Signor Ministro, Lei lavora troppo!

di Mario Maviglia

 Signor Ministro, è quasi commovente l’impegno che ci mette, attraverso le sue lettere/note/prese di posizione, per marcare la sua presenza presso viale Trastevere 76/A. Certo, può succedere che quando si produce troppo e in fretta, magari senza un adeguato momento riflessivo e comunicativo, qualcosa sfugga di mano e si rischia di fare affermazioni ambigue o incomplete o fuorvianti o inutili. Per esempio, nella lettera del 9 novembre inviata alle scuole in occasione della ricorrenza della Giornata della libertà, istituita con legge 61/2005, Lei ha (giustamente) invitato i giovani a riflettere sulla sconfitta di una “grande utopia”, ossia la conclusione “drammaticamente fallimentare del Comunismo”. Peccato che la legge 61 sollecita le scuole a organizzare “cerimonie commemorative ufficiali e momenti di approfondimento che illustrino il valore della democrazia e della libertà evidenziando obiettivamente gli effetti nefasti dei totalitarismi passati e presenti.” Totalitarismi al plurale, non solo del Comunismo, Sig. Ministro, come può facilmente comprendere qualsiasi studente di scuola primaria.

Qualche settimana dopo, nelle vesti di esperto pedagogo, Lei ha apoditticamente affermato, a proposito del Reddito di cittadinanza, che “è moralmente inaccettabile darlo a chi non ha terminato l’obbligo scolastico”. Quindi, tradotto in altre parole, chi non ha avuto la fortuna di completare l’obbligo scolastico ha anche la sfortuna di non poter accedere al RdC. Questo potrebbe essere uno dei pilastri per una vera inclusione sociale. Lei ha anche aggiunto, Sig. Ministro, che “l’educazione al lavoro è fondamentale, deve essere appresa già dalle elementari” perché in questo modo i ragazzi vengono educati “alla responsabilità e alla bellezza del lavoro, coniugare formazione con lavoro: questo è un obiettivo, una strategia che ispirerà il mio ministero”. Abbiamo voluto vedere in queste affermazioni un riferimento a John Dewey e al suo learning by doing, ma dubitiamo che lei conosca questo psicologo americano, e dubitiamo peraltro che Dewey intendesse questo. Abbiamo quindi tentato di intendere il Suo pensiero come una traduzione progettuale del Service learning, ma anche in questo caso abbiamo dovuto desistere in quanto non vi era collimazione né di contenuti né di approccio metodologico. Crediamo quindi, a buon ragione, che possiamo annoverare questa sua posizione come una via italiana originale della pedagogia makarenkiana. Unica perplessità: Makarenko non solo era un convinto sostenitore del valore pedagogico del lavoro, ma era anche un convinto comunista. E questo forse, Sig. Ministro, non Le farà piacere…

Sempre a proposito di lavoro, in occasione delle iscrizioni degli alunni e al fine di favorire il difficile compito delle famiglie e delle scuole nell’azione di orientamento dei giovani alla scelta di una scuola più adeguata, anche in relazione alle possibilità occupazionali, Lei ha meticolosamente accompagnato la Sua nota con una serie di schede che danno conto delle richieste occupazionali all’interno delle singole realtà. In tal modo i giovani dovrebbero orientarsi verso quelle scuole che garantiscono una formazione adeguata alle esigenze del mercato. Il ragionamento non è privo di fondamento ed anzi presenta una sua intrinseca logica interna. Vi sono solo due piccoli nei che lo rendono precario: con il processo di globalizzazione non è detto che i giovani siano disponibili a trovare lavoro sotto casa; a conclusione del ciclo di studi e prima dell’immissione nel mondo del lavoro le professioni oggi esistenti potrebbero avere una caratterizzazione molto diversa o addirittura essere scomparse. Insomma, inseguire le logiche del mercato è come entrare nel paradosso di Zenone, noto come paradosso di Achille e la tartaruga.

Molto si è discusso sulla Sua boutade dell’esaltazione dell’umiliazione nei confronti degli studenti che compiono azioni di bullismo. L’umiliazione insomma come fattore di crescita e di costruzione della personalità del ragazzo. Il tutto poteva finire lì, Sig. Ministro, ammettendo che era stata usata un’espressione infelice; ma Lei ha voluto precisare ulteriormente il senso del Suo pensiero e spesso, quando si precisa, si aggrava ancor più la situazione. Infatti, per quello che hanno riportato i giornali, l’umiliazione si è trasformata in umiltà, l’umiltà di chiedere scusa. Un concetto stupendo, che però è agli antipodi dell’umiliazione (sebbene condivida con questa la stessa radice etimologica (da humi, a terra, da humus, terra). Forse Lei a questo faceva riferimento. Ma non risulta che Lei sia specialista in etimologia. Peraltro anche il riferimento a “lavori socialmente utili” da far svolgere agli studenti che hanno combinato qualcosa di grave a scuola, e che Lei sottolinea come elemento di grande significatività, in realtà è già previsto dal nostro ordinamento giuridico. Infatti, come forse Lei saprà, il DPR 21 novembre 2007 n. 23, che modifica il DPR n. 249 del 24 giugno 1998 n. 249, dà sempre la possibilità allo studente di convertire le sanzioni in attività a favore della comunità scolastica.

