Se 80mila abbandoni vi sembran pochi

di Raimondo Giunta

La ricerca “Quanto futuro perdiamo?” promossa dall’impresa sociale “Con i Bambini”, presieduta da Marco Rossi Doria, e realizzata dall’Istituto Demopolis”, nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà minorile rivela un dato sul quale si dovrebbe meditare seriamente, perché rivela un quadro di fragilità sociale, in cui può perdersi una frazione consistente delle nuove generazioni.

Nell’anno scolastico passato oltre 80 mila studenti sono stati respinti per il numero delle assenze. E’ un fatto di evidente gravità che un numero così grande di studenti abbia regolato il proprio rapporto con la scuola assentandosi; un fenomeno vero e proprio di rigetto della scuola, che dovrebbe rappresentare una sfida culturale ed educativa da affrontare con energia e con le necessarie misure di contrasto.

All’origine di questa emergenza educativa gli italiani, secondo questa ricerca, pongono i problemi relativi alle strutture, perché troppo vecchie (64%); la carenza di attività di recupero per i ragazzi in difficoltà (58%) e l’inadeguatezza delle strategie che vengono attivate (63%); la scarsa motivazione degli insegnanti (56%).
ll fenomeno della dispersione e dell’abbandono è considerato un problema dal 53% della popolazione e viene percepito in via di peggioramento. Al centro del problema vengono collocate la fragilità del contesto familiare d’origine (74%), l’inefficacia delle istituzioni locali nel trattare il problema (58%), la vacuità del sistema di relazioni famiglia, scuola, istituzioni (57%).

E’ però un dato significativo che per l’85% del campione la responsabilità educativa delle nuove generazioni debba essere distribuita tra tutte le componenti di una comunità e non appartenga solo alla scuola; senza dubbio un fatto importante che indica una crescita della consapevolezza sociale dei problemi relativi ai nostri giovani. Non è, però, irragionevole pensare che a determinare l’abbandono scolastico di tanti giovani contribuisca, oltre alla disarticolazione dei rapporti tra enti locali, istituzioni scolastiche e famiglie, anche la stessa scuola come sistema, la scuola come istituzione con le sue regole, con la sua organizzazione, con i suoi codici di valore, con la sua identità culturale.
Tuttavia non è di questo aspetto del problema che ci si preoccupa di più per aumentare la capacità di attrazione della scuola e la sua efficacia, ma del bullismo e della violenza giovanile.
Questo aspetto è invece una delle soluzioni del problema e riguarda la parte delle responsabilità proprie della scuola all’interno di quelle che la società e le altre istituzioni hanno sull’educazione delle nuove generazioni
In ogni scuola il primo argomento del primo collegio dell’anno scolastico dovrebbe essere dedicato all’analisi e alla valutazione dei risultati degli scrutini finali dell’anno precedente, soffermandosi su quei dati che rinviano all’annosa questione della dispersione scolastica, alla quale in qualche misura non c’è scuola che non dia il proprio contributo….Il proposito da formulare e da tenere sempre presente dovrebbe essere quello di vedere come e se sia possibile contenerla. In nessuna scuola dovrebbero mancare la preoccupazione e l’amarezza di vedere tanti giovani perdersi e perdere le occasioni per istruirsi, per andare avanti, per impossessarsi degli strumenti che sono indispensabili per diventare cittadini e lavoratori all’altezza dei tempi.

