La parola “merito” va bene, ma va usata nel contesto giusto

di Domenico Sarracino

L’idea di chiamare “Ministero dell’Istruzione e del Merito” il vecchio MPI mi ha sorpreso creandomi un certo disagio e anche un inquieto malessere. Dico subito che di per sé l’idea di riconoscere e valorizzare il merito mi trova favorevole, ma a patto che la parola non sia presa isolatamente, ma chiarita, contestualizzata e collegata ad altre fondamentali condizioni.
Ora, il fatto che la compagine di governo utilizzi questa parola insieme ad espressioni ed esternazioni retrive ed oscurantiste che riguardano diritti, visioni del mondo, fatti religiosi e problemi economici e sociali, viene a costituire un puzzle minaccioso che non può non preoccupare.
Nelle mie considerazioni voglio partire dalle disparità presenti nella nostra società che non diminuiscono, anzi si accrescono, per richiamare subito il più alto compito che la Carta costituzionale si pone ed affida a chi è chiamato a guidare il Paese: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Dunque innanzitutto è necessario l’impegno a rimuovere le disparità, a costruire medesime condizioni di partenza e opportunità perché ciascuno poi possa farsi costruttore del proprio futuro, progredire, uscire dalla condizione di condanna ad una immutabile predestinazione che lo confina nella subalternità e ne deprime le aspirazioni.

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Se per tanti di noi l’ascensore sociale si è messo in moto permettendo di raggiungere mete ed un progresso sociale che i genitori, per le ingiuste condizioni sociali, spesso non hanno potuto conseguire è perché si sono congiunti due fattori importanti. Da un lato l’impegno, la fatica e lo spirito di sacrificio (rinunciare ad un divertimento, trascorrere le domeniche a preparare un esame, arrangiarsi con libri usati, arrotondare con qualche ripetizione e cose del genere) per poter esprimere le proprie potenzialità ed spirazioni; dall’altro il sostegno ricevuto dalla nostra Repubblica ( interprete dell’ansia di giustizia sociale e progresso provenienti dall’antifascismo e dalla Resistenza) attraverso borse di studio, assegni universitari ed altre facilitazioni. Promuovere il merito, intendendolo in questo senso, è un fatto di crescita individuale e sociale, apre la società a dinamiche progressive e costituisce un passo nella direzione dello spirito costituzionale e dell’uguaglianza delle opportunità.

E’ importante rilevare che Il benessere, la serenità della vita, la buona organizzazione sociale – un efficace sistema sanitario, scuola accogliente e ben funzionante, uffici pubblici competenti e disponibili, politiche non demagogiche ma responsabili – non sono mai dati automaticamente, ma sono sempre il frutto di una buona e giusta organizzazione sociale, del lavoro degli uomini e delle donne, delle loro preparazioni professionali e della responsabilità con cui le esercitano. Il vero riconoscimento del merito è quello che mette al bando nepotismi, raccomandazioni e scambi di favore; e pone abbienti e meno abbienti nelle stesse condizioni di partenza.