Anche in una delle Sue ultime note, riguardante il divieto di utilizzare il cellulare durante le lezioni e ampiamente ripreso dalla stampa nazionale, Lei non fa che confermare quanto già stabilito dai Suoi precedenti Suoi colleghi. Infatti – come peraltro Lei stesso sottolinea nella nota 107190 del 19 dicembre 2022 – sia il DPR 249/1988 che la CM 15 marzo 2007 n. 30, danno indicazioni sull’uso del cellulare a scuola. Insomma, much ado about nothing, direbbe il William di Stratford-upon-Avon.

Lei lavora troppo, Sig. Ministro! Si riposi. Conti almeno fino a 10 prima di esternare o scrivere lettere. E soprattutto, cerchi di lasciare in pace le scuole: hanno già i loro grattacapi. E se proprio non riesce a stare fermo, faccia il Ministro dell’Istruzione! (sul Merito ne riparleremo). Non si improvvisi pedagogo o sociologo o psicologo. Da docente di diritto privato romano e storia del diritto pubblico romano dovrebbe sapere che è sempre valido l’adagio latino ne sutor ultra crepidam.

 

 




Ancora dalla parte delle bambine

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Cinzia Mion

“Ancora dalla parte delle bambine” è un libro di Loredana Lipperini,  con prefazione di Elena Gianini Belotti.
Il significato del titolo del libro della Lipperini palesa che purtroppo tutto è ancora drammaticamente vero!
La scoperta che la Lipperini mette in luce provocandoci un risveglio brusco  consiste nel prendere atto che, lungi dal coltivare il progetto della propria autorealizzazione, molte bambine/ragazzine/adolescenti attuali hanno come modelli  le famose fatine Winx, le altrettanto famose bambole(si fa per dire ) Bratz e i filmati Sex and the city!

Di conseguenza che cosa sognano di essere le “nuove”bambine?”
“Le loro bambole sono sexy  e rispecchiano o (inducono) i loro sogni: diventare madri, ballerine, estetiste, mogli di calciatori…”recita il quarto di copertina.

Da un’intervista fatta ad un’aspirante miss Italia il libro citato riporta l’affermazione che il  desiderio più vivo  “è quello di sposare un miliardario…”
Che l’obiettivo sia il successo,  il quale servirà a portare ad un ottimo matrimonio, fa capire che niente è cambiato!  Soltanto  il mezzo per riuscirvi appare uno solo: l’avvenenza fisica.
Anche la laurea servirà a costituire “la pedagogia del sapere femminile come ornamento”

Per poter affermare tutto questo l’autrice fa un’analisi minuziosa della rete Internet , i blog, soprattutto delle madri delle ragazzine, i forum, le chat, i siti, i videogiochi,  i personaggi virtuali oltre che prendere in considerazione la letteratura per l’infanzia, i libri scolastici, i giornali, i fumetti, la pubblicità, la televisione. E si interroga intorno ad una domanda cruciale:  – Come è possibile che ragazze che volevano diventare presidenti degli Stai Uniti abbiano partorito figlie che sognano di sculettare seminude a fianco di un rapper ?

Evoluzione o regressione?
In Italia certamente non siamo nel terzo mondo eppure siamo oggi in presenza di una regressione rispetto alle conquiste della donne che hanno caratterizzato le generazioni femminili comprese tra gli anni 50 e la fine del secolo scorso

Non è che non ci fossimo accorte del fenomeno delle veline ed affini, non è che non avessimo notato le schiere delle aspiranti miss ingrossarsi di anno in anno ma pensavamo che fosse un gioco ingenuo per una bella ragazza desiderare  di avere un riconoscimento, sia pur effimero, della propria bellezza. Quello che ci era sfuggito era che il fenomeno stava diventando di massa e che dietro non c’era un vero e proprio progetto di autorealizzazione ma “un’opportunità” in più per fare un buon matrimonio…L.Lipperini infatti scopre nei blog delle madri, che accompagnano le figlie ai concorsi di bellezza, che non lo fanno per qualche momentaneo trofeo ma perché in quei posti bazzicano gli uomini con i soldi….E pensare che mia madre (classe 1896!) raccomandava a mia sorella e a me: come minimo un diploma perché l’autonomia economica per una donna è fondamentale!

Ci era sfuggito che già a sei anni molte bambine al posto di un giocattolo chiedono le scarpette alla moda con la zeppa alta, che qualche volta le incontro per strada vestite con abitini leziosi,(con cui è difficile giocare, arrampicarsi, andare sullo scivolo,ecc) capelli fonati che scuotono ad hoc, per mano di madri orgogliose non solo perché così detta la moda ma anche per una specie di iniziazione indotta al tirocinio di seduttività!
Non avremmo mai pensato di poter scoprire che ragazzine di dodici anni potevano finire nelle discoteche a fare le cubiste, avendo già provato tutto del sesso, facendosi di cocaina e pasticche come la cosa più naturale del mondo! (Marida Lombardo Pijola-Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamano principessa. Feltrinelli)
L’industria dell’intrattenimento e quella della società dello spettacolo con il loro sottobosco e le contaminazioni subculturali che ne discendono si stanno diffondendo tra le preadolescenti senza incontrare nessun filtro critico.

Le giovani degli anni 70 e 80 si opponevano al sistema, oggi queste, senza nemmeno saperlo, lo confermano.
Come abbiamo fatto a non accorgercene?
Avevamo forse messo in atto quello che Galimberti chiama il meccanismo del diniego. Non volevamo prendere consapevolezza del fenomeno e preferivamo pensare che fosse un evento di nicchia, isolato, tipico dell’entourage di certi ambienti , della Rai o del cinema.
Purtroppo non è così e Loredana Lipperini ci ha aiutato ad aprire gli occhi.