Se Il problema della dispersione è senza dubbio di prima grandezza, non bisogna dimenticare, però, che non è di facile soluzione, perché non si dà una sola ipotesi interpretativa di questo fenomeno sociale e perché non c’è una sola causa di inconciliabilità tra istituzioni scolastiche e nuova popolazione scolastica, peraltro accresciuta dalla presenza di centinaia di migliaia di ragazzi di famiglie di recente immigrazione.
Sono varie le forme di disagio, scaturite dai contesti umani e culturali di provenienza degli alunni che si riversano sulla scuola e con cui si dovrebbero fare i conti .Nell’affrontare il problema della dispersione è opportuno considerare (e questo lo fa dire l’esperienza diretta della vita scolastica) che ad una certa età scolare, per lo più dopo il biennio delle superiori, non è tanto il possesso di specifici saperi di famiglia a determinare un migliore rendimento scolastico, ma la percezione del valore sociale dell”investimento in cultura, la conoscenza della profittabilità del sapere in tutto l’arco della vita, la pratica quotidiana dell’importanza delle competenze, della professionalità nella vita.
Nel processo di formazione il giovane che conosce il guadagno ricavabile dallo studio è in grado di sostenere la sfida quotidiana tra soddisfazione immediata e sacrificio, di intendere cioè il senso dello scambio tra sacrifici attuali ed eventuali vantaggi futuri.
Questo tipo di alunni conoscono le ragioni più rilevanti che motivano nello studio, conoscono i tempi, i ritmi e le difficoltà del percorso da compiere. Questo sapere esperienziale che la scuola possiede non sempre viene messo a disposizione di quei gruppi consistenti di giovani, che dal proprio ambiente non riescono ad avere questo importante sostegno. Vi è, inoltre, un problema di corrispondenza tra comportamenti individuali, acquisiti in ambienti sociali deprivati, e regole interne della scuola. La formalità dei comportamenti esigiti per assicurare un regolare svolgimento delle attività didattiche contrasta con le abitudini di molti alunni, soprattutto nella scuola dell’obbligo, molto vicine all’ indisciplina e questo impedisce spesso l’accettazione della scuola e del suo mondo. Il gruppo più numeroso di problemi è costituito, però, dal contrasto forte tra le procedure naturali di apprendimento e i processi di astrazione, di formalizzazione delle procedure d’apprendimento richieste dai saperi scolastici e dai linguaggi in cui questi si esprimono. In una parola dal contrasto tra cultura giovanile e cultura scolastica.
Rendere il processo di apprendimento attraente per le nuove generazioni è la sfida più impegnativa da affrontare a scuola. In questa contraddizione si concentrano gli insuccessi, i ritardi; si forma la consapevolezza della propria incapacità e matura molto spesso la decisione di abbandonare.
E allora quali saperi? Quali metodi? Quali tempi ? Quali metodi di valutazione? Come recuperare?
La scuola non può essere ritagliata su misura del primato logico-linguistico o peggio ancora sulla particolare figura di studente, estratta dall’ambito sociale che sul possesso del codice linguistico, ampio e ricco ha fondato e legittimato le proprie posizioni sociali.
La scuola si deve misurare con la pluralità dei linguaggi, dei saperi e delle intelligenze e dare a questa complessità il rilievo che merita e trarne le conseguenze.
Per gli alunni che si sentono fuori casa, estranei nel mondo scolastico è importante partire dai problemi che danno un senso al sapere che bisogna acquisire.
Bisogna adottare metodologie attive e realistiche che lancino un ponte con le pratiche sociali in cui gli alunni sono immersi. Bisogna tentare, nei limiti in cui è possibile, andare oltre l’aula per ritrovare tutti gli elementi possibili di contiguità tra saperi scolastici e i processi della vita quotidiana. Non si recupera lo svantaggio che denunciano molti alunni con l’aggiunta di ore di attività, che ripetono quelle che l’insuccesso hanno determinato, ma col cambiamento delle relazioni docente-saperi-alunno; con l’implementazione del patrimonio linguistico, chiave di accesso ai saperi; con metodologie dove il parlare abbia la stessa importanza del fare, il muoversi la stessa importanza dello stare fermi.
L’aula non è un auditorium e la cattedra un palcoscenico dove qualcuno recita la parte del sapere; l’aula deve essere un laboratorio che deve impegnare tutte le energie degli alunni, suscitare emozioni e il piacere della scoperta personale, attivare l’immaginazione. L’alunno deve rapportarsi al sapere con spirito amichevole e curiosità (D.Nicoli). Bisogna lavorare con dibattiti, con situazioni-problema, con esperimenti, con progetti di ricerca; bisogna dare spazio al dialogo, alla negoziazione, alla riflessione.
Non si deve avere paura di attivare processi di partecipazione e di coinvolgimento
A scuola si deve lavorare senza rassegnarsi ai dati acquisiti della “dispersione” come se fossero naturali e immodificabili.
La scommessa è quella di condurre i giovani alla conquista del sapere; una scommessa che va fatta ogni giorno e in ogni lezione. Ma senza amore, senza passione per il sapere e per il proprio mestiere non può essere vinta.
Testimoniare concretamente l’amore per il sapere che si vuole far possedere agli altri è la regola aurea per superare a scuola molte difficoltà nel lavoro di insegnamento.
Lunga è la vita dei precetti; corta e infallibile quella degli esempi (Seneca).




Il merito non si addice alla scuola

di Mario Ambel

Il dibattito.

In fondo è naturale che in un paese afflitto da pratiche pervasive di nepotismo, clientele, piccoli e grandi privilegi e impunità di ogni tipo, il merito susciti un moto di interesse, assurgendo a simbolo salvifico di piccole e grandi ansie di riscatto. In un paese dove “merito” –  spesso proprio negli ambiti che se ne fanno paladini: l’accademia, la politica, il mercato del lavoro – si coniuga tendenzialmente assai più con privilegio (che sarebbe in realtà il suo contrapposto) che con equità (che gli si oppone per altri versi), il merito è l’emblema più rappresentativo del mito del contrasto ai privilegi di casta, attraverso la competizione sana e governata da regole certe e condivise e da condizioni paritetiche di partenza, così come l’eguaglianza è l’emblema più rappresentativo del mito della eguale dignità e integrità degli esseri umani, indipendentemente dalle condizioni di nascita, dai contesti di crescita e dagli esiti inevitabilmente diversificati che ne derivano. In fondo la navigazione umana nelle democrazie occidentali si muove fra questi due opposti, spesso in acque tempestose. Trovare un equilibrio soddisfacente non è certamente facile. Ma è di certo il dovere primo degli stati democratici fondati sul diritto e sull’eguaglianza della legge per tutti.
Mi interessa qui solo in parte ragionare attorno a che cosa sia, a come vada intesa e giudicata la categoria generale del “merito”, ovvero se sia una garanzia o un sovvertimento dei suoi complementari e antagonisti dialettici, il privilegio e l’eguaglianza.

Al riguardo esiste una ricca bibliografia e, a onor del vero, per onestà intellettuale, anche i fautori del merito devono riconoscere che, nella letteratura sul tema, le riserve, le preoccupazioni e le perplessità, anche tra i fautori, prevalgono di gran lunga sulle propensioni e men che meno sugli entusiasmi.
Non così nel dibattito politico e giornalistico, dove il merito, soprattutto dopo la vittoria del centrodestra, ha fatto rifiorire schiere di fautori, facendone persino uno strumento di lotta alle disuguaglianze sociali e “al classismo”. 

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Il merito e i diversi contesti. 

Tralasciando un attimo la politica, che ha un modo inevitabilmente di parte e spesso pregiudiziale di trattare concetti e prospettive, certo è considerevole la schiera degli intellettuali, degli opinion maker e dei maitre a penser che sui maggiori quotidiani, nelle riviste, sui social si sono schierati dall’una o dall’altra parte, a difesa o a condanna (nel complesso più a favore) dell’impiego del merito come principio ispiratore e categoria interpretativa delle finalità e delle pratiche della scuola pubblica. Perché di questo si tratta o si sarebbe dovuto trattare.