Il merito non può ridursi ad una corsa, ma deve essere un impegno a fare ciascuno al meglio il suo lavoro, a svolgere responsabilmente il compito a cui è chiamato. Infine, nel campo della scuola la parola in questione merita una particolare declinazione sia che si parli degli allievi che dei docenti.
Riferendoci agli allievi, non credo che ci sia consiglio di classe, per quanto malmesso, che nel processo valutativo non tenga conto di questi punti fermi, ben noti agli operatori del settore: situazione di partenza, percorso compiuto, impegno, buona volontà, partecipazione alla vita di classe, responsabilità e collaborazione; e non ci può, non ci dovrebbe essere consiglio di classe che non tenga conto anche dei supporti forniti per non fare parti uguali tra disuguali. E qui, più che parlare di merito, parlerei di valorizzazione da riconoscere.
Per quanto riguarda il lavoro dei docenti – che si articola in competenze disciplinari, didattiche, psico-pedagogiche, relazionali ed organizzative – non voglio negare che esistano differenze, ma nel contempo non posso non rilevare che esso è difficilmente misurabile, perché i modi di essere bravi professionalmente sono diversi ed ognuno ha i suoi effetti positivi sulle ricadute educative: c’è chi è un bravo disciplinarista e magari non brilla in empatia; chi si connota per le particolari doti didattiche; chi per una naturale dimestichezza con il mondo delle nuove tecnologie; chi per il tratto umano e la cura degli aspetti psicopedagogici; chi , più estroverso, riesce meglio a vivacizzare la lezione; chi è esempio di organizzazione, metodo, puntualità e precisione; chi più naturalmente è capace di stare vicino, incoraggiare e stimolare …
C’è poi anche il caso di insegnanti che non ce la fanno a reggere la classe o di chi demerita, ma la mia esperienza mi permette di dire che si tratta di casi sporadici e limitati, che si possono affrontare occupandoli in compiti collaterali o, nei casi di violazioni dei compiti contrattuali, ricorrendo alle leggi in materia. Infine, rimanendo nel campo scolastico, mi pare davvero importante richiamare un’osservazione che anche in questa sede va ribadita.
La scuola non è un processo produttivo, in essa non si producono oggetti, per cui data una materia grezza , si organizza una catena produttiva alla fine della quale devono uscire prodotti standardizzati con precise caratteristiche.
No, la scuola non è questo e guai se anche lontanamente qualcuno arrivasse a pensarlo. Dalla scuola non uscirebbero persone libere e dotate di autodeterminazione, ma freddi automi, mostruose amebe, la fine del mondo umano. Il difficile o la specificità del lavoro scolastico sta nel fatto che i soggetti in formazioni sono esseri umani, ciascuno con una propria storia, le proprie conoscenze ed esperienze, il proprio vissuto, il proprio background; e che perciò non possono essere oggetti predefiniti, ma soggetti che devono acquisire un loro sapere e saper vivere, un loro peculiare abito comportamentale, una capacità di pensiero autonomo e libero. Il lavoro scolastico non è una filiera lineare e ben sequenziata che si può racchiudere e descrivere in una formula, un algoritmo.
A scuola il successo educativo e le buone riuscite degli allievi sono sempre il frutto dell’azione educativa condivisa e congiunta che richiede costante ricerca e messa a punto, tentando e ritentando; è il risultato di una comunità di soggetti che solo agendo insieme possono riuscire nel difficile compito. E perciò premiare, riconoscere il merito di pochi, comporta il rischio di minare quel clima di collaborazione ed aiuto reciproco che fonda la comunità educativa e che permette alle forze di unirsi, e così facendo non le separa, non le contrappone ma moltiplica la capacità della scuola di svolgere i suoi importanti e delicati compiti




Merito, demerito, rigore e capacità

di Maurizio Parodi

Il nuovo, altisonante e indeterminato appello al “merito” voluto dal Governo Meloni è da molti riferito esclusivamente, prevedibilmente all’impegno degli studenti, e ricondotto a una vigorosa “stretta” normativa.

Va detto che i richiami al “rigore” didattico non sono mai rivolti alla qualità dell’impostazione pedagogica o alla congruenza della struttura organizzativa; no,
il riferimento è a una scuola in cui il merito quasi sempre consiste nell’estrazione socio-culturale, che premia i “migliori”, avvantaggiati in partenza, e allontana i “peggiori”, gli inadatti, i più deboli.
La nostra scuola è fin troppo sbilanciata verso una logica della prestazione che, tra l’altro, tende a confondere il virtuosismo servile con la qualità degli apprendimenti.
Una scuola che non “promuove” l’esercizio e lo sviluppo delle diverse abilità, delle diverse intelligenze di cui ciascuno è variamente provvisto, ma solo alcune abilità, alcune modalità d’uso dell’intelletto (per giunta le meno elevate, quelle legate alla ripetizione, alla memorizzazione), “bocciando” le altre, che in taluni, fortunati casi la vita si riserva di riscattare – vi sono imprenditori, giornalisti, persino scrittori, filosofi e scienziati che hanno trascorsi scolastici non propriamente brillanti.

Il rapporto tutt’oggi esistente tra rendimento scolastico e ambiente d’origine, il fatto cioè che i “capaci e meritevoli” prosperino soprattutto nelle famiglie “attrezzate” culturalmente e affettivamente, conferma che la scuola non funziona più nemmeno come ascensore sociale.

