Le 25 ore di formazione sull’inclusione: come farle fallire nell’indifferenza generale

L’amico e collega Mario Maviglia, in un recentissimo articolo su Nuovo Pavone Risorse dal titolo “Come uccidere la formazione senza essere scoperti” descrive criticamente le 25 ore di formazione “obbligatoria” sulla disabilità previste dalla Legge finanziaria 2021 (10 milioni di euro) che sta insabbiandosi per i niet sindacali sul “contratto dovere-diritto”, cioè il nulla e per una organizzazione arruffata e frettolosa che dovrebbe concludersi….da oggi entro metà novembre, perché i ragionieri del MIUR devono rendicontare.
Riprendo il tema con grande tristezza.

Ad un anno dalla finanziaria, dopo discussioni infinite esce un corso militarizzato e generico offerto ai docenti curricolari che nulla sanno di disabilità. Lo scopo sarebbe quanto mai nobile: sensibilizzare anche i curricolari su un tema inclusivo delicatissimo perché troppo spesso “delegano” ai poveri “sostegni” l’inclusione facendo finta di nulla. Nel suo piccolo, sarebbe stata un’occasione d’oro, se pensata bene, di un primo dovere deontologico da espletare ampliando la conoscenza per tutti di un tema molto delicato. Mi sarei atteso dai sindacati (almeno quelli confederali, quelli dei soi disant “diritti”) un’attenzione diversa dei niet a priori, ma invece un’attenzione maggiore alla qualità formativa, visto la delicatezza “sociale” del tema.
Il Ministero è così “strano” che nell’ ultima circolare “invita” gli insegnanti curricolari a partecipare e con questo verbo crea confusione massima se si deve o si può. Insomma il rischio è di corsi in fretta e furia (la sveltina pedagogica) e realizzata nel caos gestionale sul diritto/dovere.


Si fa presto a riderci sopra, ma che tristezza. Il dilemma diritto/dovere alla formazione resta una burla, e il rischio è di un flop, che pagheranno (come sempre) gli alunni con disabilità.
Preso dalla rabbia civile, racconto qui due storie che ho raccolto in Europa su come si fa formazione. Non per invidia di chi è più bravo di noi, ma per capire come siamo fuori dal mondo.

Storia Germania: racconta un collega ispettore tedesco, in un incontro anni fa in Italia, che “tutti gli insegnanti da loro fanno almeno 15 giorni all’anno di formazione su temi comuni ed elettivi. Sono ospitati in alberghi ad hoc, spesso castelli recuperati, con una buona cucina perché si cura l’ospitalità degli insegnanti”. La riunione avviene negli anni in cui in Italia c’era per contratto il “bonus formazione” che rendeva possibile uno scatto di carriera. Più di un italiano presente fa la domanda delle domande: “Ma è davvero obbligatorio? Cosa ci guadagnano a fare questi corsi? E se un insegnante tedesco dice no cosa gli succede?”. Il collega tedesco fa fatica a capire, non sa del bonus. Poi risponde “Gli insegnanti hanno il viaggio pagato e il soggiorno gratuito, in alberghi molto belli. Non serve altro”. Non so perché ci tiene anche a ricordare la buona cucina. Poi continua “Se un insegnante tedesco non partecipa gli accade la cosa peggiore che può capitare ad un insegnante tedesco: la riprovazione dei colleghi!”. Ah, la terra del beruf di Lutero!

Storia URSS: una sindacalista sovietica, ai tempi di Gorbaciov, mi racconta cosa succede agli insegnanti sovietici: “ogni sette anni circa, hanno tre/quattro mesi di soggiorno gratuito in Crimea, organizzati dal sindacato”.
Finalmente al caldo: pensate un insegnante che viene da Irkutsk o Arckangels”.
Poi continua: “In quei mesi, si rifà i denti se serve, fa le terme, si fa curare se ha particolari malattie. E intanto fa dei corsi di formazione su diversi temi”.
Poi alla fine un esame: “Promosso (aumento stipendio), rimandato (rifà i corsi al freddo nella sua città), bocciato: cambia mestiere”.
A me l’idea della Crimea-sanatorio del corpo e della mente fa un simpatico e salutare effetto. PS. I paesi dell’ex Urss (tutti, dal Kazakistan alla Lituania) considerano gli insegnanti con grande rispetto e stima. Non c’è la divisione tra maestri e professori (sono tutti chiamati “maestri”), vengono da lauree pedagogiche prima che disciplinari.
Non a caso sono gli unici che vengono chiamati col patronimico, che neppure verso Putin si usa quasi più.