Può essere interessante analizzare la validità del merito come categoria giuridica, sociologica, psicologica, organizzativa, gestionale. Ma il mio è un problema diverso e potrei esprimerlo così: la categoria del merito, comunque la si intenda, è applicabile alla scuola? Direi di più: è pertinente con la scuola? Ovvero, mi chiedo se è applicabile alla scuola, ancor prima di valutare se il farlo crea vantaggi (come vorrebbero i fautori) o danni (come sostengono i detrattori).
Lo dico per ricordare che all’origine del contendere c’è la denominazione del Ministero dell’Istruzione e quindi la sua identità e i suoi fini e non quelle della convivenza civile  nel suo complesso, oppure di un condominio o di una azienda o di una squadra di calcio o di una compagnia teatrale o di una gara in un qualsiasi ambito che preveda alla fine vincitori e vinti e relativi premi e retrocessioni. Lo dico anche perché, a mio parere, non è opportuno applicare la categoria del “merito” in modo eguale a questi diversi contesti, a meno che la si consideri una sorta di valore universale, come il diritto alla vita, alla salute, alla libertà personale e che quindi sia applicabile in modo efficace e coerente a ogni contesto, salva la restrizione del non recar danno ad altri. E anche qui sarebbe interessante chiedersi se la categoria del merito, anche qualora equamente applicata, ancorché sia possibile, sia tale da recare o non recare (ulteriore) danno a chi “non è giudicato meritevole”.
E dunque questa è la prima questione da porre: la categoria del merito è universale e non contrattabile, non relativizzabile ai diversi contesti, oppure no? Perché talvolta si ha la sensazione che i difensori del merito ne facciano una sorta di categoria universale da cui discendano conseguenze applicabili indifferentemente a ogni contesto del consorzio umano. Ma così non è. Se, nel quadro di regole che governano il calcio professionistico, per esempio, è auspicabile che in campo scendano gli undici che in quel momento l’allenatore reputa più meritevoli di giocare e se è legittimo (o comprensibile) che quelli fra loro che rendono di più in termini economici alla società siano pagati meglio, non è detto che, nella squadra di dilettanti che giocano per il piacere di farlo e senza far molto conto sul risultato e i guadagni, non sia il caso che ogni tanto giochino anche i meno bravi e redditizi. Che magari, così, migliorano anche un po’. Dipende da che cosa ci si prefigge dallo scendere in campo.

Il seguito dell’articolo nel sito della rivista Insegnare




ENTRIAMO NEL “MERITO”

di Giovanni Fioravanti

Se sono povero di parole anche il mio pensiero sarà povero, se le parole sono sempre le stesse anche il mio pensiero sarà sempre lo stesso.
Ci mancano le parole per immaginare un mondo nuovo e rischiamo di usare solo quelle vecchie che appartengono a un mondo che non c’è più.
Per chi guarda al passato e sogna una sua restaurazione questo non costituisce un problema perché il  vocabolario che gli serve è sempre lo stesso.

Contrapporre alla riproposizione di quel passato le parole che possediamo da sempre è come cadere nella trappola, oltre a rilevare la debolezza del nostro pensiero ormai usurato dal tempo.
È quello che ci accade nella comunicazione pubblica per cui ci facciamo catturare dalle parole che ci sono famigliari e diffidiamo dei linguaggi che ci sembrano stranieri.
E soprattutto sono lingue straniere quelle che provengono da mondi che ancora non ci sono e che non ci saranno mai se nessuno si assumerà l’ardire di iniziare a gettare le fondamenta per costruirli.

Un mondo che attende di essere costruito di nuovo è quello della scuola che non c’è. Mentre tutti bombardano l’edificio vetusto d’oltre un secolo, c’è chi pensa di ricostruirlo a immagine di come era e di come è sempre stato, più forte e più robusto di prima.
Allora se c’è chi pensa che la scuola deve selezionare, deve bocciare e in questo fa consistere il merito, semmai trovando d’accordo ampia parte di un pensiero pubblico immiserito dalle parole, che crede che chi non si impegna non merita di essere aiutato e quindi va sanzionato, caschiamo nell’inganno del moralismo per cui un furto è sempre un furto anche se rubi per fame.

Allora non è che i vessilliferi del merito li sconfiggi contrapponendogli l’articolo 3 della nostra Costituzione, perché il problema non sta nella selezione, nel merito e nelle bocciature, ma nel mantenere nel secolo nuovo un sistema formativo forse buono per il passato ma non per il futuro dei nostri giovani.

È la morte del futuro che continuamente ci viene proposta e da questa logica non possiamo farci irretire.
Non è più accettabile fornire ossigeno a un sistema formativo che è nato per selezionare anziché per promuovere, anziché stare accanto alla persona che cresce per sostenerla, accompagnarla, sorreggerla, sollevarla quando cade, assisterla quando si ferma, accelerare il passo quando riprende a correre. Ma occorre avercele queste parole nel cervello e averle strettamente connesse con l’idea di scuola e di istruzione, in modo che si accendano automaticamente quando la mente entra in questo campo semantico.

Lo scandalo non è che il Ministero ora si chiami dell’Istruzione e del Merito, ma perché non sia stato intitolato invece “Ministero della Conoscenza e dell’Istruzione Permanente” come avrebbe dovuto essere  stato fatto da tempo, al momento del nostro ingresso nel secolo della Conoscenza.
C’erano queste parole nel pensiero delle forze progressiste e di sinistra? No, non c’erano. Allora non urliamo allo scandalo, perché lo scandalo è l’assenza di una cultura dell’istruzione nel nostro paese che non sia la brutta copia del ‘900 e che guardi al futuro.