Ma di fronte al dramma, sempre attuale, della dispersione scolastica, non si può indulgere ad atteggiamenti di fatalistica rassegnazione, quasi si trattasse di un fenomeno “naturale”, di un processo “fisiologico” (e non patologico), connaturato al sistema comunque sano. Non è decente pensare che i ragazzi lascino spontaneamente la scuola, che “demeritino” colpevolmente, e non ne siano invece allontanati, che la rifiutino deliberatamente, e non ne siano respinti; equivale a dire che la scuola è giusta e i ragazzi sono sbagliati, proprio come il sarto menzionato da Postman che, limitandosi a confezionare un solo tipo di pantalone, sosteneva fossero sbagliate le natiche del cliente quando il suo modello non calzava a dovere.

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Ministero dell’Istruzione e del Merito: ma perché stupirsi? stava già tutto nel programma

di Nicola Puttilli

Stupisce lo stupore con cui il mondo della scuola e non solo ha accolto la nuova denominazione del “Ministero dell’Istruzione e del Merito”. Forse non tutti avevano letto l’accordo di programma relativo alla scuola delle forze che si apprestano a governare, il cui primo punto recita: “rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico…”.

Meritocrazia e professionalizzazione sono aspetti fondamentali nel quadro di un intervento complessivo e organico sul sistema di formazione. L’idea di sostenere i “capaci e meritevoli” è, tra l’altro, alla base dell’art.34 della nostra Costituzione.
Non è d’altro canto possibile non ricordare alcuni decenni di sociologia dell’educazione che, già a partire dagli ’60, hanno chiaramente messo in luce come il “merito” non sia una categoria del tutto neutra ma che strutture concettuali, attitudine all’apprendimento, atteggiamento verso lo studio si definiscono già nei primi anni di vita e dipendono in larga misura dai condizionamenti socioculturali dell’ambiente di provenienza.
Quello che preoccupa, e non poco, non è la presenza della parola merito ma la totale assenza di parole come inclusione e dispersione scolastica. In uno sguardo complessivo come dovrebbe essere quello di chi si accinge a governare non può mancare qualsiasi riferimento a quello che è considerato, ma non da tutti evidentemente, il problema più pressante della nostra scuola, sia in termini sociali sia in costi economici.

Anche “professionalizzante” è una bella parola a cui corrisponde un concetto altrettanto fondamentale. Lo storico disallineamento tra filiera formativa e filiera produttiva è infatti un altro grosso problema del nostro sistema formativo che determina da un lato rilevanti difficoltà al sistema economico, oggi ribattezzato tout court “made in Italy” e dall’altro persistenti fenomeni di disoccupazione e sottoccupazione che penalizzano in modo inaccettabile i nostri giovani.
Doveroso occuparsene in modo urgente e determinato, ma anche in questo caso colpisce l’assenza di qualsiasi riferimento “all’educazione del cittadino” che in una società democratica dovrebbe precedere o, quantomeno, affiancare la formazione del produttore con l’obiettivo, citando Dewey, di “formare persone in grado di contribuire al processo decisionale nel proprio contesto operativo e di vita e di comprendere in forma critica le scelte di governo”.

Altro punto qualificante del programma che non tarderà ad emergere è il “riconoscimento della libertà di scelta educativa alle famiglie attraverso il buono scuola”. Anche in questo caso ritorna in gioco un principio costituzionale, quel “senza oneri per lo stato” di cui all’art.33, soggetto a diverse e contrapposte interpretazioni. Rimane la considerazione relativa al saccheggio subito dalla scuola pubblica nell’ultimo trentennio, con dimezzamento della quota di PIL alla stessa assegnata e la inevitabile domanda: dove prendere le risorse se non ancora e sempre dalla medesima esausta fonte?

Pochi, certamente condivisibili e quasi di rito gli altri punti del programma relativo a scuola, università e ricerca (14° su 15 non proprio tra le priorità), tra gli altri, investimenti su edilizia scolastica, formazione del personale e superamento del precariato (temi storici rispetto ai quali nulla si dice sul come).

Merito, professionalizzazione, libertà della scelta educativa sembrano pertanto i temi caratterizzanti che segnano una scelta di campo, rafforzata dal non detto su temi non necessariamente contrapposti ma almeno altrettanto distintivi quali il contrasto alla dispersione, l’inclusione, la formazione integrale del cittadino.
Si tratta di un’idea di scuola fortemente identitaria che sembra voler ignorare molto di quanto si è effettivamente realizzato nelle nostre scuole negli ultimi decenni, temi su cui aprire un confronto aperto, senza forzature e tanto meno imposizioni. La scuola è troppo importante per diventare terreno di scontro ideologico, bisogna ripartire da un’analisi attenta dei suoi problemi reali e da quanto i suoi insegnanti e dirigenti scolastici hanno, fino ad oggi, costruito.




