Bambini di Ukrajna in Italia. Oltre lo sconcertante silenzio sulla pedagogia del ritorno

di Raffaele Iosa

Ho aspettato fino alla riapertura delle scuole, sperando che qualcosa si dicesse. Capisco la complicata situazione italiana di questi ultimi tre mesi, dal caldo torrido, alla crisi di governo, al rincaro delle bollette. Capisco tutto,  ma il silenzio del Ministero Istruzione sui bambini e ragazzi ucraini accolti nelle nostre scuole da marzo scorso  è sconcertante. Per carità, non sempre è necessario che il Ministero dica qualcosa perché le scuole lavorino con buon senso (anzi!), ma toccano a lui gli accordi internazionali con il governo ucraino per eventuali collaborazioni pedagogiche sul destino dei ragazzi da noi accolti, in attesa del ritorno.

E’ dunque per me necessario risollevare la questione, per comprendere se il neologismo  “pedagogia del ritorno”,  condiviso da molti come chiave  di questa accoglienza, fosse ancora vivo o se si pensasse che ormai, da questo autunno, si dovesse accoglierli come emigranti definitivi o peggio lasciarli in un limbo.

Un doveroso promemoria

Facciamo prima di tutto il punto sulla situazione ucraina,  con le notizie di questi ultimi mesi.
Si conferma che questi bambini e ragazzi (e le loro mamme) si sentono solo di passaggio dal fatto che un buon numero è tornato a casa in estate, soprattutto se provenienti dal zone nord e ovest ucraino, e dal 1 settembre sono tornati a scuola, magari in locali di fortuna se le scuole sono state distrutte.
L’arrivo di nuovi profughi ucraini si è fermato. Resta quindi non elevato il numero di scolarizzati in Italia, già basso a primavera perché preferivano fermarsi  in paesi confinanti  (in primis la Polonia).
Anche questo un segno del desiderio del ritorno.
Il nostro governo ha prestato a tasso zero all’Ukrajna circa 200 milioni di euro per pagare gli insegnanti ucraini. Un buon segno che il nostro paese non invia lì solo armi.

Intanto ci arrivano notizie dure dalle aree ucraine di sudest ancora occupate militarmente dai russi. Sono stati licenziati molti insegnanti locali, sostituiti da “colleghi” russi; dal 1 settembre i ragazzi iniziano le lezioni  con l’alzabandiera bianca blu rossa di Mosca, hanno libri importati dalla Russia con le “cose giuste” da insegnare e si parla-scrive rigorosamente solo in russo.  Ma c’è di più: alcune migliaia di orfani sociali degli internati  sono stati deportati (altro termine non trovo) in Russia in modo forzato. Uno dei tanti modi che ha la terra di Putin di sopperire al suo deserto demografico. Penso con dolore a questi bambini, spesso con babbi e mamme fragilissimi e poveri ma viventi. Bambini portati via dagli orfanotrofi senza rispetto, con fratture esistenziali  lancinanti. E ancora: non si sa più nulla di centinaia di preadolescenti portati con la forza in Crimea durante l’estate (le vacanze “coatte”) e non più tornati. Nelle zone di campagna tornano i cd. besprizornye,  ragazzi randagi  che vivono alla macchia. Un lascito noto nella storia sovietica che si ripete,  nato nei primi anni della rivoluzione d’ottobre, di cui ci resta memoria in “Poema pedagogico” del pedagogista ucraino Makarenko e della sua colonia Gorky.

Si rifletta su cosa voglia dire essere bambini e ragazzi da quelle parti in questo settembre: se non si muore per le bombe, si sopravvive in un contesto allucinato col rischio del negarsi la memoria e l’identità. Effetti non collaterali ma voluti di una guerra che non è solo distruzione materiale, ma esistenziale.

Ricapitoliamo ora la nostra memoria sull’Italia. Sono uscite in primavera tre note del Ministero italiano sull’accoglienza dei ragazzi ucraini.

Una prima nota di marzo 2022 li chiama erroneamente “esuli” e invita ad accoglierli, seguendo le solite regole  amministrative  e di collaborazione a livello locale tra servizi.
La seconda nota n. 576 del 24 marzo li chiama finalmente “profughi” (come sono), e invia ottime riflessioni di carattere pedagogico.  Si suggerisce accoglienza mite, riconoscimento dell’ identità di bambini e ragazzi “di passaggio” con il forte desiderio del ritorno, un impegno di ascolto rispettoso della loro condizione esistenziale. Notevole è l’idea di “cura pedagogica” non diversa dall’ Y CARE donmilaniano, operando con una pedagogia che aiuti al ritorno. Appunto, il ritorno. Finalmente un respiro alto.
La terza e ultima nota, invece, la 781 del 14 aprile, scade in uno sconcertante formalismo. A fronte del “canone” scolastico italico sul rito valutativo e curricolare (altro che autonomia scolastica) si suggerisce  di considerare questi ragazzi come BES stranieri appena arrivati,  quindi con dispense e compense, consolando i buro-pedagoghi del formalismo cartaceo. Ma c’è di peggio: circa la questione della loro straordinaria Dad che, nonostante la guerra, i loro insegnanti coraggiosamente realizzato da marzo a giugno da laggiù (con immensa gioia dei ragazzi che si sentono così un po’ a casa), la terza nota suggerisce con un linguaggio senz’anima di considerarla come “eventuale arricchimento  dell’offerta formativa” in aggiunta (solo in aggiunta) alle tradizionali lezioni italiche, e sempre che i docenti italici vogliano. Dunque, la più straordinaria avventura pedagogica di questi mesi (la Dad sotto le bombe) non trattata per il giusto rango di un’esperienza educativa arricchente tutti, in primis  loro, e con la quale iniziare un dialogo pedagogico tra colleghi coinvolti qui e lì, ma un mero accessorio transitorio.

Questa sconcertante nota mi ha fatto sospettare una sottovalutazione della fase in un’attesa astratta di cosa sarebbe accaduto della guerra, lasciando ad un indefinito tempo il trattare cosa fare dal settembre.

E infatti sul che fare da settembre il più allarmante silenzio. Il nulla.

Ricordiamo infine che i  nostri amici ucraini accolti sono stati in tutto circa 30.000 (molto meno del previsto),  che i mesi da marzo a giugno sono stati una sorta di accoglienza d’attesa, la migliore possibile. Adesso, invece, con un anno scolastico intero davanti, le cose si fanno ben più serie.

Restiamo in attesa, o ripartiamo con l’autonomia?

Ricevo numerose telefonate  da colleghi e scuole di diverso tipo che mi chiedono cosa fare adesso. Ho scritto molto in primavera sulla pedagogia del ritorno e svolto affollati webinar, quindi molti mi conoscono. I loro racconti non sono sempre felici: ci sono bambini e ragazzi ancora scossi dagli eventi, qualcuno in estate è diventato orfano, di un buon numero di loro non si sa se è rimasto o no. Fortunatamente l’accoglienza racconta anche segni di umanità e solidarietà. Ma le domande sull’oggi sono molte, soprattutto (e non è un caso) sulla loro Dad ucraina: continua o no? Come e se collegarla alle lezioni italiane? Ricevo anche richieste sulla dimensione pedagogica delle relazioni e sul tema della guerra. L’incertezza è anche nelle famiglie ucraine che chiedono notizie alla scuola italiana.

Finchè non arriva la notizia che scuote le famiglie ucraine e che l’Italia non ha ancora dato: le scuole ucraine intendono proseguire anche quest’anno con la loro Dad sia sincrona che asincrona, in tutti i modi possibili e per il miglior tempo possibile. E quindi prendono contatto virtuale con i singoli bambini e ragazzi di cui hanno un indirizzo telefonico o elettronico. Insomma, non intendono  perderli.

Ho fatto un giro di telefonate a colleghi ucraini con cui ho ancora contatti e confermano: “si riparte, non li abbandoniamo. In tutti i modi possibili e nei tempi possibili”. Ma chiederebbero, anche, di sapere un po’ di più su cosa accade ai loro ragazzi in Italia. D’altra parte ho rarissimi racconti di contatti tra colleghi italiani e ucraini in primavera: è sembrata a molti un’esperienza quasi “privata”, di cui non si è sempre colto il valore educativo e anche un’opportunità solidaristica su cui meritasse costruire rapporti. Se poi il Ministero italiano aggiunge che la loro Dad è solo un “accessorio”, lo scadimento  nella banalità è naturale.

Proposte realistiche e rigorose: per un curricolo binario

Non è  necessario, come dicevo all’inizio, che il Ministero mandi per forza chissà quali norme o stringenti indicazioni operative. Le scuole hanno (avrebbero) ampi spazi di autonomia didattica e organizzativa per poter costruire ognuna una propria positiva pedagogia del ritorno. Basta volerlo e crederci.

Per queste ragioni, rompo lo sconcertante silenzio romano  con alcune proposte di lavoro aperte a diverse soluzioni, per offrire alle scuole una proposta pedagogica per far crescere con quest’esperienza solidale la capacità di farsi soggetto progettuale libero e creativo.

Suddivido queste proposte in quattro passi, con un passo zero necessario.

  1. Niente BES

Una premessa necessaria. Si eviti di trattare questi ragazzi nella categoria BES, anche per i rimandi simbolici che questa determina con frequenti effetti iatrogeni e di abbassamento delle attese.
Sono infatti bambini e ragazzi come i nostri, ce n’è di bravi e meno bravi, di più sicuri e più timidi, di più aperti e più chiusi, con  mamme e  papà non tutti eguali. Vivono il dolore del profugo in diversi modi.
Li lega però l’uno all’altro il fatto che sono dentro una tragedia più grande di loro,   stanno vivendo una grande incertezza sul futuro, nell’ansia che il padre non muoia in guerra.
Hanno voglia di tornare a casa e voglia di vivere. Desideri terribilmente normali.
Guai a noi farne una categoria generale psico-pedagogica di sindrome da profuganza educativa di guerra.  Non hanno bisogno di insegnanti di sostegno post-traumatico, né di sacerdoti scientifici del trattamento obbligatorio del trauma. Hanno invece bisogno di vicinanza educativa, di rispetto, di ascolto. E soprattutto di riprendere a  credere nel futuro, per il quale un pezzo di scuola fatta bene anche in Italia  è un primo mattone utile per ricostruire. Non cura pietosa ma speranza. La stessa speranza che esprimono i nostri coraggioso colleghi ucraini che non abbandonano i loro ragazzi sparsi per l’Europa, ma stanno loro dietro in tutti i modi possibili. Possiamo scindere in modo autistico le ore di scuola in Italia dal loro encomiabile impegno via etere? A me pare una bestemmia . Ecco perché la pedagogia del ritorno.