Vogliamo restare indifferenti? O vogliamo riprendere a fare delle serie riflessioni all’interno della scuola, a partire dal nido, e dalla scuola dell’infanzia ed elementare per aiutare a ridare coraggio, lucidità, intelligenza, volontà alle nuove bambine? Per sostenerle nella maturazione di una identità di genere finalmente liberata, consapevole ed autentica, dimostrando  la competenza, la responsabilità, lo smalto di cui saranno capaci le future donne che oggi sono ancora delle piccole bambine?
Perchè, anche se non avevamo voluto accorgerci della deriva fin qui descritta, per fortuna esistono oggi anche moltissime giovani donne, consapevoli del valore e della dignità femminile che sanno coniugare l’autorealizzazione e la relazione, con risultati sorprendenti ed addirittura affascinanti, di un fascino vero,  non legato solo all’apparire, che possono fare da esempio per orientare le nuove generazioni femminili.

Urge però correre ai ripari e, per esempio, riattivare il Comitato Pari Opportunità presso il Ministero della Pubblica Istruzione con compiti formativi,  a partire dalla scuola dell’infanzia, (come è esistito dall’anno 1989 all’anno 1999 al quale ho preso parte come componente dell’Associazione Nazionale dei Dirigenti Scolastici)
Ci riferiamo non al semplice Comitato paritetico, previsto oggi dal contratto di lavoro che, così come è impostato, difficilmente può interessarsi a diffondere nella scuola la cultura delle Pari Opportunità.

Intendiamo un Comitato che si faccia carico di  orientare consapevolmente bambine e bambini, ragazze e ragazzi verso la maturazione della loro identità di genere, evitando il più possibile vecchi stereotipi  o nuove storture o quei condizionamenti che hanno caratterizzato o ancora caratterizzano, come abbiamo visto, l’educazione.
Un Comitato PPOO composto da soggetti femminili e maschili, che abbiano approfondito sia la tematica del genere che quella della formazione.

Esiste il comma 16 della Legge 107/15 che dovrebbe “assicurare” questa formazione ma molti genitori “talebani”, temono che questa formazione possa “legittimare” l’orientamento omosessuale e parecchi Dirigenti che non vogliono “grane” lasciano perdere…
Alla prossima puntata proveremo ad approfondire la deriva dei nuovi  bambini,  vale a dire dell’identità maschile, che ancora di più abbisogna di essere presa in considerazione.

 Bibliografia

Lipperini Loredana- Ancora dalla parte delle bambine –Feltrinelli, Mi, 2007
Pijola Marida Lombardo-Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamano  principessa.
Feltrinelli, MI, 2007

 

 

 

 

 




La scuola che vorrei

di Raimondo Giunta

L’erba voglio non cresce e non è mai cresciuta da nessuna parte e tantomeno a scuola. La scuola che volevo, però, mi ha aiutato nei tanti anni di servizio a superare le difficoltà del momento e a rendere migliore quella che abitavo.
La scuola è oggi in rotta di collisione con la vita quotidiana delle famiglie e dei giovani; gli orari, il calendario, la struttura fisica degli istituti sono espressione di un ordinamento, compatibile con altri ritmi di vita, con altre regole sociali, con altre tendenze dei rapporti umani. L’attuale struttura della scuola è lo specchio della società come era qualche decennio fa.

Alla radice del disagio scolastico, che può debordare in degrado, si trova questa crescente contraddizione tra quotidianità e scuola, bisogni riconosciuti della società e organizzazione scolastica.

La scuola italiana ancora oggi in moltissimi casi è fisicamente preordinata alla sola attività didattica delle lezioni. In molte scuole non si può fare nemmeno l’educazione fisica per mancanza di palestre; non si fa decentemente ricreazione per mancanza di cortili; sono entrati i laboratori, ma non ancora la didattica laboratoriale.  Se funzionasse bene, ma non è così, essa sarebbe funzionale solo ai compiti di istruzione, alla formazione intellettuale, ma oggi tutto questo, per quanto importante possa essere, non basta. I giovani in questo particolare momento della società hanno bisogno di qualcosa di più. Hanno bisogno di cura della persona, dell’attenzione a tutti gli aspetti non intellettuali della loro formazione(sensibilità/affettività/valori).

Queste nostre scuole piene di discipline, di ore di lezioni, di compiti pomeridiani, di progetti, ma privi di spazi e di momenti di convivialità cominciano a fare danni. L’adeguamento dei curricoli, che maniacalmente si sbandiera ad ogni cambio di governo e di ministro, deve andare di pari passo con la trasformazione radicale degli spazi e del tempo scuola, se vuole raggiungere i risultati che si propone.  Ma non basta. Le sorti dell’innovazione e dell’efficacia del servizio scolastico sono nelle mani degli insegnanti, mai così maltrattati e mai così poco difesi ed apprezzati dalle famiglie, dall’opinione pubblica e dall’amministrazione. Con un esercito smisurato di sottoproletari della cultura è già tanto se la scuola si tenga in piedi.