Te lo do io il merito. Dalla meritocrazia alla mediocrazia è un attimo

di Mario Maviglia

Chissà quanto costerà alla finanza pubblica (ossia a tutti noi) la nuova denominazione di numerosi Ministeri voluta dal nuovo Governo.

Occorre infatti cambiare l’intestazione delle carte (anche se buona parte della comunicazione oggi avviene on line), i timbri non più in regola, le targhette ai vari uffici. E questo per tutti i Ministeri coinvolti e per le loro diramazioni territoriali.

Gli istituti scolastici, ad esempio, dovranno subito darsi da fare per aggiungere “e del Merito” subito dopo “Ministero dell’Istruzione. E dire che molte di loro avevano da poco finito di aggiornare la vecchia denominazione di “Ministero dell’Istruzione e della Ricerca”. (Ma se fate un giro in rete, ci sono ancora istituzioni scolastiche che utilizzano ancora la vecchia denominazione di “Ministero della Pubblica Istruzione”. Nostalgici…).

Può darsi (ma è alquanto improbabile) che gli inventori del nuovo nome abbiamo pensato all’art. 34 della nostra Costituzione, dove, in riferimento alla scuola aperta a tutti, viene citato il merito (“I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”).
Non sappiamo per quale motivo, ma ci sembra che nel caso che stiamo trattando si faccia riferimento ad altri paradigmi valoriali (chiamiamoli così). E allora su questo punto conviene essere sfacciatamente espliciti e politicamente scorretti. Da molti anni in Italia (da sempre?) quando si parla di “merito” significa che si vogliono “sistemare” amici o amici degli amici (o familiari o parenti vicini e lontani o affini, con tutta la filiera genealogica del caso) in posti chiave o comunque ambiti, utilizzando (qui sta l’ingegnosità del paradigma) la parola magica del “merito”. È quello che succede quasi ordinariamente in ambito universitario, o nella nomina dei dirigenti pubblici ex art. 19 commi 5bis e 6 del DLvo 165/2001; o quello che succede quando si confezionano bandi ad hoc per la nomina di esperti/consulenti/formatori presso le pubbliche amministrazioni. Un ulteriore esempio è la cosiddetta fuga di cervelli dall’Italia, ossia quei talenti che non hanno alcuna possibilità di vedere riconosciute le loro competenze in quanto non adeguatamente “imparentati” con lobby o gruppi di potere.

Come funziona il meccanismo “meritocratico” in versione italica? È abbastanza semplice e tutto molto “regolare”: PRIMA si decide chi deve occupare quel determinato posto, e SUCCESSIVAMENTE viene confezionata la procedura valutativa o concorsuale in modo che non vi siano sbavature tra il dichiarato e l’agito (diciamo così). Insomma, una sorta di vestito cucito su misura del designato. Forse è per questo che quando sentiamo parlare di merito avvertiamo un certo fastidio, una sorta di orticaria comportamentale.

La rivincita della mediocrazia

Paradossalmente, questa traduzione nostrana della meritocrazia (ma probabilmente non è solo un problema italiano) porta a quella che Alain Deneault chiama “mediocrazia” [1],  ossia il trionfo dei mediocri. Illuminanti le sue osservazioni fatte nel corso di un’intervista; “L’esperto è una figura centrale della mediocrazia: si sottomette alle logiche della governance, sta al gioco, non provoca mai scandalo, insegue obiettivi. È la morte dell’intellettuale, come lo descrive Edward Saïd in un saggio, Dire la verità. Intellettuali e potere. Si tratta di un sofista contemporaneo, retribuito per pensare in una certa maniera, che lavora per consolidare poteri accademici, scientifici, culturali. I veri intellettuali seguono interessi propri, curiosità non dettate a comando, possono uscire dal gioco. Un giovane ricercatore universitario ha davanti a sé un bivio. Se vuole essere semplicemente un esperto ha buone possibilità di fare carriera, ottenere una cattedra, finanziamenti. Se ha il coraggio di restare un intellettuale puro avrà un futuro molto più incerto. Magari non finirà assassinato come Rosa Luxembourg o incarcerato come Antonio Gramsci, ma non è più certo di poter diventare un professore come Saïd o Noam Chomsky. Ha buone chances di restare precario tutta la vita.”[2]

