Inno a Lagioia

di Mario Maviglia

Antefatto

In data 28/03/20<24 il ministro dell’Istruzione e del Merito, Valditara, pubblica il seguente tweet: “Se si è d’accordo che gli stranieri si assimilino sui valori fondamentali iscritti nella Costituzione ciò avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani, se studieranno in modo potenziato l’italiano laddove già non lo conoscano bene, se nelle scuole si insegni approfonditamente la storia, la letteratura, l’arte, la musica italiana, se i genitori saranno coinvolti pure loro nell’apprendimento della lingua e della cultura italiana e se non vivranno in comunità separate.”

Lo scrittore Nicola Lagioia critica ironicamente Valditara per le scorrettezze grammaticali che contiene il tweet. Per tutta risposta il ministro querela lo scrittore chiedendo 20 mila euro di risarcimento.
Lagioia commenta così la querela del ministro: “La mia colpa consisterebbe nell’aver criticato mesi fa, alla trasmissione “Che sarà” di Serena Bortone su Rai3, lo stile di un suo tweet, scritto a mio parere molto male sulla limitazione degli stranieri nelle classi italiane. Quel tweet fu attaccato da tantissime persone in quei giorni per la sua nebulosità, con toni ben più aspri del mio. Ma il ministro decide di querelare me. Il ministro si è sentito leso per come l’ho preso in giro in trasmissione, suggerendo che venisse sottoposto lui al test di italiano per stranieri. Nel paese in cui l’ultimo Nobel per la letteratura è andato a chi “nella tradizione dei giullari medievali fustiga il potere e riabilita la dignità degli umiliati” [il riferimento è a Dario Fo, Premio Nobel 1997 per la Letteratura] credevo fosse lecito. Ma forse non siamo più quel paese.”

Qualche riflessione

In un Paese normale un ministro dell’istruzione probabilmente occuperebbe il suo tempo innanzi tutto per cercare di risolvere i tanti problemi che presenta la scuola e la scuola italiana ne presenta non pochi e di non poco conto: il tasso di dispersione scolastica più alto in area UE, uno dei tassi di Neet più alti in Europa, una retribuzione dei docenti al di sotto della media UE, un sistema di reclutamento del personale farraginoso e poco incisivo, un appesantimento burocratico della vita scolastica che irrigidisce e ingessa il sistema, un avvio dell’anno scolastico sempre molto problematico e con frequenti perturbazioni nella vita delle istituzioni scolastiche ecc. ecc.
Insomma ci sarebbe di che rimboccarsi le maniche e darsi da fare, invece che inseguire le critiche (ancora legittime? Cfr art. 21 cost) dello scrittore di turno.
Ma si potrà eccepire che il ministro ha il diritto di difendere la propria onorabilità offesa dallo scrittore. Per la verità in questa vicenda chi è stata profondamente offesa è stata la lingua italiana, strapazzata dal ministro con un utilizzo quanto meno funambolesco del periodare, con l’uso ossessivo dell’anafora (“se… se… se…”), con qualche errore morfologico-sintattico (“se nelle scuole si insegni…”) e con un uso alquanto disinvolto della punteggiatura.
Questo per quanto riguarda la forma. Se si entra nel merito dei contenuti del tweet del Ministro, si può facilmente verificare che finora il responsabile del dicastero non ha trovato alcuna soluzione credibile per far sì che nelle classi la maggioranza degli studenti sia costituita da italiani (almeno nelle aree del Paese più interessate ai processi migratori).
Ma poi la galassia degli studenti “stranieri” è così variegata che la stessa aggettivazione di “straniero” risulta fuorviante: sotto questa etichetta, infatti, vengono ricompresi ragazzi e ragazze appena arrivati in Italia e altri che invece sono nati in Italia da genitori stranieri ma che non sono riconosciuti come cittadini italiani solo perché abbiamo una legislazione retrograda e indegna di un Paese civile, peraltro pervicacemente voluta e tenuta in essere dalla maggioranza politica di cui fa parte lo stesso ministro Valditara.
E d’altro canto, quanto dice il ministro in riferimento agli studenti stranieri sulla necessità di un insegnamento approfondito della “storia, la letteratura, l’arte, la musica italiana”, vale anche per i cittadini italiani se è vero che, da quanto emerge dalla recente indagine OCSE-PIAAC, un adulto italiano su tre è un analfabeta funzionale, ossia sa leggere e scrivere, ma incontra grandi difficoltà a comprendere, assimilare o utilizzare le informazioni lette.