  1. Un necessario dialogo scuola-genitori di prospettiva

In questo primo mese di scuola è  importante che vi sia un colloquio riflessivo e serio tra i nostri insegnanti e le mamme o i parenti che accolgono il nostro alunno o studente ucraino.
E’ un momento necessario per fare il punto di come va la scolarizzazione e di cosa fare a scuola, soprattutto comprendendo la prospettiva in cui si sta muovendo la famiglia per il ritorno in Ukrajna.
Ci sono mamme che pensano di tornare per capodanno: il babbo sta mettendo a posto la casa (Kjiv).

Ci sono mamme rimaste vedove che pensano di tornare dai genitori-nonni  in campagna a rifarsi una vita l’estate prossima (Karkiv). Ci sono mamme ancora per aria perché la loro città è  distrutta (Mariupol) e attendono dove risistemarsi. Storie molto diverse tra loro, fatte spesso di molti se…allora, che senza morbose curiosità dobbiamo condividere per tarare bene quale sia la più corretta scolarizzazione per questo anno e quali elementi della pedagogia del ritorno siano da perseguire.

Soprattutto dobbiamo sapere dalle mamme di Kjiv, Karkiv, Mariupol, ecc.. se prevedono per il loro figlio/la loro figlia la prosecuzione del contatto Dad con gli insegnanti ucraini, quanto e come.
Quest’ultimo aspetto è decisivo per armonizzare la nostra offerta educativa. So infatti  di numerosi casi in cui i genitori ucraini, magari  all’oscuro delle offerte della nostra scuola, preferiscono tenerli a casa e fare tutta la scolarità via Dad. Perdendo così quegli elementi di socialità, relazione, apertura culturale che invece potrebbe dare la frequenza nelle nostre aule,  convivendo con bambini e ragazzi italiani senza perdere il filo della loro carriera scolastica in patria.
E’ ovvio che i diversi obiettivi di vita per le diverse situazioni rendono diversa la domanda educativa. Una buona pedagogia del ritorno non può che considerarli centrali per il nostro impegno.

  1. Il contatto con la scuola ucraina

Nel caso (frequentissimo dalla classe 4 alle 11/12) di desiderio dei ragazzi e delle loro famiglie di mantenere la Dad  ucraina è opportuno che la scuola cerchi il più possibile un contatto con i nostri colleghi ucraini.
E’ molto meno difficile di quanto si pensi. So peraltro che sarebbe molto attesa: gli insegnanti ucraini vorrebbero  entrare in un circuito collaborativo. Lavorare insieme, insomma. Nella speranza del ritorno.
Quasi tutti gli zvitelky (insegnanti) ucraini parlano bene l’inglese, un buon numero anche l’italiano (meno bene), ma hanno tutti skype e la mail, a volte gli manca solo l’elettricità.  Pensate alla loro condizione e alla solitudine di avere le scuole vuote e distrutte, pensate al desiderio di rivedere i loro ragazzi. Pensate all’epoca delle passioni generose nel primo duro lokdown italiano di primavera 2020, in cui migliaia di insegnanti italiani senza aver bisogno del Ministero hanno creato spontaneamente un qualche intenso contatto con i loro ragazzi, anche loro chiusi in casa. In modo ancora più drammatico, sotto le bombe e con le case sfasciate, lo stesso spirito educativo  muove i colleghi ucraini, non i comandi  ministeriali. Non prendono una grivna in più per la Dad, ma nessuno si è tirato indietro. Almeno chi è ancora vivo.

A cosa serva questo contatto tra docenti e scuole è perfino superfluo spiegare: condividere  un comune programma di lavoro, spartendosi un possibile curricolo e soprattutto creando anche ai ragazzi l’emozione di sapere che (Italia o Ukrajna che sia) gli insegnanti si pre-occupano di loro con dedizione e collaborazione. Le straordinarie potenzialità del digitale sono in questo terribile caso, un evento straordinario di pedagogia attiva. Un’esperienza che matura scambi professionali di avvincente valore formativo anche per gli adulti. E fa sentire i genitori dei nostri ragazzi anche loro meno soli in un paese straniero.

  1. Il curricolo binario

Chiamo “curricolo binario” il possibile esito di questo “dialogo professionale” tra colleghi italiani e ucraini. Può realizzarsi anche se saranno difficili i contatti. Il sito del Ministero ucraino abbonda di materiale virtuale, e potrebbe essere seguito da professionisti ucraini in Italia.

Nella logica della pedagogia del ritorno, visto che ai ragazzini ucraini vengono offerte in contemporanea due opportunità curricolari,  tanto vale  non separarle o ignorarsi l’un l’altra. Nei casi più felici, si potrebbe quindi immaginare, caso per caso (i ragazzi non sono nella stessa classe in Italia) cosa potrebbe fare l’insegnante ucraino e cosa l’italiano. Va tenuto conto che chi è in difficoltà (anche materiali) sono loro, non noi. E dunque, buona cosa a partire dalle disponibilità della Dad ucraina, costruire con flessibilità e intelligenza un curricolo personale di Alioscia, Dimitri, Eugenj, Katiuscia, ecc.. nel quale si possano sviluppare alcune attività curricolari in lingua ucraina e altre  nella scuola italiana. Le opzioni sono le più vaste e differenti tra loro. Facciamo alcuni esempi per capirci.

Non c’è dubbio che l’insegnamento della lingua ucraina sia basilare che continui. Qualche ora di ucraino alla settimana sarebbe solo salutare. Sulla storia e geografia forse un insegnamento misto sarebbe interessante, sia per i ragazzi ucraini che italiani, perchè aprirebbe la mente alla scoperta di altri mondi, altre storie, altri luoghi, come de-centramento dal nostro comune solipsismo. Potrebbe invece essere meno significativo l’insegnamento dell’inglese perché più o meno si fa simile sia qui che lì, ma merita eventualmente confrontare le metodologie e gli obiettivi previsti di anno in anno. Per quanto conosco le scuole post-sovietiche penso che l’insegnamento della matematica potrebbe essere affidato alla scuola ucraina, che ha una lunga eccellente tradizione. Il che non vuol dire non mescolare eventualmente i metodi, che potrebbero persino essere utili ai nostri italiani.

Forse le discipline artistiche potrebbero essere meglio affidate alla scuola italiana. Ma non voglio dire di più, perché ogni scuola e ogni classe è diversa, e credo nella creatività e sensibilità degli insegnanti.

  1. Bagatelle formali

Naturalmente un curricolo binario apre questioni “formali” di cui la nostra scuola italica abbonda per eccessi burocratici spesso inventati. Ricordo a chi mi legge che l’art. 4 del DPR 275/99 Regolamento Autonomia prevede esplicitamente la flessibilità didattica, che l’art. 8 dello stesso DPR prevede il curricolo locale, che sempre l’art. 4 prevede forme particolari di valutazione diverse da scuola a scuola. Cose presenti e legittime ma dimenticate nel noioso tran tran di una scuola che non cambia mai.

Per quanto riguarda la valutazione,  ricordiamo che i ragazzi ucraini desiderano diplomarsi in patria, non in Italia, e che la nostra valutazione deve diventare nel tempo un aiuto alla scuola collega quando torneranno a casa, non a fare scale e misure formalistiche. Quindi anche su questo un dialogo con i colleghi ucraini sarebbe quanto mai utile per crescere reciprocamente.

Infine, una questione delicata  riguarda la classe di frequenza dei nostri ragazzi, perché in primavera si sono fatti molti pasticci per la fretta e per la non conoscenza della loro scuola. Sempre nella logica della pedagogia del ritorno, dobbiamo tener conto che la loro scuola primaria termina alla classe 4 e che dalla classe 5 alla 9 c’è una lunga scuola media unitaria.  Poi ci sono 2/3 anni di scuola superiore. Tutti questi 11/12 anni obbligatori. Quindi i ragazzi ucraini hanno l’obbligo fino a 17/18 anni ed entrano all’università un anno o perfino due prima dei 19 enni italiani.  Possiamo farli rallentare solo perchè sono in Italia? Per questo ho suggerito spesso di utilizzare con lucidità quello che le norme italiane sugli studenti stranieri al loro accesso in Italia prevedono: che siano inseriti anche o in una classe prima o in una dopo dei cicli tradizionali italiani.  In particolare per quanto conosco delle loro scuole e dei diversi curricoli, penso che sia delicata la situazione dei bambini di classe 5, che in Ukrajna  è la prima classe della serednja skola (scuola media) e da noi invece è ancora nella primaria.  L’esperienza mi ha fatto proporre spesso un “salto” in avanti di un buon numero dei nostri arrivati in primavera, perché palesemente adeguati ad inserirsi nella nostra prima media. Ogni caso va visto a sé, anche questo è tema da considerare con le loro famiglie.

Lascio qui altre questioni, per esempio quella dei mediatori linguistici se sono o meno necessari (ovviamente dipende), o se sia possibile utilizzare studenti universitari (o insegnanti anch’essi profughi) ucraini per svolgere il curricolo binario qui proposto come adattamento della loro scuola in Italia nel caso non sia possibile un qualche collegamento con la scuola ucraina. Caso che può essere residuale visto l’impegno dei nostri colleghi  laggiù.




La scuola che in tanti sognano, ma che non avremo

Stefaneldi Mario Maviglia

Questa campagna elettorale sta facendo sognare tutti gli operatori scolastici: tra aumenti salariali (fino ad arrivare all’equiparazione con la media degli stipendi dei docenti UE), il tempo pieno su tutto il territorio nazionale ed altre importanti promesse, c’è motivo di essere ottimisti rispetto al futuro della scuola italiana.

Non vogliamo offuscare questa immagine idilliaca della scuola che verrà; segnaliamo però che ci sono anche altri problemi che oggi sono sul tappeto e che meriterebbero di essere affrontati. Ne citiamo solo alcuni, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo.

Ormai è invalso l’uso di considerare l’istituzione scolastica come una comunità che interagisce con la più vasta comunità esterna. L’ultimo CCNL Scuola ha introdotto, a questo proposito, l’espressione di “comunità educante” (art. 24). Visione suggestiva e intrigante. Ma perché la scuola possa riconoscersi come “comunità” occorre che vi siano i presupposti, come dire?, materiali perché ciò avvenga. In una comunità, ad esempio, ci si aspetta che i componenti si conoscano tra loro in modo non superficiale, ci si attende che possano interagire al loro interno e condividere idee e progetti; insomma ci si aspetta che vi sia una rete relazionale e comunicativa viva e continua sia in senso orizzontale (tra colleghi) che in senso verticale (con la dirigenza e viceversa). A fronte di ciò, vi sono istituti scolastici che contano più di 2000 studenti ed oltre 200 addetti tra docenti e personale ATA.

