Sul “docente esperto”: per una necessaria ricognizione della professionalità

di Simonetta Fasoli

La questione del “docente esperto”, aperta dai provvedimenti appena disposti, ha comprensibilmente suscitato una serie di reazioni, a partire da quelle degli organismi di rappresentanza sindacale. Il tema è delicato e tocca, per così dire, “nervi scoperti” e annose diatribe.
Forse vale la pena rispondere alla frettolosa (e a mio parere abborracciata) soluzione governativa con una più ponderata riconsiderazione dei temi sottesi alla problematica. Solo così, a mio avviso , possiamo sottrarci al clima da derby che sembra profilarsi, e che non aiuta a fare qualche serio passo in avanti.
Il dispositivo di legge ha, mi pare, il limite di fondo nella stessa cornice di emergenza da cui è scaturito. Ne è nata una configurazione parziale, in cui si parla di “docente esperto” come mero prodotto di un non meglio precisato percorso di “formazione” spalmato in un lungo arco di tempo, senza un esplicito riferimento alle dimensioni professionali della docenza in quanto tale. Questa scotomizzazione di partenza ha reso a mio parere arbitraria e in-fondata l’intera operazione.

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Per cominciare, riporterei la questione nell’alveo nell’interezza che le appartiene. Parliamo allora di “articolazione delle funzioni” all’interno della professionalità docente, che è composita in sé stessa, multidimensionale. Se questa caratteristica strutturale diventa via di accesso ad una forma di gerarchizzazione (sancita infine dal trattamento economico fortemente differenziato e dalla platea dei “pochi” cui esso è programmaticamente destinato) si determina una torsione concettuale (e giuridica) dello stesso profilo.
Si sta immaginando una “comunità di pratiche” ispirata alla specializzazione dei “ruoli”, che diventano “figure” e non “funzioni” dello stesso profilo? Se questo è il modello di funzionamento, penso sia opportuno mostrarne le incongruenze, gli effetti negativi proprio sulla qualità dei processi di insegnamento-apprendimento che si dice di voler meglio assicurare.
Per esempio: la competenza progettuale non può essere delegata a un “esperto”, in quanto è parte integrante della prestazione didattica, che, se avulsa da essa, sarebbe attività meramente esecutiva. Così anche una didattica che, in quanto progettualità, ignori le implicazioni gestionali e organizzative è privata del suo corollario che è il criterio di fattibilità, rischiando di restare (come non di rado succede) una nobile ma inerte dichiarazione di intenti.
Diverso è il ragionamento se si considera la necessaria funzione di coordinamento, che un sistema complesso qual è l’istituzione scolastica richiede. Le “funzioni strumentali” (eredi delle “funzioni obiettivo”) sono un esempio largamente sperimentato di questo modello di funzionamento. Si tratta di istituti ancorati alla pianificazione educativo-didattica, dunque coerenti con le scelte collegiali e non correlati (come sembra adombrare la norma in questione) ad un “cursus honorum” de-contestualizzato, perseguito individualisticamente.
Partiamo da qui: da un ripensamento e, se necessario, da una rinnovata declinazione delle dimensioni che articolano la professionalità docente; tenendo ferma l’istanza di “tenerle insieme” nello stesso profilo, in concreto nella stessa persona, in netta controtendenza rispetto a ogni forma di “divisione del lavoro” che richiama concezioni tayloristiche decisamente superate.
Ragioniamo, infine, sulle funzioni di coordinamento, sostenendo la capacità delle istituzioni scolastiche, nell’esercizio responsabile della collegialità e nella cooperazione di tutte le componenti, di individuare i nodi della rete progettuale/organizzativa che connotano il sistema-scuola, affinché siano presidiati. Non vedrei male in questo caso un avvicendamento, regolato da criteri espliciti e trasparenti definiti dall’istituzione autonoma, nell’assumere tali funzioni di coordinamento: questo non per omaggio ad un principio astratto di democraticismo, ma perché ritengo che ogni docente dovrebbe farne concreta esperienza (diventarne “esperto”…) per maturare quella visione complessiva del sistema che è troppo spesso carente e delegata a pochi.




Quel pasticciaccio brutto (ma proprio brutto) del “docente esperto”

di Marco Guastavigna

Sul pasticciaccio brutto brutto brutto del “docente esperto” si sono già espressi in molti e in modo sistematico, a partire da considerazioni complessive sull’organizzazione del cosiddetto “mondo della scuola”.

Io sono invece un po’ confuso e mi limiterò a proporre quanto mi si è affacciato alla mente in questi giorni, convinto (illuso?) di poter comunque dare un contributo alla riflessione, che mi auguro porti alla soppressione del provvedimento.

