richieste di informazioni e se si può sapere di più, per avere la necessaria armonizzazione tra la loro Dad e la nostra accoglienza a scuola.


Riporto qui tre primi casi interessanti raccolti, omettendo informazioni delicate (es. da quale città parte la Dad), utili a comprendere che siamo davanti ad un evento pedagogico straordinario.
Continuo a pensare a Svetlana, Olga, Katiusha, Oleg che dai loro rifugi nascosti si collegano con i loro ragazzi. Una pedagogia europea del coraggio che ci insegna molte cose.

DALLA ROMAGNA

Due fratelli, uno primaria (cl. 1-4), l’altro media (cl. 5-9) si collegano ogni mattina con un insegnante che manda 15 minuti prima un messaggio di avvio. Tre ore di diverse “lezioni”, con rotazione degli insegnanti. I due ragazzi vivono con grande partecipazione queste “lezioni”, rivedono i compagni (quasi tutti presenti), ci sono scambi di informazioni semplici e rinforzanti.
La “Dad” è organizzata dalla scuola, non dai singoli insegnanti, segno che c’è una volontà collettiva di realizzare questo impegno, quanto mai gradito dai ragazzi. La scuola romagnola offre per queste tre ore spazi tecnologicamente attrezzati anche con un grande schermo per lavorare meglio. Domani le insegnanti italiane cercheranno di parlare con le colleghe ucraine per “fare squadra” e soprattutto condividere le comuni emozioni di accoglienza. Così la scuola romagnola saprà anche meglio cosa fare per loro a scuola e nel tempo libero, anche in previsione dei patti di comunità per l’estate, per offrire ai ragazzi ucraini opportunità e amicizia.
Visto che la scuola è vicina a casa mia, in settimana vado a salutare i ragazzi e le loro maestre.

DALL’EMILIA

Due fratelli ucraini con la madre. L’iniziativa delle lezioni in Dad non è delle maestre ma della scuola. Per il più piccolo ci sono due maestre, una che trasmette tutti i giorni e un’altra che insegna inglese, informatica ed ed. fisica.
Il fratello maggiore invece segue un programma allargato. Tutti gli insegnanti (fisica, algebre/geometria, biologia, inglese, letteratura …) si collegano. Non hanno un calendario o un orario fisso, ma riescono tutti i giorni. a collegarsi. Non si sa da dove lo fanno e interrompono la lezione solo in caso di sirena per bombardamenti.
Il maggiore ama fare sport, e quindi ci stanno pensando ad offrire opportunità. Si collegano alla Dad dalla scuola italiana frequentata in questi giorni, e poi svolgeranno con noi le altre attività considerate utili a completare il loro curricolo. Ma prima, ovviamente, viene il loro re-incontrare gli insegnanti e gli amici.

DALLA CAMPANIA

Una madre ucraina con due figli è ospitata da un’ insegnante italiana. I bambini non si sono ancora iscritti a nessuna scuola perchè frequentano le lezioni a distanza ucraine. La loro scuola, un gimnasium, ha organizzato la didattica on line. Hanno anche un planning di lezioni. Tutte le insegnanti dei figli stanno tenendo le lezioni da varie parti (una dalla Polonia). Stanno anche seguendo le lezioni per le certificazioni linguistiche.
Come si vede da questi primi piccoli esempi, ci sono diverse risposte, tutte con segnali di un grande impegno delle scuole ucraine a continuare a seguire i propri ragazzi. Un impegno nato dal basso e che non ha “chiesto il permesso” alle scuole ospitanti all’estero per iniziare. Le insegnanti espatriate partecipano anche loro.
Un grande coraggio. Segno di una solidarietà pedagogica e di una cura dei ragazzi ammirevole, se si tiene conto da dove e come partono questi contatti.
Dobbiamo tenerne conto per una scuola “a doppio binario”, per armonizzare i loro contatti con i compagni e gli insegnanti ucraini con cosa noi potremmo offrire loro per un’accoglienza scolastica e umana efficace.
Mi farebbe piacere raccogliere qui altre storie come queste. Farle circolare è strumento utile per noi italiani a comprendere come offrire una migliore accoglienza possibile.
Aspetto quindi, se ne avete, racconti ulteriori da socializzare.

L’ipocrisia ai tempi della guerra

di Mario Maviglia

Chiedo scusa se questo intervento può risultare duro se non addirittura cinico. Mi difendo dicendo che quanto sta succedendo in questo periodo è ancora più duro e cinico.
Il conflitto tra Russia e Ucraina ha messo in luce una mole impressionante di comportamenti ipocriti a vari livelli.