È ragionevole pensare che queste strutture si configurino più come dei monstre organizzativi che come comunità. Difficile immaginare, ad esempio, che un dirigente scolastico, in questi contesti, conosca in modo adeguato tutti i docenti dell’istituto, per non parlare degli studenti. Purtroppo le norme attuali fissano solo i numeri minimi per far funzionare un’autonomia scolastica (non meno di 600 alunni ordinariamente e non meno di 400 nelle zone di montagna o piccole isole); non viene fissato un numero massimo. Pensare di fondare “comunità educanti” con numeri così alti è pura utopia in quanto viene a mancare l’elemento caratterizzante una comunità, ossia quello relazionale-comunicativo; al più si può fondare una comunità organizzativa con una chiara definizione dei ruoli e dei poteri dei diversi soggetti coinvolti. La soglia che la legge fissa come livello minimo dovrebbe costituire invece il livello normale di un’istituzione scolastica. I grandi istituti scolastici rispondono ad esigenze di risparmio economico e, tutto sommato, perseguono modelli aziendalistici (ricordano le grandi fabbriche), ma i processi educativi, per essere curati e sviluppati adeguatamente, dovrebbero ispirarsi a modelli umanistici, ossia favorire l’incontro tra le persone e tra queste e la cultura, in tutte le sue poliedriche forme.

La scuola, com’è noto, ha il compito di curare i processi di apprendimento e socializzazione delle giovani generazioni in modo che questi possano inserirsi attivamente nella società e realizzare, per quanto possibile, i loro desideri. Tutto ciò che ruota intorno alla scuola (competenze professionali, aspetti organizzativi, dispositivi amministrativi, risorse strumentali ecc.) dovrebbe essere subordinato o collegato a questo compito prioritario (alla mission della scuola, come spesso viene detto). Se però si analizza come la scuola è andata strutturandosi nel corso di questi ultimi due decenni si può facilmente verificare che questo principio è stato fortemente contraddetto nei fatti. Prendiamo l’aspetto burocratico. Ogni organizzazione non può fare a meno di documentare, attestare, certificare ecc. la propria attività, per vari e molteplici motivi; ma quando la produzione di atti raggiunge livelli assimilabili alla categoria della superfetazione, allora rischia di essere messa in discussione la stessa mission dell’organizzazione stessa, nel senso che ciò che doveva essere visto come un mezzo diventa un fine. È quello che è successo alla scuola e che continua a succedere: un profluvio di norme, circolari, direttive, note, decreti, istruzioni e quant’altro, che soffoca l’attività di docenti e dirigenti. Non è esagerato dire che oggi il docente italiano rischia di essere più paragonabile ad uno scribacchino che a un intellettuale. Non vi è aspetto della funzione docente (e dirigente) che non sia fortemente interessata a produzioni scritte (schede, resoconti, rapporti, verbali, verifiche, progetti, linee operative ecc.), per non parlare dell’insieme di incontri, riunioni, colloqui ecc. che fanno da corollario a tutto ciò. Questa sovrapproduzione burocratica è costantemente sostenuta dallo stesso Ministero (e dalle sue diramazioni periferiche) attraverso una molteplicità di atti (circolari, note, monitoraggi, direttive, ordinanze e altro ancora) che si riversano sulle istituzioni scolastiche il più delle volte senza che vi sia un ritorno degli esiti di quanto richiesto. Questo processo crea inevitabilmente sovrapposizione di norme, spesso in contraddizione tra loro, ponendo i soggetti terminali in situazioni disagevoli di interpretazione ed esegesi delle norme stesse. Forse bisognerebbe riorganizzare in modo sistematico le norme già esistenti (operazione già prevista, per la verità, dalla legge 107/2015, ma finora mai portata a termine) e quindi imporre un limite massimo di atti da produrre nel corso di un anno scolastico. Se le norme nazionali sono chiare e ben sistematizzate, gli interventi amministrativi del Ministero non dovrebbero superare la decina nel corso dell’anno scolastico; ci penseranno le scuole autonome ad organizzare l’attività scolastica sulla base delle norme esistenti. Questo presuppone che il “superiore Ministero” abbandoni definitivamente ogni velleità centralistica e si ponga al servizio dell’autonomia delle scuole.

C’è però da sperare che questo passo indietro del Ministero rispetto alla sovrapproduzione burocratica non venga compensato da analoga sovrapproduzione delle scuole autonome. Talvolta, infatti, sono i dirigenti scolastici a soffrire di comportamenti compulsivi sul piano della produzione di “carte”, attraverso una intensa generazione di norme regolamentari locali, oppure richiedendo ai docenti la produzione/compilazione di una molteplicità di documenti. Una scuola di dimensioni più ridotte probabilmente necessiterebbe di una minore produzione di “carte e scartoffie”. Quello che si vuole sottolineare con decisione è che l’insegnamento dovrebbe essere fortemente sburocratizzato e gli insegnanti non dovrebbero essere oggetto di inutile e snervanti molestie burocratiche; le energie magistrali vanno impiegate prima di tutto e innanzi tutto nella cura dei processi di apprendimento e non nel soddisfare le brame burocratiche dell’ingordo moloch amministrativo, invero mai completamente sazio. Le preoccupazioni dei docenti dovrebbero essere altre: come strutturare la classe in una comunità di apprendimento? Quali strategie mettere in atto nei confronti degli studenti che non apprendono? Come suscitare la motivazione? Quale mediazione didattica appare più indicata per quella specifica classe frequentata da quei particolari alunni? Quali approcci valutativi adottare in termini formativi? Come suscitare e tenere vivo l’interesse degli alunni? Come utilizzare in modo proficuo le tecnologie informatiche nella didattica? Quali approcci sono più efficaci nella gestione della classe o dei gruppi? Come garantire continuità e coerenza tra i diversi interventi dei vari docenti che si alternano in una medesima classe? Come interagire con la realtà esterna senza snaturare la specificità educativa della scuola? Su queste domande prioritariamente, e su altre del medesimo tenore, si dovrebbe indirizzare l’attenzione dei docenti in quanto facilitatori dei processi di apprendimento. Eppure l’impressione che si ricava è che questi problemi siano stati espunti dal dibattito sulla scuola, tutto centrato su ciò che avviene al di fuori dell’aula, come se la professione docente si svolgesse in un altrove contrassegnato dall’assenza della didattica e della pedagogia.

Questo problema appare strettamente intrecciato al cosa insegnare, ossia a ciò che è importante che oggi apprendano gli studenti e soprattutto alle forme di “trasmissione” del sapere. Sul primo punto sembra ormai persa la battaglia condotta per tanti anni e che mirava a snellire ed essenzializzare i curricula delle scuole di ogni ordine e grado. In realtà nel tempo i curricula si sono viepiù ampliati configurandosi di fatto come degli “spezzatini cognitivi” con scarse relazioni tra di loro. Questo processo di secondarizzazione, caratterizzato da nette paratie tra le discipline, ha nel tempo coinvolto anche i gradi iniziali dell’istruzione, talché oggi non vi è una sostanziale differenza tra l’offerta didattica del primo e del secondo ciclo, a parte, evidentemente, i livelli di approfondimento. Parlare di semplificazione del curricolo, attraverso operazioni di apparentamento tra discipline affini o periferiche, oggi appare quasi improponibile anche perché andrebbe a scardinare il meccanismo perverso delle classi di concorso iperspecialistiche. In questa frammentazione sono stati sacrificati, almeno nel primo ciclo, anche i cosiddetti saperi di base, (lingua e matematica, in primo luogo), immolati sull’altare dell’uguaglianza delle discipline, con inevitabili ripercussioni sulle possibilità di padroneggiare tutte le discipline, atteso che una inadeguata alfabetizzazione linguistica pregiudica l’acquisizione delle altre.

Ancor più complesso è il problema della mediazione didattica, ossia di come far arrivare il messaggio agli allievi, e dunque la questione delle strategie e della strumentazione (didattica) che vengono utilizzate. Anche in questo caso sembra che si faccia ancora molta fatica ad uscire dai canoni tradizionali caratterizzati da una comunicazione unidirezionale. In fondo, diciamocelo chiaro, in molte scuole la lezione la fa ancora da padrona. Decenni di insistenza sulla centralità dello studente e sulla cura della personalizzazione si infrangono davanti al totem della sempiterna lezione. Non che questa vada criminalizzata, ma bisognerebbe almeno trovare degli adeguati contrappesi per rendere effettivamente attivo il ruolo dello studente. E oggi esistono delle strategie didattiche che permettono di operare in questa prospettiva. Il lavoro di gruppo o quello cooperativo, ad esempio, appartengono a questa categoria, anche se ancora sono molto poco presenti nel nostro sistema scolastico e in alcuni istituti del tutto ignoti. La didattica laboratoriale, che coniuga l’approfondimento teorico con gli aspetti operativi di una disciplina, è un’altra strategia molto citata ma poco praticata. La responsabilizzazione dello studente con la mobilitazione delle sue capacità elaborative ed operative appare ancora molto poco diffusa nella pratica didattica. Di fatto gli studenti sono quasi sempre destinatari pressoché passivi degli interventi didattici degli insegnanti; sono poche le occasioni in cui possono mettere a frutto, attraverso progetti individuali o di coppia o di gruppo, quanto acquisito in classe. Non che manchino esperienze ispirate a questi principi educativo-didattici, ma nel complesso la didattica appare ancora ingessata, centrata prevalentemente sulla parola dell’insegnante e fortemente disallineata rispetto alle forme contemporanee di conoscenza dei giovani di oggi, immersi in un universo tecnologico dove l’utilizzo dei mezzi informatici ha sostituito le forme tradizionali dell’acquisizione dei dati e delle modalità di comunicazione.

Quanto è stato detto fin qui stenta ad entrare nel dibattito pubblico sulla scuola, ma se non si tengono conto di questi problemi le varie proposte di riforma rischiano di rimanere lettera morta in quanto non riescono ad incidere sulle concrete prassi didattiche. Se non vi è un cambio di paradigma nel modo di fare scuola ogni progetto di riforma è destinato ad arenarsi. Gli stessi interventi che mirano a contrastare le cosiddette “povertà educative” spesso dimenticano di considerare che può essere la stessa scuola ad alimentare ed aggravare queste povertà laddove perpetua forme vetuste di didattica che non riescono a motivare e coinvolgere nei processi di apprendimento la popolazione studentesca più fragile.