C’è poi da chiedersi, più in generale, quale significato viene attributo al merito in una società neocapitalistica e liberista come la nostra (credo che si possano ancora usare queste espressioni. Non vanno contro il codice penale…).
Paradossalmente le critiche più spietate alla “meritocrazia” provengono proprio da alcuni dei Paesi più industrializzati al mondo. Il filosofo politico americano, Michael J.
Sandel, dell’Università di Harvard, vi ha dedicato recentemente un libro, tradotto anche in italiano [3], in cui sostiene che il modello del successo individuale basato sul talento crea un meccanismo perverso in quanto stigmatizza e marginalizza coloro che non ce la fanno.
Non solo: siccome il successo è strettamente correlato al reddito, si tende a svilire l’importanza di alcune professioni, pure fondamentali per la tenuta e lo sviluppo della società, in quanto non abbastanza remunerative (è il caso dei docenti o degli infermieri).
Un’altra perversa conseguenza è che siccome la sottesa convinzione che il successo sia da ascrivere alle proprie personali capacità di affermazione (secondo la logica “ognuno è artefice del proprio destino”), allora le politiche di sostegno verso i deboli o verso coloro che non raggiungono risultati ritenuti soddisfacenti sono inutili. Ecco perché, secondo Sandel,
il trionfo della meritocrazia comporta come conseguenza una società meno equa, peraltro con fenomeni di rifiuto verso quelle minoranze che abbisognano di assistenza e di sostegni (immigrati, disabili, disoccupati).

Concetti questi ultimi non molto diversi da quelli espressi da Papa Francesco nel 2017 durante una visita pastorale e Genova e commentate da José Angel Lombo in un suo articolo[4]. Il Papa richiama il rischio di una “dittatura della meritocrazia”. Se da una parte l’idea di merito è inseparabile dal lavoro e da quello che si fa, quando “si considerano ‘meritevoli’ attributi o qualità che non provengono dal proprio lavoro, ma da situazioni o contingenze circostanziali, come la propria nazionalità, le relazioni, o addirittura i propri titoli quando questi non sono supportati da risultati oggettivi”[5], allora si creano problemi di carattere etico e di giustizia sociale. Infatti “questo scambio dei ‘meriti morali’ per ‘qualità circostanziali’ – un vero quid pro quo – interpreta i talenti delle persone non come doni, ma come mezzi per determinare ‘un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi’. A partire da qui si sviluppano almeno due conseguenze. Da una parte, si rende possibile una strumentalizzazione ideologica della meritocrazia, vale a dire il suo impiego come strumento ‘eticamente legittimato’ per giustificare la diseguaglianza. Ma la diseguaglianza – non la diversità –, considerata in modo radicale, non è altro che ingiustizia. D’altra parte, questo rivestimento da moralità di ciò che è invece meramente circostanziale non è operato soltanto in senso positivo – pretendere di avere meriti in ragione della propria situazione –, ma anche negativo, e cioè colpevolizzando la sventura o le condizioni svantaggiate di alcune persone, ragionando in questo modo: ‘io merito la ricchezza che ho, tu meriti la povertà che hai’”.[6]

Al nuovo Ministro il compito di sbrogliare questa matassa. Se il merito lo sostiene…

[1] A, Deneault, La mediocrazia, Neri Pozza, Vicenza, 2017

[2] https://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2017/01/25/news/il_trionfo_della_mediocrazia_spiegato_dal_filosofo_canadese_alain_deneault-156837500/

[3] M. J. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, Milano, Feltrinelli, 2021.

[4] J. A. Lombo, https://www.pusc.it/sites/default/files/pdf/approfondimenti/Lavoro.pdf

[5] Ibidem

[6] Ibidem




La mistica della rete che promuove democrazia

a cura di Marco Guastavigna

Lo storytelling leggendario e mitologico di internet come agorà espansiva della democrazia resiste solo nelle ampie sacche di mistica dell’innovazione, purtroppo ancora vastamente diffuse nelle istituzioni formative della nostra Repubblica.