Come uccidere la formazione senza essere scoperti

di Mario Maviglia

Questo intervento vuole offrire una serie di utili suggerimenti a coloro che, a vario titolo, si occupano di formazione del personale della scuola e che sono mossi dalla comprensibile volontà di sopprimere ogni tentativo di renderla attuabile.
Parliamoci chiaro: la formazione in servizio è una  inutile perdita di tempo (e di soldi), soprattutto se riferita ad un sistema scolastico sano, avanzato, produttivo, eccellente come quello italiano, caratterizzato da risultati fuori dal comune, come emerge dalle classifiche internazionali (e infatti i risultati migliori si registrano al di fuori dei comuni italiani…), dalla grande cura che viene dedicata per far sì che nessuno si perda per strada (la dispersione scolastica in Italia è a livelli quasi zero…; il motto di tutte le scuole italiane infatti è No one left beynd), e da un corpo docente che sprizza salute da tutti i pori pedagogici ed esprime una preparazione professionale mediamente straordinaria e comunque non equiparabile a quella dei docenti degli altri Paesi avanzati.

Esiste anche da noi, ovviamente, qualche mela marcia, qualche docente che non sa fare il suo mestiere, ma il sistema è così solido che si riesce a risolvere queste criticità senza grandi difficoltà (ad esempio “sollecitando” il docente inadeguato a chiedere trasferimento ad altra scuola, e poi ad un’altra ancora e così fino all’età pensionabile. Il motto Nessuno resti indietro è da riferire ai docenti… ).

Tornando a noi, ci sono vari modi per uccidere la formazione senza farsi scoprire e lasciando credere alla UE e agli altri partner internazionali che nutriamo una profonda fiducia sul valore aggiunto della formazione e che quindi ci impegniamo a mettere in atto piani formativi di grande valenza pedagogica e didattica che contribuiscono in modo determinante ad innalzare il già altissimo livello di preparazione dei nostri docenti bla bla bla, bla bla bla… (cfr Greta Thunberg).

Questi metodi di soppressione della formazione sono il risultato di tanti studi svolti sul campo a vari livelli e di una continua sperimentazione in situazione. Ad esempio, per lunghi anni abbiamo detto che la formazione è un diritto/dovere dei docenti, una locuzione, questa, bellissima per dire tutto (ossia niente) e per scansare in modo rigoroso e scientifico l’inutile zavorra della formazione. Infatti, nella titanica (e bizantina) discussione riguardante quanto dovere e quanto diritto ci debba essere nella formazione, intere generazioni di docenti sono riusciti ad andare tranquillamente in pensione facendo poche o zero ore di formazione e potendo dire ai nipoti, con orgoglio: “Io non c’ero!” oppure, quelli più esterofili, “Not in my back yard!”

Questa situazione assolutamente idilliaca e tranquilla è stata proditoriamente e sciaguratamente sconvolta dalla legge 107/2015 che ha stabilito che la formazione dei docenti è “obbligatoria, permanente e strutturale”.
Panico nel mondo scolastico e sindacale! Non tutti hanno però colto la sottile e intelligente strategia utilizzata dal nostro legislatore nel far credere che la formazione diventasse qualcosa di stabilizzato nella vita delle istituzioni scolastiche. In realtà questa volontà il decisore politico non l’ha mai avuta! E il decisore amministrativo ancora meno! Il tutto, infatti, rientrava in una sorta di teatrino politico escogitato appositamente per confondere l’UE e far sembrare che in Italia la formazione è tenuta in grande considerazione. E in effetti, con visione lungimirante, la stessa Amministrazione scolastica si è ben guardata dal tradurre quella “obbligatorietà” in un monte ore definito e a sancirlo nel CCNL.

Anzi con una nota applicativa (n. 2915 del 15/09/2016), degna della migliore scuola sofista, il Ministero precisava che “il principio della obbligatorietà della formazione in servizio” [va considerato] “come impegno e responsabilità professionale di ogni docente” [e dunque] “l’obbligatorietà non si traduce, quindi, automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del Piano”.
Insomma, non esiste alcun monte-ore obbligatorio. Il sospiro che si è sentito in Italia al momento dell’emanazione della nota era quello di sollievo da parte di molte scuole e dei loro sindacati. Questo concetto veniva ribadito con commovente iterazione con una nota successiva (la n. 25134 dell’1/06/2017) la quale stabiliva che “l’obbligatorietà non si traduce automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del piano”.
Leggasi: ognuno fa quello che vuole. D’altro canto non poteva essere diversamente: la nostra è una matura democrazia liberale. La tua libertà finisce dove comincia la mia. Tu non vuoi fare formazione? No problem! Non costringere me a farla. Anzi, mettiamo insieme le nostre forze per costruire una formazione eterea, incorporea, leggera, quasi impalpabile.