Tutto ciò ci porta a fare un’ultima considerazione riguardante il ruolo fondamentale svolto dai docenti nel rinnovamento della didattica e quindi della scuola. Ogni proposta di riforma della scuola non può aspirare ad alcun possibile successo se non trova una classe magistrale in grado di accettare e interpretare le sfide innovative. Lavorare sulle competenze professionali degli insegnanti appare quindi un obiettivo prioritario se non si vogliono perdere importanti opportunità di sviluppo e rinnovamento della scuola. Gli stessi sostanziosi finanziamenti messi in campo dal PNRR rischiano di lasciare inalterato il livello di qualità della scuola se non si interviene sulla formazione dei docenti. Avere insegnanti ben preparati e in grado di modulare gli interventi didattici a seconda delle realtà delle classi, vuol dire investire sulla loro formazione e sui meccanismi di selezione e individuazione di professionisti idonei. Su questo aspetto in Italia si registra una grande fatica a trovare una soluzione adeguata; di fatto ci si accontenta di tenere in piedi un esercito di professionisti malpagato, senza alcun incentivo a migliorare la propria professionalità, con pochissimi controlli sulla qualità del servizio prestato e con una preparazione iniziale alquanto indefinita. Con questi presupposti c’è poco da essere ottimisti.

 

 




Caro futuro Ministro dell’Istruzione, chiunque tu sia…

di Mario Maviglia

(Attenzione! Questo intervento contiene affermazioni a forte impatto emotivo e pertanto se ne sconsiglia la lettura ai soggetti fragili, depressi o impressionabili. Non tenere a portata di mano pistole d’ordinanza o altre armi, anche bianche).
Nel testo il termine “Ministro” viene usato al maschile ma comprende anche il femminile.

Caro futuro Ministro dell’Istruzione, chiunque tu sia (c.t.s.), siamo convinti che sarai scelto non in seguito a incomprensibili e imperscrutabili beghe di potere o per mantenere equilibri politici precari. No! Tutto ciò fa parte della liturgia del passato. Questa volta sarai scelto per le tue acclarate competenze generali e di politica scolastica in particolare. Tu conosci in modo puntuale i problemi che affliggono la scuola ed elaborerai un piano di interventi tempestivo, efficace e definitivo. Finalmente la scuola sarà rivoltata come un calzino e potrà realizzare la sua importante funzione senza intoppi o titubanze, proiettata verso un futuro radioso di sviluppo, crescita e ricchezza.
La scuola sarà posta al centro dell’agenda politica e dell’opinione pubblica e tutti ne riconosceranno il suo insostituibile e fondamentale ruolo che svolge per il bene del Paese. Eccetera…

Ma, prima che tu inizi questa catartica e rivoluzionaria operazione di innovazione e trasformazione, vogliamo richiamare la tua attenzione su alcuni preliminari aspetti della macchina che andrai a dirigere nella convinzione che ciò ti possa tornare utile e possa imprimere una accelerazione ai tuoi disegni riformatori.

Caro futuro Ministro, c.t.s., come sai, quando si intraprende un’impresa complessa come quella che tu stai per iniziare, una delle prime cose da fare è quella di verificare chi sono i propri collaboratori, sia nel micro che nel macro, e quali competenze e motivazioni hanno rispetto al compito.
Per esempio, il tuo apparato amministrativo è in grado di gestire processi ordinari ancorché complessi? (Non rispondere subito, fai prima un respiro, o conta fino a tre).
Alcuni di questi processi sono di una banalità disarmante e ripetitiva, come ad esempio la nomina dei docenti “prima” che inizino le lezioni (o la nomina degli addetti all’amministrazione delle scuole).
Saprai, caro futuro Ministro, c.t.s., che l’anno scolastico, in Italia, inizia il 1° settembre, mentre le lezioni hanno un inizio differenziato a seconda delle Regioni. Queste scadenze si conoscono un anno prima e dunque tutto lascerebbe supporre che si abbia il tempo necessario per organizzare tempestivamente le varie operazioni di trasferimenti, nomine, immissioni in ruolo e quant’altro.
Eppure è quasi commovente vedere come l’apparato amministrativo ogni anno arrivi con l’acqua alla gola per completare le varie operazioni.
Forse sono troppo complesse? Forse ci sono troppi passaggi? Forse non ci sono adeguate competenze gestionali nel management amministrativo?
Il problema in sé non è paragonabile ai tanti di carattere politico che dovrai affrontare, caro futuro Ministro, c.t.s., ma considerato che impatta fortemente sull’organizzazione delle scuole e sulle attese di studenti e famiglie, forse ti conviene rivolgere una certa attenzione e trovare delle soluzioni, come dire?, definitive. (Ricorda, caro futuro Ministro, c.t.s: l’a.s. in Italia inizia il 1° settembre…).

Nel corso della campagna elettorale molti tuoi concorrenti hanno promesso mare e monti (qualcuno anche la collina…). È stato detto che gli stipendi dei docenti italiani devono essere equiparati alla media degli stipendi dei docenti UE. Ma perché fermarsi a questo? Perché non puntare più in alto? Tu vai oltre: prometti stipendi da favola, con aumenti stratosferici per tutti! Tanto gli italiani hanno la memoria corta e dimenticano tutto.
Ricorderai che nel passato qualche uomo politico aveva promesso un milione di posti di lavoro poco prima delle elezioni, qualcun altro l’aumento delle pensioni e la sconfitta della povertà, tanti altri l’abbassamento delle tasse. Gli italiani stanno ancora aspettando. Gli italiani sanno aspettare. E allora tu prometti stipendi d’oro! Non ti costa nulla e ti fa avere un mucchio di voti.

Anche riguardo ad altri aspetti della vita scolastica, non essere banale! Punta in alto!
Basta con le classi pollaio! Al massimo, classi-stalla: sono più grandi e ci stanno più studenti. Nessuno ti può accusare di non aver risolto il problema. Anzi, potrai sempre dire che “la congiuntura economica del momento non consente di affrontare il problema in una prospettiva risolutoria diversa, e pertanto occorre adottare una linea di condotta realistica in sintonia con le specifiche richieste dell’UE… ecc. ecc.” (il riferimento alla UE va sempre bene…).
E poi, parliamoci chiaro, si può fare lezione anche con 50 studenti: chi ha voglia di studiare non si lascia condizionare dal numero. Certo, i tuoi predecessori hanno insistito oltremodo (sulla carta…) sulla necessità di personalizzare i percorsi di apprendimento, ma quelle sono espressioni che si usano perché “lo vuole la UE”, appunto. Fumo negli occhi, insomma.
D’altro canto, saprai, caro futuro Ministro, c.t.s., che la scuola riesce a fare poco o nulla rispetto ai divari iniziali tra gli studenti. E allora perché vuoi intralciare un fenomeno naturale, che fa parte della natura stessa delle cose? Ovviamente non dirai così al personale della scuola, anzi ti sperticherai nel dire che il tuo Ministero “è impegnato nel garantire a tutti gli studenti il diritto allo studio e il successo formativo quale obiettivo prioritario per innalzare il livello culturale della popolazione e la crescita economica del Paese bla bla bla…”.

Non ti vorrai sottrarre, caro futuro Ministro, c.t.s., al fascino discreto del lasciare il segno della tua permanenza a Viale Trastevere 76/A attraverso una epocale riforma della scuola, qualunque cosa essa sia.
I tuoi predecessori hanno amato in modo particolare questo aspetto della loro missione. Tu non puoi essere da meno. La riforma può riguardare l’Esame di Stato della scuola del secondo ciclo (ma è diventato un tema talmente inflazionato che è meglio lasciar perdere…); oppure l’obbligo scolastico (12 anni? 13 anni? Nessuno offre di più?…) oppure le modalità di reclutamento del personale (tema sempre attuale e che dà sempre tante soddisfazioni al Ministro di turno, un po’ meno alle scuole costrette a fare i conti con sistemi di selezione che nella migliore delle ipotesi premiano la velocità di risposta ai quiz o la conoscenza mnemonica dei candidati, molto meno l’attitudine all’insegnamento).
Ma noi ti consigliamo di dedicarti ad una riforma veramente titanica: il riordino dei cicli! Se riuscirai a portarla a termine, una tua gigantografia verrà apposta nel Salone dei Ministri del palazzo ministeriale! Per la verità in questa fase non è tanto importante la realizzazione della riforma, quanto la promessa di realizzarla (ricordati del milione di posti di lavoro di cui sopra…). Per la sua elaborazione puoi fare riferimento agli schemi che di solito utilizzano gli allenatori delle squadre di calcio (1-3-4-4, oppure 4-4-4, oppure 1-4-3-5 ecc.). Qual è il senso di tutto ciò? È lo stesso che consente il funzionamento di scuole con oltre 2000 studenti…

Un aspetto che ricorre puntualmente nel dibattito scolastico è quello dell’autonomia delle scuole. Non ti lasciare ingannare, caro futuro Ministro, c.t.s. È un falso problema.
L’autonomia scolastica in Italia non la vuole quasi nessuno. Sicuramente non il Ministero che andrai a dirigere, che l’ha usata per rifilare alle scuole “autonome” incombenze burocratiche di una certa scocciatura.
Questa finta autonomia ha permesso finora al Ministero che andrai a dirigere di tenere in mano il pallino del gioco, imponendo alle scuole disposizioni, direttive, ordini, istruzioni, precetti, circolari, decreti, note, linee di comportamento e altro ancora.
D’altro canto se le scuole dovessero davvero agire l’autonomia prevista dalle norme (ancorché nella sua dimensione “funzionale”), forse emergerebbe con tutta evidenza l’inutilità di un apparato amministrativo ministeriale (con le sue ramificazioni periferiche) così elefantiaco e pervasivo.
A proposito, caro futuro Ministro, c.t.s., forse saprai che quasi il 27% delle istituzioni scolastiche non ha il DSGA (Direttore Servizi Generali e Amministrativi), con punte che arrivano al 53% (come in Lombardia). Ma tu non farne un problema, non provare ambascia: in fondo, in una situazione così caratterizzata, le scuole possono sperimentare sul campo il concetto di resilienza che va tanto di moda in questo periodo.
Sì, certo, ci sono le scocciature dei PON o quelle legate all’utilizzo dei fondi PNRR, ma stai sicuro che in un modo o nell’altro le scuole se la caveranno anche senza la presenza del DSGA. Sono resilienti, appunto…

Ci sarebbero tante altre cosette da considerare: l’effettiva possibilità per le famiglie di utilizzare i servizi educativi 0-3 anni senza dover accendere un mutuo; l’avvio (non sulla carta) del Sistema integrato 0-6; la valutazione come sistema di controllo dei processi di insegnamento-apprendimento (e non solo come verifica sanzionatoria dei risultati degli studenti); la dialettica tra conoscenza e prassi (evitando l’inciampo fonetico dei PCTO); il superamento, o l’attenuazione, dei divari territoriali in termini di qualità dei risultati. Ma queste sono cose troppo serie per poter essere trattate da un Ministro.