Un’ultima annotazione: queste polemiche sembrano capitare a fagiolo per distogliere l’attenzione dai veri problemi della scuola, problemi che non sono costituiti dai vari Nicola Lagioia, Giulio Cavalli o Christian Raimo. Anzi, in una democrazia matura, la critica verso i responsabili politici è salutare perché sancisce in modo inequivocabile la differenza tra l’essere cittadini ed essere sudditi.




Un “assalto al cielo” lungo mezzo secolo

di Carlo Firmani
dirigente scolastico del Liceo Socrate di Roma

Cari studenti,
come ogni tardo autunno, in alcune scuole “superiori” di Roma si ripetono le “occupazioni”. Stanco rito? Ennesima e ripetitiva puntata di un serial lungo almeno mezzo secolo? Sottrazione di diritti alla grande maggioranza degli studenti che non partecipano all’ “azione”? Secondo me si, come ho sempre ripetuto agli studenti, ma non ci vuole davvero molto per poterlo sostenere, come peraltro condiviso dalla grande maggioranza dei commenti che compaiono sui media o che possiamo ascoltare dai nostri interlocutori. A partire da qui e dalle rivendicazioni opposte dei favorevoli alle occupazioni si alimenta e cresce, anno dopo anno, una contrapposta retorica, la fondatezza delle cui affermazioni non appare utile approfondire ulteriormente, vista la cristallizzazione delle posizioni che ha prodotto e lo stallo cui ha condotto fin qui.

Di converso, al crescendo della rivendicazione delle posizioni fa da controcanto il sostanziale depotenziamento (almeno sul piano simbolico) della natura “trasgressiva” delle occupazioni. Genitori che portano i pasti da casa ai figli nelle scuole la sera, magari pure il maglione più pesante o la maglietta pulita, i “preannunci” senza alcun rischio, sui social, della scuola che di lì a breve sarà “presa” sono solo esempi che evidenziano una normalizzazione “di fatto” di un fenomeno che, in tempi ormai remoti, non poteva contare su tali forme di supporto e conforto.
Quello che mi stupisce è che gli studenti non vedano che dietro questo “conforto” c’è altro: c’è, a mio modo di vedere, l’ulteriore forma di controllo, familiare e sociale, delle loro vite, il divieto di lasciar far loro, prendendosene tutte le responsabilità, le esperienze che scelgono di compiere, consentendo loro di imparare a fare i conti con la vita, comprendendo le implicazioni, previste o meno delle loro scelte. Quanto a voi, cari studenti occupanti, davvero pensate che rinchiudervi in sparute minoranze nei recinti delle scuole sia utile alla vostra causa? E non mi riferisco alle cause particolari che, di volta in volta, in autunno (e però come mai dall’inverno in poi sembrano sparire?) alimentano la vostra indignazione, la vostra rabbia, la vostra sofferenza, ma alla “madre” di tutte le vostre cause: la sottrazione del futuro.
I numeri sono schiaccianti (non lo dico io, ma tutti gli studi seri sulla questione): siete sempre di meno, in un mondo sempre più conflittuale, inospitale, concorrenziale, nel quale il peso delle generazioni più adulte -che vivranno sempre più a lungo- sarà sempre più sulle vostre spalle, e quindi? Pensate davvero che “calare” sulle scuole sia una risposta utile alla vostra causa? Pensate davvero che essere contro questo o quello sia sufficiente a creare un nuovo e migliore orizzonte? Davvero della voglia di dare “l’assalto al cielo” e di “pensare l’impossibile” rimane soltanto la chiusura a riccio, la contrapposizione senza nessuna aspirazione a progettare, o almeno vagheggiare, un modello di vita e di mondo diversi, sul quale sia possibile raccogliere consensi più ampi, condivisioni di obiettivi e di visioni, dare insomma una vostra “pennellata” sul futuro, se non altro costruendo un percorso in una direzione che conduca a mete che possano alimentare, almeno, la possibilità di realizzare quegli ideali che, ne sono certo, sono sinceramente sentiti dalla maggior parte di voi, pure se espressi in forme autoreferenziali e, come dimostra una lunga esperienza, assolutamente incapaci di produrre effetti positivi rispetto a ciò per cui le occupazioni nascono. E anche per questo sarebbe meglio che cessassero. O addirittura che non cominciassero.