Ma ci sono altri modi per uccidere la formazione senza essere scoperti: per esempio ricorrendo all’utilizzo di termini contrastanti o dando fiducia al tempo. Per quanto riguarda il primo aspetto, il gioco è abbastanza semplice: prendete una qualsiasi legge (ad esempio la n. 178 del 30/12/2020) e stabilite che viene avviata una formazione obbligatoria del personale docente impegnato nelle classi con alunni con disabilità non in possesso (i docenti, non gli alunni…) del titolo di specializzazione sul sostegno.
Il principio dell’obbligatorietà lo ribadite anche in un successivo decreto applicativo (ad esempio il DM n. 188 del 21/06/2021).
Ma (attenzione! attenzione! A me gli occhi!) con una circolare che reca istruzioni in materia (ad esempio la n. 27622 del 6/09/2021) il personale docente interessato viene “invitato” a partecipare alle attività formative. Non “obbligato”, capite? E in effetti molti docenti, educatamente e con l’appoggio degli onnipresenti sindacati, hanno risposto al ministero: “Grazie dell’invito, mi ha fatto molto piacere riceverlo, ma non intendo parteciparvi. Ho altro da fare. Sarà per un’altra volta. Non perdiamoci di vista, però.”

Per quanto riguarda il tempo, c’è da ricordare innanzi tutto che esso è galantuomo; e mai massima fu più azzeccata come nel presente esempio. Infatti con la già citata nota 27622/2021 il Ministero ha fornito un’articolata proposta di organizzazione dei corsi di formazione sulla disabilità La nota reca la data del 6 settembre 2021; nel testo viene detto che “per consentire l’effettiva erogazione delle risorse finanziarie entro l’a.f. 2021, le scuole saranno invitate a fornire rendicontazione entro e non oltre la data del 30 novembre p.v.” Avete capito? Più veloce della luce! Il nostro Ministero certe volte è di una efficienza e tempismo mostruosi. (Di solito quando si tratta di far lavorare gli altri…).

In poco più di due mesi le scuole dovranno progettare le attività formative, trovare i formatori, stipulare i contratti (mi raccomando: non si trascuri di chiedere il consenso per il trattamento dati, l’antimafia, l’anticorruzione, i dati anagrafico-fiscali, la dichiarazione di insussistenza/incompatibilità, il CV in formato UE, e gli atri 15 atti previsti…), realizzare le attività formative a livello di ambito e fornire rendicontazione al Ministero entro il 30 novembre! Non ci si lasci però impressionare da questa veemenza decisionista; le ragioni in realtà sono molto serie e impongono un impegno solerte e senza indugi da parte delle scuole interessate alla formazione: infatti, se le scuole non rendicontano entro il 30 novembre potrebbe succedere qualcosa di grave al nostro Paese, qualcosa di irreparabile e catastrofico, qualcosa che in confronto lo scoppio della Terza Guerra Mondiale rappresenterebbe una bazzecola di second’ordine.

Vi chiederete che cosa; è presto detto: i ragionieri del Ministero dell’Istruzione non avrebbero i dati a disposizione per fare il conteggio di quanto è stato speso e di quanto resta da spendere! E questo è di palmare evidenza che non ce lo possiamo permettere! La pandemia è stata devastante per la scuola e per il Paese; non riusciremmo a sopportare un’altra sciagura se i dati non arrivano prima del 30 novembre a viale Trastevere!

Naturalmente questa oltremodo tempestiva mossa del Ministero nasconde un secondo fine, molto astuto e coerente con quanto abbiamo detto sopra: con tempi così ridotti molte scuole non riusciranno ad organizzare la formazione e quindi, ancora una volta, si riuscirà a farla franca rispetto al famoso vincolo della “obbligatorietà” della formazione. L’Italia è un Paese magnifico: ad ogni problema trova sempre una non soluzione.




La scuola italiana, un sistema senza identità

di Stefano Stefanel

Si è avviato da poco il terzo anno scolastico toccato dalle misure per il contenimento della pandemia da Covid 19. Il sistema scolastico italiano non è più quello dell’inizio del 2020, che lottava tra innovazione e conservazione mantenendo comunque, nei confronti del digitale, un’assoluta diffidenza, unita però alla spinta verso le sperimentazioni più ardite. Quel sistema scolastico sembrava avere, comunque, tre indirizzi ben precisi che ne facevano una confusa, ma percepibile identità: lotta alla dispersione scolastica, mantenimento di tutti gli elementi conservativi del sistema (esami di stato, libri di testo cartacei, orario rigido, contratti ingessati, progetti slegati dai curricoli, insomma tutto quanto la scuola ci ha mostrato negli ultimi 50 anni), spinta verso pratiche di inclusione. Dentro quel sistema l’innovazione e la ricerca didattica vivevano per spinte avanguardistiche, esperimenti locali, progetti formativi interessanti, ma poco praticati. Invece l’impressione odierna è che il sistema scolastico italiano non abbia più un’identità, anche se confusa, e sia semplicemente un’unione scomposta di indirizzi diversi e di pulsioni contrapposte. Per dare conto di questa impressione mi avventuro in alcune questioni che mi pare siano di attualità.