1. Partiamo da quello più vicino al mondo della scuola.
Migliaia di bambini/e e ragazzi/e ucraini/e sono stati accolti (fortunatamente) in Italia come profughi e possono in tal modo avere protezione, assistenza e frequentare la scuola. Per accogliere i profughi ucraini vi è stata una mobilitazione di solidarietà come non si è mai vista in Italia, almeno per quanto riguarda i fenomeni migratori. Eppure nel corso degli ultimi decenni vi sono stati movimenti migratori che hanno massicciamente interessato il nostro Paese, ma non sempre l’accoglienza è stata così solerte e solidaristica, nemmeno nei confronti dei bambini, che pure provenivano da zone dilaniate dalla guerra (Afghanistan, Siria, Iraq, per citarne alcune). Anzi, alcune forze politiche hanno fatto del contrasto all’accoglienza dei migranti (anche provenienti da zone di guerra) la loro parola d’ordine.
Questo comportamento schizofrenico (ipocritamente schizofrenico) può essere spiegato, almeno in parte, dal fatto che i bambini provenienti dall’Ucraini sono bianchi, biondi, occhi azzurri, cristiani ancorché ortodossi, mentre quelli dei Paesi citati sono di pelle scura, capelli scuri, occhi neri, di religione musulmana. Vi sono sicuramente altre ragioni legate alla specifica posizione geopolitica dell’Ucraina e ai particolari rapporti che ha (o tenta di avere) con l’UE e i Paesi occidentali.

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Divagazioni e frammenti di riflessione sulla scuola e sui giovani

di Raimondo Giunta

• Per apprendimenti significativi e duraturi ci vuole del tempo e della pazienza, ma a scuola si ha sempre fretta e ci sono tante scadenze, tanti impegni da onorare; tanti progetti da portare a compimento. Al posto della riflessione regna sovrana la concitazione.
E’ forse questa la causa che impedisce di prestare la dovuta attenzione ad ogni alunno; è forse questo il motivo per cui è ancora alta la dispersione. Ma su questo problema non mi pare che si abbia voglia di capire e di andare fino in fondo.

• Una scuola è davvero scuola di democrazia, se non lascia nessuno indietro e se gli insegnanti si impegnano, affinchè tutti gli alunni posseggano i saperi indispensabili per orientarsi nella vita. Lavorare per raggiungere questo scopo non significa abbassare il livello delle esigenze, ma scegliere la condivisione, piuttosto che la discriminazione; significa volere il successo di tutti e non quello di una minoranza. Gli alunni in difficoltà, come dice Meirieu, rendono un servizio immenso agli insegnanti e ai compagni, perchè li rendono consapevoli dei problemi che bisogna affrontare per crescere e andare avanti. E molti alunni a scuola sono in difficoltà, perchè spesso sono arbitrarie le mete che si dovrebbero raggiungere, arbitrari i livelli da superare, non adeguati i metodi di insegnamento.
• Educazione buona, oggi, significa porre attenzione alle dimensioni affettive e spirituali della persona. A molti ragazzi manca l’affettività della famiglia, ma non dovrebbe mancare quella della scuola. Bisogna preoccuparsi della formazione degli alunni, ma anche dei problemi della loro esistenza. Il mondo è talmente cambiato che i giovani devono reinventarsi tutto (M. Serres)e non possono essere lasciati soli. Continua a leggere

A scuola si va come si deve e non come ci pare

di Raimondo Giunta

A scuola, nei rapporti quotidiani, capita che sul modo in cui debbano vestirsi e parlare gli alunni ci possa scappare l’incidente.
Per evitare umilianti controversie e penose campagne di stampa, considerando come si è diventati, credo che debbano essere dettate delle norme precise al riguardo.
Una volta francamente non ce n’era bisogno.
Però bisogna dirlo. A tanti sembra indebito che la scuola stabilisca un minimo di regole sul modo di comportarsi e anche sul modo di vestirsi.
Per alcuni e forse per molti è importante solo che i giovani a scuola ci vadano e ci restino.
Sinite parvulos venire ad me…
E’ un’idea senz’altro accattivante, ma non credo che sia seria.
La scuola è altro rispetto alla vita e lo deve essere proprio per preparare alla vita; una realtà che deve avere le proprie regole: quelle che sembrano essere le più efficaci per mantenere le promesse che fa a chiunque entri dal suo portone d’ingresso.
Si dice in chiesa con i santi e in taverna con i briganti.
Si potrebbe citare Machiavelli che cambiava abito, quando si metteva a leggere e a scrivere.
Questa condiscendenza, ai limiti dell’irresponsabilità, non aiuta i giovani.

