Il docente esperto: uno su cento ce la fa…

di Mario Maviglia

Prendete una delle categorie più vilipese in Italia, sia sul piano sociale che economico, ancorché – contraddittoriamente – più tutelata sul piano occupazionale. Si tratta di una professione più che dignitosa, ma sempre più oberata di impegni burocratici. Su questa categoria i vari Ministri che si sono succeduti nel tempo hanno sempre nutrito l’ambizione di lasciare un segno con le loro (spesso dannose) riforme. Nessuno che si sia mai preoccupato di creare le condizioni migliori per consentire a questi professionisti di svolgere il proprio lavoro in modo tranquillo e sereno, centrando l’attenzione sul compito principale che dovrebbe assolvere la loro ”azienda”, ossia la promozione e lo sviluppo dei processi di apprendimento e di socializzazione degli studenti. Nel tempo, anzi, le condizioni lavorative di questi professionisti sono andate viepiù peggiorando.

Oggi, attraverso una delle tante leggi che nulla ha a che fare con il mondo della scuola (Decreto Aiuti bis), viene inserito un meccanismo di “premiazione” dei docenti, che non trova eguali in altri contesti professionali, attraverso la creazione della figura dell’”insegnante esperto”, un super-docente dotato di grandi capacità, quasi taumaturgiche, soprattutto considerando l’iter che dovrà seguire per diventare “esperto”. Infatti il super-docente dovrà completare tre corsi triennali di formazione consecutivi e non sovrapponibili tra loro, con valutazione positiva. Questi docenti niciani non potranno essere più di 8 mila (poco più dell’1% del totale) e alla fine di questa eroica cavalcata formativa potranno meritatamente godere di un assegno annuale ad personam di 5650 euro all’anno, ossia circa 400 euro in più al mese rispetto ai colleghi non “esperti”.

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Peraltro non sono richiesti compiti particolari a questa nuova figura, anche se dovrà rimanere nella stessa scuola per almeno tre anni. A livello formale la sua istituzione è prevista a partire dall’a.s. 2023/2024, ma gli effetti economici decorreranno dall’a.s. 2032/2033. (Per molti docenti già arrivarci, a questa data, sarà una positiva prova di resilienza esistenziale…).
La legge non chiarisce se, in caso di premorienza dell’interessato prima della scadenza dei fatidici 9 anni di formazione, le esperienze formative comunque maturate nel frattempo possano essere trasmesse agli eredi o a colleghi designati dal compianto prima della sua dipartita. Ma va detto che c’è nello spirito della legge una grande prospettiva di speranza e di ottimismo: infatti chi viene prescelto come “docente esperto” dovrà impegnarsi a vivere ancora per almeno 9 anni per poter godere dei sacrifici sostenuti. E in questo periodo storico contrassegnato da crisi di vario tipo, depressione cronica e sfiducia nel futuro, il messaggio veicolato dalla norma suona decisamente rincuorante e terapeutico.

Questo, sommariamente, quanto prevede la legge. Ma ancor più interessante è capire quali giri mentali hanno seguito i proponenti questa norma che di fatto prefigura un iter formativo per acquisire la qualifica di “esperto” equiparabile alla formazione di un pilota d’aereo o a quella di un medico specialista. Forse poteva essere scelta, come dire?, una via più breve, magari riconoscendo eventuali “crediti” acquisiti durante l’esperienza professionale pregressa. Ma in questo caso, forse, la futura quanto inutile Scuola di Alta Formazione non avrebbe avuto lavoro a sufficienza da svolgere e non avrebbe potuto giustificare quindi la sua ragion d’essere e il baraccone burocratico al suo seguito.

Più prosaicamente ci si poteva dedicare in modo serio e in un arco temporale non biblico a equiparare gli stipendi dei docenti italiani alla media degli stipendi dei loro colleghi UE, almeno come base di partenza e questo anche per rendere più attrattivo l’insegnamento ad una platea più vasta di professionisti.

Ovviamente non è solo una questione economica, ma c’è da chiedersi quale molla masochistica dovrebbe spingere un docente a formarsi per 9 anni prima di vedere dei vantaggi economici, quando potrebbe destinare meno tempo per una preparazione adeguata ad affrontare un concorso per dirigente scolastico o dirigente tecnico (se i concorsi si svolgessero a scadenza regolare…), con vantaggi economici molto più consistenti.

Insomma, l’impressione generale che si ricava è che la vecchia e mai abbandonata idea di creare forme di differenziazione di carriera tra i docenti sia ancora tutta da elaborare, a meno che non ci si voglia illudere che l’istituzione del “docente esperto” sia la risposta a questo problema. Sicuramente è un modo poco produttivo di utilizzare i fondi pubblici. Se a ciò si aggiunge il finanziamento necessario per il funzionamento dell’istituenda ed evanescente Scuola di Alta Formazione si può comprendere come spesso la spesa pubblica venga dirottata in opere inutili, se non futili.

 

 

 

 




Ius scholae, un dibattito quasi lunare

di Aluisi Tosolini

Si dibatte (anche molto aspramente) in questi giorni della proposta di legge definita jus scholae che interviene sul tema della cittadinanza.