Cordialmente,
Carlo




Giocare alla guerra o educare alla pace?

Stefaneldi Mario Maviglia

Nella recente Fiera del Levate di Bari l’Esercito Italiano ha allestito uno stand significativamente attrattivo, sotto lo slogan L’Esercito 4.0. Proiettati nel futuro con lo sguardo nel passato.
Particolarmente suggestive (a detta della stampa) sono apparse le attrazioni pensate per i bambini e i giovani. Gli organizzatori parlano di oltre 100 mila persone che hanno visitato lo stand. Lo scopo di questa iniziativa era evidentemente quello di promuovere l’arruolamento dei giovani, anche come prospettiva di lavoro per i ragazzi e le ragazze del Mezzogiorno.
Eppure queste manifestazioni appaiono quanto meno inopportune se si considera che in tante parti del mondo, anche a noi vicine, vi è una recrudescenza dei conflitti bellici e il ricorso alle armi sembra aver soppiantato la diplomazia e il dialogo quali strumenti per risolvere le controversie tra i Paesi.
Il fatto che a subirne le conseguenze mortali di queste contese giocate sul piano militare siano soprattutto i civili (e in modo particolare quelli delle classi popolari), rende ancor più odiosa questa deriva bellicista e guerrafondaia.
Naturalmente chi trae i maggiori vantaggi dalle imprese belliche sono i mercanti d’armi (i profitti delle aziende che producono armi sono sempre molto redditizi) e il loro interesse è quello di far sì che le guerre continuino sine die per vendere più armi e per provarne di nuove, sempre più sofisticate, sempre più micidiali (per i civili).
Lo ha ribadito più volte Papa Francesco, anche recentemente, inascoltato, affermando che “la guerra è ignobile perché è il trionfo della menzogna, della falsità”.
A fronte di questa glorificazione della guerra e di esaltazione del militarismo di marinettiana memoria, come sembra fare l’Esercito Italiano, forse è il caso di proporre invece percorsi e modelli di pace, partendo proprio dalla scuola, la quale può far maturare nelle giovani generazioni quel “ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, richiamato dall’art. 11 della nostra Costituzione.
Vi sono vari modi per “insegnare” a bambini e ragazzi come adottare concezioni e comportamenti ispirati alla pace, iniziando fin dalla scuola dell’infanzia. L’organizzazione della classe come comunità, con proprie regole e forme di responsabilità diffusa, è il presupposto per far sperimentare agli studenti il senso dello stare insieme.
Si tratta di concepire la classe (ma più in generale la scuola) come un organismo che si struttura in modo democratico attraverso il coinvolgimento attivo di studenti e docenti, con propri organi di partecipazione e di regolamentazione condivisa della vita della classe.
Se non si è assillati dall’ansia di sviluppare il programma, un approccio di questo tipo può essere molto più incisivo di tante lezioni sulla conoscenza della Costituzione.
In fondo tutto il movimento delle scuole attive e della cooperazione educativa (che si ispirava ai principi della pedagogia popolare e dell’attivismo di John Dewey e Célestin Freinet) si basava su questi presupposti per formare cittadini democratici, liberi e solidali.
Gli ordinari episodi di conflitto che sorgono tra i compagni in classe possono sollecitare l’esigenza di trovare forme accettabili per affrontare e risolvere i contrasti.