L’Unesco ha lanciato l’allarme: è urgente un nuovo patto formativo, ma nessuno ne parla e ne ha parlato.
Un ribaltamento della nostra piramide scolastica, un protagonismo sociale, politico e culturale degli insegnanti come lavoratori della cultura. E dove sono da noi gli insegnanti lavoratori della cultura, della cultura del paese, quella che sta dentro e fuori dalle scuole?

Nessuna delle forze politiche in campo nella contesa elettorale si è ricordata che viviamo nel secolo della Conoscenza e che la Conoscenza è la grande sfida del nostro secolo, a partire dalla realizzazione dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La centralità dell’istruzione permanente e del ruolo delle amministrazioni pubbliche, a partire dal governo e dagli enti locali, per la sua realizzazione, mai citata nel discorso di insediamento alle Camere dalla Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma nessuna delle forze politiche sedute alle Camere l’ha notato.

Listruzione è anche unespressione damore per i bambini e i giovani, che dobbiamo sapere accogliere nella società offrendo loro, senza alcuna riserva, il posto che appartiene loro di diritto: un posto nel sistema educativo, ovviamente, ma anche nella famiglia, nella comunità locale, e nella nazione.” 
Queste sono le parole da contrapporre ad una sistema scolastico che, a prescindere dal fatto che si enfatizzi sulla parola “merito”, è nato per produrre una selezione sociale e che nella sue strutture portanti ancora seleziona, nel XXI° secolo, tra liceo classico  e istituti professionali, senza scandalo per alcuno,  neppure i buon pensanti di sinistra che di fronte al “merito” pronunciato a destra gridano al lupo.

Quelle parole sono scritte da più di 25 anni nel rapporto Delors, Rapporto all’UNESCO della Commissione Internazionale sull’Educazione per il XXI secolo, caduto nel dimenticatoio insieme ad ogni parola nuova, ad ogni pensiero  innovatore delle nostre categorie mentali sulla scuola e l’istruzione.
C’erano pure i quattro pilastri dell’istruzione: Imparare a vivere insieme, Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare ad essere.
Il Ministero dell’Imparare. Sarebbe stata una sintesi bellissima tra istruzione e educazione, parole spesso usate in modo inappropriato.

Listruzione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali.”

Sono sempre parole del Rapporto Delors o il cervello le possiede e da qui muove per ragionare di scuola, di istruzione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, del loro futuro o tornano solo le vecchie parole trite e ritrite che segnano la povertà di pensiero della politica, a Destra come a Sinistra, nel nostro Paese.

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Ministero dell’Istruzione e del Merito? Dal 1999 fino a Bianchi non ha meritato più di un 4 e mezzo

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Guglielmo Rispoli

Dunque sarà Ministero dell’Istruzione e del merito.

Sono il profilo politico guardando da destra, da sinistra o da centro si possono fare tutte le legittime ipotesi (probabilmente tutte errate) con riferimento al proprio legittimo punto di vista ma anche col rischio di incorrere nei pregiudizi tipici di una popolazione che ragiona per approssimazione e luoghi comuni e dimenticando, parlo per i presunti progressisti, che il novecento è finito.

Questo mio contributo analizza il rapporto tra Scuola e Merito focalizzandosi sul ruolo e il successo delle azioni di Ministero dal 1999 ad oggi (vari governi di destra e centro destra e vari governi di centrosinistra).

Senza ombra di dubbio l’Amministrazione della Scuola della Repubblica Italiana è immeritevole.
Vediamo insieme perché prendendo dati conosciuti e significativi.

#01_ I dati della corruzione della politica e il numero dei processi la dicono lunga sullo scarso merito degli amministratori pubblici intesi come categoria e non come singoli. Anche nel Ministero dell’istruzione ci sono stati recentissimi casi di inquinamento e di tangenti, fatti inaccettabili.

Voto in decimi: 4emezzo – grazie al lavoro indefesso ed onesto di tanti.
Giudizio descrittivo: si può e si deve fare di più. Diamo spazio e visibilità alla qualità del lavoro dell’onesto personale amministrativo dal Ministero agli UUSSRR, alle singole Scuole

#02_ I dati relativi ad uno snellimento delle procedure connesse con il funzionamento amministrativo della scuola ci dicono che il Ministero dell’Istruzione – secondo le analisi e le richieste delle associazioni professionali dei dirigenti come delle sigle sindacali – lavora quasi all’incontrario. Pur in un regime di autonomia organizzativa, didattica, curricolare, di formazione e sperimentazione delle singole scuole (DPR 275/99) il Ministero ha prodotto ed inviato decine di migliaia di note, circolari agli UUSSRR ed alle Istituzioni scolastiche. Testi lunghissimi con centinaia di milioni di parole e con un lessico non sempre lineare, coerente, pragmatico, chiaro, concreto, efficace e efficiente, quanto poi non corretto da smentite e correzioni.
La macchina amministrativa del Ministero dell’Istruzione (con o senza altre definizioni ed aggettivi) è elefantiaca ed ottocentesca. Oramai ha nettamente superato la funzione positiva di visione weberiana come supporto all’organizzazione sociale di un pezzo importante del nostro Paese e – pur con il digitale – non ha fatto altro che trasformare le carte esistenti ancora negli anni novanta e poco prima del duemila in una ancòra più grossa elefantiaca macchina di produzione di contorte procedure da svolgersi su piattaforme da personale che non può fermarsi mai (DS, Dsga, assistenti amministrativi, docenti collaboratori del ds): le scuole rispondono di continui controlli come se fossero evasori che devono dimostrare tutto ciò che fanno alla Guardia di Finanza.
Questa sovrabbondante produzione non solo ha scarsa funzione comunicativa e di organizzazione aziendale ma è di fatto un continuo sgambetto al funzionamento delle strutture scolastiche che hanno come mission principale l’organizzazione del lavoro nei vari edifici (e plessi) e l’organizzazione della didattica e dei servizi connessi.
Distrarre il personale amministrativo e docente come gli stessi dirigenti scolastici è un’autentica azione di sapiente boicottaggio rispetto alla Mission istituzionale.
Occorre liberare la scuola dall’eccesso di orpelli.