La mia personalissima impressione – dal punto di osservazione in cui mi trovo – è che il dibattito in realtà abbia qualcosa di lunare, marziano, sia fuori dal mondo.

Sto facendo in questi giorni il presidente di commissione degli esami di stato in un grande e notissimo centro della provincia di Parma dove la percentuale dei cittadini stranieri residenti (quindi sia comunitari che extra comunitari) è pari al 21,2% (una persona su 5).
Nella provincia di Parma i cittadini stranieri sono il 14,7%, mentre a livello regionale la percentuale è pari al 12,6%  della popolazione contro l’8,4 di media nazionale (e l’Emilia Romagna è la prima regione in Italia per incidenza di stranieri residenti).

Gli studenti delle classi che stanno facendo gli esami rispecchiano la composizione sociale della popolazione della zona. Con diversi candidati abbiamo discusso anche della proposta di legge sulla cittadinanza che si sta dibattendo in parlamento.
Trovarsi davanti candidati 19enni, nati in Italia e che conoscono benissimo la lingua italiana, ben inseriti nel tessuto sociale, molti con un contratto di lavoro già in tasca presso le aziende del distretto che senza lavoratori stranieri sarebbero costrette a chiudere, fa impressione.
Sono italianissimi (certo più italiani di molti discendenti di antichi emigrati in sud America che per lo jus sanguinis potrebbero ottenere la cittadinanza italiana senza fatica) ma non sono cittadini.
A loro manca un diritto fondamentale, quello della partecipazione alla vita sociale e politica da soggetti attivi, votanti. Manca il sentirsi davvero a casa, il non essere e il non percepirsi come ospiti, cittadini di serie B.
Hanno frequentato le scuole in Italia, molti dalla scuola dell’infanzia in avanti e quindi ben più dei 5 anni richiesti dalla legge e che Fratelli d’Italia anni fa chiedeva fossero 8. Prenderanno il diploma, diversi si iscriveranno all’università.
Perché non dovrebbero avere la pienezza della cittadinanza italiana se lo chiedono e lo desiderano?

Una questione di coesione sociale

Personalmente credo che riconoscere queste persone come cittadini italiani sia non solo doveroso dal punto di vista etico e politico ma anche necessario dal punto di vista socio-economico. Sono questi i cittadini che terranno in piedi l’economia italiana nei prossimi anni. Sono loro che con il loro lavoro che finanzieranno l’INPS. Sono loro la linfa vitale della nostra società futura. Chi sostiene, surrettiziamente e ricorrendo alla solita tecnica del benaltrismo, che i problemi dell’Italia d’oggi sono altri, e nello specifico la crisi economica, i salari, l’inflazione il costo della vita, non si accorge che proprio a motivo di questi problemi economici sarebbe interesse dell’Italia riconoscere la cittadinanza a chi vive da anni in Italia.

La loro posizione pecca di iper-culturalismo ovvero l’opposto di quanto dicono. Appartengono a quanti farneticano attorno alle teorie della sostituzione etnica senza accorgersi che il declino della società italiana è già in atto e vede come responsabili primi proprio gli italiani stessi.
Da qui la necessità di riconoscere come nuovi italiani quanti hanno fatto un percorso scolastico in Italia: è una questione di coesione sociale. Infatti solo chi è pienamente cittadino fa parte compiutamente della società e può essere chiamato ad operare per il suo miglioramento, la sua crescita, il suo sviluppo ma anche il suo cambiamento, la rinegoziazione delle norme e delle regole del convivere sociale. Chi non è cittadino è ospite e come ospite non è tenuto a connettersi compiutamente alla rete sociale secondo logiche solidaristiche.

La centralità della scuola

La legge proposta, sin dal titolo, riconosce la centralità della scuola nella formazione di una persona e di un cittadino. Si tratta di una valorizzazione della cultura nel processo di acculturazione che conduce a condividere la lingua, le regole della convivenza, i valori di fondo che tengono assieme il tessuto sociale.
E’ il riconoscimento che la scuola forma in primo luogo cittadini e a questo scopo utilizza i saperi, le conoscenze e le competenze organizzandole dentro percorsi significativi di crescita umana, sociale, politica.
La proposta di legge riconosce alla scuola un compito e un valore spesso nascosti o negati dall’opinione pubblica che della scuola ha spesso una concezione distorta e decisamente parziale come il dibattitto di questi mesi ha più volte evidenziato con la richiesta di ritornare alla scuola di un tempo, quella che dava vere e solide conoscenze, quella che bocciava, che usava i voti come mannaia, quella che creava dispersione e abbandono Una scuola di classe tesa a sorvegliare e punire piuttosto che a formare cittadini critici e partecipi.

E’ di noi che qui si parla….