Non servono le prediche o le lezioni; è più utile analizzare insieme le ragioni del conflitto e trovare delle possibili soluzioni per risolvere e magari darsi delle regole procedurali condivise per affrontare anche nel futuro queste situazioni. Vi sono inoltre delle strategie didattiche (il Debate è una di queste) che pongono gli studenti in una particolare posizione che consiste nel difendere idee che non si condividono per convincere altri studenti che a loro volta giocano il medesimo ruolo.
Sono interessanti forme di decentramento cognitivo e relazionale che mirano a far sperimentare e consolidare forme di empatia verso gli altri, a comprendere le loro motivazioni, a ricercare modalità condivise di convivenza democratica.
Altre proposte vanno nella direzione di sviluppare la solidarietà e il senso di comunità. La strategia del Service learning, ad esempio, coinvolge gli studenti in progetti di aiuto nei confronti della comunità, sotto forma di “compiti autentici”, ossia la realizzazione di progetti che, promuovendo la partecipazione attiva degli studenti, si configurano come un servizio di solidarietà che mira a soddisfare bisogni veri della comunità.
La pace va costruita giorno per giorno non in modo astratto e teorico, ma attraverso un tirocinio attivo di conoscenza dell’altro, di confronto, di dialogo e convivenza.
D’altro canto questo è stato l’insegnamento che ci hanno lasciato i grandi pacifisti del nostro tempo (Martin Luther King, Mahatma Gandhi, Nelson Mandela, Danilo Dolci, Don Lorenzo Milani, Mario Lodi, Maria Montessori, Aldo Capitini, Gino Strada, Bertrand Russell, Desmond Tutu, Albert Schweitzer, Giuseppe Gozzini, per citarne solo alcuni) che con la loro azione e il loro esempio (in alcuni casi pagato anche con la vita) hanno indicato possibili vie per raggiungere risultati significativi senza ricorrere alla violenza, ma praticando la difficile e incisiva arte del dialogo e dell’ascolto.
Ecco, vorremmo suggerire quanto segue all’Esercito Italiano: nelle prossime edizioni della Fiera del Levante lasci stare le armi e proponga ai giovani di tutte le età esempi di servizio civile. Non mancano esperienze in questo campo: dalla cura dell’ambiente, alla cura degli animali, dal rendersi utile verso chi ha difficoltà a cercare di inserire nella comunità chi è diverso o isolato. Organizzi inoltre dei momenti di conoscenza e approfondimento delle personalità che si sono distinte per il loro impegno per la pace e il dialogo tra le persone e i popoli (come quelle citate sopra a titolo esemplificativo).
E alle scuole proponiamo di organizzare ogni anno un appuntamento simbolico dal titolo “guerra alla guerra”: in uno spazio pubblico della città o del paese (con le dovute autorizzazioni, non sia mai …) gli studenti preparano un falò con armi-giocattolo bellici di tutte le fogge di cartone, precedentemente costruiti in classe o a casa. L’esecuzione di canti contro la guerra (scelti dagli studenti) potrebbe costituire un degno abbellimento dell’evento.
Il 4 novembre potrebbe essere, simbolicamente, la data più indicata per questa festa della pace, ossia la festa della vita contro la cultura della morte, di cui la guerra è l’emblema.