Altrove – ovvero in altri territori e in altri ambiti socio-culturali – le vicende Cambridge Analytica, il pullulare delle fake-news, il diffondersi del pensiero di odio, la segregazione nelle bolle di opinione, la manipolazione quotidiana delle coscienze da parte delle aziende di social business, la privatizzazione e la frantumazione della sfera pubblica da parte delle piattaforme del capitalismo cibernetico hanno invece mobilitato il pensiero autenticamente critico. Quello che si pone domande problematizzanti, mette in discussione i modelli di riferimento, propone attivamente alternative.

Tra le varie testimonianze di questi processi di ri-emancipazione l’appello che presentiamo e che invitiamo a sottoscrivere. Si tratta di un Manifesto per la realizzazione di media e internet con scopo esplicito di servizio pubblico, destinati ai cittadini e non più ai consumatori di informazioni, redatto da Christian Fuchs e Klaus Unterberger.




Crisi energetica, nubi nere all’orizzonte. Le scuole sono pronte?

Stefaneldi Gianfranco Scialpi

Crisi energetica. I prossimi mesi saranno durissimi. Le proposte in campo per convivere con
l’emergenza energetica. Ma la scuola è pronta?

Crisi energetica, sarà uno tsunami economico e sociale?

Crisi energetica. Dopo la pandemia che ha messo a dura prova le nostre esistenze, si profila
all’orizzonte un altro problema. Mi riferisco alla crisi energetica dovuta al rialzo del costo del gas.
Da diverse settimane i massmedia presentano scenari apocalittici con fabbriche e aziende
costrette a chiudere. Inevitabili le ripercussioni sull’occupazione. Al momento stiamo parlando di ipotesi, ma la tendenza sembra confermata.
L’ipotetico futuro conferma che ormai la società del rischio (U. Beck) è un’esperienza liberata dai
lacciuoli teorici.

Avanzano le proposte per la scuola

Al momento la scuola non è toccata dal problema. L’anno scolastico è iniziato, ripetendo gli stessi riti del periodo pre-pandemico. Tutto all’insegna del ritorno alla normalità. Eppure, una nuova riflessione, fatta di proposte che superino l’attuale profilo di scuola si sta profilando all’orizzonte.
Mi riferisco alle possibili soluzioni per affrontare il quasi certo periodo nero della crisi energetica.
L’ANP ha il merito di aver avviato la riflessione con l’idea cardine della chiusura delle scuole il
sabato, dimenticando però che queste sono il 20% del totale. Altra idea è la sostituzione dei
vecchi infissi con finestre fornite di doppi vetri. Le proposte ANP, ovviamente, non si fermano a
questi due punti, allargandosi ad altre soluzioni (spegnimento delle luci, sostituzione lampadine…).
Di un certo interesse è la proposta del comitato A scuola, costituito nel 2020 da famiglie, studenti e anche insegnanti per contrastare l’uso intensivo della Dad. In sintesi: “permettere a tutte le scuole di introdurre le lezioni di 50 minuti, così da rendere più “gestibile” la situazione, se la crisi energetica dovesse ulteriormente aggravarsi nel corso dell’inverno, rendendo necessari sacrifici per risparmiare gas“.

Lavorare ora alla proposta

Nulla, ovviamente, si improvvisa. L’idea deve essere elaborata a bocce ferme, in modo da
permettere eventuali integrazioni. Sarà molto difficile ri-organizzare l’orario pressati
dall’emergenza. Ne è convinto anche il Comitato A scuola che sottolinea: ” è importante che
questa decisione venga presa a breve: riceviamo notizie di istituti che già hanno deciso per la
settimana corta, con i disagi orari del caso, per non trovarsi a dover riprogrammare e riorganizzare l’intero orario nel bel mezzo dell’inverno. Concedendo subito lezioni da 50 minuti – sottolinea il Comitato – si potrebbe ovviare ai disagi alle scuole che hanno già compiuto questa scelta e permettere a tutte le altre di preparare un “piano B” logico e sopportabile in caso di imposizione della settimana corta per tutti”
Il Ministro Bianchi sembra aver abbandonato l’idea che la scuola sia comunque protetta,
ricordando che “ci sono le autonomie delle scuole: se una scuola decide di organizzare una propria struttura può farlo, ma si parta dalla didattica”
In conclusione resta la domanda: quante scuole stanno lavorando in tal senso?