LA BATTAGLIA DEL (O CONTRO IL) DIGITALE

L’e-learning ha sempre avuto un alone negativo in Italia e, infatti, penetrava poco e male nel sistema scolastico italiano. I due passaggi dalla didattica sempre e solo in presenza alla Didattica a distanza e, poi, dalla Didattica a distanza alla Didattica digitale integrata sono stati il più grande esperimento formativo della scuola italiana dalla sua creazione. Sfugge pertanto perché di questo grande esperimento formativo non si vogliano conoscere contenuti, perimetri e risultati, ma si agisca in maniera assolutamente contorta vietando la Didattica a distanza anche in forma sperimentale (e confliggendo proprio con le leggi che autorizzano azioni di innovazione e sperimentazione) addirittura attraverso una legge dello stato e contemporaneamente finanziando enormi progetti di didattica digitale (per ogni progetto dei Curricoli digitali finanziato sono garantiti 180.000 euro). Quello che pare chiaro, ma incredibile, è che non si vuole tenere conto dei passi avanti fatti dalla didattica digitale, che da un lato ha favorito molti studenti e, dall’altro, ne ha fatti sprofondare altri nel baratro delle povertà educative: questo dovrebbe essere un caso di studio non di divieto, per capire in che modo molti studenti siano stati favoriti dalla didattica digitale per continuare a favorirli e dall’altro per intervenire sugli studenti deboli, con sistemi un po’ più scientifici del “tenetene conto” ministeriale della fine dello scorso anno scolastico.


Solo un sistema scolastico senza indirizzo compie azioni così contraddittorie: mentre da un lato conduce una battaglia contro la didattica digitale, dall’altro lato la finanzia copiosamente, attivando anche convegni e percorsi di formazione che mostrano i vantaggi possibile di una vera didattica a distanza, che non sia la parodia delle interrogazioni, dei compiti in classe e delle lezioni frontali fatte via video. Tra l’altro mentre gli esperti ministeriali spingono a integrare didattica in presenza e didattica digitale, gli uffici scolastici periferici vigilano attenti affinché tutto avvenga sempre e solo in presenza. Questo accade dentro una cornice di finanziamenti in cui è chiaro che ciò che importa è come si rendicontano i soldi ricevuti, non come si certificano i risultati raggiunti. Così nelle scuole arrivano montagne di soldi non facili da spendere, perché le piattaforme digitali, in cui tutto va rendicontato, sono uno strumento “nemico” di controllo. Moltissime scuole non presentano alcuna domanda per fondi PON, PNSD, Monitor 440, Povertà educative, Piano estate, ecc. per paura di dover poi sottostare alle rendicontazioni con piattaforme ostili e complesse, revisori dei conti interessati al formalismo della documentazione e non ai risultati dell’azione, segreterie che sconsigliano le progettualità perché le considerano ostacolanti il compito storico-burocratico che devono portare avanti.

UN SISTEMA CHE SI DISTRAE

Una cosa che fa sinceramente impressione è vedere la velocità con cui il sistema scolastico si distrae da compiti che nell’immediato lo appassionano. Sembra quasi che ci sia un limite di un paio di mesi per l’attenzione massima delle scuole ad un problema.
Accade così che il Ministero abbia già fissato le date dell’esame di stato conclusivo dei due cicli, ma non abbia detto come si farà. Dopo due anni di esame senza scritti dovrebbe essere chiaro a tutti che gli scritti del passato servivano solo a perdere del tempo. Ci sono però le case editrici e le associazioni professionali delle varie discipline che spingono per il ritorno degli esami scritti: le prime perché dovrebbero sennò riformare i libri di testo (tutti tesi verso l’esame e quindi ostili al concetto di curricolo, visto che i libri di testo possono accompagnare solo programmi) e questo costa molto e non fornisce alcuna certezza di incassi futuri; le seconde perché vogliono preservare la dignità delle discipline costringendo gli studenti a scrivere qualcosa su di loro durante il caldo di giugno. Poiché penso sia chiaro come la penso e poiché penso sia altrettanto chiaro che in Italia moltissimi non la pensano come me, l’unica cosa è attendere che il sistema scolastico italiano scelga tra l’innovazione (con un esame di stato simile alla tesi di laurea) e la conservazione (esame lungo, difficile e faticoso dove non viene mai bocciato nessuno, “tanto rumor per nulla”). Poiché le due idee si contrappongono e non sono applicabili contemporaneamente servirebbe uno sforzo per uscire dall’emergenza e darsi un indirizzo, ma l’impressione è che le due tendenze siano desinate a convivere fino alla fine dell’inverno e poi qualcosa verrà deciso, senza prendere comunque una posizione precisa.
Ma accade anche che sulla nuova scheda di valutazione per obiettivi della scuola primaria e sull’introduzione dell’educazione civica come materia trasversale in tutti gli ordini di scuola si sia assistito a folate formative e a slanci sperimentali che paiono già terminati. La nuova scheda di valutazione prevedeva due anni di sperimentazione nelle scuole: presto però arriva la terza scheda sperimentale dopo le due dello scorso anno e la sperimentazione è così già finita. Ci sono state un po’ di “fiammate” invernali, ma ora tutto sembra assopito, anche se molti obiettivi sono contenuti, le schede hanno assunto il non leggibilissimo “effetto lenzuolo” e abbondano gli aggettivi “appiccicati” agli obiettivi, che ne snaturano il senso.