Insomma, caro futuro Ministro, c.t.s., il lavoro che ti attende è tanto, ma siamo sicuri che riuscirai a portarlo avanti con quella perizia e competenza che hai dimostrato in campagna elettorale facendo promesse mirabolanti.
Il volgo ha bisogno di promesse perché ha bisogno di sognare, di immaginare un avvenire migliore, idilliaco e paradisiaco. Tu hai regalato un sogno! Lascia che la realtà viaggi invece sui suoi consueti binari dell’umana miseria e dell’asfittica contingenza del momento.

 

 




La scuola al crocevia tra conservatori e progressisti

di Giovanni Fioravanti

Il professor Ernesto Galli della Loggia dalle righe del Corriere della Sera del primo agosto sale in cattedra per fornire, forse neppure richiesto, una lezione di conservatorismo all’onorevole Giorgia Meloni presidente dei conservatori europei.

Il senso della lezione può essere riassunto in breve: essere conservatori consiste nel fare l’opposto dei progressisti. Conservatore, dunque, non è chi è contrario ad ogni cambiamento a prescindere, ma chi si oppone ai cambiamenti proposti dalle forze progressiste. Per cui il conservatore doc si deve semplicemente limitare a cercare di fare il contrario del campo avverso.

Se l’editoriale si concludesse qui non varrebbe neppure la pena di prenderlo in considerazione.

Invece qui casca l’asino. Perché l’esimio professore insiste nei suoi ragionamenti tanto da sostenere che la cartina di tornasole del conservatorismo per eccellenza, guarda caso, si gioca sul terreno dell’istruzione primaria e secondaria. Ti pareva che la scuola non c’entrasse pure con il conservatorismo di casa nostra? Che c’è stato a fare lo spirito universale del nostro filosofo Giovanni Gentile, tacendo di altre compagnie, per i decenni del secolo scorso e pure per gli appena due del terzo millennio tra le aule delle nostre scuole?

Ovviamente se conservatorismo è uguale a ciò che non è progressista, il nostro professore non può che sposare le tesi della coppia Mastrocola-Ricolfi per cui l’istruzione nel nostro paese altro non è che “un ambito devastato da scelte di politica scolastica quasi tutte ispirate da un vuoto progressismo educativo”. Tutto questo viene temporalmente collocato negli ultimi “tre decenni di cambiamenti rovinosi”, portando a ritenere che almeno fino al 1992 la scuola “tirava” bene da un punto di vista conservatore. Il millenovecentonovantadue è la data di Mani pulite, una data fatidica per la fine della prima repubblica, nel caso specifico della scuola ha segnato l’esaurirsi del monopolio democristiano della pubblica istruzione.

Il tristo esito è sotto gli occhi di tutti tanto che “oggi  la metà dei quindicenni italiani non sono in grado neppure di comprendere il significato di un testo”, fermo restando che prima del 2000 non fregava a nessuno sapere cosa effettivamente imparassero a scuola i quindicenni italiani, perché ancora non esistevano le indagini dell’OCSE-PISA e l’INVALSI è stato istituito nel 1999 su proposta dell’allora ministro Luigi Berlinguer, pertanto non sono possibili confronti tra il prima e il dopo, e già qui cedono di fondamento le accuse ad un fantomatico progressismo educativo.

Per non parlare dei dati relativi alla alfabetizzazione degli adulti che si presume abbiano frequentato le scuole negli anni d’oro precedenti la catastrofe progressista, se sommiamo i dati di chi si colloca tra l’analfabetismo totale e il livello 2 europeo otteniamo che circa il 70% della popolazione adulta italiana non raggiunge il livello 3, il minimo per essere considerati cittadini consapevoli.

Se ci si sforzasse di scrivere di scuola cercando di documentarsi, evitando di lasciare un eccessivo spazio al proprio egotismo intellettuale, si sarebbe scoperto che il problema di quote di quindicenni che non sono in grado di capire ciò che leggono oltre i livelli più elementari non è solo italiano, ma mondiale e su questo l’OCSE ha lanciato l’allarme, perché è un’emergenza che deve riguardare tutti in un mondo in cui le richieste di partecipazione civica ed economica sono sempre più complesse.
Un’emergenza che non si può affrontare con la categoria conservatori verso progressisti. La questiona è un’altra e per affrontarla bisogno studiare, uscire da i propri costrutti mentali, affrontare la realtà, cercando di aprire le menti alle nuove sfide anziché crogiolarsi nelle proprie convinzioni.
Il tema è semplice da definire, estremamente complesso da svolgere. Il sistema di istruzione pubblica del XX secolo, conservatore o progressista che fosse, non funziona più nel secolo XXI, non regge alle sfide che abbiamo di fronte. Lo scrive a chiare lettere l’UNESCO nel suo ultimo rapporto, occorre rinegoziare il contratto formativo, occorre un nuovo contratto sociale per l’istruzione che veda unire gli sforzi di tutti per fornire alle nuove generazioni le conoscenze e le innovazioni necessarie a plasmare un futuro sostenibile per tutti ancorato alla giustizia sociale, economica e ambientale.

Ci sono tre domande essenziali da porsi circa l’istruzione: cosa dovremmo continuare a fare? Cosa dovremmo abbandonare? Cosa deve essere inventato di nuovo in modo creativo?
Non mi sembra che qui da noi nessuna forza conservatrice o progressista che sia stia dimostrando di porsele.

Anzi nel silenzio assordante delle ferie agostane, nella distrazione concentrata sulla ripartizione dei seggi per il prossimo parlamento a scranni ridotti, nessuno trova il tempo di ribattere alla sicumera di un intellettuale che non trova di meglio che indicare l’istruzione del paese come terreno cruciale del conservatorismo. La scuola come il luogo deputato a rilanciare i valori del passato e l’identità del Paese, unitamente al merito e al senso dello Stato, ignorando completamente che quando si scrive di istruzione i destinatari sono i giovani, le ragazze e i ragazzi in carne ed ossa che domani saranno adulti e non certo la patente di conservatorismo della signora Giorgia Meloni.




Standogli accanto (a proposito di dispersione scolastica)

di Raffaele Iosa

Nel sito www.proteofaresapere.it Dario Missaglia ha pubblicato un coraggioso articolo sulla cosiddetta “dispersione scolastica” e il PNRR dal titolo “La variante semantica”.
Una critica dura e convincente sulle diffuse contraddizioni circa l’interpretazione, le ragioni e i possibili interventi per ridurre in Italia le bocciature e gli abbandoni scolastici fino ai NEET, e sui rischi di un welfare compassionevole che sta invadendo l’educativo con varie forme di “assistenzialismo riparativo” di incerta e quanto meno dubbia efficacia.

È lapidaria, al proposito, una citazione che Dario riprende da un recente saggio di Alberto Alberti (nostro comune amato maestro) che demolisce la bizzarra variazione che hanno oggi le parole utilizzate per spiegare il fenomeno con l’ormai invasivo termine “dispersione”. Parola da fumo atmosferico, in cui si descrive il “disperso” come una malattia individuale.

Malato è (sempre) il disperso, non la scuola che lo boccia. Scrive Alberto Alberti:
Gli interventi comunitari garantiscono aiuto alle scuole ma in maniera esclusivamente aggiuntiva … Il problema da interno si sposta all’esterno. Non si mette in causa la scuola che boccia e allontana. Si mette sotto accusa il territorio sbagliato … la scuola è quella e rimane tale, non può adeguarsi alle esigenze degli allievi. Sono sbagliati gli allievi.

Per questi ragazzi sbagliati servirebbero cure che solo alcuni professionisti dell’abbandono possono garantire. Che siano del Terzo settore, e che la scuola sia obbligata a fare con loro i cd. patti di comunità è solo la parte venale della questione (i soldi…), quella più grave è la questione ideologica di questo obbligo, cui le neo-parole sui “bisogni” che diventano “problemi”  che si fanno “deficit” intende dare un vestito persino scientifico.  Parole che favoriscono la delega della scuola all’esperto, che se è perfino (a modo suo) un volontario assume un carisma missionaristico.

A questa “malattia” il PNRR proporrebbe alcuni interventi di “recupero riparativo” in cui un soggetto professionale “esterno” pare indispensabile in quanto (solo lui)  esperto. Certo, con la scuola, ma un soggetto asimmetrico soi disant competente. Il rischio che il tutto diventi una delega in bianco ai sacerdoti del welfare compassionevole è alto.  Il rischio che la scuola non cambi nel profondo stili di insegnamento e abitudini educative (cioè quelle che bocciano) è perfino maggiore: tanto ci sono loro a pensare agli sfigati e ai poveracci. Un po’ come con i nostri studenti con disabilità l’esaltazione del docente di sostegno come unica opzione inclusiva.


Questo mio commento vuole solo aggiungere poche cose ai ragionamenti di Dario, su alcuni aspetti che mi stanno a cuore, tra cui la deriva iatrogena che questa neoideologia dei dispersi produce assieme a molte altre dominanti oggi nelle nostre scuole. E cioè neo-parole e interpretazioni che imputano all’altro la sconfitta per una sua propria inadeguatezza (sociale, biologica, genetica, ecc..), cui il sacerdote del dolore offrirà lenimento, liberando la scuola dal dovere onestamente autocritico di interrogar-si sul proprio agire educativo, disciplinare e sociale,  per garantire a tutti lo sviluppo di tutti i possibili potenziali esistenziali e cognitivi.

Nel fantasioso mondo dei bes

Ho tra le mani un vecchio libretto di Ivan Illich (1977) dal titolo radicale  Disabling professions(1),  profetico sul nascere di vaste aree di neo-professionisti del dolore che partendo da alcuni “bisogni” riconvertiti in “problemi” costruiscono diagnostiche, terapie, seduzioni compassionevoli e assistenziali di dubbia efficacia, se non la dipendenza del “bisognoso” cui non si offre autonomia ma un banale adattamento delle attese (la cura “recuperante”), con un proprio status per non essere estraneo al mondo ma mai cittadino del tutto libero del proprio sé.