Trasformare l’istruzione, costruire il nostro futuro

di Aluisi Tosolini

Il vertice delle Nazioni Unite Transforming Education è stato convocato in risposta a una crisi globale dell’istruzione, che riguarda l’equità e l’inclusione, la qualità e la pertinenza. Spesso lenta e invisibile, questa crisi sta avendo un impatto devastante sul futuro dei bambini e dei giovani di tutto il mondo allontanando il raggiungimento dell’obiettivo 4 dei “Goals per lo sviluppo sostenibile” (SDG 4).

Il Vertice offre un’opportunità unica per portare l’istruzione in cima all’agenda politica globale e per mobilitare l’azione, l’ambizione, la solidarietà e le soluzioni per recuperare le perdite di apprendimento legate alla pandemia e gettare i semi per trasformare l’istruzione in un mondo in rapida evoluzione.
Il vertice è nato anche sulla spinta del lavoro della commissione  International Commission for the future of education dell’Unesco che nel novembre 2021 ha pubblicato un fondamentale rapporto dal titolo “Reimagining our futures together: A new social contract for education” .

La discussione del vertice è stata ampiamente preparata nel corso dei mesi passati grazie al lavoro svolto su 5 Action track, ovvero cinque percorsi tematici e tracce d’azione

Gli Action Track cercano di mobilitare nuovi impegni, mettendo in evidenza gli interventi politici che funzionano e sfruttando le iniziative e le partnership esistenti, comprese quelle emerse in risposta alla pandemia di COVID-19.

Vediamo analiticamente i 5 action track riprendendone la descrizione dal sito del summit

Action Track 1: Scuole inclusive, eque, sicure e sane

L’istruzione è in crisi. La povertà, l’esclusione e la disuguaglianza di genere continuano a impedire a milioni di persone di apprendere. In aggiunta a ciò, il COVID-19 ha messo in luce le disuguaglianze nell’accesso e nella qualità dell’istruzione. Inoltre, sono aumentati la violenza, i conflitti armati, i disastri e l’inversione dei diritti delle donne.

L’educazione inclusiva e trasformativa serve a garantire che tutti gli studenti abbiano pieno accesso e prendano parte all’istruzione. Che gli studenti siano sani e salvi, liberi da violenza e discriminazione.

Problemi chiave

  • Inclusione ed equità
  • Educazione trasformativa di genere
  • Scuole sicure
  • Salute e alimentazione scolastica
  • Educazione nelle emergenze e nelle crisi prolungate

Action Track 2: Apprendimento e competenze per la vita, il lavoro e lo sviluppo sostenibile 

C’è una crisi nell’apprendimento di base. Mancano competenze di alfabetizzazione e calcolo tra i giovani studenti. Nel 2020, oltre 770 milioni di persone non avevano competenze di alfabetizzazione di base. Due terzi dei quali erano donne.

Trasformare l’istruzione significa conferire agli studenti conoscenze, abilità e valori. Costruire atteggiamenti per essere resilienti, adattabili e preparati per il futuro incerto. Contribuire al benessere umano e planetario e allo sviluppo sostenibile.

Problemi chiave

  • Apprendimento fondamentale (dalla prospettiva dell’apprendimento permanente)
  • Competenze per l’occupazione e l’imprenditorialità
  • Educazione allo sviluppo sostenibile compresa l’educazione ambientale

Action Track 3: Insegnanti e professione docente

Gli insegnanti sono essenziali per raggiungere i risultati dell’apprendimento e per raggiungere l’SDG 4. Ma l’istruzione deve far fronte a carenza di personale, mancanza di opportunità di sviluppo professionale e basso status.

Accelerare il progresso verso l’SDG 4 e trasformare l’istruzione richiede un numero adeguato di professionisti. Insegnanti e personale educativo formati, motivati e supportati. Per raggiungere questo obiettivo, l’istruzione ha bisogno di finanziamenti e politiche forti.

Problemi chiave

  • Carenze di insegnanti
  • Sviluppo professionale iniziale e continuo – pedagogie
  • Condizione professionale e condizioni di lavoro
  • Leadership educativa, innovazione

Action Track 4: apprendimento e trasformazione digitale

La crisi del COVID-19 ha portato innovazioni senza precedenti nell’apprendimento a distanza sfruttando le tecnologie digitali. Allo stesso tempo, i divari digitali hanno escluso molti dall’apprendimento. Più di due terzi degli studenti in età scolare (1.3 miliardi di bambini) non avevano accesso a Internet da casa. Queste disuguaglianze nell’accesso hanno fatto sì che alcuni gruppi, come giovani donne e ragazze, fossero esclusi dalle opportunità di apprendimento.