Ristabilito, come il buon senso richiede e come si fa in altre nazioni, il decoro sociale dello status degli insegnanti, perchè devono poter svolgere il proprio lavoro senza imbarazzo e senza umiliazioni, bisognerebbe fare una rivoluzione professionale per cambiare un mestiere ritagliato solo per alcuni compiti. L’insegnante deve poter sapere non solo che cosa insegnare e come, ma anche e soprattutto chi sono i suoi allievi, in che genere di ambiente e di famiglia vivono, in che genere di società loro stessi e gli alunni vivono. Ci vuole più cultura pedagogica, più cultura istituzionale, più cultura sociologica, più cultura psicologica..

La società italiana con i fondi del Recovery fund potrebbe avere una scuola diversa: scuola aperta dalla mattina alla sera, scuola con spazi, scuole con mense, scuole con convitto, scuole con più e diversi operatori; scuole con più libertà, scuole con più mezzi; scuole integrate nel territorio. Ecco è questa la scuola che vorrei per gli studenti, per gli insegnanti e per le famiglie.

 




Valditara, dimettiti. Te lo dico da genitore!

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Franco Giorgio
presidente Disleporedia

Non sono un insegnante e non lavoro nella scuola. Sono semplicemente un genitore che si è impegnato in questi anni nel sociale in particolare come presidente di una associazione di volontariato il cui obiettivo è quello di supportare le famiglie e in particolare i ragazzi con difficoltà di apprendimento.
Trovo inaccettabili e da respingere al mittente le dichiarazioni del neo ministro dell’Istruzione e del “Merito” “…quel ragazzo soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche, l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità, di fronte ai suoi compagni è lui lì che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. Da lì nasce il riscatto, da lì nasce la maturazione, da lì nasce la responsabilizzazione”. – Giuseppe Valditara, Ministro dell’Istruzione e del Merito

A proposito del carattere terapeutico dell’umiliazione, richiamato dal ministro Valditara che, a stretto giro di posta si è scusato poi per le sue affermazioni, vi è da osservare che se fosse veramente reale e avesse una certa consistenza, tanto da essere preso in considerazione dal dicastero dell’istruzione e del famigerato “merito“, ci troveremmo davanti ad una vera e propria rivoluzione dei principi educativi.


Umiliazione come forca caudina evolutiva, come passaggio ineluttabile per lo studente che non studia, che sbaglia, che diserta le lezioni e, quindi, viatico di una formazione che vive della coercizione, dell’imposizione etica, che impedisce all’errore di essere una leva per trarre empiricamente beneficio dall’esperienza fallace.
Il ministro si sarà pure scusato, ne va preso atto, ma ciò che ha detto lo pensa. E’ il suo linguaggio anche politico con cui si traduce una parte dell’azione di governo, non certo limitata al solo campo dell’istruzione pubblica e di quella meritocrazia che somiglia sempre più ad un sinonimo dell’umiliazione apparsa sulla scena con una fulminea e deflagrante perturbazione delle coscienze.

Qui siamo proprio all’ABC dei fondamenti etici del diritto. Torniamo molto più indietro di don Milani e della Montessori. Torniamo a Cesare Beccaria, all’Illuminismo che rischiari un po’ i cerebri depennasti di una destra di governo che ha nella sua conformazione genetica la predisposizione alla punizione come atto catartico, come contrappasso tanto delle idee quanto dei comportamenti.
Se lo studente sbaglia, gli tocca l’umiliazione, una moderna gogna, senza essere messo in groppa ad un asino, senza indossare il cappello a punta alla Pinocchio, ma dovendo sopportare il giudizio etico, superiore di chi non sbaglia.
E chi è che non sbaglia mai? Nessuno. Il richiamo, quindi, all’umiliazione come transumanza dell’incoscienza dentro un cammino di purificazione dantesca, fa pensare che la destra abbia in mente di sollevare sempre più l’orpello su una sorta di feticismo di Stato che, oltre tutto, legherebbe molto bene con l’idea che ha del lavoro e della povertà che deriva dallo sfruttamento della mano d’opera, così come delle menti.

Se la colpa è un dato di fatto, e se l’unico modo per espiarla non è la condivisione, il dialogo, lo scambio delle esperienze, bensì l’umiliazione, siamo certo che da tutto questo lo studente ne tragga un arricchimento personale? O piuttosto non si incattivisca ulteriormente, non rifiuti il rapporto sociale, con chi lo circonda, con le istituzioni scolastiche, con il mondo del lavoro e divenga sempre più guardingo nei confronti del resto del mondo?
Quando un ragazzo sbaglia nel rivolgersi malamente al suo insegnante, nel prenderlo ripetutamente in giro, oppure nel bullizzare i suoi compagni di scuola, prendendosela con i più deboli, l’insegnamento che gli dobbiamo consegnare non è la stessa umiliazione che lui ha fatto vivere ad altri.
Nemmeno sotto forma di lavoro socialmente utile. Perché se un lavoro di questo tipo viene dato con lo scopo di degradare il morale di un giovane, piegandolo ad una sorta di pentimento religiosamente inteso, il passaggio successivo sarà sempre e soltanto vincolato a due interpretazioni: il timore dell’autorità o l’aperta ribellione ad essa.

E, francamente, fra queste due opzioni, non fosse altro che per una presa in carico della propria vita e della propria coscienza critica, ci si deve augurare che quel ragazzo o quella ragazza scelgano di essere liberi il più possibile ribellandosi a chi vorrebbe insegnare loro che un errore, piccolo o grande che sia, si corregge solo con la sofferenza, con il sottomettersi e il patire e non con il cercare insieme una soluzione.
E’ evidente che nemmeno il ministro intendeva, parlando di umiliazione, arrivare a queste conclusioni. Tuttavia, siccome una lettura critica di quel discorso va fatta, non si può non farla fino in fondo, considerando tutti i più minuziosi aspetti, le più impensabili conseguenze che avrebbe l’adozione di un comune sentire in merito, di un adeguamento abitudinario a questi standard punitivi da parte delle presidenze scolastiche, ispirate da un’etica manifestata dagli esponenti dell’esecutivo.