Voto in decimi: DUE – inqualificabile
Giudizio descrittivo: sul piano dell’organizzazione aziendale il Ministero è tutto da rivedere

 #03_ La selezione del personale della Scuola incide negativamente sull’assetto organizzativo e didattico delle scuole italiane.

Fino alla fine degli anni novanta abbiamo avuti eccellenti dirigenti tecnici per lo più sempre meno valorizzati dal Ministero ed il cui organico, che andava potenziato in vista delle tante innovazioni dal DPR 275/99 ad oggi, è stato quasi oscurato e bloccato. Il numero sotto organico degli attuali dirigenti tecnici è talmente inconsistente che di fatto le singole scuole sono da un lato totalmente dipendenti – a livello amministrativo dal centro (leggasi viale Trastevere) – con quasi nessun raccordo ed aiuto organizzativo – formativo – didattico che non siano le centinaia di mail al mese. Chiunque capirebbe che è un sistema caotico e contraddittorio.
La selezione del personale dirigente delle scuole non era ineccepibile, ma la verità è stata che la selezione precedente era maggiormente efficace ed efficiente. Prova ne sia l’altissima selezione nell’ultimo concorso a Direttore didattico (1995) che ha visto il numero di vincitori inferiore al numero dei posti. Soprattutto quei direttori didattici oggi dirigenti scolastici (al netto dei pensionati) sono stati e sono tra i migliori dirigenti scolastici dell’intero sistema scolastico italiano. Quasi nessuno di quella generazione è stato oggetto di nomine per meglio coordinare i processi di innovazione e miglioramento pur in presenza, fin dal 2013, di uno specifico decreto ministeriale (n.80/2013).
Le selezioni successive, basate principalmente sui quiz e con prove orali anche di 4-5 minuti, hanno prodotto non pochi errori che non possono che essere attribuiti al sistema in sé. Certamente l’uso dei quiz demotiva e rischia di escludere le personalità più creative ed intelligenti.
La selezione del personale docente è farraginosa. Lunga, poco tecnica, nessuna considerazione delle attitudini con accuse reciproche tra amministrazione e organizzazioni sindacali sulle modalità ed oi visibili risultati di ritardo e qualità.
Prima di fare i soliti sbiaditi confronti europei occorrerebbe avere il coraggio di pubblicare e rendere note le modalità di selezione, le tempistiche, il valore aggiunto delle attitudini esistenti dal Portogallo alla Slovacchia, dalla Francia alla Svezia, dalla Germania alla Grecia.

Voto in decimi: zero per la selezione dei dirigenti tecnici
Voto in decimi: quattro e mezzo per la selezione dei dirigenti scolastici
Voto in decimi: tre per la selezione del personale docente

Giudizio descrittivo: il Ministero dell’Istruzione è oggettivamente inefficace ed inefficiente

 #04_ L’organizzazione della Didattica nella scuola italiana non è all’altezza della media Europea. Viene continuamente ricordato in tanti convegni e seminari e le statistiche delle prove INVALSI non fanno che ribadire un concetto di fondo che riguarda tutti: l’azione didattica della Scuola, dalla sua Direzione Generale del Ministero agli UUSSRR di tutte le Regioni, alle Dirigenze Scolastiche degli II.SS.AA. è poco aiutata e valorizzata.
L’impatto dell’azione di prevenzione dell’insuccesso scolastico è opaco o molto minimo rispetto all’ingresso a scuola di generazioni di bambini e ragazzi sempre meno aiutati a vivere bene la scuola ed imparare.

Il personale docente della scuola mal selezionato, mal retribuito, mal formato anche in discipline oggetto di rilevazioni nazionale, presenta preoccupanti sindromi di malessere della categoria per questa impotenza generale e specifica nella gestione annuale e quotidiana, come nell’inclusione, come nella promozione del miglior rapporto insegnamento-apprendimento.
Se non si pone rimedio ai fattori brevemente analizzati #01, #02, #03 appare evidente che ogni azione tendente al miglioramento della qualità generale e specifica rischia di far rilevare a valle ulteriore spreco di risorse economiche e professionali. Le scuole che eccellono spesso sono quelle che appartengono a territori privilegiati, hanno casualmente una leadership colta e preparata su vasti terreni, hanno casualmente un team di alta qualità. Nel primo caso la qualità può durare nel secondo e terzo caso appena cambia il dirigente o il team si sgretola per pensionamento e trasferimento di validi docenti i risultati si modificano.

Voto in decimi: quattro e mezzo
Giudizio descrittivo: la gran parte dei dipendenti anche dirigenti scolastici e tecnici ritiene che al Ministero non interessa quasi per nulla l’organizzazione della didattica.

Probabilmente è un effetto di appercezione. In varie parti del Ministero qualcosa si muove e si è mosso ma è poco seguita e valorizzata e soprattutto ad ogni cambio della politica molte azioni si bloccano

Breve analisi e breve conclusione

Questo contributo è nato per dare un aiuto di lettura di sistema a chi tiene alla Scuola Italiana ed al suo miglioramento come sistema dell’Istruzione e della formazione che punti all’inclusione ed al successo formativo di tutti e di ciascuno.
È inutile oltre che dannoso sventolare genericamente una parola – come merito – che di per sé non ha valore né positivo né negativo.
Senza un’analisi seria aggiungere la parola merito è solo la sostituzione di una mattonella in un bagno in cui l’acqua non si riscalda male, le altre mattonelle si sono crepate, la finestra non si chiude più e la porta è stata tolta da anni.
La mia opinione rimanda all’evidente importanza di tutte le teorie sistemiche; la più vicina alla scuola è quella di Bronfenbrenner.
Si può giocare a modificare le etichette e le tipografie che producono adesivi e carte intestate saranno felici ma se non si affrontano sistemicamente le questioni realizzando probabilistiche azioni di successo almeno in termini di efficacia, cioè come causa effetto avremo la conferma che:

  • Non si sa fare.
  • Non si vuole fare.
  • Non si deve fare.