Così la discussione sulla legge è in realtà la discussione su noi stessi. Su chi siamo e su chi vogliamo essere. Sul presente e sul futuro della nostra società e della nostra scuola.
E, stando alle posizioni viste in questi giorni, l’orizzonte è abbastanza depressivo

https://www.giuseppebrescia.it/ius-scholae-ecco-il-testo-per-una-nuova-legge-sulla-cittadinanza/

 

 




Alla ricerca delle competenze sperdute (le non cognitive). Commento semiserio a un recente ardito disegno di legge

di Aristarco Ammazzacaffè

“Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi delle istituzioni scolastiche …”.

È il titolo del ddl che la Camera ha approvato l’11 gennaio scorso e che ora tocca al Senato esaminare e approvare, se ne ha l’animo. I parlamentari firmatari, poco più di una decina (per la precisione, una Dozzina, con l’iniziale maiuscola per deferenza) appartengono ai diversi schieramenti politici del Parlamento, nessuno escluso. (Almeno 4 però di sola Forza Italia: con tutti nomi arcinoti agli ‘scolastici’. Gli altri parlamentari presentatori della proposta, con l’eccezione di un paio, sono associabili al mondo della scuola più o meno come la catalogna alla pasta al forno. Per dire.

Comunque un disegno di legge (ddl) sulle competenze non cognitive[1], se ci pensate, era proprio quello che ci voleva e soprattutto in questo periodo. Quando uno dice, le mancanze! E le attese!
Tranquilli, però. Gli articoli sono solo cinque e quasi tutti brevi. E non pochi passaggi, come accade spesso: acqua fresca e mica fresca.

Partiamo comunque fiduciosi.

L’articolo 1. L’inizio – molta nebbia padana anni ’60 (semplice annotazione d’ambiente; non critica) – dà per scontato che l’oggetto (le competenze non cognitive) sia chiaro a tutti.
‘Competenze non cognitive’? Cioè? Una declinazione esotica di competenza? Una proposta nuova e innovativa per la scuola che recupera il passato? Un’idea dirompente che apre al futuro, da parte di parlamentari attrezzati in teorie della conoscenza, che sfidano elaborazioni che vanno per la maggiore?
Perché no? Perché sì? Mah!

L’articolo si intitola opportunamente alle finalità del ddl.
Sulla prima delle quali: promuovere la cultura della competenza, si preferisce però passarci sopra, un po’ per le ragioni di prima (un discreto esempio di acqua fresca, ma di quella buona), un po’ per la curiosità di scoprire, il più presto possibile, come si sbroglia il ‘disegno’. E infatti nelle righe seguenti, già con la finalità – integrare i saperi disciplinari e le relative abilità fondamentali – i parlamentari proponenti un qualche segnale sembrano lanciarlo: le competenze dei saperi disciplinari addirittura declassate a semplici abilità.

– Ma come si permettono?
Però siamo in democrazia e la cosa non può destare scandalo.
Comunque, una scivolata che uno non se l’aspetta.
Con la terza finalità – miglio­rare il successo formativo prevenendo (1) anal­fabetismi funzionali, (2) povertà educativa e (3) di­spersione scolastica – siamo già veramente, sembra di capire, al top della visionarietà pedagogica, proprio. E questo grazie alle competenze specificamente non cognitive, chiamate a ‘migliorare’ il famoso successo formativo; abbattendo così in un sol colpo, come neanche Sandokan Sandokàan, le tre piaghe del nostro sistema di istruzione. Complimenti!

Dopo la prima terna di finalità non si precisa ancora di che si tratta, ma si specifica dove questa tipologia di competenze va individuata. Il chiarimento che ne segue è netto: nelle attività educative e didattiche delle scuole. Non all’osteria, ma neanche all’oratorio o al campo di calcetto del quartiere. Solo nella attività citate. Indubbiamente c’è occhio nella proposta.
Nel comma seguente però un primo succoso anticipo: la sperimentazione. Ci sarà una sperimentazione! Ma se ne parlerà però solo nell’articolo 3. Pazienza. Se ne preannunciano qui comunque Linee guida che lasciano presagire cose grosse: mica bucce di pomodoro per la salsa, per dire.

Infatti queste Linee guida si individuano – preparatevi! – nientemeno che in specifici traguardi per lo sviluppo delle competenze e in obiettivi specifici di ap­prendimento.
Esclamazioni tutt’intorno: – Ma veramente! Quando il banale girotondo diventa metafora di cose grosse.

Ma passiamo direttamente all’articolo 3, dopo aver solo ricordato – per compiutezza di quadro – che il 2 è dedicato alla Formazione dei docenti per lo sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi scolastici.

Articolo 3: finalmente si riprende il filo interrotto della Sperimentazione; che, come per la Formazione e per le Finalità degli articoli precedenti, ci ripete premuroso – nel caso ci si fosse distratti – che tutto quanto è previsto è in funzione – di che, secondo voi? – dello “sviluppo di competenze non cognitive”. Senza tale sviluppo – si aggiunge sentenziosamente – non c’è “recupero moti­vazionale degli studenti”; né – e qui il colpo d’ali – l’abbattimento della dispersione scolastica: sia quella esplicita, sia quella implicita.