La prima considerazione è questa: mi sono immediatamente ricordato del “tempo potenziato”, dispositivo contrattuale previsto, esaltato e poi inattuato, tanto che non solo gli insegnanti più giovani, ma il fior fiore dei motori di ricerca lo confondono con l’organico di potenziamento. Per non parlare del “concorsone” di Luigi Berlinguer, che provocò una fortissima reazione della “categoria”, in quasi tutte le sue – variegate allora forse più di ora – componenti ideali e ideologiche, fino ad essere cancellato.
Potrei sbagliarmi, ma il mio reflusso professionale ha rigurgitato anche la figura del “docente senior”, che avrebbe riproposto nell’istruzione secondaria un modello qua e là usato in quella terziaria.
E poi ancora la vicenda della valutazione degli insegnanti in rapporto al riconoscimento di un presunto “merito” innescata dalla Legge 107 del 13 luglio 2015 e via via depotenziata con provvedimenti e accordi con i sindacati. Le forzature per la differenziazione delle carriere degli insegnanti con lo scopo di introdurre gerarchizzazione – insomma – sono un evento frequente e hanno un trend di fallimento, anche grottesco.

La seconda considerazione: l’istruzione pubblica è devastata da decenni dalla cultura e dalla pratica della competizione tra e all’interno delle scuole con bandi, concorsi, premi, riconoscimenti, percorsi di formazione riservati, certificazioni private e simili.
La pandemia e il distanziamento delle operazioni didattiche hanno reso definitiva la colonizzazione delle aule e delle menti da parte del capitalismo cibernetico, assurto a sfondo inevitabile, syllabus adattivo universale.
Segmenti della formazione sono nominalmente e strutturalmente subordinati al mercato del lavoro (ovvero alla mercificazione dell’attività umana) come approccio generale e come dato di contesto spazio-temporale. Ma, storicamente, gli insegnanti si accorgono dei rapporti concorrenziali fondati sull’utilitarismo solo quando ne sono colpiti in forma diretta; e individuale. E davvero pochi sembrano cogliere ora che l’obiettivo del “docente esperto” servirà soprattutto a costruire e validare un’altra filiera della cultura intesa come potere e sottopotere.

Del resto, anche i più fieri oppositori di questo e di altri provvedimenti analoghi soffrono – è la terza considerazione – di un grave limite: ritengono che il pensiero critico, anziché intenzione e posizionamento espliciti, sia il frutto di un percorso di istruzione curriculare, fondato sulle certezze dei saperi disciplinari. Una neutra e rassicurante “capacità di esaminare nuove informazioni e idee concorrenti in modo spassionato, logico e senza preconcetti emotivi o personali”, come lo definisce Tom Nichols.

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Non è un caso (siamo alla considerazione finale), del resto, che il dibattito sulla “professione-docente” sia e sia stato – salvo momenti ormai remoti e comunque irripetibili – intorno a un profilo esclusivamente individuale dell’insegnante, che incarna uno o più saperi, per alcuni anche quelli psico-pedagogici, in forma più o meno prevalente. A coloro che apprendono, fare la somma.
A mio fallibile giudizio, questo approccio non porta da nessuna parte. Andrebbe invece più che mai riconosciuta e valorizzata la dimensione politica di una scolarizzazione di massa e democratica, capace di muoversi in modo significativo nei meccanismi di interdipendenza e di crisi planetaria. Ed essa è in primo luogo responsabilità, azione e progetto collettivi, a dimensione sociale. Che quindi si incarna in un’istruzione che ha il compito di innescare, estendere in quantità, incrementare per qualità, garantire per consapevolezza e prolungare nel tempo capacità culturali e – appunto – sociali finalizzate allo sviluppo umano.
Ma questa, probabilmente, è utopia.




Il docente esperto: uno su cento ce la fa…

di Mario Maviglia

Prendete una delle categorie più vilipese in Italia, sia sul piano sociale che economico, ancorché – contraddittoriamente – più tutelata sul piano occupazionale. Si tratta di una professione più che dignitosa, ma sempre più oberata di impegni burocratici. Su questa categoria i vari Ministri che si sono succeduti nel tempo hanno sempre nutrito l’ambizione di lasciare un segno con le loro (spesso dannose) riforme. Nessuno che si sia mai preoccupato di creare le condizioni migliori per consentire a questi professionisti di svolgere il proprio lavoro in modo tranquillo e sereno, centrando l’attenzione sul compito principale che dovrebbe assolvere la loro ”azienda”, ossia la promozione e lo sviluppo dei processi di apprendimento e di socializzazione degli studenti. Nel tempo, anzi, le condizioni lavorative di questi professionisti sono andate viepiù peggiorando.