Chi governa un paese, una nazione, quindi un popolo, dovrebbe avere ben chiaro che non esistono soltanto le leggi come punto di riferimento per la pubblica amministrazione nel far adeguare i cittadini alle norme di comportamento generali.
Esistono anche gli “esempi” personali, le parole dette ed anche quelle non dette, che spesso sono molto più incisive del diritto nell’arrivare allo scopo che variamente (e con una certa presuntuosa e pelosa vaghezza) si prefiggono: se chi governa intende far passare come ispirazione comune un determinato messaggio, ha tutto il diritto di farlo, ma deve prendere in considerazione tutte le implicanze che ciò comporta.

La Costituzione dovrebbe essere sufficiente a tutelare tutte e tutti dalla trasformazione esiziale e perniciosa della Repubblica da forma di Stato laico e plurale a Stato etico e magari pure confessionale. Al momento abbiamo ancora un sufficiente quantitativo di anticorpi che ci consentono di solleverai contro questi eccessi governativi, proponendo una altezza della protesta che diventa insormontabile per i ministri singoli e per l’esecutivo intero.
Ma il Ministro sappia che se c’è un Paese che ha votato per Meloni e le destre, c’è anche un Paese che è maggioranza in questo frangente e che non è disposto a seguire il governo nero sul terreno della retrocessione dei diritti tutti nel nome dell’osservanza dei doveri. I diritti sono tali se i doveri non li scavalcano, se qualcuno non stabilisce che per poter godere di un diritto si deve per forza ottemperare ad un dovere.
L’idea di crescita personale, di formazione del cittadino (sarebbe più giusto dire di sviluppo dell’”essere umano“) che hanno costoro che sono al governo è fondata su una meritocrazia esasperata e, di contro, su una umiliazione di chi non raggiunge lo scopo, di chi non riesce a stare al passo con le esigenze che il mercato reclama.
La povertà torna ad essere responsabilità soltanto del povero, così come la violenza scolastica diventa un fatto esclusivo dello studente che sembra poter essere astratto dal contesto, alienato a sé stesso in una separazione tra singolo e collettività: il primo giudicato e la seconda giudicante sulla scia della controetica immorale di governo.
Questa è una forma di decostruzione della solidarietà sociale e del tessuto anche morale, civile e civico che proprio la Costituzione ci insegna a mantenere da settantasei anni a questa parte come fondamento del patto repubblicano.
Ogni volta che un ministro si esprime nei termini che abbiamo ascoltato e ogni volta che assume una postura etica, fa un torto al suo ruolo, nonostante possa dire di star semplicemente mettendo in pratica le politiche in cui il governo crede.
Il nostro dovere di cittadini, di genitori, di insegnanti è di dirgli che sbaglia, rivendicando la pienezza dei diritti sociali, civili e morali fino a chiederne le dimissioni.




Educare umiliando. L’audace e rivoluzionaria teoria pedagogica di Giuseppe Valditara, Primo Ministro MIeM

di Aristarco Ammazzacaffè

È da un paio di giorni che il Neoministro Valditara non esterna. E questo preoccupa.
C’entra il Covid? O l’influenza stagionale? O piuttosto la Presidente Giorgia, preoccupata per le reazioni, a dir poco scomposte, contro il Neo, prodotte dalle sue uscite ultime e penultime (e fermiamoci lì)? O c’entrano i poteri occulti? Soros, pescando a caso, antiputiniano com’è, c’entra o no?
Sta di fatto che il neoministro non esterna più e questo mette ansia ansiogena e pone interrogativi densi e intensi, a pensarci bene.
La domandona: – Perché non si è apprezzato il gesto audacemente educativo del Nostro che fa retromarcia e chiede addirittura scusa per un termine usato forse impropriamente?

Il fatto è noto. Durante un evento a Milano di alcuni giorni fa, a proposito di ragazzi violenti, che purtroppo non mancano nei nostri istituti, il Ministro afferma che quello che la scuola deve fare è umiliarli, costringendoli, non – si badi bene – con pugni nello stomaco o frustate sulla schiena nuda, ma solo obbligandoli a fare dei lavori socialmente utili.
Interrogativo: – Anche presenti i propri compagni, o altro personale che passa per i corridoi? –
Perchè no? Se con queste esperienze soprattutto – argomenta il Neo – il ragazzo riconosce questa esperienza come passaggio denso di significato formativo e culturale?

Di fronte a ragionamenti di tal fatta, chi può dargli torto? Solo corvi e marmotte, penso.
Devo però confessare in tutta sincerità che, del suo discorso, un passaggio non mi è tanto piaciuto: quello dove, con un’enfasi eccessiva, afferma: Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella costruzione della personalità.

Io personalmente l’avrei evitata. Anche se nella frase c’è un bel richiamo alla ‘costruzione della personalità’, che molto ci dice della sua tempra educativa e della sua preparazione e formazione.
Della quale, tra l’altro, sono testimoni veraci i suoi tanti libri.
Cito solo due titoli che si impongono per altezza di ingegno, a crederci: “L’Impero Romano distrutto dagli immigrati”, Aracne editore (il mio preferito in assoluto) e “IMMIGRAZIONE. La grande farsa umanitaria” (edito da il Giornale. Una ricostruzione fuori dal coro, che si legge bene, anche a righe alterne. Miracolosa!).