Ammonimento chiaro con piglio intransigente. Così si fa.
La sfida lanciata alla nostra scuola diventa così: individuare buone pratiche relative alle metodologie e ai processi di in­ segnamento che favoriscano – suspence – lo sviluppo delle competenze non cognitive, …. . Sfida difficilissima, come si vede. Praticamente, come inseguire lucciole in una notte tempestosa.

Ma, accettando le sfide, si vince: è il monito implicito che condividiamo. Penso all’unanimità.
Qui si permetta però un piccolo interrogativo: – ma prima di lanciare la sfida perché non specificare l’oggetto e chiarirne termini e portata? Nella stessa presentazione del ddl si parla delle competenze non cognitive in termini di “abilità non direttamente legate al processo di informazione” e di “caratteristiche individuali legate agli ambiti emotivi, psicosociali …” (che ci possono certo stare, per conto loro però), ma anche di “posture” (le posture no! La posture no, non le avevo considerate) come ‘l’amicalità [oddio!], la coscienziosità (anche? Qui si esagera!), la stabilità emotiva e l’apertura mentale’(E sì, tombola) . Tutte cose giuste, per carità. Ma, 1: cosa c’entrano con le competenze per come le abbiamo intese finora, anche sulla base delle Raccomandazioni dell’UE (del 2006 e 2018) sulla questione? 2. Qual è il loro senso in un ddl, trattandosi di abilità, caratteristiche e posture il cui sviluppo riguarda soprattutto le metodologie di insegnamento e, in modo particolare, la qualità della relazione educativa? 3. È poi del tutto vero che tali caratteristiche e posture appartengono al ‘non cognitivo’? Ricerche e studi accreditati sulle teorie della conoscenza e dell’apprendimento (dell’ultimo mezzo secolo almeno), dicono tutt’altro, credo.

Ma evidentemente la Dozzina (veri Capitani Coraggiosi, mi sembra) ha voluto giocare in proprio, a prescindere. Per passare alla storia? Per ambizioni personali? Orgoglio? Cosa possiamo saperne? Comunque è del tutto legittimo, ovvio, e forse anche ammirevole questa loro interessamento a fin di bene. Così.

Ma alla fine, questo ddl – potrebbe dire chi ne avesse voglia – è un castello costruito sulla sabbia?
Piano, per favore, con le deduzioni frettolose. Il discorso non sembra chiudersi qui. Che, se si opacizza (mamma! Che ho detto) l’oggetto del ddl, il suo senso – del ddl, intendo – è ancora tutto da scoprire, Whatson.

Nei commi finali dell’articolo infatti – un vero e fantastico labirinto concettuale -, si vanno a individuare e prospettare, come un miracoloso, intrecciato filo di Arianna, ben tre risorse / chiave che permettono di uscirne sensatamente (arrampicandosi comunque e felicemente sui vetri). Che sono, messe in ordine: uno, le competenze trasversali; due, l’orientamento; tre i progetti di partenariato con organizzazioni del Terzo settore e del volon­tariato.

Idea lampo: Ma vuoi vedere che in questa terna c’è la vera ragione del ddl n. 2493, trasmesso al Senato l’11 Gennaio 2022?
Che non riguarda certo l’individuazione delle competenze trasversali e l’orientamento, che nelle nostre scuole non solo sono state individuate da mo’, ma si si praticano anche (probabilmente è sul ‘come’ che in qualche caso casca l’asino).
E se la ragione del ddl – domanda – fosse proprio la decisione di riconoscere a soggetti privati, per quanto benemeriti – e quelli citati certamente lo sono – di essere parte in causa in progetti di partenariato? Decisione messa lì alla chetichella, quasi en passant; probabilmente anche per dare un segnale – sempre apprezzabile – di sobrietà e velocità comunicativa. Perché no? Pensiamoci. Però è che anche verosimile che sia stata messa lì con nonchalance “per vedere l’effetto che fa. No? O sì? Mah.

Mini-dialogo tra il Relatore Autorevole della Dozzina (R.A.) e una Dirigente Scolastica Scettica (D.S.), informata dei fatti. Colto a volo, appena licenziato il ddl.

R.A. – BEL LAVORO. Credo che l’operazione sia ben congegnata e il riferimento ai progetti di partenariato, quasi non si nota. Non era il caso di dargli una evidenza che non devono avere.

D.S. – Beh, messi in quella selva di parole, è un’impresa accorgersene. Immagino comunque che, in questi progetti di partenariato, il ruolo strategico sarà delle scuole.

R.A. – E perché? Non è detto. Generalmente tale ruolo è dei partner privati. Ma gli obiettivi sono comunque prerogativa assoluta dei singoli Istituti scolastici.

D:S. – Veramente? Una conquista allora! E il caffè chi lo offre?

R.A. – Non mettiamo il carro davanti ai buoi! Aspettiamo la discussione al Senato, dove il testo è già stato inviato con sollecitudine.

D.S. – Veri strateghi della comunicazione. Fare presto e fare bene, senza inutili allarmismi, vero? Alla fine ne verrà fuori un pasticcio, vedrai.