Oggi, attraverso una delle tante leggi che nulla ha a che fare con il mondo della scuola (Decreto Aiuti bis), viene inserito un meccanismo di “premiazione” dei docenti, che non trova eguali in altri contesti professionali, attraverso la creazione della figura dell’”insegnante esperto”, un super-docente dotato di grandi capacità, quasi taumaturgiche, soprattutto considerando l’iter che dovrà seguire per diventare “esperto”. Infatti il super-docente dovrà completare tre corsi triennali di formazione consecutivi e non sovrapponibili tra loro, con valutazione positiva. Questi docenti niciani non potranno essere più di 8 mila (poco più dell’1% del totale) e alla fine di questa eroica cavalcata formativa potranno meritatamente godere di un assegno annuale ad personam di 5650 euro all’anno, ossia circa 400 euro in più al mese rispetto ai colleghi non “esperti”.

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Peraltro non sono richiesti compiti particolari a questa nuova figura, anche se dovrà rimanere nella stessa scuola per almeno tre anni. A livello formale la sua istituzione è prevista a partire dall’a.s. 2023/2024, ma gli effetti economici decorreranno dall’a.s. 2032/2033. (Per molti docenti già arrivarci, a questa data, sarà una positiva prova di resilienza esistenziale…).
La legge non chiarisce se, in caso di premorienza dell’interessato prima della scadenza dei fatidici 9 anni di formazione, le esperienze formative comunque maturate nel frattempo possano essere trasmesse agli eredi o a colleghi designati dal compianto prima della sua dipartita. Ma va detto che c’è nello spirito della legge una grande prospettiva di speranza e di ottimismo: infatti chi viene prescelto come “docente esperto” dovrà impegnarsi a vivere ancora per almeno 9 anni per poter godere dei sacrifici sostenuti. E in questo periodo storico contrassegnato da crisi di vario tipo, depressione cronica e sfiducia nel futuro, il messaggio veicolato dalla norma suona decisamente rincuorante e terapeutico.

Questo, sommariamente, quanto prevede la legge. Ma ancor più interessante è capire quali giri mentali hanno seguito i proponenti questa norma che di fatto prefigura un iter formativo per acquisire la qualifica di “esperto” equiparabile alla formazione di un pilota d’aereo o a quella di un medico specialista. Forse poteva essere scelta, come dire?, una via più breve, magari riconoscendo eventuali “crediti” acquisiti durante l’esperienza professionale pregressa. Ma in questo caso, forse, la futura quanto inutile Scuola di Alta Formazione non avrebbe avuto lavoro a sufficienza da svolgere e non avrebbe potuto giustificare quindi la sua ragion d’essere e il baraccone burocratico al suo seguito.

Più prosaicamente ci si poteva dedicare in modo serio e in un arco temporale non biblico a equiparare gli stipendi dei docenti italiani alla media degli stipendi dei loro colleghi UE, almeno come base di partenza e questo anche per rendere più attrattivo l’insegnamento ad una platea più vasta di professionisti.

Ovviamente non è solo una questione economica, ma c’è da chiedersi quale molla masochistica dovrebbe spingere un docente a formarsi per 9 anni prima di vedere dei vantaggi economici, quando potrebbe destinare meno tempo per una preparazione adeguata ad affrontare un concorso per dirigente scolastico o dirigente tecnico (se i concorsi si svolgessero a scadenza regolare…), con vantaggi economici molto più consistenti.

Insomma, l’impressione generale che si ricava è che la vecchia e mai abbandonata idea di creare forme di differenziazione di carriera tra i docenti sia ancora tutta da elaborare, a meno che non ci si voglia illudere che l’istituzione del “docente esperto” sia la risposta a questo problema. Sicuramente è un modo poco produttivo di utilizzare i fondi pubblici. Se a ciò si aggiunge il finanziamento necessario per il funzionamento dell’istituenda ed evanescente Scuola di Alta Formazione si può comprendere come spesso la spesa pubblica venga dirottata in opere inutili, se non futili.

 

 

 

 




Ius scholae, un dibattito quasi lunare

di Aluisi Tosolini

Si dibatte (anche molto aspramente) in questi giorni della proposta di legge definita jus scholae che interviene sul tema della cittadinanza.

La mia personalissima impressione – dal punto di osservazione in cui mi trovo – è che il dibattito in realtà abbia qualcosa di lunare, marziano, sia fuori dal mondo.

Sto facendo in questi giorni il presidente di commissione degli esami di stato in un grande e notissimo centro della provincia di Parma dove la percentuale dei cittadini stranieri residenti (quindi sia comunitari che extra comunitari) è pari al 21,2% (una persona su 5).
Nella provincia di Parma i cittadini stranieri sono il 14,7%, mentre a livello regionale la percentuale è pari al 12,6%  della popolazione contro l’8,4 di media nazionale (e l’Emilia Romagna è la prima regione in Italia per incidenza di stranieri residenti).