Sollecitare il merito dei docenti in questo momento mi sembra ridicolo sulla base di quanto analizzato e con riferimento a reclutamento, retribuzione, motivazione, opacità della definizione degli obiettivi standard.

Se il merito fosse riferito agli alunni (e successivamente esprimerò la mia documentata opinione anche con riferimento alle famose questioni sull’uguaglianza delle opportunità) sarebbe oltre che ridicolo anche drammatico ed un po’ criminale visti i problemi di povertà sociale ed economica di milioni di persone in Italia come da dati dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT).

Altro che merito !!!

Si potrebbe spiegare quanto analizzato alla gente semplice e forse faremmo tutti una figura meno meschina se la proposta di trascrivere Ministero dell’Istruzione e del merito fosse al momento sospeso visti i debiti amministrativi, organizzativi, morali e funzionali accumulati dal Ministero dell’Istruzione (diretto da politici di destra e di sinistra) verso la comunità, i dipendenti, le famiglie ed i bambini ed i ragazzi. 

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Il discorso sul merito

di Stefano Stefanel 

Merito e Meritocrazia sono due nomi che, in questi giorni, fanno discutere, da qualunque parte li si voglia considerare. Poiché il Merito è diventato il nuovo logo del Ministero dell’Istruzione e del Merito credo che, almeno in questa fase, sia meglio attenersi al mondo della scuola, visto che analogo trattamento non hanno ricevuto, ad esempio, i ministeri della Funzione Pubblica, dell’Università e delle Ricerca, degli Interni, ecc.

Se ci fermiamo dunque al Ministero dell’Istruzione e del Merito sono quattro le categorie interessate alla questione:

  • gli studenti
  • i docenti
  • i dirigenti
  • il personale ATA

LA PERICOLOSA CHINA DEL MERITO COME CONTRALTARE DEL DE-MERITO

Cominciamo dagli studenti che, a tutt’oggi, nel mondo della scuola sono gli unici ad essere valutati in maniere, comunque, troppo disomogenee e molto poco eque. Va immediatamente sgomberato il campo da un possibile equivoco e cioè che tutto ciò che non è de-merito, per sua stessa natura sia merito. Per dirla in modo molto semplificato: se prendo 5 de-merito, se prendo 6 merito: questo è un modo proprio perverso di ragionare. La docimologia italiana è la base strutturale della sua dispersione, perché scambia misurazioni sommarie ed arbitrarie con i processi di valutazione. Bisogna, quindi, sgomberare il campo – immediatamente – dal de-merito, categoria legata a situazioni sociali, personali, culturali, motivazionali che si vanno ad intrecciare spesso con didattiche frontali ed obsolete, ossessione per compiti in classe e interrogazioni, interesse per i risultati dei prodotti e non per quelli dei processi. Il merito deve, dunque, essere qualcosa che dimostra particolari capacità degli studenti che devono essere premiate nell’ambito di un’azione meritocratica, che parte cioè dagli oggettivi risultati di coloro che riescono a sollevarsi dalla media. Dunque, il merito dovrebbe essere la ricerca degli elementi di eccellenza in un sistema che deve, contemporaneamente, avere attenzione ai bisogni di inclusione, supporto, accompagnamento, azioni dirette sulle persone.

Se si volesse percorrere la strada della valorizzazione del merito una buona lettura è quelle costituzionale: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” Questa dicitura intende tutelare un principio di equità non di concorrenza, mettendo tutti i “bravi e meritevoli” sullo stesso piano, sia che abbiano i mezzi, sia che non li abbiano. A prima (ma anche a seconda) vista sembra che l’idea insita nella Costituzione non sia molto simile a quella che ha ispirato il cambio di nome ministeriale. Il merito, comunque, si può premiare e individuare ma, per farlo, è necessario slegarlo totalmente dal de-merito, altrimenti si passa da una tendenza equa, ad una tendenza selettiva e iniqua. Quindi si deve partire dall’idea che i voti, in sé, non possono essere merito, ma soprattutto non possono discriminare il merito in rapporto al de-merito. Se non si sta molto attenti, in questo frangente, si rischia di trasformare tutto in un’unica notte dove tutte le mucche sono nere.

                L’azione sul merito inteso come elemento di valore e qualità alta o altissima dovrebbe produrre due provvedimenti che però scardinerebbero il sistema scolastico italiano:

  • L’eliminazione del valore legale del titolo di studio
  • L’eliminazione delle bocciature

Il valore legale del titolo di studio pareggia tutto: i diplomi e le lauree presi in Istituti e Università di grande valore e quelli presi per via telematica; i percorsi di eccellenza e quelli mediocri, le lauree di chi le ottiene al primo appello utile e quelle di chi si trascina per vent’anni all’università. Non credo sia necessario enumerare tutti gli elementi che hanno prodotto la grande distorsione italiana per cui il “pezzo di carta” fa aggio su qualunque competenza sia stata acquisita per raggiungere quel “pezzo di carta”: sia quella di alto valore e livello, sia quella strappata anche attraverso tutte le varie patologie del sistema (due anni un uno, istituti che usano metodologie valutative non comparabili, e via di seguito). Se i diplomi e le lauree non avessero valore legale, in primo luogo, si abolirebbero gli esami di stato, che forniscono classifiche tanto inutili quanto deleterie, su prove di tipo contenutistico spesso proposte per soddisfare le aspettative dei valutatori e non dei valutati.