R.A. Ma no. Se ne uscirà bene. ‘O famo strano’, e ‘Vedrai che passerà’. Ci aiuteranno Verdone e la Vanoni. E poi, diciamocela tutta e seriamente: calma con questa Autonomia scolastica! Si vorrà mica negare il contributo autonomo e imprescindibile del territorio?

D.S. (con sorriso da interpretare): Figuriamoci! Pensa: me ne stavo quasi dimenticando..

  1. In corsivo tutte le parti estrapolate dal ddl N. 2493. Approvato dalla Camera dei deputati l’11 gennaio 2022 Trasmesso dal Presidente della Camera dei deputati alla Presidenza del Senato il 12 gennaio 2022.

 




La scuola di tutti è ancora un’incompiuta

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

 Erewhon è una parola che non c’è. È una parola che non si riconosce, che gli altri non sanno comprendere, perché è una parola diversa. Erewhon è una parola rovesciata, il suo dritto è Nowhere: In nessun posto.
Nel 1872 l’inglese Samuel Butler scrive un romanzo fantastico e satirico sul mondo di Erewhon dove i malati vengono messi in prigione e processati, le vittime sono considerate immorali, nelle scuole si insegna l’Irragionevolezza.

Un mondo solo apparentemente immaginario se riflettiamo bene, se pensiamo da dove siamo partiti per giungere all’inclusione di “tutti” nella scuola di tutti.
Dovremmo essere sempre inquieti, mai soddisfatti dei nostri risultati, perché noi che lavoriamo nella scuola entriamo in relazione con quanto vi è di più delicato e di più complesso nella storia di ogni persona. L’infanzia, l’adolescenza, essere bambina o bambino, ragazzo o ragazza e nessuno può scegliere quello che è, né il luogo della sua nascita né la famiglia, nessuno può scegliere la sua sorte, perché di sorte si tratta.
Abbiamo fatto molta strada per giungere a costruire la scuola di tutti, ma sono di quelle strade che non sono mai compiute, che a volte non trovi più sotto i piedi e ti tocca tornare a ripercorrerle da capo.

Le conquiste legislative non bastano se poi da strumento di progresso civile e di tutela delle persone più fragili diventano ostaggio di prassi burocratiche, dei ministri di turno e delle loro circolari.
Se guardiamo agli esiti che ci saremmo attesi dall’applicazione di leggi come la 517 e la 104 non possiamo sentirci soddisfatti. L’integrazione e l’inclusione degli alunni portatori di handicap ha costituito sempre un terreno di battaglia, per conquistare più ore di sostegno, più personale, educatori, spazi, la riduzione del numero degli alunni per classe, fino ad impedire che dentro alla scuola di tutti si riproducessero i ghetti delle classi speciali.
Le leggi coglievano i punti di arrivo della pedagogia speciale, ma le scuole e gli insegnanti rimanevano sempre identici a se stessi, salvo le eccezioni ovviamente, eccezioni che ormai non sappiamo se siano un vizio o una virtù delle nostre scuole.

La resistenza al cambiamento culturale e professionale ha prodotto la “clinicizzazione” della diversità, facendo della diversità una disabilità.
La scuola è di tutti perché tutti diversi. Invece no. Si sono pretese le certificazione cliniche per dispensare, per avere diritto ad una didattica individualizzata, fino a fare dell’essere straniero, dell’essere immigrato, del possedere una lingua madre non riconosciuta uno svantaggio da certificare. La scuola monolite. Gli insegnati monoliti.
La scuola di tutti necessitava dell’autonomia e del territorio, aspirava ad un sistema formativo integrato e nel momento in cui ne avremmo avuto bisogno non l’abbiamo trovato. In questi anni di pandemia ne abbiamo pagato la mancanza, abbiamo toccato con mano come un sistema formativo scuola-centrico abbia fallito, non sia stato in grado di essere la scuola di tutti e a pagare sono stati i bambini e le bambine, gli adolescenti che si sono persi nel bosco.
Mentre c’è chi pensa di salvare il futuro della scuola avvolto nelle nebbie dei propri pensieri come hanno dimostrato Paola Mastrocola, Luca Ricolfi e Luciano Canfora intervistati da Raffaella De Santis per la Repubblica, il PNRR procede con la Componente 1 della Mission 4: Rivedere l’organizzazione e innovare il sistema di istruzione.

La politica ha fallito, ma ha fallito soprattutto la scuola in tutte le sue componenti e a riformare il nostro sistema formativo provvederà l’Europa.
Intanto i miliardi del PNRR su disabilità e inclusione tacciono di un silenzio che non sa di distrazione.