Gli studenti delle classi che stanno facendo gli esami rispecchiano la composizione sociale della popolazione della zona. Con diversi candidati abbiamo discusso anche della proposta di legge sulla cittadinanza che si sta dibattendo in parlamento.
Trovarsi davanti candidati 19enni, nati in Italia e che conoscono benissimo la lingua italiana, ben inseriti nel tessuto sociale, molti con un contratto di lavoro già in tasca presso le aziende del distretto che senza lavoratori stranieri sarebbero costrette a chiudere, fa impressione.
Sono italianissimi (certo più italiani di molti discendenti di antichi emigrati in sud America che per lo jus sanguinis potrebbero ottenere la cittadinanza italiana senza fatica) ma non sono cittadini.
A loro manca un diritto fondamentale, quello della partecipazione alla vita sociale e politica da soggetti attivi, votanti. Manca il sentirsi davvero a casa, il non essere e il non percepirsi come ospiti, cittadini di serie B.
Hanno frequentato le scuole in Italia, molti dalla scuola dell’infanzia in avanti e quindi ben più dei 5 anni richiesti dalla legge e che Fratelli d’Italia anni fa chiedeva fossero 8. Prenderanno il diploma, diversi si iscriveranno all’università.
Perché non dovrebbero avere la pienezza della cittadinanza italiana se lo chiedono e lo desiderano?

Una questione di coesione sociale

Personalmente credo che riconoscere queste persone come cittadini italiani sia non solo doveroso dal punto di vista etico e politico ma anche necessario dal punto di vista socio-economico. Sono questi i cittadini che terranno in piedi l’economia italiana nei prossimi anni. Sono loro che con il loro lavoro che finanzieranno l’INPS. Sono loro la linfa vitale della nostra società futura. Chi sostiene, surrettiziamente e ricorrendo alla solita tecnica del benaltrismo, che i problemi dell’Italia d’oggi sono altri, e nello specifico la crisi economica, i salari, l’inflazione il costo della vita, non si accorge che proprio a motivo di questi problemi economici sarebbe interesse dell’Italia riconoscere la cittadinanza a chi vive da anni in Italia.

La loro posizione pecca di iper-culturalismo ovvero l’opposto di quanto dicono. Appartengono a quanti farneticano attorno alle teorie della sostituzione etnica senza accorgersi che il declino della società italiana è già in atto e vede come responsabili primi proprio gli italiani stessi.
Da qui la necessità di riconoscere come nuovi italiani quanti hanno fatto un percorso scolastico in Italia: è una questione di coesione sociale. Infatti solo chi è pienamente cittadino fa parte compiutamente della società e può essere chiamato ad operare per il suo miglioramento, la sua crescita, il suo sviluppo ma anche il suo cambiamento, la rinegoziazione delle norme e delle regole del convivere sociale. Chi non è cittadino è ospite e come ospite non è tenuto a connettersi compiutamente alla rete sociale secondo logiche solidaristiche.

La centralità della scuola

La legge proposta, sin dal titolo, riconosce la centralità della scuola nella formazione di una persona e di un cittadino. Si tratta di una valorizzazione della cultura nel processo di acculturazione che conduce a condividere la lingua, le regole della convivenza, i valori di fondo che tengono assieme il tessuto sociale.
E’ il riconoscimento che la scuola forma in primo luogo cittadini e a questo scopo utilizza i saperi, le conoscenze e le competenze organizzandole dentro percorsi significativi di crescita umana, sociale, politica.
La proposta di legge riconosce alla scuola un compito e un valore spesso nascosti o negati dall’opinione pubblica che della scuola ha spesso una concezione distorta e decisamente parziale come il dibattitto di questi mesi ha più volte evidenziato con la richiesta di ritornare alla scuola di un tempo, quella che dava vere e solide conoscenze, quella che bocciava, che usava i voti come mannaia, quella che creava dispersione e abbandono Una scuola di classe tesa a sorvegliare e punire piuttosto che a formare cittadini critici e partecipi.

E’ di noi che qui si parla….

Così la discussione sulla legge è in realtà la discussione su noi stessi. Su chi siamo e su chi vogliamo essere. Sul presente e sul futuro della nostra società e della nostra scuola.
E, stando alle posizioni viste in questi giorni, l’orizzonte è abbastanza depressivo

https://www.giuseppebrescia.it/ius-scholae-ecco-il-testo-per-una-nuova-legge-sulla-cittadinanza/

 

 




Alla ricerca delle competenze sperdute (le non cognitive). Commento semiserio a un recente ardito disegno di legge

di Aristarco Ammazzacaffè

“Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi delle istituzioni scolastiche …”.