La profezia si è avverata: in Italia gli studenti con disabilità sono raddoppiati in soli 20 anni, i cd. DSA ormai, a 12 anni da una legge iatrogena, li hanno sorpassati. Ma c’è di più: forse non è un caso che proprio lo stesso Marco Rossi Doria della “questione delle questioni” sul PNRR sia l’autore di una direttiva del 2012 che ha introdotto nella scuola una neo-lingua diagnostica che definisce i bambini e ragazzi che abbiano un qualche “bisogno” come bes, cioè educativi speciali. Gli effetti sono stati quanto meno discutibili, e producono un effetto stigma (anche se in buona fede) che può produrre più effetti indesiderati di quanto si pensi. Il principio pratico del bes è la logica della dispensa e della compensa, cioè di una pratica isolante dove si può dare al nostro bes meno cose da fare o cose adattate per varie vie.  Ma è una dispensa e una compensa dal mainstream classico di molti insegnamenti, mai messi però in discussione come la fonte invece dei malanni educativi.

Trovo sconcertante che per i ragazzini ucraini a fronte dell’imbarazzo di molti buro-pedagoghi delle scuole sul che fare (le prove invalsi si o no? Se fanno la loro Dad di mattina devo considerarli assenti o presenti?) il Ministero abbia suggerito alle scuole di considerarli bes, di farci sopra un PDP, così le carte sono a posto. E le persone?
Questa esplosione neo-epidemica l’ho chiamata criticamente in diversi saggi “La Grande Malattia”, non un fenomeno solo italiano, e rappresenta una riconversione del welfare  da strumento di sviluppo olistico e autonomo a trattamento isolante dei  sintomi, visti appunto come disturbi.
È noto come questa esplosione di nuove sindromi non abbia affatto migliorato la qualità degli interventi educativi né ridotto la vasta conflittualità tra gli insegnanti e i genitori.
È in questo humus ideologico che rischia di collocarsi anche la politica del PNRR nei confronti della dispersione scolastica, con cure adattative delle singole persone partendo non dai loro potenziali e talenti, ma dai loro sintomi problematici cui offrire la nostra benevola terapia.

Su questo la questione che a me come educatore turba di più  è l’effetto-paradosso che questa filosofia delle cure speciali sembra produrre. È argomento di numerosi studi(2) critici che però in Italia non hanno particolari effetti di ripensamento. Questi studi rilevano come la definizione dell’altro come “problema-deficit” cui offrire una “cura speciale” produce spesso nell’operatore (educatore, assistente sociale, insegnante, psicologo, ecc..) un ridimensionamento della possibile “zona prossimale di sviluppo” vigotskijana della persona: cioè  (per motivi clinici, di stigma, persino di assistenzialismo benevolo) ci si attende meno da questo altro, anzi si ritiene buona cosa non esagerare stimolando troppo i suoi (magari pochi) potenziali. E così pare di fargli persino un piacere adattativo. Col che passa anche all’altro (e alla sua famiglia) un “abbassamento delle attese dell’io”. Dunque lo sviluppo viene ridimensionato e non realizzato come sarebbe invece possibile. È l’effetto iatrogeno che produce spesso negli interventi sociali ed educativi degli adattamenti al ribasso con conseguente consolidamento della cronicità e quindi di una condizione assistenziale perpetua.

Questo effetto iatrogeno lo si sente anche  nelle discussioni sulle iniziative di contrasto alla dispersione. Cure assistenzialistiche di un difficile “recupero” col rischio di uno sperpero di impegno (prima professionale che economico) senza cambiamenti veri ma solo parziali e incerti adattamenti. E soprattutto il rischio che questo Intervento del PNRR resti come un una tantum, questo sì disperso in una scuola che non cambia profondamente il suo fare quotidiano. Il rischio, insomma,  è che ancora una volta l’assistenzialismo compassionevole venga calato sull’altro dall’alto, abbassandone i potenziali e accentuando il diventare un eterno paziente di qualcuno.

A proposito di povertà educativa

Uno dei segni di rischio iatrogeno che si possono produrre negli interventi ad hoc sulla dispersione è l’abuso che oggi si fa del termine “povertà educativa”, che diventa l’icona entro cui collocare tutti i bocciati e abbandonati con basso reddito. Qui davvero la variante semantica è grave.
Ho già scritto altre volte che per don Milani poveri non erano i suoi ragazzi ma i loro insegnanti di scuola media che li bocciavano senza alcun pentimento.

Comunque perché non diciamo lucidamente che in Italia la dispersione continua ad essere semplicemente la tradizionale e mai superata selezione di classe? Perché così è: l’aumento della povertà economica è un accidente grave del nostro paese,  e non c’è alcun dubbio che un ragazzo povero che magari vive in zone disagiate ha meno opportunità. Ma perché aggiungere al termine povertà quell’altro (molto più delicato e complesso) di educativo? Come se i figli dei ricchi fossero tutti gentili, cortesi, aperti, ecc. E come sei i poveri fossero tutti maleducati e sporchi.

Non è difficile qui trovare un pregiudizio illuministico del rapporto tra ricchezza e felicità. E un pregiudizio che contiene una sorta di metafora rieducativa per la quale i sacerdoti del dolore dovrebbero ri-educare al bene e al bello il povero maleducato estirpando le brutte abitudini culturali date dalla povertà. Qui le parole pesano come pietre e ottengono effetti perversi.
I ragazzi poveri hanno meno opportunità, ma un’educazione ce l’hanno, potrebbe essere a volte più profonda e creativa dei signorini  di città. Basta star loro accanto e scoprire i loro talenti.
Forse avere anche una politica di contrasto alla povertà economica più coraggiosa, per esempio con un aumento dei redditi da lavoro. Circa il rapporto tra ricchezza e felicità, forse merita ricordare sempre, a proposito delle famiglie, l’incipit di Anna Karenina di Tolstoj  “Tutte le famiglie felici si assomigliano, quelle infelici invece lo sono ognuna modo suo”.

Infine,  la categorizzazione del rapporto tra povertà e educazione in una neo-lingua unitaria rischia di produrre un mucchio opaco di stigmi compassionevoli dove si mettono dentro tutti i ragazzi poveri come fossero tutti uguali, a scimmiottare con tutor, mentor, e altri anglicismi che ripetono a tutti la stessa bonaria paternale.
Naturalmente, non si tratta solo di neo-parole controverse, ma di una visione del mondo, della società e del ruolo dell’educazione che ha oggi un contrasto vivo tra diversi punti di vista.

La nostra differenza dai sacerdoti della povertà educativa è chiara. Per questo dobbiamo però avere il coraggio di ragionare con maggior forza sui cambiamenti radicali necessari nel sistema educativo, nel fare scuola quotidiano. È li che nasce la malattia, assieme al bisogno di una comunità sociale quasi scomparsa (e da far rinascere) attorno alla scuola che sia dialogante, coinvolta, attiva, per una sussidiarietà orizzontale che non sia la delega a qualcun altro, ma l’impegno duro e difficile a migliorare insieme (scuola, comune, società civile, famiglia) la qualità della vita con una comunità di reciprocità, con l’umiltà di sapere che la vita è difficile, ma che ci resta solo una via: un’umanità che pensi al futuro dei nostri figli e nipoti con partecipazione attiva.

Standogli accanto

Un noto passaggio della Lettera a una professoressa ci può dare un primo piccolo ma essenziale paradigma trasformativo di cosa potrebbe voler dire davvero contrastare la dispersione. L’ho letto la prima volta alle magistrali, scuola che ho fatto perché figlio di poveri (durava quattro anni), e questo brano ha segnato la mia vita e i miei sogni professionali di maestro e privati.

Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. Standogli accanto ci si accorge che non lo sono. E neppure svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci deve essere un rimedio.
Allora è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono eguali e in seguito non lo sono più, è colpa nostra e tocca a noi rimediare.

È questo standogli accanto la chiave trasformativa di una buona educazione. Genitori o insegnanti o operatori sociali o volontari che siano. E la scuola la chiave per innalzare le attese e le passioni nella vita di ogni bambino e ragazzo. Standogli accanto, non sopra, non dietro. Non guidarlo con le nostre cure, ma aver cura del nostro ascolto e dei nostri miti e ragionevoli stimoli a lui.

Questo per i bocciati di ieri da aiutare e per quelli a rischio bocciatura di oggi. Con l’umana umiltà che fa l’onore del nostro mestiere quando sentiamo viva la responsabilità adulta di un’educazione buona per tutti, qualsiasi sia la loro condizione.

¹Ivan Illich et al., Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti, Trento, Erickson
²Allen Frances, Primo, non curare chi è normale, Torino, Bollati Boringhieri
Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli

 

 

INTORNO ALLA VARIANTE SEMANTICA. QUALCHE RIFLESSIONE.
– di Eliana Romano, presidente Proteo Fare Sapere Sicilia.
7 luglio 2022

Quel che scrive il nostro presidente, Dario Missaglia, come sempre ravviva il lume del mio intelletto; costringe a porsi domande, ad interrogarsi, con la sua stessa modestia intellettuale e la medesima fermezza. Domande sui tanti problemi della scuola italiana e sulla piega con cui li si affronta.
È una piega sempre gualcita che nasconde, da qualche parte, la volontà di affrontare ritardi, disagi, distonie sempre superficialmente, a vantaggio magari di qualcuno che solo ogni tanto è la scuola reale.

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Ius scholae, un dibattito quasi lunare

di Aluisi Tosolini

Si dibatte (anche molto aspramente) in questi giorni della proposta di legge definita jus scholae che interviene sul tema della cittadinanza.

La mia personalissima impressione – dal punto di osservazione in cui mi trovo – è che il dibattito in realtà abbia qualcosa di lunare, marziano, sia fuori dal mondo.

Sto facendo in questi giorni il presidente di commissione degli esami di stato in un grande e notissimo centro della provincia di Parma dove la percentuale dei cittadini stranieri residenti (quindi sia comunitari che extra comunitari) è pari al 21,2% (una persona su 5).
Nella provincia di Parma i cittadini stranieri sono il 14,7%, mentre a livello regionale la percentuale è pari al 12,6%  della popolazione contro l’8,4 di media nazionale (e l’Emilia Romagna è la prima regione in Italia per incidenza di stranieri residenti).