L’etica del limite

di Cinzia Mion

Sto pensando ai molti interrogativi che suscitano in questi giorni certi comportamenti violenti di adolescenti, o giovani in genere, che mettono in crisi gli adulti e la scuola. All’ interno della fenomenologia dell’adattamento sociale, preso atto di quella che qualcuno oggi chiama giustamente “emergenza educativa” compare grande come una casa il problema dell’incapacità dei genitori ad assumere il “no” che sta alla base delle regole ed appunto alla radice dell’etica del limite.

Sembra quasi una banalità ma teniamo presente che, contrariamente ad un passato recente, quando erano i bambini a temere di non essere amati abbastanza dai genitori, oggi sono i genitori ad avere questa paura. Ricordiamoci poi, come ricorda Pietropolli Charmet, che oggi nella culla non viene più depositato “edipo”, bambino pulsionale, bisognoso di regole, ma viene depositato “narciso”: il cucciolo d’oro, su cui cresceranno ben presto aspettative grandiose (da ciò l’eccessiva enfasi sulle prestazioni dei figli: scolastiche, sportive, artistiche, ecc) che farà perdere il controllo ad alcuni genitori “adolescenziali a loro volta” – in fondo incapaci di contenere la rabbia violenta, scaturente dalla frustrazione- che stanno aggredendo i docenti.
Genitori che probabilmente, quando il loro figlio è arrivato alla fase “dell’opposizione”, da collocarsi sempre più precocemente verso l’anno di vita che non verso i due, descritta come “bisogno di potere o affermazione di sè”, non è in grado di sopportare e “contenere” i capricci e le pretese del bambino, senza andare in tilt e senza paura di entrare in conflitto con un bambino alto un soldo di cacio. Qualcuno dovrebbe insegnare loro (ecco la necessità del sostegno alla genitorialità) che devono mantenersi tranquilli, “solidamente” dentro al loro ruolo educativo, mantenendo la posizione assunta del “no” senza urlare ed andare in pezzi, resistendo ai tentativi manipolatori del proprio figlio.

Dovranno convincere se stessi che lo fanno per il bene del piccolo, delineando in questo modo i confini, i limiti, in altre parole “il contenimento”. I no, o meglio i divieti, devono esser pochi ma fermi. Niente oscillazioni tra permissivismo e urla esasperate e rabbiose.

Un bambino che si sarà sentito contenuto nella “mente” del genitore si sentirà al sicuro e imparerà a sopportare la frustrazione.
Inizierà il difficile cammino verso la resilienza.
Con ogni probabilità diventerà un adolescente che al tempo delle “naturali trasgressioni”, ineludibili anzi opportune, sarà in grado di “autocontenersi”, di non mettere a repentaglio la propria ed altrui incolumità, perchè avrà interiorizzato l’etica del limite.
Qui naturalmente dovremmo oggi interrogarci tutti: gli adulti in genere e la cosiddetta società civile. Un altro discorso altrettanto spinoso è lo schema “amico-nemico” che sempre più frequentemente i giovani oggi applicano nella vita sociale nei confronti del “diverso”. Da affrontare un’altra volta…

Il neonato evolve verso il riconoscimento di sé nella misura in cui impara a separarsi dalla madre. Nella misura in cui, attraverso un processo di separazione-individuazione, comincia a percepire se stesso ed i suoi confini, che all’inizio saranno solo corporei, poi un po’ alla volta saranno sempre più riconducibili al sé vero e proprio, tale perché diverso dall’altro da sé.

Tutte le relazioni interpersonali dovranno poi, pena il rischio della simbiosi, deleteria e minacciosa per il sé, essere contraddistinte da questi famosi confini tra sé e l’altro. Confini che non dovranno essere impermeabili o troppo rigidi altrimenti è in agguato una qualche forma di autismo o l’indifferenza verso l’altro oppure, speciale malattia dei nostri tempi, il narcisismo patologico. Mi riferisco al sé grandioso che si autoesalta e perde di vista non solo l’altro ma anche la realtà (come sta accadendo a livello apicale della politica…)

Siamo di fronte anche in questo caso pur sempre ad un problema di mancanza di confini o di assenza di limiti.
Questo per quanto attiene l’aspetto soggettivo, individuale. Accennavo prima all’ autocontenimento, mi riferisco a quello mentale.
Per esempio anche l’adolescente che non rileva i limiti della sua trasgressione, (quale trasgressione può essere accettabile quale invece va oltre i limiti) non è in grado di attivare un autocontenimento mentale il più delle volte perché i genitori a loro volta non lo hanno contenuto mentalmente quando, nella fase dell’opposizione (dai 18 mesi in poi) sono andati loro in tilt, incapaci di offrire un solido e valido contenimento mentale alla rabbia del piccolo…. Temono il conflitto con un bambino di meno di due anni…

I protagonisti dei conflitti politici alla ribalta oggi sono però tutti adulti, vaccinati e responsabili più della gente comune perché quasi sempre ricoprono cariche pubbliche. L’etica del limite è completamente assente dal loro repertorio comportamentale.
Oltre a non avere il SENSO delle Istituzioni, qualcuno addirittura lascia affiorare una “ciarlataneria” che ha radici profonde perché rinforzata dai social, a gara per essere volgari e arroganti ma che sembrano suscitare quel CONSENSO diffuso, difficile da scardinare perché “aprioristico e irrazionale”. Cosa possiamo fare se questo terreno di coltura garantisce applausi facili, superficiali e a volte indegni di un Pese democratico?