È il titolo del ddl che la Camera ha approvato l’11 gennaio scorso e che ora tocca al Senato esaminare e approvare, se ne ha l’animo. I parlamentari firmatari, poco più di una decina (per la precisione, una Dozzina, con l’iniziale maiuscola per deferenza) appartengono ai diversi schieramenti politici del Parlamento, nessuno escluso. (Almeno 4 però di sola Forza Italia: con tutti nomi arcinoti agli ‘scolastici’. Gli altri parlamentari presentatori della proposta, con l’eccezione di un paio, sono associabili al mondo della scuola più o meno come la catalogna alla pasta al forno. Per dire.

Comunque un disegno di legge (ddl) sulle competenze non cognitive[1], se ci pensate, era proprio quello che ci voleva e soprattutto in questo periodo. Quando uno dice, le mancanze! E le attese!
Tranquilli, però. Gli articoli sono solo cinque e quasi tutti brevi. E non pochi passaggi, come accade spesso: acqua fresca e mica fresca.

Partiamo comunque fiduciosi.

L’articolo 1. L’inizio – molta nebbia padana anni ’60 (semplice annotazione d’ambiente; non critica) – dà per scontato che l’oggetto (le competenze non cognitive) sia chiaro a tutti.
‘Competenze non cognitive’? Cioè? Una declinazione esotica di competenza? Una proposta nuova e innovativa per la scuola che recupera il passato? Un’idea dirompente che apre al futuro, da parte di parlamentari attrezzati in teorie della conoscenza, che sfidano elaborazioni che vanno per la maggiore?
Perché no? Perché sì? Mah!

L’articolo si intitola opportunamente alle finalità del ddl.
Sulla prima delle quali: promuovere la cultura della competenza, si preferisce però passarci sopra, un po’ per le ragioni di prima (un discreto esempio di acqua fresca, ma di quella buona), un po’ per la curiosità di scoprire, il più presto possibile, come si sbroglia il ‘disegno’. E infatti nelle righe seguenti, già con la finalità – integrare i saperi disciplinari e le relative abilità fondamentali – i parlamentari proponenti un qualche segnale sembrano lanciarlo: le competenze dei saperi disciplinari addirittura declassate a semplici abilità.

– Ma come si permettono?
Però siamo in democrazia e la cosa non può destare scandalo.
Comunque, una scivolata che uno non se l’aspetta.
Con la terza finalità – miglio­rare il successo formativo prevenendo (1) anal­fabetismi funzionali, (2) povertà educativa e (3) di­spersione scolastica – siamo già veramente, sembra di capire, al top della visionarietà pedagogica, proprio. E questo grazie alle competenze specificamente non cognitive, chiamate a ‘migliorare’ il famoso successo formativo; abbattendo così in un sol colpo, come neanche Sandokan Sandokàan, le tre piaghe del nostro sistema di istruzione. Complimenti!

Dopo la prima terna di finalità non si precisa ancora di che si tratta, ma si specifica dove questa tipologia di competenze va individuata. Il chiarimento che ne segue è netto: nelle attività educative e didattiche delle scuole. Non all’osteria, ma neanche all’oratorio o al campo di calcetto del quartiere. Solo nella attività citate. Indubbiamente c’è occhio nella proposta.
Nel comma seguente però un primo succoso anticipo: la sperimentazione. Ci sarà una sperimentazione! Ma se ne parlerà però solo nell’articolo 3. Pazienza. Se ne preannunciano qui comunque Linee guida che lasciano presagire cose grosse: mica bucce di pomodoro per la salsa, per dire.

Infatti queste Linee guida si individuano – preparatevi! – nientemeno che in specifici traguardi per lo sviluppo delle competenze e in obiettivi specifici di ap­prendimento.
Esclamazioni tutt’intorno: – Ma veramente! Quando il banale girotondo diventa metafora di cose grosse.

Ma passiamo direttamente all’articolo 3, dopo aver solo ricordato – per compiutezza di quadro – che il 2 è dedicato alla Formazione dei docenti per lo sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi scolastici.

Articolo 3: finalmente si riprende il filo interrotto della Sperimentazione; che, come per la Formazione e per le Finalità degli articoli precedenti, ci ripete premuroso – nel caso ci si fosse distratti – che tutto quanto è previsto è in funzione – di che, secondo voi? – dello “sviluppo di competenze non cognitive”. Senza tale sviluppo – si aggiunge sentenziosamente – non c’è “recupero moti­vazionale degli studenti”; né – e qui il colpo d’ali – l’abbattimento della dispersione scolastica: sia quella esplicita, sia quella implicita.

Ammonimento chiaro con piglio intransigente. Così si fa.
La sfida lanciata alla nostra scuola diventa così: individuare buone pratiche relative alle metodologie e ai processi di in­ segnamento che favoriscano – suspence – lo sviluppo delle competenze non cognitive, …. . Sfida difficilissima, come si vede. Praticamente, come inseguire lucciole in una notte tempestosa.