Il secondo passaggio dovrebbe essere quello dell’abolizione della bocciatura, con la conseguenza di rendere necessaria una valutazione e una certificazione che descrivano attentamente tutti i percorsi in modo che si possano conoscere le reali competenze acquisite dagli studenti. Così si avrebbero, ad esempio, studenti che escono dai licei con il 100 e lode e studenti che escono con il 25, cioè con un semplice attestato di frequenza. Tutto questo collegato agli accessi universitari aperti solo a chi – in determinate materie – ha un voto alto. Per cui, ad esempio, se esco da un liceo scientifico con 4 in matematica non posso iscrivermi a ingegneria, dove ci vuole, poniamo, l’8. A quel punto pur provvisto di diploma devo andare a prendermi l’8 (al liceo o all’università), altrimenti a quella facoltà non posso accedere. Non credo sia questo il luogo per dettagliare, ma se voglio fare lettere classiche all’università devo proprio avere da 8 a 10 in latino e greco. Questo permetterebbe un’azione personalizzata sui percorsi, con studenti che decidono di perseguire il livello alto in tutte le discipline e studenti che si specializzano in rapporto all’università e al mondo del lavoro. A questo punto diventerebbe fondamentale e interessante sapere da che scuola o università viene uno studente, che percorso ha seguito, dove è di alto o medio livello e dove di basso livello. E gli unici “bocciati” sarebbero quelli che a scuola non ci vanno proprio e quindi diventano soggetti su cui si dovrebbe agire in primo luogo per via sociale.

Non credo sia molto complicato comprendere che questo sistema rivoluzionerebbe tutta la scuola italiana e – soprattutto – renderebbe evidenti, pubbliche e verificabili le valutazioni e le certificazioni delle scuole. Il voto perderebbe il suo valore e diventerebbe soltanto la descrizione di un livello di competenza, come già avviene per i livelli linguistici (anche se questi livelli a scuola assurdamente convivono con i voti). E anche gli studenti che escono dal sistema con una bassa votazione potrebbero vedersi valorizzate alcune competenze. In questo modo la ricerca del Merito inciderebbe sul profilo dello studente e non sul suo tempo di permanenza a scuola.

Io credo non si possa continuare a dare in premio agli studenti migliori lo “scalpo” (leggi bocciatura) di quelli deboli e in difficoltà, perché non si ha altro da dargli. Sono due profili di studenti diversi e devono essere trattati in modo diverso. Lo Stato dovrebbe prevedere posti di lavoro immediati per gli studenti di alto livello, con percorsi certificati da scuole-università-organismi indipendenti. Insomma, lo Stato dovrebbe saper individuare i migliori, non lasciare indietro nessuno differenziando le didattiche a tutti i livelli, premiare i capaci e meritevoli senza metterli in raffronto con chi ha problemi ad essere capace e meritevole.

QUIS CUSTODIET IPSOS CUSTODES?

La questione dei docenti, invece, la si potrebbe chiudersi già dal titolo: poiché in Italia i valutatori destano sempre sospetti, nessun metodo di valutazione cancellerebbe i dubbi sui valutatori e quindi tutto sarebbe destinato al fallimento (come è successo a tutti quelli che ci hanno provato da Berlinguer a Renzi). Anche in questo caso si potrebbe fare un tentativo separando il de-merito dal merito. Non tutti gli insegnanti che vengono a scuola tutti i giorni sono meritevoli: qualcuno oltre a venire a scuola fa ottenere ai suoi studenti ottimi risultati, qualcun altro un po’ meno. Però come si verifica tutto questo? L’unica possibilità è che il merito sia un elemento certificato di eccellenza, non una semplice sequela di cose fatte premiate per il solo fatto di essere state fatte. Una base di partenza potrebbe essere questa: su base volontaria l’insegnante chiede di essere valutato e un soggetto esterno definisce il livello di partenza dei suoi studenti e lo stesso soggetto esterno (nucleo di valutazione) verifica a fine anno se c’è un valore aggiunto: se c’è, bene, si premia il merito, se non c’è non accade nulla e si è fatto quello che si è potuto. Questo metodo non produrrebbe insegnanti di diversa categoria, ma solo docenti desiderosi di verificare la propria capacità di lavorare sul valore aggiunto.

Sui dirigenti non merita – almeno qui – fare un lungo discorso, ma solo dire che va applicata la legge e vanno tutti valutati.

SEGRETERIE IN AFFANNO

Anche in questo caso si tratta di cancellare il concetto di de-merito e di occuparsi solo del merito, ma non attraverso astrusi meccanismi valutativi, bensì premiando economicamente le eccellenze delle segreterie. Anche in questo caso va ribaltato il concetto di intensificazione della prestazione che col merito non ha nulla a che vedere e va, invece, approfondito quello di competenza tecnica ,che va premiata sempre (gestione economica, graduatorie, progetti, piattaforme sono solo alcuni nomi dove è semplicissimo vedere l’assistente amministrativo di alto livello da quello di basso livello). E anche nel settore dei collaboratori scolastici per un dirigente scolastico è immediato verificare il dipendente che interpreta il suo ruolo in forma minuziosa da quello che fa quello che deve fare senza cercare di migliorare, anche perché poi comunque riceve un’intensificazione (anche se spesso molto piccola). Il problema è che, anche in questo caso, se tutto ciò che non è de-merito diventa merito allora invece di produrre efficienza ed efficacia nelle scuole si produce un sistema falso-egualitario dove tutti hanno teoricamente gli stessi carichi di lavoro, anche se non ne hanno – con un’evidenza molto semplice da verificare – le forze e le competenze per gestirli.