Gli studenti delle classi che stanno facendo gli esami rispecchiano la composizione sociale della popolazione della zona. Con diversi candidati abbiamo discusso anche della proposta di legge sulla cittadinanza che si sta dibattendo in parlamento.
Trovarsi davanti candidati 19enni, nati in Italia e che conoscono benissimo la lingua italiana, ben inseriti nel tessuto sociale, molti con un contratto di lavoro già in tasca presso le aziende del distretto che senza lavoratori stranieri sarebbero costrette a chiudere, fa impressione.
Sono italianissimi (certo più italiani di molti discendenti di antichi emigrati in sud America che per lo jus sanguinis potrebbero ottenere la cittadinanza italiana senza fatica) ma non sono cittadini.
A loro manca un diritto fondamentale, quello della partecipazione alla vita sociale e politica da soggetti attivi, votanti. Manca il sentirsi davvero a casa, il non essere e il non percepirsi come ospiti, cittadini di serie B.
Hanno frequentato le scuole in Italia, molti dalla scuola dell’infanzia in avanti e quindi ben più dei 5 anni richiesti dalla legge e che Fratelli d’Italia anni fa chiedeva fossero 8. Prenderanno il diploma, diversi si iscriveranno all’università.
Perché non dovrebbero avere la pienezza della cittadinanza italiana se lo chiedono e lo desiderano?

Una questione di coesione sociale

Personalmente credo che riconoscere queste persone come cittadini italiani sia non solo doveroso dal punto di vista etico e politico ma anche necessario dal punto di vista socio-economico. Sono questi i cittadini che terranno in piedi l’economia italiana nei prossimi anni. Sono loro che con il loro lavoro che finanzieranno l’INPS. Sono loro la linfa vitale della nostra società futura. Chi sostiene, surrettiziamente e ricorrendo alla solita tecnica del benaltrismo, che i problemi dell’Italia d’oggi sono altri, e nello specifico la crisi economica, i salari, l’inflazione il costo della vita, non si accorge che proprio a motivo di questi problemi economici sarebbe interesse dell’Italia riconoscere la cittadinanza a chi vive da anni in Italia.

La loro posizione pecca di iper-culturalismo ovvero l’opposto di quanto dicono. Appartengono a quanti farneticano attorno alle teorie della sostituzione etnica senza accorgersi che il declino della società italiana è già in atto e vede come responsabili primi proprio gli italiani stessi.
Da qui la necessità di riconoscere come nuovi italiani quanti hanno fatto un percorso scolastico in Italia: è una questione di coesione sociale. Infatti solo chi è pienamente cittadino fa parte compiutamente della società e può essere chiamato ad operare per il suo miglioramento, la sua crescita, il suo sviluppo ma anche il suo cambiamento, la rinegoziazione delle norme e delle regole del convivere sociale. Chi non è cittadino è ospite e come ospite non è tenuto a connettersi compiutamente alla rete sociale secondo logiche solidaristiche.

La centralità della scuola

La legge proposta, sin dal titolo, riconosce la centralità della scuola nella formazione di una persona e di un cittadino. Si tratta di una valorizzazione della cultura nel processo di acculturazione che conduce a condividere la lingua, le regole della convivenza, i valori di fondo che tengono assieme il tessuto sociale.
E’ il riconoscimento che la scuola forma in primo luogo cittadini e a questo scopo utilizza i saperi, le conoscenze e le competenze organizzandole dentro percorsi significativi di crescita umana, sociale, politica.
La proposta di legge riconosce alla scuola un compito e un valore spesso nascosti o negati dall’opinione pubblica che della scuola ha spesso una concezione distorta e decisamente parziale come il dibattitto di questi mesi ha più volte evidenziato con la richiesta di ritornare alla scuola di un tempo, quella che dava vere e solide conoscenze, quella che bocciava, che usava i voti come mannaia, quella che creava dispersione e abbandono Una scuola di classe tesa a sorvegliare e punire piuttosto che a formare cittadini critici e partecipi.

E’ di noi che qui si parla….

Così la discussione sulla legge è in realtà la discussione su noi stessi. Su chi siamo e su chi vogliamo essere. Sul presente e sul futuro della nostra società e della nostra scuola.
E, stando alle posizioni viste in questi giorni, l’orizzonte è abbastanza depressivo

https://www.giuseppebrescia.it/ius-scholae-ecco-il-testo-per-una-nuova-legge-sulla-cittadinanza/

 

 




Un premio Nobel per insegnanti e studenti ucraini

di Raffaele Iosa

Giorno 43 di guerra.
Continuo a scrivere sui nostri bambini e ragazzi ucraini profughi nelle nostre scuole. In questi pochi giorni ho raccolto decine di storie, seguito varie accoglienze (belle e brutte), avuto contatti (difficili) con vecchi amici delle terre slave. Ho fatto una decina di webinar a gruppi di scuole.

E sono giunto ad alcune considerazioni che qui ora è per me doveroso raccontare.

  1. Sono insegnanti da Nobel (della pace)

Sono stato il primo in Italia, a metà marzo,  a scrivere di questa strana  “Dad di guerra” che avevo scoperto per caso dai primi racconti (ancora incerti su cosa volesse dire) di alcuni nostri insegnanti e presidi.
Oggi sappiamo molto di più:  questa Dad non è un fatto casuale ed episodico  ma intenzionale. Già in un mio post su fb del 17 marzo,  “Pedagogia dell’infosfera”,  ne parlavo come uno straordinario evento educativo. Lì avevo segnalato anche il sito del ministero ucraino con un settore  intitolato education in wartime, in inglese, finora ancora troppo poco aperto dagli insegnanti italiani.

Ecco in sintesi essenziale di cosa si tratta. Prima che iniziasse la  guerra, il ministero istruzione ucraino si era preventivamente preparato,  utilizzando l’esperienza di Dad svolta anche da loro ai tempi del COVID.19, e l’ aveva prevista nell’eventualità della “chiusura fisica” delle scuole per guerra.  valorizzando le diffuse competenze digitali dei docenti ucraini. Ha poi accompagnato la proposta della Dad nel wartime, affidata alle singole scuole, con una vasta mole di “lezioni asincrone” da scaricare dal loro  sito, suddivisi classe per classe dalla 1 alla 12, approfondendo soprattutto quattro discipline: ucraino, matematica, scienze, storia. Dice il sito che è un “primo apporto di strumenti, nell’intenzione di ampliarli”. Poi il 24 febbraio parte la guerra ed  esplode un’esperienza pedagogica senza alcun precedente storico.

La Dad “sincrona” funziona più o meno così: sulla base di un “calendario” predisposto dagli insegnanti della scuola che siano ancora viventi e in grado di connettersi, i ragazzini di ogni classe vengono contattati in genere ogni mattina, per circa tre ore al giorno di “lezione”. A volte danno anche “compiti” se possibile farli e hanno anche  strumenti di una qualche verifica. Mettiamoci nei loro panni:  ad esempio una certa insegnante Svetlana 15 minuti prima manda un sms ai suoi ragazzi, poi si collega. I ragazzi sanno che se suona la sirena (bombe in arrivo) Svetlana spegne, ma restano in attesa se poi riprende.

Lei può essere ancora in Ucraina ma anche profuga in un paese europeo. Come i suoi ragazzi, uno in Italia, due in Polonia, altri in Slovacchia, Germania. Perfino in Spagna. Svetlana si collega…e parte una meraviglia. Ho seguito due “lezioni” in Dad, seduto in un angolo quasi nascosto, e mi sono commosso. Era evidente al mio cuore di vecchio pedagogo che certo contava la lezione, ma centrale era “la relazione” per  quelle anime sparse in Europa, fatta di calorosi saluti, sospiri, chiacchiere, fino ai baci lanciati online.

Nel secondo caso non ce l’ho fatta a tacere, e poiché Svetlana parlava un po’ di italiano l’ho  salutata con poche parole (troppe fa compassione) dandole un affettuoso ciao e soprattutto un complimento immenso per il suo coraggio, realizzato in uno scantinato semibuio di dove non posso dire e neppure so. Svetlana mi ha detto “spassiba per i nostri bambini”. E ovviamente, dasvidanje, Svetlana. Tra noi non finisce qui.

Per chi non riesce a connettersi e nei casi in cui l’insegnante sia in un luogo senza elettricità, per tutte le situazioni complicate, si scaricano le lezioni asincrone, con un piano ordinato di svolgimento.

Gli insegnanti italiani che ho contattato e le mamme ucraine incontrate mi confermano che tutti (ripeto: tutti) i ragazzi non vedono ora che ci sia il contatto. Mi raccontano che nessun insegnante si è tirato indietro a questo nuovo arduo compito, che anzi offre anche alla sua anima segni di speranza e di vita.

A questo punto un commento serio si impone. Questa guerra  sconvolge non solo l’Ucraina, ma di riflesso anche noi, però sono dispiaciuto del fatto che di questa straordinaria esperienza didattica se ne parli troppo poco e che resti in ombra come un fatto minore. Capisco che inorridisce e sconcerta la miriade di ucraini ammazzati nel fango, e preoccupa se questa estate dovremo usare meno il condizionatore. Ma un qualsiasi umano che sappia di bambini non può non  riconoscere in questa formicolante azione digitale che corre nella nostra infosfera un “poema pedagogico” inatteso, con  una valenza educativa e anche politica che rende onore agli ucraini.
Dalla terra  dell’ucraino Makarenko una storia altrettanto grandiosa.

Senza fare troppe esegesi geopolitiche, in questo impegno degli insegnanti  trovo la stessa  coraggiosa “resistenza civile” con cui il popolo ucraino risponde all’aggressione brutale dell’orso russo. Un’identità nazionale di senso civico, una citoyennitè che pochi europei si sarebbero aspettati prima,  l’orgoglio coraggioso di un popolo che non si arrende,  disposto a tutto per la sua libertà. E che se è costretto a mandare i figli fuori dal paese per salvarli, intende farlo per poco. Tornare a casa è il loro destino, che tocca a noi italiani rinforzare con un’accoglienza mite, empatica, non invasiva, efficace.

E, dunque, a fronte dei loro piccoli costretti a scappare dalle bombe  in Europa  per salvarsi, la scuola non chiude “per guerra”, ma anzi  mantiene in tutti i modi un saldissimo filo profondamente umano, ricrea (anche se virtuale) la comunità che apprende. Una comunità che così vuole e crede  futuro.

Ma ci sono due cose in più, squisitamente educative. In questa relazione virtuale sento, prima di tutto, la magia dell’I CARE donmilaniano, del non perdere nessuno, della “cura” umana ed esistenziale che dobbiamo ai piccoli e giovani, quella “cura dell’anima ferita” che Stefano Versari nella sua nota del 24 marzo scorso propone anche agli insegnanti italiani perché tema non clinico ma pedagogico e didattico.