Ma, accettando le sfide, si vince: è il monito implicito che condividiamo. Penso all’unanimità.
Qui si permetta però un piccolo interrogativo: – ma prima di lanciare la sfida perché non specificare l’oggetto e chiarirne termini e portata? Nella stessa presentazione del ddl si parla delle competenze non cognitive in termini di “abilità non direttamente legate al processo di informazione” e di “caratteristiche individuali legate agli ambiti emotivi, psicosociali …” (che ci possono certo stare, per conto loro però), ma anche di “posture” (le posture no! La posture no, non le avevo considerate) come ‘l’amicalità [oddio!], la coscienziosità (anche? Qui si esagera!), la stabilità emotiva e l’apertura mentale’(E sì, tombola) . Tutte cose giuste, per carità. Ma, 1: cosa c’entrano con le competenze per come le abbiamo intese finora, anche sulla base delle Raccomandazioni dell’UE (del 2006 e 2018) sulla questione? 2. Qual è il loro senso in un ddl, trattandosi di abilità, caratteristiche e posture il cui sviluppo riguarda soprattutto le metodologie di insegnamento e, in modo particolare, la qualità della relazione educativa? 3. È poi del tutto vero che tali caratteristiche e posture appartengono al ‘non cognitivo’? Ricerche e studi accreditati sulle teorie della conoscenza e dell’apprendimento (dell’ultimo mezzo secolo almeno), dicono tutt’altro, credo.

Ma evidentemente la Dozzina (veri Capitani Coraggiosi, mi sembra) ha voluto giocare in proprio, a prescindere. Per passare alla storia? Per ambizioni personali? Orgoglio? Cosa possiamo saperne? Comunque è del tutto legittimo, ovvio, e forse anche ammirevole questa loro interessamento a fin di bene. Così.

Ma alla fine, questo ddl – potrebbe dire chi ne avesse voglia – è un castello costruito sulla sabbia?
Piano, per favore, con le deduzioni frettolose. Il discorso non sembra chiudersi qui. Che, se si opacizza (mamma! Che ho detto) l’oggetto del ddl, il suo senso – del ddl, intendo – è ancora tutto da scoprire, Whatson.

Nei commi finali dell’articolo infatti – un vero e fantastico labirinto concettuale -, si vanno a individuare e prospettare, come un miracoloso, intrecciato filo di Arianna, ben tre risorse / chiave che permettono di uscirne sensatamente (arrampicandosi comunque e felicemente sui vetri). Che sono, messe in ordine: uno, le competenze trasversali; due, l’orientamento; tre i progetti di partenariato con organizzazioni del Terzo settore e del volon­tariato.

Idea lampo: Ma vuoi vedere che in questa terna c’è la vera ragione del ddl n. 2493, trasmesso al Senato l’11 Gennaio 2022?
Che non riguarda certo l’individuazione delle competenze trasversali e l’orientamento, che nelle nostre scuole non solo sono state individuate da mo’, ma si si praticano anche (probabilmente è sul ‘come’ che in qualche caso casca l’asino).
E se la ragione del ddl – domanda – fosse proprio la decisione di riconoscere a soggetti privati, per quanto benemeriti – e quelli citati certamente lo sono – di essere parte in causa in progetti di partenariato? Decisione messa lì alla chetichella, quasi en passant; probabilmente anche per dare un segnale – sempre apprezzabile – di sobrietà e velocità comunicativa. Perché no? Pensiamoci. Però è che anche verosimile che sia stata messa lì con nonchalance “per vedere l’effetto che fa. No? O sì? Mah.

Mini-dialogo tra il Relatore Autorevole della Dozzina (R.A.) e una Dirigente Scolastica Scettica (D.S.), informata dei fatti. Colto a volo, appena licenziato il ddl.

R.A. – BEL LAVORO. Credo che l’operazione sia ben congegnata e il riferimento ai progetti di partenariato, quasi non si nota. Non era il caso di dargli una evidenza che non devono avere.

D.S. – Beh, messi in quella selva di parole, è un’impresa accorgersene. Immagino comunque che, in questi progetti di partenariato, il ruolo strategico sarà delle scuole.

R.A. – E perché? Non è detto. Generalmente tale ruolo è dei partner privati. Ma gli obiettivi sono comunque prerogativa assoluta dei singoli Istituti scolastici.

D:S. – Veramente? Una conquista allora! E il caffè chi lo offre?

R.A. – Non mettiamo il carro davanti ai buoi! Aspettiamo la discussione al Senato, dove il testo è già stato inviato con sollecitudine.

D.S. – Veri strateghi della comunicazione. Fare presto e fare bene, senza inutili allarmismi, vero? Alla fine ne verrà fuori un pasticcio, vedrai.

R.A. Ma no. Se ne uscirà bene. ‘O famo strano’, e ‘Vedrai che passerà’. Ci aiuteranno Verdone e la Vanoni. E poi, diciamocela tutta e seriamente: calma con questa Autonomia scolastica! Si vorrà mica negare il contributo autonomo e imprescindibile del territorio?