Abbiamo raggiunto il fondo.
L’ultimo episodio raggelante: l’aggressione verbale della Presidente del Consiglio alla Magistratura, sulla spinosa questione dell’apertura costosa (ma flop) dei centri in Albania, cui ha retto subito lo strascico il Ministro Nordio, cosa che gli riesce sempre molto bene.
Mi verrebbe da raccomandare a Mattarella di assumere il ruolo genitoriale rispetto a questi “adultescenti” che hanno perso l’Etica del limite. Prima che diventino una “baby gang” e rischino di produrre al Paese e alla Democrazia danni irreparabili.




La mia generazione – professionale – ha perso…

di Marco Guastavigna

La mia generazione – professionale – ha perso…
… ma si ostina a non volerlo capire.

Cosa voglio dire?

Mi riferisco, ad esempio, all’idea della conoscenza e dell’istruzione come cooperazione. Per la mia generazione era un valore, ancora prima che un principio, e aveva una vocazione trasformativa, della realtà e dei rapporti in cui si operava, prima ancora che dell’agire didattico.
Apprendimento su base mutualistica, zona di sviluppo prossimale, lavori di gruppo erano tentativi militanti di costruzione di “un mondo” diverso, alternativo, perfino conflittuale.
Poi ci si è illusi che concepire la cooperazione come metodo, asettico e quindi generalizzabile “a prescindere” dal posizionamento rispetto al modello socio-economico, fosse una scelta evolutiva, progressiva, inclusiva, estensiva della democraticità dell’insegnamento e dell’apprendimento.

E, in un attimo, siamo scivolati in approcci la cui matrice si colloca all’opposto delle intenzioni iniziali, perché si pone come obiettivo trasversale il potenziamento dell’efficienza individuale e – al più – del team di appartenenza: gamificazione (ottimo allenamento per il lavoro taskificato in singole prestazioni e controllato dagli algoritmi), debate (discussione competiva), pitch elevator (verso l’autoimprenditorialità), escape room (non per caso apprezzata anche dai marines).

Questa accettazione poco consapevole (anzi, assai spesso negata!), di un lessico, di un campo concettuale e di una visione del mondo opposti a quelli della nostra gioventù, condita di ciò che Harari chiama la visione ingenua dell’informazione, ha avuto esiti che – a volerli cogliere – sono davvero devastanti.
Da una parte continue ricadute nella nostalgia professionale, con patetiche, rituali, celebrazioni dei fasti di un pensiero passato e autodemolitosi che ci si vuole illudere possa essere invece ancora egemone.
Dall’altra uno scontro violento e fratricida con i retro-attivisti, ovvero coloro che si illudono di portare la bandiera dell’equità e della scuola della Costituzione con l’asta giusta, senza accorgersi che il loro vessillo, invece, sventola con quello del conservatorismo e del rifiuto di ogni messa in discussione dell’assetto della scuola, accusata anzi di aver perso le sue caratteristiche imprescindibili: serietà, severità e selezione.




La formula magica 4+2 per l’istruzione tecnica e professionale

di Raimondo Giunta

A partire da quest’anno scolastico avrà inizio la sperimentazione dei corsi di studio quadriennali dell’Istruzione secondaria tecnica e professionale, che dovrebbero assicurare agli studenti il raggiungimento degli obiettivi specifici di apprendimento e delle competenze già previsti per i normali corsi quinquennali, garantendo il conseguimento in anticipo del diploma di istruzione secondaria di secondo grado all’esito dell’Esame di Stato.
Sono 176 gli istituti che ospiteranno questi corsi e 95 sono collocati nel Sud.