C’è poi la vicenda, che dovrebbe essere incredibile e che invece è sotto gli occhi di tutti, della sospensione da parte del TAR del nuovo PEI con il susseguente convivere di vari indirizzi, tra attesa e volontà di modifica, con un Ministero che ha rivelato di non avere un piano B, mentre le scuole devono già compilare i documenti, perché comunque il processo del sostegno non si può fermare. Per non parlare del piano di formazione delle 25 ore, finanziato a settembre e che deve concludersi a novembre, obbligatorio ma non troppo, con procedure di spesa non modificate e segreterie interessate solo alle scadenze e non all’effettivo svolgimento di un servizio formativo necessario.
Possiamo anche citare la personalizzazione dei percorsi degli Istituti professionali introdotta nel 2019 e che non va a regime, non desta interessa, non modifica le modalità progettuali e valutative degli istituti professionali, dentro la loro grande crisi vocazionale, che fa il paio con la crisi occupazionale del paese, laddove spesso le tanto sbandierate nuove professioni sono nient’altro che una corsa verso il precariato a vita.

LA TRANSIZIONE ECOLOGICA AD EDILIZIA IMMUTATA

Il sistema scolastico italiano ha trovato un grande punto di congiunzione intergenerazionale nella transizione ecologica. Sulla questione mi pare che il “bla,bla,bla” lo diciamo tutti, Greta Thunberg e Vanessa Nakate incluse, anche perché non si mette mai in rapporto la transizione ecologica con la perdita di tantissime professioni a favore di altre, che saranno governate però dalle multinazionali, visto che gli Stati la transizione ecologica la devono comunque appaltare a qualcuno. In tutta questa questione, che unisce tutti e che tutti ci trova concordi, si vede perfettamente come il sistema scolastico italiano non abbia alcuna identità. Credo sia evidente che in almeno il 60% (se non di più) degli edifici scolastici italiani quel tipo di transizione non sarà possibile. Però, invece di avere un piano di edilizia scolastica che abbatta le scuole “non transitabili” ecologicamente e le ricostruisca nuove e belle, si continua a puntare sulle manutenzioni ordinarie o straordinarie che rifanno le scuole così come sono state pensate e progettate 50, 70 o anche 100 anni fa. Per poi magari mettere qualche pannello sul tetto e un po’ di striscioni verdi sulle vetrate.
Un piano nazionale di edilizia scolastica che abbatta gli edifici vecchi, cancelli tutte le locazioni che costringono molte scuole soprattutto nel centro sud dentro edifici non adatti, che sposino l’ecosostenibilità all’antisismicità penso si potrebbe fare con 50 dei 209 miliardi del PNRR. Invece niente, in quel piano c’è sì la banda larga anche per le scuole, anche se non si dice come arriverà sulle scrivanie delle nostre segreterie e alle LIM delle nostre classi, ma non c’è, invece, un’idea cha sia una su come devono essere le scuole del 2050 per stare al passo col mondo che cambia. A nessuno viene in mente di chiedersi come scuole progettate e costruite tra il 1950 e il 1980 possano transitare nella nuova visione ecologica degli edifici, quasi che gli architetti di quel tempo avessero già pensato al 2050-2070.

Diciamo che è impressionante stare dentro un sistema scolastico che si autocombatte, che nomina sempre l’autonomia e poi schiera le Direzioni Generali per combatterla, che si fonda sui Dirigenti scolastici ma non li valuta e non si fida di loro, che va verso una richiesta flessibile di formazione e istruzione e contemporaneamente sviluppa rigidità esiziali, che dice, insomma, di fare una cosa, ma poi ne fa un’altra.