La trasformazione digitale richiede lo sfruttamento della tecnologia come parte di sforzi sistemici più ampi. Rendere la tecnologia più inclusiva, equa, efficace, pertinente e sostenibile.

Problemi chiave

  • Trasformazione digitale dei sistemi educativi
  • Connettività/riduzione del divario digitale; tecnologie inclusive/assistenziali
  • Contenuti di formazione digitale gratuiti, aperti e di alta qualità
  • Cittadinanza digitale, benessere, privacy e sicurezza

Action Track 5: finanziamento dell’istruzione

La spesa globale per l’istruzione è cresciuta, ma è ostacolata dall’elevata crescita della popolazione. La gestione dell’istruzione durante la pandemia di COVID-19 e la riduzione degli aiuti ha lasciato l’istruzione con un grave divario finanziario.

In questo contesto, il primo passo verso la trasformazione è esortare i finanziatori a reindirizzare le risorse all’istruzione per colmare il divario di finanziamento. In seguito, i paesi devono disporre di finanziamenti maggiori e sostenibili per raggiungere l’SDG 4. Queste risorse devono essere allocate e monitorate in modo equo ed efficace.

Affrontare le lacune nel finanziamento dell’istruzione richiede una politica in:

  • Mobilitare più risorse, soprattutto domestiche
  • Aumentare l’efficienza e l’equità degli stanziamenti e delle spese
  • Miglioramento dei dati sul finanziamento dell’istruzione

La determinazione di quali aree devono essere finanziate e come sarà informata dalle raccomandazioni di ciascuno degli altri quattro binari.

Problemi chiave

  • Finanziamenti adeguati e sostenibili adeguati alle esigenze del Paese
  • Equità ed efficienza della spesa per l’istruzione

The Youth Declaration on trasforming education

Uno dei documenti chiave presentati al Summit è la Dichiarazione dei giovani presentata come contributo dei giovani alla Sintesi della presidenza del Vertice sulla trasformazione dell’istruzione.
L’obiettivo della dichiarazione è quello di stimolare l’impegno politico sulla necessità di trasformare l’istruzione e di far sì che i giovani si approprino di questo processo.
La dichiarazione (disponibile in inglese al seguente link ) è costituita da un preambolo, 25 richieste specifiche ai decisori politici, e cinque impegni che i giovani assumono direttamente e che chiudono il documento.
Ne riportiamo qui la traduzione (effettuata automaticamente con DeepL)

Guidati dai principi, dagli scopi e dalle richieste di cui sopra, noi – i giovani del mondo – ci impegniamo a:

  1. Continuare a essere solidali con tutti i giovani in tutto il mondo e in tutta la loro diversità, in particolare con le giovani donne e le ragazze, i giovani LGBTIQ+, i giovani con disabilità, i giovani rifugiati e migranti, i giovani indigeni e altri gruppi vulnerabili ed emarginati, per trasformare l’istruzione;
  2. Continuare a sostenere la trasformazione dell’istruzione individualmente e collettivamente attraverso movimenti sociali, organizzazioni della società civile, soluzioni guidate dai giovani e altro ancora;
  3. Continuare a ritenere i responsabili delle decisioni, in particolare gli Stati membri, responsabili durante l’intero processo di progettazione, esecuzione, consegna, monitoraggio e valutazione delle richieste di cui sopra, assicurando che i nostri quadri di responsabilità siano trasformativi dal punto di vista del genere;
  4. Lanciare un piano d’azione coordinato dalla Rete dei Giovani SDG4 per portare avanti le suddette richieste oltre il Vertice, mobilitare le parti interessate per continuare a far crescere un movimento globale per la trasformazione dell’istruzione e dotare i giovani delle competenze necessarie per sostenere un’istruzione di qualità sia a livello locale che globale;
  5. Promuovere il dialogo e la cooperazione intergenerazionale, interculturale e interreligiosa nei sistemi educativi di tutte le comunità, paesi e regioni per creare un mondo migliore costruito sulla solidarietà, la diversità, l’empatia, la comprensione reciproca e il rispetto.

Link al documento: https://www.un.org/sites/un2.un.org/files/2022/09/tes_youthdeclaration_en.pdf