Istruire è diverso da forgiare (a proposito delle competenze non cognitive)

di  Giuseppe Bagni
(per gentile concessione dell’autore della Associazione CIDI)

Si fa fatica a commentare il Ddl approvato alla Camera l’11 gennaio scorso che vuole l’introduzione di competenze non cognitive nei percorsi formativi. Verrebbe voglia di fermarsi a una alzata di spalle, scuotere la testa in sala insegnanti e continuare il proprio lavoro nella scuola reale.
Quella che evidentemente è sconosciuta nelle sedi parlamentari. Eppure si deve commentare, perché la deriva verso cui si sta andando è grave e non può essere ignorata né minimizzata. La proposta approvata nel primo passaggio parlamentare mette in evidenza la convinzione che la scuola debba ammodernarsi rompendo il dominio del cognitivo e del formale per essere, come ha dichiarato Valentina Aprea, “volano delle economie innovative e creative, per poter consentire crescita, sviluppo e risoluzione dei problemi del nostro tempo in una prospettiva originale…”
Il propugnare un qualunque livello di originalità risulta paradossale se confrontato con il progetto di mettere le mani fin nella sfera più interna degli allievi per forgiarne il carattere.
Come se l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura mentale fossero attitudini insegnabili direttamente dalla cattedra invece che il risultato della metabolizzazione personale delle conoscenze acquisite, dei legami costruiti, delle testimonianze offerte loro nella scuola.
Una scuola secondo Costituzione non forgia il carattere, non cerca elementi di valutazione nell’animo dei suoi allievi; crea e offre le condizioni per favorire “lo sviluppo armonico e integrale della persona”.
Le competenze non cognitive non sono oggetti misteriosi per la scuola: le norme e i suoi documenti vi fanno riferimento da molti anni.

Quando si parla di partecipazione, di cooperazione per il conseguimento di obiettivi comuni, oppure di capacità di iniziativa autonoma, di utilizzo delle risorse per risolvere un problema, di cosa si parla se non ci competenze non cognitive? Ma collaborazione, consapevolezza del compito, rispetto delle regole comuni sono qualità osservabili (e indubbiamente da osservare e valutare) nel processo di apprendimento di ciascun allievo.
Sono le soft skills di cui tanto si parla che sicuramente la scuola deve sviluppare perché importanti per il successo scolastico e fondamentali per la formazione del cittadino.
Ma altra cosa è saccheggiare la psicologia della personalità per proporre character skills che fanno riferimento alla personalità di ciascuno.
Vogliono i parlamentari che la scuola insegni in base ai livelli “giusti” di estroversione, di creatività, di stabilità emotiva degli allievi? E chi li stabilisce? Questa è un’ipotesi degna di un film distopico. Che le character skills siano l’ultima novità alla base dei test del mondo produttivo centrati sulla valutazione della personalità dei candidati non fa altro che confermare la forza (purtroppo crescente) della visione che vuole la scuola suddita delle logiche economiche.
Colpisce l’unanimità del voto in favore del disegno di legge perché dimostra una volta di più quanto sia diffusa l’ignoranza sulle norme della scuola, ma soprattutto allarma che non ci si sia resi conto che in gioco qui non è la riaffermazione, abbastanza scontata, che vi sia la necessità di curare la persona nella sua interezza e integrità, ma una precisa visione di scuola che vuole l’abbandono della cosiddetta “egemonia del cognitivo”, seguendo le tesi di alcuni teorici che vorrebbero la scuola centrata sulle character skills integrate con un “cognitivo” limitato al classico saper leggere, scrivere e far di conto, con l’aggiunta dell’informatica e dell’inglese.
Questa sarebbe la modernità? No, sarebbe la fine della scuola pubblica e il tradimento del suo mandato costituzionale. Qui non si vuol difendere la scuola così com’è: la scuola ha bisogno di cambiare per svolgere il compito che la Costituzione le ha assegnato, ma l’innovazione necessaria non è quella sottesa alla visione che sta dietro (e nemmeno tanto nascosta) alla proposta propugnata nel disegno.
La scuola deve educare la persona, offrendo il contesto migliore per il libero sviluppo della personalità, valorizzando le dimensioni relazionali ed emozionali di chi apprende. Ma educa solo se istruisce. Se qualcuno vede in questo l’egemonia del cognitivo, pace. Questa è la scuola della Costituzione. Solo se insegniamo a formalizzare l’esperienza che si fa del mondo mettendo a disposizione i diversi sguardi delle discipline si può sviluppare le potenzialità di ciascuno, valorizzando il patrimonio informale e non-formale che ogni allievo e allieva porta nel suo zaino in classe.
E qui si apre un altro tema: cosa sono i nostri studenti? Una tabula rasa da modellare secondo le esigenze del mercato? Sono anime perse, soggetti pericolosi da plasmare? Personaggi in cerca di autore? No, sono gli autori. La sceneggiatura spetta a loro.
La scuola non può essere il luogo della normalizzazione e omologazione. Non può darsi l’obiettivo di un loro adattamento al “possibile” – qui e ora – che disperda l’immensa risorsa del “pensabile” per il loro futuro. Che poi è quello di tutti noi.