Filosofia nei tecnici. Parliamone, ma i dubbi sono tanti

di Raimondo Giunta

Il ministro Bianchi promette l’inserimento della filosofia nel curriculum dei tecnici.
Presa così, senza approfondimenti, sembra una buona notizia.
A chi può dispiacere che si studi filosofia in tutte le scuole superiori? Bisogna, però, ragionarci seriamente.
Cercherò di elencare i problemi che si presentano ogni volta che si parla di nuove discipline soprattutto se la questione riguarda i tecnici.

 

  1. Un tentativo nel passato era stato fatto con il liceo economico; farlo passare nella mia scuola ha comportato un certo e difficile lavoro di convincimento, perchè gli insegnanti di materie professionali paventavano una riduzione delle ore di insegnamento per loro disponibili.
  2. I tecnici e i professionali ancora di più hanno gli orari settimanali più estesi e pesanti tra tutti gli istituiti superiori. Ogni nuova materia dovrebbe comportare una riduzione delle ore di insegnamento di quelle esistenti, se non si vuole rendere insopportabile la vita degli studenti.
    A mio modesto parere, orari di lezione antimeridiani di 36 ore sono umanamente impraticabili, da qualsiasi punto di vista li si voglia considerare.
    Altra cosa sarebbe ,se le scuole potessero disporre di mensa, per potere dividere in due parti l’orario delle lezioni, se i trasporti pubblici fossero finalizzati per questo scopo e se per una certa categoria di studenti pendolari le scuole fossero dotate di convitto, come avviene per molti tecnici agrari
  3. Ogni nuova materia finisce per ridefinire l’identità di un curriculum scolastico; la filosofia riporterebbe in causa la licealizzazione dei tecnici, dalla quale si è voluto fuggire con tutti i provvedimenti presi a partire dal Ministro Fioroni
  4. Ai tecnici e ai professionali manca soprattutto l’insegnamento del diritto, che campeggiava in tutti gli indirizzi sperimentali del biennio e in alcuni del triennio e che tranne negli indirizzi economici è stato fatto sparire con grave danno degli studenti e non solo
  5. Credo che bisognerebbe smettere di inventarsi ad ogni cambio ministeriale una svolta nei curricoli scolastici, che in genere funzionano se godono di una certa stabilità.
    In assenza di una riformulazione degli spazi scolastici, degli spazi di apprendimento e dei servizi necessari alla vita scolastica, ogni nuovo carico disciplinare non servirebbe a migliorare i processi formativi.

P.S. Quella mia esperienza di Liceo Economico ebbe una relativa fortuna, perché, fino a quando sono stato in servizio, non si andò al di là della formazione di una sola sezione.
Nel suo ultimo anno la prima classe di Liceo Economico del mio istituto ebbe agli esami di maturità i migliori risultati. Avevo provveduto ad assegnargli quelli che ritenevo i migliori insegnanti. Dopo debita richiesta degli stessi…




Dall’alternanza scuola lavoro ai PCTO – Un ricco vademecum

di Antonella Mongiardo

Con la legge 107/2015, l’alternanza scuola-lavoro non è più occasionale, ma diventa strutturale e obbligatoria per gli studenti frequentanti il secondo biennio e l’ultimo anno di tutti gli istituti secondari di secondo grado.
La normativa prevede che per gli ultimi tre anni della scuola superiore debba essere previsto nel Ptof un percorso “per lo sviluppo di competenze trasversali e per l’orientamento”, che può essere svolto in un’azienda, in un ente pubblico, in un strutture di tipo culturale, come musei e biblioteche, e anche all’estero.
Il progetto o i progetti di alternanza inseriti nel Ptof vengono declinati e attuati dai singoli Consigli di Classe, che dovranno predisporre i singoli percorsi formativi personalizzati tenendo conto dei loro interessi e delle loro attitudini.

In allegato un ampio e dettagliato vademecum sull’argomento

 




Verso la DdB, ovvero la Dittatura della Burocrazia

di Mario Maviglia
Dopo anni di intenso e sotterraneo lavoro, la burocrazia è riuscita a imporre il proprio potere nella vita pubblica e privata del nostro Paese, instaurando una sorta di dittatura, la Dittatura della Burocrazia (DdB) appunto. L’espressione non deve trarre in inganno: la DdB non presenta i caratteri brutali, violenti e repressivi delle classiche dittature che abbiamo conosciuto nel tempo. Anzi, alla DdB non interessano i corpi delle persone, il suo progetto è più ambizioso: mira a conquistare le anime dei cittadini in modo che ognuno, quasi spontaneamente, diventi egli stesso promotore e fautore di burocrazia.