D.S. (con sorriso da interpretare): Figuriamoci! Pensa: me ne stavo quasi dimenticando..

  1. In corsivo tutte le parti estrapolate dal ddl N. 2493. Approvato dalla Camera dei deputati l’11 gennaio 2022 Trasmesso dal Presidente della Camera dei deputati alla Presidenza del Senato il 12 gennaio 2022.

 




La scuola di tutti è ancora un’incompiuta

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

 Erewhon è una parola che non c’è. È una parola che non si riconosce, che gli altri non sanno comprendere, perché è una parola diversa. Erewhon è una parola rovesciata, il suo dritto è Nowhere: In nessun posto.
Nel 1872 l’inglese Samuel Butler scrive un romanzo fantastico e satirico sul mondo di Erewhon dove i malati vengono messi in prigione e processati, le vittime sono considerate immorali, nelle scuole si insegna l’Irragionevolezza.

Un mondo solo apparentemente immaginario se riflettiamo bene, se pensiamo da dove siamo partiti per giungere all’inclusione di “tutti” nella scuola di tutti.
Dovremmo essere sempre inquieti, mai soddisfatti dei nostri risultati, perché noi che lavoriamo nella scuola entriamo in relazione con quanto vi è di più delicato e di più complesso nella storia di ogni persona. L’infanzia, l’adolescenza, essere bambina o bambino, ragazzo o ragazza e nessuno può scegliere quello che è, né il luogo della sua nascita né la famiglia, nessuno può scegliere la sua sorte, perché di sorte si tratta.
Abbiamo fatto molta strada per giungere a costruire la scuola di tutti, ma sono di quelle strade che non sono mai compiute, che a volte non trovi più sotto i piedi e ti tocca tornare a ripercorrerle da capo.

Le conquiste legislative non bastano se poi da strumento di progresso civile e di tutela delle persone più fragili diventano ostaggio di prassi burocratiche, dei ministri di turno e delle loro circolari.
Se guardiamo agli esiti che ci saremmo attesi dall’applicazione di leggi come la 517 e la 104 non possiamo sentirci soddisfatti. L’integrazione e l’inclusione degli alunni portatori di handicap ha costituito sempre un terreno di battaglia, per conquistare più ore di sostegno, più personale, educatori, spazi, la riduzione del numero degli alunni per classe, fino ad impedire che dentro alla scuola di tutti si riproducessero i ghetti delle classi speciali.
Le leggi coglievano i punti di arrivo della pedagogia speciale, ma le scuole e gli insegnanti rimanevano sempre identici a se stessi, salvo le eccezioni ovviamente, eccezioni che ormai non sappiamo se siano un vizio o una virtù delle nostre scuole.

La resistenza al cambiamento culturale e professionale ha prodotto la “clinicizzazione” della diversità, facendo della diversità una disabilità.
La scuola è di tutti perché tutti diversi. Invece no. Si sono pretese le certificazione cliniche per dispensare, per avere diritto ad una didattica individualizzata, fino a fare dell’essere straniero, dell’essere immigrato, del possedere una lingua madre non riconosciuta uno svantaggio da certificare. La scuola monolite. Gli insegnati monoliti.
La scuola di tutti necessitava dell’autonomia e del territorio, aspirava ad un sistema formativo integrato e nel momento in cui ne avremmo avuto bisogno non l’abbiamo trovato. In questi anni di pandemia ne abbiamo pagato la mancanza, abbiamo toccato con mano come un sistema formativo scuola-centrico abbia fallito, non sia stato in grado di essere la scuola di tutti e a pagare sono stati i bambini e le bambine, gli adolescenti che si sono persi nel bosco.
Mentre c’è chi pensa di salvare il futuro della scuola avvolto nelle nebbie dei propri pensieri come hanno dimostrato Paola Mastrocola, Luca Ricolfi e Luciano Canfora intervistati da Raffaella De Santis per la Repubblica, il PNRR procede con la Componente 1 della Mission 4: Rivedere l’organizzazione e innovare il sistema di istruzione.

La politica ha fallito, ma ha fallito soprattutto la scuola in tutte le sue componenti e a riformare il nostro sistema formativo provvederà l’Europa.
Intanto i miliardi del PNRR su disabilità e inclusione tacciono di un silenzio che non sa di distrazione.