Comunque, il messaggio formativo che gli sta più a cuore, e da cui intende partire, si può sintetizzare così: Non c’è ordine senza disciplina, né disciplina senza ordine.
E parafrasando: Né maccheroni senza cacio, né cacio senza maccheroni. Se proprio si vuole esprimere al meglio il concetto.

E ne è talmente convinto – il Nostro – da essere sicuro  che questi ragazzi quando cresceranno, lo ringrazieranno per tutta la vita e che nessuno penserà di bucargli le ruote della sua Audi, ultimo modello.
Cosa che io gli auguro. (Che lo ringrazieranno. Ovvio. Cosa avete pensato?)
Non per niente lui, come ho già detto altrove – per averlo letto sui giornali nazionali – è Preside all’Università Europea dei Legionari di Cristo a Roma; e quindi un Legionario convinto lui stesso.
Si sa anche (ma è notizia ancora riservata), che fra poco istituirà – sembra – un dipartimento intitolato alle Sentinelle della Madonna.
Lui è fatto così. È bene saperlo.

È stato invece poco considerato un passaggio, dell’intervento all’evento di Milano, in cui, dopo averci ricordato, scoraggiato, che “Così non si può più andare avanti” (E qui mi viene da dire a mia insaputa: – Che fa, Ministro? Getta la spugna? Non sia mai! Lasciamo campo libero ai nuovi barberi e infedeli?), ha aggiunto significativamente. “Quando io ero un bambino, il maestro era il maestro con la emme maiuscola”.
È certamente una frase che gli fa onore, perché dimostra che già da piccolo capiva tutto.
Non è stata però molto gradita – sembra – da alcune insegnanti giovani e da altre a fine carriera. Le prime svilite: – Perché noi sole con la lettera minuscola? Ci si discrimina? Non è giusto! -; le seconde offese perché: “Noi i nostri bambini, per educarli, non abbiamo mai pensato di umiliarli. Come certi Ministri”.
Che dite? Alludevano? Mah.
Anche a me, ad essere sincero, l’uscita non è piaciuta molto perché i tanti malevoli che sono in giro – e il Neo sa quanti ce n’è soprattutto tra gli ‘scolastici’; a sinistra poi …! – hanno avuto buon gioco a controbattere che se lui è il frutto dei quei maestri con la m maiuscola, meglio tenerci quelli con la minuscola”. A tanto si arriva! O tempora! O mores! (Anche se lei, signor Ministro, se l’è andato proprio a cercare)

Quanto poi alla cosiddetta sua retromarcia”, c’è da aggiungere che, per chi ci ‘crede’ come Salvini, è un perfetto exemplum – se me lo si concede – di uno stile di educatore che ha realizzato il suo errore (espressione che condensa, se ci pensate bene, riflessività, responsabilità e umiltà opportunamente scecherate), per richiamarci che “la realtà è più grande del proprio Io”.
Ben detto. Ministro! Great!

Per concludere, signor Ministro, mi rivolgo direttamente a lei per una curiosità importante: – Il Salvini si è fatto anche lui Legionario? O aspetta il futuro dipartimento della sua Università Europea per farsi Sentinella della Madonna, ed essere, così, più coerente i con i tanti rosari che gli abbiamo visto sgranare?




Il Ministro dell’Umiliazione Nazionale

di Giovanni Fioravanti

In un celebre Fioretto riportato dai libri di lettura della mia infanzia, san Francesco spiega a frate Leone cosa sia la “perfetta letizia” alla quale la laica e pagana resilienza neppure assomiglia. La perfetta letizia è il piacere d’essere umiliato, vilipeso, una sorta di masochismo esaltato come ascesi. Non so se l’attuale ministro dell’istruzione e del merito (diciamolo tra parentesi, già il merito puzza di umiliazione per quelli che merito non hanno) sia un terziario francescano, certo è a digiuno, per stare nell’ascesi, di pedagogia, per lo meno di quella non nera.

Di fronte all’uscita, rivelatrice, del Ministro mi è tornata immediatamente alla mente l’iniziativa del suo alleato di governo, onorevole Maurizio Lupi, che nella scorsa legislatura si fece promotore di un disegno di legge per introdurre nei programmi scolastici della Repubblica l’educazione alle competenze non cognitive.
Ecco che il ministro l’ha preso in parola, pensando bene di iniziare con l’educare all’umiliazione; competenza indubbiamente non cognitiva, con i lavori socialmente utili come conseguenza punitiva. Tenere pulita e in ordine l’aula dove lavori e studi è umiliante, perché è come se fosse una punizione. Bella educazione a proposito di educazione civica, materia reintrodotta al posto di Cittadinanza e Costituzione!

Comunque invito a riflettere i fautori della comunità educante, con cui si sono riempite nei tempi recenti circolari e pagine di buoni propositi, a considerare quanto può puzzare una comunità quando pretende di essere “educante”, solo questo dovrebbe consigliare molti a rivedere il proprio lessico e la propria riflessione pedagogica.