Nei 4 anni di studio avranno grande rilievo le attività di alternanza scuola lavoro, il potenziamento delle discipline STEM, il processo di internazionalizzazione, la didattica laboratoriale e l’adozione di metodologie innovative.
È previsto il coinvolgimento di docenti aziendali, che avranno il compito di adeguare la formazione degli studenti ai bisogni del territorio e alle innovazioni.

E’ tratto caratteristico e identitario dei corsi 4+2 la scelta dell’integrazione con il mondo del lavoro.
Per dare inizio alla sperimentazione le scuole, infatti, hanno dovuto sottoscrivere almeno un accordo di partenariato con un’azienda del territorio, grazie al quale potrà essere sviluppata l’alternanza scuola-lavoro, ritornata alle 400 ore complessive per quattro anni di corso. La collaborazione delle aziende potrà, inoltre, consentire lo sviluppo di corsi specifici rispondenti alle singole esigenze territoriali, ricorrendo al potenziamento di una o più materie di indirizzo.

Non è dato di sapere se questa innovazione prenderà piede nelle scuole, ma non è improbabile che possa trovare il consenso di molte famiglie che vedrebbero di buon occhio la riduzione del tempo scolastico, soprattutto se condita con l’illusione di una più rapida inclusione dei propri figli nel mondo del lavoro.
Perché questa è di fatto la promessa che sta dietro l’innovazione dei corsi quadriennali.
L’obiettivo dichiarato è quello di offrire agli studenti una formazione vicina alle esigenze del mondo del lavoro, che agevoli al contempo sia la prosecuzione degli studi nei percorsi di istruzione terziaria degli ITS, con il conseguimento finale, in sei anni, di un titolo di alta specializzazione tecnica, sia l’iscrizione all’Università.

Tutto bello e tutto facile, ma si dimentica che ci si lamenta e ci si è lamentati spesso della qualità dei diplomati e dei laureati. Com’è possibile, allora, che come rimedio si proponga la riduzione degli anni di scolarità in uno degli indirizzi più significativi della scuola italiana?
Chi conosce la scuola sa che va riqualificata, riassettata, stabilizzata, rasserenata e sostenuta e sa che gli alunni nella quasi totalità hanno bisogno di tempi lunghi e non di didattiche brevi per maturare sul piano umano, intellettuale e professionale.

Questa storia dei quattro anni delle superiori o quella dell’età di uscita dalla scuola, di un anno in più rispetto alle scuole europee, è una scusa per ridurre le spese dell’istruzione? Risponde davvero al requisito dell’occupabilità delle nuove generazioni?
L’ampiezza della disoccupazione giovanile è un vero problema, ma non dipende solo dal disallineamento tra istruzione ed esigenze del mondo del lavoro e allora perché questa fretta?
Non toccherà forse all’attuale generazione il destino di andare in pensione a 70 anni?

Questa riforma vorrebbe rispondere ai bisogni immediati di personale delle aziende; risponde anche alle esigenze di una forte e duratura preparazione dei giovani che hanno scelto gli indirizzi tecnici e professionali?
E’ possibile che quando si parla di istruzione tecnica e professionale l’unica preoccupazione sia l’immediata e fantasticata occupabilità e che ne debba fare le spese l’approfondimento culturale delle discipline base della formazione tecnica?

L’istruzione tecnica è il prodotto originale del sistema scolastico italiano, che bisognerebbe difendere e tutelare con grande energia, e invece negli ultimi 20 anni non c’è ministro che non voglia passare alla storia per averla messa a soqquadro. L’innovazione 4+2 andrebbe iscritta nella ricorrente e immotivata pretesa di trasformare i percorsi di istruzione tecnica e professionale in lunghi periodi di formazione professionale, sperando di andare incontro nello stesso tempo alle esigenze immediate delle aziende e al bisogno di occupazione di alcune fasce sociali.
Non ha un grande respiro e forse nemmeno un grande futuro.
Le scuole della facile occupabilità sono quelle che vanno fuori mercato più facilmente e prima nelle società con alto tasso di innovazione e di sviluppo. Lo scarto tra istruzione e mondo del lavoro è strutturale e non è la ricorsa all’ultima novità che colmerà il distacco; potrà farlo un’istruzione che coltivi la solidità del possesso dei saperi e delle metodologie che li connotano; unico modo per orientarsi nel mondo che non smette mai di cambiare.