Solo in questo modo la DdB può imporsi alla coscienza delle persone e delle istituzioni e può realizzare il suo obiettivo principale: avviluppare nelle sue rassicuranti ancorché soffocanti spire il modus vivendi di ogni cittadino.
Abbiamo detto che questo processo aborrisce il ricorso alla violenza e alla coartazione. Semmai, la strategia della DdB è equiparabile al cosiddetto fenomeno della “rana bollita” descritto da Bateson in Mente e natura.
Afferma Bateson: «E’ un fatto non banale che siamo quasi sempre inconsapevoli delle tendenze nelle variazioni del nostro stato. Esiste una leggenda quasi scientifica secondo la quale, se si riesce a tenere buona e ferma una rana in una pentola di acqua fredda e si aumenta lentissimamente e senza sbalzi la temperatura dell’acqua, in modo che nessun istante possa essere contrassegnato come quello in cui la rana dovrebbe saltar fuori, la rana non salterà mai fuori e finirà lessata».

Bateson si riferiva all’inquinamento che cresce a poco a poco senza che ce ne rendiamo conto, ma la metafora va bene anche all’azione della burocrazia che tende a imporre una mentalità burocratica in tutti noi corrompendo la mente e il modo di fare di ognuno.
Il vero successo della DdB è fare in modo che le istituzioni e gli stessi cittadini diventino “più realisti del re” in campo burocratico.
I segnali sono molto incoraggianti e già si possono apprezzare i primi risultati di questa importante conquista. Prendiamo il mondo della scuola e – a titolo esemplificativo – la procedura che viene seguita solitamente per affidare un incarico di formazione ad un esperto esterno (anche per poche ore). In alcune scuole questo iter amministrativo appare ben congegnato, strutturato e interessante, anche da un punto di vista psichiatrico.
Alla base di tutto c’è ovviamente un bando emanato dall’istituzione scolastica a cui l’interessato aderisce, di solito compilando una domanda (anche in forma on line) e allegando un CV.
Le scuole più avvedute chiedono al formatore di esplicitare i motivi che lo spingono ad aderire al bando e come intende svolgere le ore di formazione.
Va da sé che si sa già a chi sarà affidato l’incarico, ma il moloch della burocrazia vuole che le cose siano fatte a regola d’arte. Non dimentichiamo che il primo principio della termoburocrazia recita: “Prima si sceglie il candidato, dopo si elaborano criteri e procedura di scelta. L’importante è che le carte siano a posto.”
Per il perfezionamento dell’incarico la scuola richiede al formatore una serie di ulteriori documenti, come la scheda anagrafico-fiscale, l’autorizzazione al trattamento dati e altre dichiarazioni varie (di insussistenza, di incompatibilità, di incompetenza ecc., tutte accomunate dal prefisso negativo in-; altre dichiarazioni si riferiscono invece all’anticorruzione, all’antimafia, all’anticamera ecc., tutte accomunate dal prefisso anti-).
Inutile dire che per ogni singola dichiarazione il formatore dovrà riportare sempre ex novo le proprie generalità anagrafiche in quanto il sistema non prevede e non consente il travaso dei dati da un modello all’altro. E d’altro canto questo andrebbe contro il secondo principio della termoburocrazia che stabilisce: “I dati anagrafici vanno trascritti in originale in ogni singolo modulo non essendo possibile la trasmigrazione degli stessi da un modulo all’altro per ragioni di odine pubblico e per evitare forme di anchilosi delle mani”.
Per alcuni versi appare ancor più significativo il lavoro di “rifinitura” burocratica (leggasi: essere più realisti del re) messa in atto da alcuni Uffici Scolastici Regionali in occasione del conferimento di incarichi di reggenza ai dirigenti scolastici.
In questo caso, oltre alla canonica domanda di disponibilità a ricoprire l’incarico di reggenza, riportante i soliti dati anagrafici, il dirigente deve inoltre produrre: una dichiarazione in cui vengano esplicitati i motivi per cui chiede la reggenza; copia della carta di identità; copia della tessera sanitaria; attestazione ISEE; in che misura gli emolumenti derivanti dalla reggenza vanno a modificare il bilancio familiare; stato di famiglia.
Alcuni USR, più lungimiranti e più in linea con i dettami della DdB, richiedono anche l’impronta digitale da apporre sulla domanda e l’esito delle analisi medico-scientifiche con l’attestazione che tali impronte sono da ricondurre al soggetto in questione.
Molti dirigenti scolastici, per non trovarsi impreparati nella fornitura dei dati richiesti in questa e nelle altre innumerevoli occasioni di interazione con i vari settori della PA, hanno saggiamente provveduto a costruirsi un data base Access contenente migliaia di dati come quelli riportati sopra, ma anche altri che potrebbero un giorno o l’altro essere richiesti dalla DdB: numero di scarpe, gruppo sanguigno, QI, allergie alimentari ecc.
(Alcuni DS particolarmente volenterosi e “bolliti”, nel senso della rana, hanno inserito anche le “scappatelle” avute durante la vita matrimoniale, ma il dato è leggibile solo utilizzando un codice di accesso criptato. Non sia mai che il partner…).
Tutto bene, quindi? Ovviamente no. Anche le migliori dittature hanno le loro falle, e in effetti nel corso degli anni si sono levate varie critiche che denunciavano l’avviluppo fin troppo caldo e soffocante delle tante norme. E qualche Ministro, a dire il vero, ha fatto dei tentativi per limitare il problema.
Qui ricordiamo, in particolare, la Ministra della Ipersemplificazione Amministrativa, sen. Gaia Lex, che aveva predisposto ben 250 disegni di legge finalizzati a sfoltire la produzione normativa con l’eliminazione di almeno 180 leggi vetuste. Era un primo passo, ovviamente, anche perché il saldo tra nuove leggi e leggi da abrogare era comunque sbilanciato a favore delle nuove (ma la Ministra e il suo entourage questo aspetto non lo avevano considerato…).
In ogni caso la Ministra non poté completare quest’opera meritoria a causa di un insolito trauma mentale che la colpì mentre era intenta a districarsi tra un combinato disposto e un ad substantiam, conditi da un ex professo.
Solo l’intervento degli addetti alla prima sicurezza, effettuato dopo avere rigorosamente rispettato la procedura prevista dalle norme amministrative in materia, ha scongiurato il peggio. Nel tempo trascorso perché gli addetti alla prima sicurezza intervenissero, la Ministra ha fatto in tempo a ingoiare, in modo compulsivo e incomprensibile, metà dei disegni di legge su cui stava lavorando. Sono state necessarie due lavande gastriche per risolvere il problema.
Risultato: ricovero permanente in Corsia n. 6, di cechoviana memoria.