Certo, invece di perdersi a discutere di merito senza entrare nel merito, qualcuno un po’ più avveduto in materia di scuola e formazione avrebbe dovuto intuire immediatamente che dietro al Ministero dell’Istruzione e del Merito in realtà si celava il Ministero dell’Educazione Nazionale di antica memoria, ora uscito smaccatamente allo scoperto con le parole del suo ministro.

In pieno revival gentiliano il ministro propone il ritorno alla restaurazione dei valori della “gloriosa Destra che guidò l’Italia al Risorgimento”, rivalutando quindi l’autorità dello “Stato forte, concepito come realtà etica” anche nel campo formativo, da qui la missione  di cui il ministro ha deciso di farsi paladino di “correggere” e “raddrizzare” il legno storto della gioventù.

Humus è la radice latina di umiltà, di umiliazione, e humus è la terra, ciò che sta in basso, ciò che sta sotto i nostri piedi. Invece di levarti da terra, invece di farti crescere, ti abbatto, ti respingo a terra, annichilito, annullo la tua vita, la tua identità.
Come chiamare tutto ciò, se diventasse pedagogia della scuola, se non bullismo di Stato? L’umiltà praticata come obiettivo formativo è violenza ovunque essa si concretizzi, in famiglia come a scuola, perché è negazione di sé, è sfiducia in se stessi, pastoia culturale e psicologica che impedisce la crescita e la piena realizzazione della propria vita. “Meglio la morte con dignità che la vita con umiliazione”, non ricordo dove l’ho letto, ma mi è rimasto impresso.

L’umiltà sarà pure una virtù cristiana ma confligge con la dignità che è una virtù laica.

Ma l’umiliazione dal sen fuggita al ministro neppure avrebbe dovuto attraversare la mente di chi occupa il dicastero dell’istruzione, perché il lapsus freudiano è rivelatore di un modo di pensare, di una cultura, di pulsioni radicate.
Per troppo tempo la pratica dell’umiliazione ha accompagnato la storia scolastica di generazioni di bambine e bambini, di ragazze e di ragazzi. Quanti hanno affrontato l’esperienza di essere umiliati dai loro insegnanti e compagni di classe. Insegnanti che non hanno mai pensato a come ci si possa sentire male in quei momenti, danneggiando la fiducia nella scuola, fino a odiare l’insegnante e lo studio. E semmai si comportavano così, perché a loro volta era accaduto di essere stati umiliati a scuola.

Secondo diversi sondaggi, gli insegnanti scelgono di umiliare gli studenti per ottenere il controllo su di loro, per spaventare la classe e mantenere la disciplina. Alcuni insegnanti pensano che sia giusto umiliare gli studenti come rinforzo negativo. Altri ancora ritengono che gli studenti siano abituati a umiliarsi tra loro, soprattutto sui social, per cui dal cyber bullismo si passa al bullismo della cattedra.
D’altra parte anche recentemente le cronache non hanno mancato di riferire pratiche di umiliazione scolastica, dal professore che si rifiuta di ritirare il compito dello studente trans, a quello che si rivolge agli studenti di religione ebraica dicendo: ”voi nasoni dovete essere cremati”, per finire con la maestra elementare che, alla mamma che chiede alla sua piccola, sofferente di autismo, perché piange, risponde: “cosa glielo chiede a fare, tanto non sa parlare!”. E l’elenco potrebbe ancora continuare.

A un ministro giurista non è richiesto di avere né una competenza pedagogica e neppure psicologica, ma di riflettere prima di parlare questo sì, specie relativamente a terreni particolarmente delicati e scivolosi.
Sapendo che mio figlio è nelle mani di un simile ministro io non esiterei a scendere in piazza e a chiederne le dimissioni, ma ho l’impressione che il paese soffra di una corruzione culturale che ormai non salva più nessuna forza politica.
La cosa maggiormente preoccupante è che, di fronte a chi pensa di azzerare le conquiste dell’educazione progressista, riproponendo la pedagogia correttiva, non vi sia un sussulto di dignità professionale di chi lavora nella scuola, a partire dagli insegnanti e dai dirigenti.
A meno che vi sia chi nelle iniziative del ministro scorga un recupero di ruolo e di autorità dopo decenni di caduta  del proprio prestigio sociale.
Allora significa che davvero questa scuola ha toccato il fondo, è giunta al punto di non ritorno. Significa aver abbandonato la scuola nelle mani di un personale sempre più squalificato  e frustrato, privo delle competenze indispensabili per poter affiancare i nostri giovani di ogni età nell’incontro con i saperi e nella loro crescita.
C’è di peggio. Di fronte a giovani riottosi all’autorità dei genitori e degli insegnanti, la ricetta populista è quella dell’umiliazione nazionale con il ritorno all’autorità di uno Stato educante.




A volte ritornano. Il merito 10 anni dopo. Finalmente si fa sul serio!

di Aristarco Ammazzacaffè

Subito e pubblicamente: un portentoso apprezzamento per il neoministro Valditara e lo sforzo che ha fatto e sta facendo, lui e il suo governo, per fare capire a testardi e prevenuti (e ce n’è in giro) cosa effettivamente sia e significhi merito e come si debba onorare.