 




Il regime di incompatibilità per il personale scolastico

di Antonella Mongiardo e Ferdinando Rotolo

La questione delle incompatibilità e del cumulo di impieghi per il personale della scuola è
alquanto complessa, perché si inquadra in una disciplina normativa frastagliata e in
continua evoluzione, caratterizzata da leggi, decreti, sentenze e circolari.
L’istituzione scolastica, come ogni amministrazione pubblica, è soggetta al principio di
esclusività del rapporto di lavoro, sancito dalla Costituzione a tutela del buon andamento
della P.A.
Pertanto, il personale della scuola, docente e ATA, ha il dovere di prestare il proprio lavoro
ad esclusivo servizio dell’amministrazione scolastica. Ne conseguehttps://www.gessetticolorati.it/dibattito/wp-content/uploads/2021/10/INCOMPATIBILITA.pdf che, al momento
dell’assunzione, il personale scolastico deve essere libero da ogni altra occupazione
lavorativa e, in caso di eventuale rapporto esistente, pubblico o privato che sia, questo deve
immediatamente cessare.

L’ampio saggio di Antonella Mongiardo è disponibile in allegato 




Comunità di pratica nella scuola. Appunti e spunti per la ripartenza

Stefaneldi Antonio Valentino

Alcune ragioni per parlarne.

La percezione diffusa, mi sembra, è che la nostra scuola sia stata poco coinvolta dal dibattito e da esperienze legati alla Comunità di Pratica (d’ora in avanti: CdP). Prima della pandemia è stato oggetto di interesse soprattutto nei convegni e nelle sedi universitarie dove si coltivano questioni riguardanti le teorie dell’apprendimento. Non sono mancate tesi di laurea e pubblicazioni [1] – molto più numerose di quanto si possa credere – che hanno approfondito l’argomento proponendo anche esperienze maturate in Italia[2]. Però la loro risonanza era e continua ad essere ancora modesta.

Nello stesso sito dell’Indire, alla voce ‘Comunità di pratica’ , vengono riportate poco più di un centinaio di iniziative e studi, che però si riferiscono, nella stragrande maggioranza dei casi, a progetti italiani ed europei di School Improvement (progetti di miglioramento delle scuole), che solo tangenzialmente toccano questioni riconducibili specificamente alle CdP e alle ricerche ed elaborazioni al centro di queste riflessioni.

Però, a ben vedere, non poche, nè di poco conto sono le ragioni che spingono anche e soprattutto le persone di scuola ad avvicinarsi a tali questioni, in quanto volte a capire più e meglio la natura dell’apprendimento come fenomeno sociale collettivo e a coltivare quindi luoghi e strategie che ne permettono lo sviluppo.

Recuperare la dimensione collettiva dell’apprendere e la sua centralità nella pratica scolastica.  

In primo luogo non è ancora adeguatamente diffusa – mi sembra – la consapevolezza

  1. che i singoli apprendimenti acquisiti sul lavoro, se non sono partecipati e condivisi, raramente diventano patrimonio culturale e didattico dell’intera comunità scolastica in cui si sono sviluppati; e difficilmente quindi ne possono favorire sviluppi e miglioramenti;
  2. che l’efficacia dell’azione educativa è garantita soprattutto dalla dimensione collettiva dell’insegnare che si concretizza negli spazi istituzionali e non (Consigli, Dipartimenti, aggregazioni diverse), vissuti come comunità di intenti e di pratiche condivise); e che raramente – tale efficacia – è invece assicurata dal singolo docente.

A queste consapevolezze si lega l’idea che appropriarsi opportunamente del costrutto di Comunità di pratica rappresenti / possa rappresentare per le nostre scuole non solo uno stimolo ad approfondire e aggiornarne la conoscenza sui processi di apprendimento – questione comunque centrale – ma anche un’occasione per attrezzarsi a superare la cultura dell’isolamento professionale e dell’autoreferenzialità ancora diffusa nell’insegnamento, e a promuovere e mettere al centro pratiche di cooperazione e coordinamento.

L’apprendimento organizzativo in primo piano.

L’apprendimento organizzativo è concetto centrale nelle ricerche e negli studi sulla Comunità di pratica. Denominazione coniata da Etienne Wenger e Jean Lave,  due studiosi dell’apprendimento (filone di ricerca di matrice sociologica) che  agli inizi degli anni ’90 cominciano a pensarlo  non più come una semplice acquisizione mnemonica di nozioni astratte e formali proposte dall’esterno (l’idea tradizionale), ma come un processo di natura attiva, caratterizzato dalla partecipazione e dal coinvolgimento dell’individuo all’interno di un determinato contesto d’azione.

E lo ripensano sulla base di ricerche sulle organizzazioni e di studi sulle teorie dell’apprendimento nei vari ambiti disciplinari e su una varietà di altre teorie (della pratica, del significato, dell’esperienza situata, della soggettività …) – che hanno loro permesso di elaborare sulla base di una interpretazione multidimensionale dei processi di apprendimento, anche apprezzate elaborazioni per una efficace riprogettazione delle organizzazioni orientate alla conoscenza[3].