Istruire è diverso da forgiare (a proposito delle competenze non cognitive)

di  Giuseppe Bagni
(per gentile concessione dell’autore della Associazione CIDI)

Si fa fatica a commentare il Ddl approvato alla Camera l’11 gennaio scorso che vuole l’introduzione di competenze non cognitive nei percorsi formativi. Verrebbe voglia di fermarsi a una alzata di spalle, scuotere la testa in sala insegnanti e continuare il proprio lavoro nella scuola reale.
Quella che evidentemente è sconosciuta nelle sedi parlamentari. Eppure si deve commentare, perché la deriva verso cui si sta andando è grave e non può essere ignorata né minimizzata. La proposta approvata nel primo passaggio parlamentare mette in evidenza la convinzione che la scuola debba ammodernarsi rompendo il dominio del cognitivo e del formale per essere, come ha dichiarato Valentina Aprea, “volano delle economie innovative e creative, per poter consentire crescita, sviluppo e risoluzione dei problemi del nostro tempo in una prospettiva originale…”
Il propugnare un qualunque livello di originalità risulta paradossale se confrontato con il progetto di mettere le mani fin nella sfera più interna degli allievi per forgiarne il carattere.
Come se l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura mentale fossero attitudini insegnabili direttamente dalla cattedra invece che il risultato della metabolizzazione personale delle conoscenze acquisite, dei legami costruiti, delle testimonianze offerte loro nella scuola.
Una scuola secondo Costituzione non forgia il carattere, non cerca elementi di valutazione nell’animo dei suoi allievi; crea e offre le condizioni per favorire “lo sviluppo armonico e integrale della persona”.
Le competenze non cognitive non sono oggetti misteriosi per la scuola: le norme e i suoi documenti vi fanno riferimento da molti anni.

Quando si parla di partecipazione, di cooperazione per il conseguimento di obiettivi comuni, oppure di capacità di iniziativa autonoma, di utilizzo delle risorse per risolvere un problema, di cosa si parla se non ci competenze non cognitive? Ma collaborazione, consapevolezza del compito, rispetto delle regole comuni sono qualità osservabili (e indubbiamente da osservare e valutare) nel processo di apprendimento di ciascun allievo.
Sono le soft skills di cui tanto si parla che sicuramente la scuola deve sviluppare perché importanti per il successo scolastico e fondamentali per la formazione del cittadino.
Ma altra cosa è saccheggiare la psicologia della personalità per proporre character skills che fanno riferimento alla personalità di ciascuno.
Vogliono i parlamentari che la scuola insegni in base ai livelli “giusti” di estroversione, di creatività, di stabilità emotiva degli allievi? E chi li stabilisce? Questa è un’ipotesi degna di un film distopico. Che le character skills siano l’ultima novità alla base dei test del mondo produttivo centrati sulla valutazione della personalità dei candidati non fa altro che confermare la forza (purtroppo crescente) della visione che vuole la scuola suddita delle logiche economiche.
Colpisce l’unanimità del voto in favore del disegno di legge perché dimostra una volta di più quanto sia diffusa l’ignoranza sulle norme della scuola, ma soprattutto allarma che non ci si sia resi conto che in gioco qui non è la riaffermazione, abbastanza scontata, che vi sia la necessità di curare la persona nella sua interezza e integrità, ma una precisa visione di scuola che vuole l’abbandono della cosiddetta “egemonia del cognitivo”, seguendo le tesi di alcuni teorici che vorrebbero la scuola centrata sulle character skills integrate con un “cognitivo” limitato al classico saper leggere, scrivere e far di conto, con l’aggiunta dell’informatica e dell’inglese.
Questa sarebbe la modernità? No, sarebbe la fine della scuola pubblica e il tradimento del suo mandato costituzionale. Qui non si vuol difendere la scuola così com’è: la scuola ha bisogno di cambiare per svolgere il compito che la Costituzione le ha assegnato, ma l’innovazione necessaria non è quella sottesa alla visione che sta dietro (e nemmeno tanto nascosta) alla proposta propugnata nel disegno.
La scuola deve educare la persona, offrendo il contesto migliore per il libero sviluppo della personalità, valorizzando le dimensioni relazionali ed emozionali di chi apprende. Ma educa solo se istruisce. Se qualcuno vede in questo l’egemonia del cognitivo, pace. Questa è la scuola della Costituzione. Solo se insegniamo a formalizzare l’esperienza che si fa del mondo mettendo a disposizione i diversi sguardi delle discipline si può sviluppare le potenzialità di ciascuno, valorizzando il patrimonio informale e non-formale che ogni allievo e allieva porta nel suo zaino in classe.
E qui si apre un altro tema: cosa sono i nostri studenti? Una tabula rasa da modellare secondo le esigenze del mercato? Sono anime perse, soggetti pericolosi da plasmare? Personaggi in cerca di autore? No, sono gli autori. La sceneggiatura spetta a loro.
La scuola non può essere il luogo della normalizzazione e omologazione. Non può darsi l’obiettivo di un loro adattamento al “possibile” – qui e ora – che disperda l’immensa risorsa del “pensabile” per il loro futuro. Che poi è quello di tutti noi.