Sorte migliore non è toccata al suo successore, il Ministro per l’Iper-ipersemplificazione Amministrativa, on. Quinto Comma, che aveva continuato con alacrità il processo di riduzione delle norme, individuando ben 175.000 articoli di legge non più in vigore, sparsi nella sterminata produzione normativa italiana. La cerimonia ufficiale di eliminazione, anche fisica, di queste norme doveva svolgersi, alla presenza delle più Alte cariche dello Stato, presso i giardini del Quirinale, e prevedeva l’accensione di un grande falò purificatore, che avrebbe distrutto le norme vetuste.
Purtroppo, anche grazie a un improvviso venticello, le fiamme hanno lambito le mani dell’on. Ministro, pronte a lanciare sul falò copia cartacea delle vecchie leggi. Davanti agli occhi esterrefatti degli astanti, le fiamme hanno repentinamente avvolto il corpo del Ministro riducendolo letteralmente in cenere. Particolare inquietante: l’unico documento che non è stato distrutto dal fuoco catartico è stato l’articolo di una piccola legge del lontano passato recante norme su come prevenire la diffusione delle fiamme in caso di falò. Va detto però che la drammatica scomparsa del Ministro non è stata del tutto inutile ai fini della semplificazione amministrativa: l’onorevole stava infatti lavorando ad un progetto molto complesso che avrebbe portato alla riduzione di ben 2580 atti amministrativi, ma la cui abrogazione richiedeva 3000 nuove leggi.
Un guadagno insomma c’è stato.

Dopo questi episodi, la DdB aveva fatto condurre una rigorosa indagine scientifica per trovare le ragioni psico-culturali del bisogno impellente, primordiale, ancestrale e naturale del popolo italiano a nutrirsi di burocrazia. In effetti la ricerca, durata ben tre anni, ha portato alla scoperta di un gene, tipico della popolazione italica, battezzato art.20co5-bis, responsabile della produzione compulsiva di norme, regole, atti e direttive da parte degli italiani.
A quel punto anche le ultime voci dissidenti sono rientrate mestamente nel silenzio. E le spire della burocrazia avvolsero dolcemente le contrade d’Italia in un abbraccio da togliere il fiato.




Green pass e vaccini. Tutto quello che c’è da sapere

Sulle possibili posizioni del personale scolastico rispetto all’obbligo di possesso della certificazione verde Covid-19 proponiamo un’ampia scheda realizzata da Emanuele Contu, dirigente scolastico all’istituto superiore Puecher-Olivetti di Rho.