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Studenti in piazza, dalli allo studente!

di Giovanni Fioravanti

E così in un solo giorno la scuola affettiva del ministro Bianchi, la comunità educante della pandemia si sono frantumate sotto i colpi dei manganelli della polizia. In un paese che non ha imparato ad essere adulto perché privo di adulti degni di questo nome.
Una generazione di adulti mai diventati tale, che scarica la propria inconsistenza in applausi, simili ad ole parlamentari, per un presidente rieletto, perché incapaci di sceglierne uno, in un record di ascolti per il festival di San Remo come catarsi della propria immaturità.

Botte, castighi, punizioni, sospensioni tutto il repertorio della pedagogia repressiva del secolo scorso e dei secoli prima. La rivincita del padre di Kafka e del metodo “Pestalozzi”.
Eppure questi studenti da anni, ancora prima della pandemia, chiedono agli adulti di essere adulti, di assumersi le loro responsabilità, di crescere, di non continuare a protrarre la loro adolescenza in un’età adulta inconcludente, priva di decisioni, perché orba di visioni, di prospettive, di sogni di futuro da condividere con le loro figlie e i loro figli.

Invece no. I giovani così complicati, così poco decifrabili dal cervello elementare di questa generazione di adulti, che a cinquant’anni sono no vax, mentre i loro “incomprensibili” figli fanno la coda agli hub per farsi vaccinare, queste generazioni “maneskin” sono la zavorra di questa società.
Pongono troppe questioni a un mondo di adulti impreparati, troppo presi a gestire loro stessi e i loro casini, a tentare di cavare fuori i piedi dalla loro vita, da non avere tempo per cercare di capire i loro figli.
Ognuno si trastulli con i propri “giochini” e non stia a creare troppi problemi. Si facciano lo spinello, facciano i bulli, stuprino pure ai festini, che tanto è roba da ragazzi che hanno bisogno di socializzare.

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Cosa significa “salvare il futuro della scuola“ ?

di Cosimo Quero

Il giornale la Repubblica, il 30 gennaio u.s., affida a un dibattito con Luciano Canfora, Paola Mastrocola, e Luca Ricolfi, il “salvataggio “(!) del “futuro della scuola“.
Chiedo al giornale la Repubblica se ritiene appropriato, preciso ed efficace, affidare tale argomento a tradizionalisti, nostalgici della vecchia scuola, (salvando il grande filologo, storico del mondo antico, Luciano Canfora).
Se con la loro (di Ricolfi e Mastrocola) “laudatio temporis acti “, sia possibile spiegare la complessita’ della situazione della scuola italiana.
La “scuola di classe, selettiva, elitaria del passato”, di cui i due Nostri propugnano il ritorno, cosa aveva prodotto, in termini di diritto allo studio e alla cultura, dei giovani provenienti dalle classi sociali più disagiate e povere?
Se ci si informa: la mortalità scolastica e la conseguente finale esclusione dalla laurea.
Sostenere ancora “la scuola progressista come macchina della disuguaglianza “, come scrivono nel loro libro, Ricolfi e Mastrocola, significa non aver letto bene la storia (gloriosa !) della Scuola italiana, né prima né dopo le grandi riforme dei Governi progressisti.

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Istruire è diverso da forgiare (a proposito delle competenze non cognitive)

di  Giuseppe Bagni
(per gentile concessione dell’autore della Associazione CIDI)

Si fa fatica a commentare il Ddl approvato alla Camera l’11 gennaio scorso che vuole l’introduzione di competenze non cognitive nei percorsi formativi. Verrebbe voglia di fermarsi a una alzata di spalle, scuotere la testa in sala insegnanti e continuare il proprio lavoro nella scuola reale.
Quella che evidentemente è sconosciuta nelle sedi parlamentari. Eppure si deve commentare, perché la deriva verso cui si sta andando è grave e non può essere ignorata né minimizzata. La proposta approvata nel primo passaggio parlamentare mette in evidenza la convinzione che la scuola debba ammodernarsi rompendo il dominio del cognitivo e del formale per essere, come ha dichiarato Valentina Aprea, “volano delle economie innovative e creative, per poter consentire crescita, sviluppo e risoluzione dei problemi del nostro tempo in una prospettiva originale…”
Il propugnare un qualunque livello di originalità risulta paradossale se confrontato con il progetto di mettere le mani fin nella sfera più interna degli allievi per forgiarne il carattere.
Come se l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura mentale fossero attitudini insegnabili direttamente dalla cattedra invece che il risultato della metabolizzazione personale delle conoscenze acquisite, dei legami costruiti, delle testimonianze offerte loro nella scuola.
Una scuola secondo Costituzione non forgia il carattere, non cerca elementi di valutazione nell’animo dei suoi allievi; crea e offre le condizioni per favorire “lo sviluppo armonico e integrale della persona”.
Le competenze non cognitive non sono oggetti misteriosi per la scuola: le norme e i suoi documenti vi fanno riferimento da molti anni.

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