Mette tristezza doversi confrontare con questi tentativi periodici di ridimensionare la durata dei curricoli scolastici; si vuole chiudere per sempre la stagione nella quale si vantava come conquista di civiltà portare a 5 anni i professionali e il magistrale.
A pensarci bene non è proprio un bel messaggio quello che si invia alle nuove generazioni.

 




La scuola che vorrei

di Raimondo Giunta

L’erba voglio non cresce e non è mai cresciuta da nessuna parte e tantomeno a scuola.
La scuola che ho voluto, anche se non è stata quella che potevo fare, mi ha aiutato nei tanti anni di servizio a superare le difficoltà del momento e a rendere migliore quella che abitavo .
La scuola è oggi spesso in rotta di collisione con la vita quotidiana delle famiglie e dei giovani. Gli orari, il calendario, la struttura fisica degli istituti sono espressione di un ordinamento, compatibile con altri ritmi di vita, con altre regole sociali, con altre tendenze dei rapporti umani.
L’attuale struttura della scuola è lo specchio di una società che da tempo non esiste più. Alla radice del disagio scolastico, che può debordare in degrado, si trova questa crescente contraddizione tra quotidianità e scuola, bisogni vitali della società e organizzazione scolastica.
La scuola italiana ancora oggi è in moltissimi casi fisicamente preordinata alla sola attività didattica delle lezioni.
In molte scuole non si puo’ fare nemmeno l’educazione fisica per mancanza di palestre; non si fa decentemente ricreazione per mancanza di cortili. Se funzionasse bene,ma non è così,essa sarebbe funzionale solo ai compiti di istruzione, alla formazione intellettuale, ma oggi tutto questo, per quanto importante possa essere, non basta.
I giovani in questo particolare momento della società hanno bisogno d’altro o meglio hanno bisogno di qualcosa di più.
Hanno bisogno di cura della persona, dell’attenzione a tutti gli aspetti non intellettuali della loro formazione (sensibilità/affettività/valori).
Queste nostre scuole piene di discipline, di ore di lezioni, di compiti pomeridiani,di progetti, ma privi di spazi e di momenti di convivialità cominciano a fare danni.
L’adeguamento dei curricoli, che maniacalmente si sbandiera ad ogni cambio di governo e di ministro, deve andare di pari passo con la trasformazione radicale degli spazi e del tempo scuola, se vuole raggiungere i risultati che si propone.
Ma non basta.
Le sorti dell’innovazione e dell’efficacia del servizio scolastico sono nelle mani degli insegnanti, mai così maltrattati e mai così poco difesi ed apprezzati dalle famiglie, dall’opinione pubblica e dall’amministrazione.
Con un esercito smisurato di sottoproletari della cultura è già tanto se la scuola si tenga in piedi.
Ristabilito, come il buon senso richiede e come si fa in altre nazioni, il decoro sociale dello status degli insegnanti, perchè devono poter svolgere il proprio lavoro senza imbarazzo e senza umiliazioni, bisognerebbe fare una rivoluzione professionale per cambiare un mestiere ritagliato solo per alcuni compiti.
L’insegnante deve poter sapere non solo che cosa insegnare e come, ma anche e soprattutto chi sono i suoi allievi, in che genere di ambiente e di famiglia vivono, in che genere di società loro stessi e gli alunni vivono.
Ci vuole più cultura pedagogica, più cultura istituzionale, più cultura sociologica, più cultura psicologica..
La società italiana, se venissero utilizzati in tempo e bene le risorse del Recovery fund, potrebbe avere una scuola diversa: scuola aperta dalla mattina alla sera, scuola con spazi, scuole con mense, scuole con convitto, scuole con più e diversi operatori; scuole con più libertà, scuole con più mezzi; scuole integrate nel territorio.
Ecco è questa la scuola che vorrei per gli studenti, per gli insegnanti e per le famiglie.