In secondo luogo, il ricreare comunità attraverso la Cultura è collante indispensabile per il loro futuro. E’ la cultura  aperta creativa e critica il destino di un paese civile. Ed è la lingua (come logos, non come ethnos) la koinè che dall’infanzia  lega un popolo. Lingua e cultura sono l’antidoto alla barbarie. La cultura per poter pensare e scambiare con gli altri  simboli e  valori.  Ecco perché tenere  aperta la scuola è un atto di civiltà.

Naturalmente io sono un nessuno per candidare questi insegnanti al premio Nobel della pace. Ma mi permetto il coraggio sfrontato di proporlo. La vera risposta di pace alla barbarie, agli odi, ai conflitti, alle prepotenze è la scuola e la cultura che da lì si allarga. Lo meritano per il coraggio e la sensibilità che mettono nelle loro lezioni, in contesti martoriati, sotto le bombe, nascosti in cantine, rifugi, scantinati.
E questa scuola virtuale,  che funziona nonostante tutto,  a me pare uno dei più forti segni di pace per un paese martoriato e per un mondo disorientato da questa epoca di guerra.

 

  1. Questi bambini e ragazzi ucraini. Anche per loro il Nobel?

Da numerosi racconti fin qui raccolti, emergono alcune caratteristiche interessanti di questi bambini ucraini arrivati da noi.  Prima di tutto: non sono moltissimi. La gran parte di loro si sono fermati in Polonia o non lontano e già questo è un segno del desiderio del ritorno. In più la Polonia, come la Slovacchia hanno una lingua che assomiglia di più all’ucraino che il russo. Non è una sorpresa questa per molti di noi? Non fa pensare a qualcosa che si chiama “storia”? Quanto conosciamo la loro storia?

L’impressione generale è che si tratta di bambini probabilmente provenienti da centri urbani, con famiglie di ceto medio. Una prima valutazione delle loro competenze in genere sorprende i nostri insegnanti: sono molto più avanti in matematica, parlano l’inglese meglio dei nostri, sanno di informatica. Molti di loro a casa facevano un qualche sport. E nelle nostre scuole più accoglienti gli insegnanti e il comune hanno già trovato società sportive che li accoglie. Naturalmente tutti i maschi che giocano a calcio sembrano Sevchenko. Soprattutto per la classe 5 (che per il loro curricolo è come la nostra prima media) mi pare quasi per tutti improponibile metterli in 5.a primaria. Troppo scarto e perdita di tempo. In genere non presentano segni di tristezza o ansia,  né sembrano timidi. Pare dunque che in loro la resilienza sia forse più forte di quella delle loro madri accompagnatrici. Ma la tristezza è dietro l’angolo. E nel cellulare, che non serve loro solo per collegarsi alla loro Svetlana, ma anche ascoltare il babbo rimasto laggiù, che chiama quando può.

Se una scuola accogliente è sveglia potrebbe avere da loro molti spunti per mescolare le differenti esperienze educative, mutuando le une con le altre. Per esempio la loro educazione al lavoro…

A questo punto, perché non proporre anche a loro il premio Nobel per la Pace assieme ai loro insegnanti?

L’esperienza di questi pochi ma intensissimi giorni, inoltre mi permette qualche suggerimento

Prima di tutto è indispensabile un colloquio con la madre o l’adulto che li accompagna. Uno per uno. Di reciproca conoscenza e di approfondimento sul “chi” è del ragazzo/a, i suoi talenti, interessi, desideri, paure insicurezze. Ci serve anche per far conoscere meglio la nostra scuola come funziona. Si potrebbe fare bene anche in inglese, forse servono meno mediatori di quanto pensiamo. Questa è anche l’occasione di approfondire quale sia la classe giusta dove inserirli, evitando per loro una regressione. Ma serve anche a dare “idee sociali” da offrire al ragazzo/a e alla sua famiglia sulle attività sportive e sociali presenti nel territorio, e sulle reti amicali. Mandare un ragazzino ucraino in classe al vuoto, senza accoglienza e reciproca informazione sarebbe una vergogna pedagogica.

Ricordo inoltre che le mamme ucraine hanno alcune caratteristiche che merita conoscere.
In Ucraina l’età media delle primipare è  26 anni, a differenza delle nostre che è di 32.  In Ucraina i laureati di 30-40 anni sono il 56% della popolazione, a differenza dei nostri che sono solo il 29%. Avremo quindi madri mediamente più giovani delle nostre e più “studiate” delle nostre. Alcune potrebbero essere insegnanti o esperte che potrebbero essere utili a tutta la scuola. Teniamone conto. L’Ucraina ha una scuola seria.

Ho qui davanti a me un SMS appena arrivato  su una ragazza ucraina al suo primo giorno: si è trovata molto bene, ha legato in particolare con un compagno macedone perché si capiscono molto tra le loro due lingue e poi….parlano tutti e due inglese. Il ragazzino macedone ha fatto da Virgilio alla nostra ragazzina ucraina che (mi dice il messaggio) “lo ha lodato per la disponibilità e la pazienza”. Il messaggino ci insegna molto sull’individuazione della classe, in cui perfino la nostra plurale presenza di alunni stranieri in classe potrebbe essere una risorsa. Reciproca.

Dulcis in fundo, forse una bella riunione tra tutte le famiglie degli studenti della classe potrebbe creare occasioni d’oro di amicizia, solidarietà, accoglienza. Ricordiamoci: poche feste e salamelecchi all’inizio, non sono in vacanza. La festa la faremo quando torneranno a casa loro, amici per sempre perché non siamo stati invasivi e distratti, ma empatici e giustamente lenti.

  1. Per una scuola più accogliente un’esperienza che va fuori dei luoghi comuni

 Mi sono arrivate numerose richieste di informazione su tante cose, apparentemente minime, ma che attanagliano a volte le nostre scuole  spesso rese ansiose dalla panna montata del “regolismo para-carcerario e iper-regolato che attanaglia i comportamenti quotidiani.

Ne segnalo alcuni per evitare di far fatica per nulla e crearsi fantasmi.

Il cellulare, ad esempio. Non è difficile comprendere il valore del cellulare per questi ragazzini. Serve a loro per cose molto utili, quali il traduttore google simultaneo, l’uso per collegarsi in Dad se serve, e soprattutto l’attesa di notizie dal padre in Ucraina. Non dimenticate mai: questo è il loro cruccio principale e quello delle loro madri. Il padre è rimasto per la guerra. Inutile, se siete umani, farvi capire perché hanno questa umanissima ansia. Quindi questa vicenda butta per aria il regolismo a volte isterico di certe scuole sull’uso del cellulare, e potrebbe anche insegnare ai nostri ad avere un uso più saggio del loro cellulare. Potrebbe accadere anche che un ragazzino ucraino diventi amico-amico di un coetaneo italiano, al punto che il secondo si mette a studiare ancora meglio l’inglese. E si parlano, dio se si parlano!
Il ragazzino ucraino chiede all’altro di farsi insieme un selfie nell’aula, loro due abbracciati, che vorrebbe fare “for my father and my teacher”. E se lo fanno sorridenti. “Babbo, maestra, avete visto? Sto qua, ho amici, sto bene. E voi?”. Così scrive il nostro ospite sotto la foto inviata. E il compagno italiano la fa girare nei suoi circuiti orgoglioso, scrivendo sotto “io e il mio nuovo amico Oleg”. Ci potrà mai essere in Italia una stupidissima regola che vieta tutto questo? Provo solo brividi di piacere nel vedere come  questa accoglienza può aiutarci a sgretolare tanto conformismo regolativo che soffoca  la vita educativi.

L’Invalsi, per esempio. Me lo chiedono in troppi per non essere vero: devono fare i test?  E assieme a questo la valutazione, le pagelle, gli esami. Ricordo che nella nota Versari già citata questo periodo è proposto come “tempo lento per l’accoglienza”, centrato sull’empatia, la socialità, il primo italiano basic, e soprattutto come continuare il loro curricolo ucraino appoggiato al nostro. Ho già scritto in altri articoli che si sa che il ministero ucraino e il nostro e stanno concordando tutti gli aspetti (chiamiamoli così) “di forma” che rendono ansiose più scuole di quanto pensavo. Aspettiamo quindi che ci arrivino questi accordi di collaborazione e di organizzazione della loro accoglienza qui da noi. Vedrete che è tutto più semplice.
Fate invece quello che serve davvero a loro, non alla compilazione dei moduli e dei verbali.

La loro Dad, per esempio. Qui mi pare che le scuole inizino a comprendere. La loro Dad in wartime, se è presente, è al centro della nostra azione, è proprio quel “curricolo ucraino” che serve a loro per “non perdere l’anno” non in senso formale ma sostanziale. Quella deve essere quindi la base del nostro lavoro didattico e relazionale. Il nostro lavoro quindi deve saper accompagnare, sviluppare approfondire,  arricchire la loro esperienza scolastica, non essere in contrasto! Quindi dobbiamo capir bene come funziona, cosa fanno e poi rabboccare noi. Questa esperienza è del tutto originale nelle forme di accoglienza, prevede il ritorno a casa. Una seria pedagogia del ritorno deve quindi partire da lì. Mi sono perfino giunte richieste se queste ore vanno segnate “in assenza” oppure “in presenza” anche se fatte (come piace a me) a scuola in uno spazio calmo dedicato. Forse ci voleva una guerra (scusate questa frase) per renderci conto di quanto il nostro regolismo formalistico a volte ci rende ridicoli.

C’è intorno a noi il bello, per esempio. Ho frequentato molto per volontariato sociale legato a Chernobyl le terre (diciamo così) post sovietiche.  Mi sono fatto molti amici. Non ce n’è uno che parlando dell’Italia magari sa poco della nostra politica (e forse non ci perde molto) ma tutti ti dicono con un sospiro “Ah, Firenze! Ah, gli Uffizi! Ah Venezia! Ah Roma e la romanità! Ah, Capri!”. L’Italia è per antonomasia la terra del bello. E dunque, non potrebbe essere l’occasione per portarli nel bello di tante nostre città e paesi? E godere con loro il contatto con la bellezza? Platone ci diceva che il bello è buono. Questa volta forse ha ragione: a questi ragazzini incontrare il bello può far bene. E con loro anche a noi e ai nostri italici, dopo due anni senza gite.

A proposito, due pettegolezzi. Mi ha telefonato l’ufficio didattico della Galleria degli Uffizi per avere suggerimenti su come organizzare visite guidate per gli ucraini. Prendete nota. Secondo pettegolezzo, più ,prosaico: io sono di origine veneziana e non c’è nessun amico post sovietico a cui non riveli il segreto pontile lungo il Canal Grande dove con 50 centesimi ci si fa traghettare in gondola da una riva all’altra. Un passaggio in gondola quasi signorile