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Che ce ne facciamo di un Ministero del Merito?

di Gianni Giardiello

Ossia: …. che cosa c’entra il premio al merito per alcuni, per una scuola che deve essere per tutti e per ciascuno.

Intanto cominciamo a chiarire che la nostra Costituzione dice che tutti i cittadini, a prescindere dalle differenti condizioni economiche e sociali e dalle possibili differenze di genere, di razza, di lingua, di credo, ecc. hanno diritto all’istruzione. La legge che stabilisce l’obbligo scolastico per tutti i cittadini dai 6 ai 16 anni di età, per 10 anni, conferma questo primo fondamentale principio costituzionale.

Il diritto all’istruzione deve essere assicurato a tutti i cittadini dal sistema scolastico pubblico nazionale al cui funzionamento presiede il Ministero dell’Istruzione.

Ebbene il primo problema che si pone è che il sistema scolastico cosi come sta funzionando non riesce a soddisfare questo compito primario che la Costituzione gli affida.
Le cifre ufficiali degli abbandoni scolastici e della dispersione scolastica nel segmento dell’obbligo e nel triennio superiore e nell’università lo dimostrano ampiamente.
Questa è la questione più rilevante. Credo che il bisogno primario non sia quello di premiare ulteriormente chi già è bravo o più bravo, quanto piuttosto di contrastare le politiche ancora molto in voga nella scuola pubblica, orientate a “respingere” (bocciare) o “abbandonare” i più deboli e meno attrezzati.

Il secondo problema nasce dalla considerazione, condivisa da molti, che bisogni dare a tutti le stesse opportunità di partenza e poi vinca il migliore. Quasi che il percorso di istruzione fosse simile ad una qualunque gara podistica.

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Ma sappiamo altrettanto bene che le condizioni di partenza non sono uguali per tutti e quindi è falsamente egualitario dare a tutti le “stesse” opportunità,E’ evidente quindi che se diamo a tutti le stesse opportunità non necessariamente garantiamo  loro uguali condizioni di partenza. Una buona politica dell’istruzione ed educazione deve invece, come già disse Don Milani, proporre che chi parte svantaggiato (soprattutto per quanto riguarda le condizioni socio culturali ed economiche della famiglia) possa avere di più degli altri. Una politica “discriminatoria” in senso contrario.

Una politica che spetta al sistema di educazione e istruzione nazionale garantire e gestire e che comincia da cosa si è in grado di dare ai singoli individui fin dalla nascita.

Numerose ricerche hanno confermato, ad esempio, che la frequenza del nido e di una buona scuola d’infanzia, non solo risolve i problemi di socializzazione primaria e secondaria dei piccoli, ma ne potenzia anche le capacità cognitive, psicomotorie e, più in generale, del saper apprendere. Cosi come sappiamo che per i piccoli è altrettanto decisivo, per costruire le proprie necessarie competenze “di futuro”, poter frequentare una scuola primaria e secondaria di primo grado che consenta la conquista delle conoscenze attraverso l’utilizzo delle capacità espressive, comunicative, logiche, operative e fisiche di ciascuna e ciascuno, proponendo ambienti di apprendimento favorevoli sia alla socializzazione e alla cooperazione fra pari, che allo sviluppo di percorsi di apprendimento individualizzati.

Ad una scuola siffatta non credo interessi granché il compito di premiare coloro che sono migliori degli altri, quanto, piuttosto, il riuscire a dare sostanza e continuità ad una azione educativa e istruttiva in grado di rendere migliori tutti gli altri, compresi soprattutto i “meno bravi”, coloro che sono più deboli e più in difficoltà.

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Contro la meritocrazia e per la giustizia a scuola

di Raimondo Giunta

La giustizia a scuola è oggi l’unica ragione della sua esistenza.
La scuola pubblica deve formare cittadini uguali, con uguali chances di partecipare alla vita pubblica, economica e sociale.
Il problema della giustizia a scuola è quello dell’accesso libero e paritario al sapere e alla conoscenza da parte di tutti i giovani.
Il sapere, il patrimonio collettivo di esperienze e conoscenze consegnatoci dalle generazioni precedenti è al servizio di tutti e non di pochi privilegiati. La conoscenza e il sapere sono, devono essere un bene pubblico e un bene pubblico per definizione non può essere posseduto da pochi.
E questo postulato non si deve dimostrare, altrimenti non si capisce perché si debba mantenere e finanziare un sistema pubblico di istruzione.
Contro l’ideologia del merito ci si deve battere, perché a scuola si possano ancora fare scelte di giustizia.

Ne cito qualcuna:
1) Ogni giovane, qualunque sia la sua origine sociale, deve riuscire ad affrontare gli altri su un piano di parità
2) La scuola deve offrire ad ognuno la possibilità di realizzare il suo potenziale umano per vivere secondo il principio di dignità
3) Nessuno deve restare indietro. Nessuno deve uscire dal sistema scolastico, senza il bagaglio necessario di competenze per non essere emarginato e vivere una vita dignitosa
4) La scuola non deve contribuire ad aumentare le differenze di riuscita tra individuo e individuo
5) Quelli che sono allo stesso livello di talento, di capacità e hanno lo stesso desiderio di utilizzarli devono avere le stesse prospettive di successo senza tener conto della loro posizione sociale.
Per trattare le persone in modo uguale, per offrire una vera uguaglianza di opportunità, la società e la scuola devono consacrare più attenzione agli svantaggiati, quanto ai doni naturali, e ai più sfavoriti socialmente per nascita.
“Un’eredità ineguale di ricchezza non è intrinsecamente più ingiusta di un’eredità ineguale di intelligenza” (J.Rawls).
Per essere giusto un sistema scolastico dovrebbe contrastare le disuguaglianze che conducono alla marginalità sociale.

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