E ancor prima, dargli atto che la scelta di aggiungere a ‘Ministero dell’Istruzione’  ‘e del merito’, è decisamente rivoluzionaria e benedetta.
(Chi non ci crede è però giustificato. Siamo in democrazia)

Comunque, se posso – all’interno di queste note – rivolgermi direttamente a lei, gentile signor Ministro, per dirle che io l’ho capita bene.
Io leggo sempre le sue interviste e dichiarazioni. E le sue parole d’ordine: Merito come lotta al privilegio, e (addirittura) come lotta contro una visione classista della società, le trovo fulminanti, in senso letterale, mi creda.
Nette al riguardo le sue affermazioni: ‘La scuola di oggi è classista’. ‘Non è la scuola dell’uguaglianza’.  (Sic, a chiare lettere, nell’intervista al Corriere del 31 ottobre).

E giustamente e con fierezza rivendica al riguardo che “non accetta lezione da nessuno” (e chi può dargliele, scherziamo?) perché suo padre nella Resistenza è stato partigiano e, per chi non lo vuol sapere, faceva parte della Brigata Garibaldi.

Confesso che, quelle dell’intervista, sono frasi che immediatamente mi hanno fatto sentire il Ministro come uno dei ‘nostri’; addirittura, un compagno, se posso osare.
Vorrei tanto mi si credesse.

Aggiungo che sulle risposte del Ministro al Corriere ci ho pensato su parecchio. E mi son fatto persuaso che il suo bisogno di lottare contro il privilegio e il classismo della nostra società gli sia venuto già dalle sue prime esperienze di adolescente. Sono sicuro che presto verrà fuori – e lui ce lo dirà a tempo debito – che già dai tempi della scuola media egli era radicato in queste convinzioni: praticamente, compagno e rivoluzionario sin dalla prima ora, si potrebbe azzardare. Un esempio calzante del famoso detto: “Quando il buon giorno si vede dal mattino! Complimenti!

A ben vedere, le frasi citate nell’intervista sottintendono, per chi le sa leggere, la virulenza delle ferite che hanno lasciato, nella sua coscienza di adolescente, i vari casi di privilegio di cui godevano sfacciatamente alcuni suoi compagni di classe – figli di avvocati, padroni e manager e professori universitari – che venivano sempre e comunque promossi, e sempre con tutti 8 e 9 – qualcuno con 10! – ed elogi e sproloqui compiacenti da parte dei professori.
Ecco, immagino, che la tenacia del Ministro nel perseguire l’obiettivo di diventare titolare del Ministero dell’istruzione nasca proprio dal bisogno freudiano di aggiungere ‘e del merito’ alla dizione tradizionale del Dicastero, maturato proprio da queste sue prime esperienze. Fateci caso.
Perciò è da salutare con soddisfazione la sua proposta di voler promuovere una grande alleanza per il merito, con studenti e insegnanti: ‘una priorità’ che si configura come una battaglia politica di cui aspettiamo con ansia di capire i termini e lo sviluppo. (Risulta che siano stati sconfitti clamorosamente quanti, nello stesso Governo la volevano – l’alleanza – piccola, denutrita e pallida -, spingendo su altre priorità, come ad esempio, migliorare pratiche e condizioni organizzative degli insegnanti. Ben gli sta a questi benaltristi facinorosi.

Comunque, che gente che c’è in giro! Non si sa più distinguere il grano dal loglio. Secondo me, si legge poco la Bibbia! E bene farebbe il Ministro a lanciare a tal proposito una opportuna parola d’ordine. Personalmente, ho una qualche percezione che lui ci abbia già pensato. Non per niente, il Nostro è Preside all’Università Europea dei Legionari di Cristo a Roma. Pensate: Preside – Università Europea – e, addirittura, Legionario! E mica di un ‘Vessillo’ qualsiasi.
Qui si vola alto! Altissimo direi.
Per meglio capire poi cosa il Ministro intenda quando parla di merito da riconoscere e valorizzare, ho voluto scoprire direttamente, attraverso i quotidiani più diffusi e ‘accreditati’ a livello nazionale, la tipologia di meriti più apprezzati – e quindi utilizzati – per nominare un sottosegretario del dicastero da lui diretto.

E anche per avere a disposizione exempla di meriti da indicare a modello. E cosa poteva esserci di meglio di casi concreti che avessero come attore protagonista un personaggio di esperienza e degno di stima come il Nostro?
In questa mia ricerca, l’attenzione è caduta, leggendo i giornali dei giorni dopo le nomine dei sootosegretari all’Istruzione, su alcuni nomi non notissimi, tra l’altro. Il primo di questi, era quello dell’on. Paola Frassinetti.
Il suo profilo, sulla base del quale sembra sia stata ritenuta meritevole del prestigioso incarico, è così descritto (Corriere del 3 novembre): uno, “che è frequentatrice assidua della Corte dei brut di Gavirate Varese”, centro culturale e anche ristorante, “ancora oggi crocevia dell’estremismo nero ed esoterico” (Oddio! Sobbalzo.  E di seguito: stordimento generale e attacchi di tosse acuta e stridula); due, che in questa Corte è di casa “Rainoldo Craziani, figlio di Clemente, fondatore di Ordine Nuovo, e teorico dello stragismo degli anni ’70”; Piazza della Loggia, Piazza Fontana, eccetera, per capirci (Madonna! Improvvisa perdita della parola, vista confusa e conati di vomito. Ridotto a cencio), e, tre,  che l’attuale sottosegretaria “ha sempre sostenuto l’attività di Lealtà e Azione, piccolo gruppo neonazista in Lombardia” (tra l’altro, promotore a Milano, per il 4 dicembre prossimo venturo, di una manifestazione politica all’altezza, ovvio).

A questo punto, mi è caduto addosso tutto il Resegone e ho perso conoscenza.