La comunità di pratica è il campo tematico a cui i due ricercatori dedicano più energie all’interno di questi loro interessi e studi. Il loro senso e  fondamento rinvia ai seguenti due aspetti dei processi di apprendimento in parte accennati che vale la pena di puntualizzare:

  1. L’apprendimento, non più come esperienza esclusivamente individuale e mentale, ma come fenomeno sociale e collettivo, e quindi come inscindibilmente collegato a fattori come il clima, le relazioni e  le interazioni dei contesti in cui si sviluppano. L’approdo delle ricerche su tale fenomeno sono le teorie dell’“apprendimento situato” e del “practice-based theorizing”, che enfatizzano appunto la dimensione situata ed esperienziale dell’apprendere, visto come  processo costruttivo (nel senso che costruisce conoscenza attraverso la  sperimentazione di pratiche e comportamenti condivisi), ma anche sociale e contestualizzato.
  2. L’apprendimento soprattutto come risultato delle pratiche, in risposta a bisogni e attese dei singoli e dei gruppi e delle organizzazioni in cui questi bisogni emergono (apprendimento situato[4]); e quindi elemento motore nella formazione di una conoscenza collettiva, oltre che risorsa in grado di arricchire il patrimonio di know-how dei contesti in cui in cui esso si costruisce[5].

Di questa riscoperta che recupera prime elaborazioni di Vygotskij e Schön, soprattutto Wenger ha cercato applicazioni e conferme inizialmente nelle organizzazioni di tipo aziendale e successivamente, nelle amministrazioni pubbliche e in ambiti altri (come, ad esempio, l’associazionismo e la formazione).

Da richiamare qui soprattutto il concetto di apprendimento organizzativo che Wenger e Lave mutuano da Argyris e Schön e che sviluppano attraverso un approccio che guarda a chi opera nelle organizzazioni non soltanto come soggetto di azione, ma anche come soggetto di apprendimento ‘organizzativo’; di un apprendimento, cioè, in grado di trasformare il modo di vedere la realtà del contesto organizzativo e di individuare e intervenire sulle sue criticità con un coinvolgimento collettivo.

Il modello[6] wengeriano della CdP come promettente ipotesi di lavoro

Entrando nello specifico del modello di CdP – come proposto in termini definitivi da Wenger, soprattutto nelle pubblicazioni del 1998 e del 2002[7] –  vanno qui richiamati in primo luogo i suoi cardini: la comunità e la pratica. A cui va aggiunto l’elemento motore – e quindi prioritario e fondamentale – che spinge un insieme di persone a aggregarsi: il campo tematico (termine originario: domain) – traducibile anche come l’interesse in comune tra soggetti – che spinge a sentirsi e costituirsi come comunità.

Le parole chiave

Comunità, il primo elemento che connota le CdP, è qui nozione che va oltre l’idea di “un insieme di persone che fanno lo stesso lavoro e che operano in condizioni simili” (stesso contesto e identiche attività professionali). Per caratterizzarsi come “luogo di relazione (cooperazione,  scambio, confronto), acquisendo una sua identità specifica legata alla capacità di sviluppare best practise” (I. Summa[8] ). È con questa connotazione che la comunità diventa comunità di pratica e di apprendimento.

Il peso specifico dell’dea di comunità nel concetto di CdP non risulta  però particolarmente enfatizzato da Wenger e colleghi ; anche se è innegabile la sua forza evocativa (al pari della sua ambiguità)[9].

Il secondo elemento cardine: Pratica viene rappresentato essenzialmente come risultato di un processo potenzialmente arricchente, perché  basato  soprattutto su quattro fondamentali modalità operative: interazione, cooperazione,  negoziazione e riflessività[10]. Comunque “non è  solo il fare in sé e per sé”, ma  è un ‘fare’ situato, negoziato e condiviso, diverso del tutto o in parte dal ’fare’ precedente. E comprende intese operative e cornici di significato, che sono esse stesse occasioni di apprendimento e nuova conoscenza.

Pratica quindi come espressione di cultura professionale e cultura tout court. E anche come risultato – in termini di know how – della sedimentazione del lavoro di riflessione e negoziazione del gruppo sulle esperienze maturate nello stesso ambiente o in ambienti simili.

Il  terzo elemento alla base del modello delle CdP può essere ulteriormente esplicitato come l’interesse che spinge persone animate dalla passione per lo stesso tema specifico (il Campo Tematico – CT –) ad aggregarsi in una logica di reciprocità e condivisione. Il CT non è comunque un’area astratta di interesse, ma ruota sempre intorno questioni e problemi chiave[11].

Con riferimento a questi tre elementi cardine, le CdP si configurano pertanto come ambienti di apprendimento in cui dei professionisti decidono liberamente di interagire per migliorare la propria pratica professionale attraverso soprattutto la condivisione di esperienze e la individuazione delle pratiche più efficaci per i destinatari delle stesse. Particolarmente eloquente la definizione che ne dà Wenger in Apprendimento situato (2006): “…un’aggregazione informale di attori che, nelle organizzazioni, si costituiscono spontaneamente attorno a pratiche di lavoro comuni sviluppando solidarietà organizzativa sui problemi, condividendo scopi, saperi pratici, significati, linguaggi[12].

 La svolta: si cambia pagina

Il tutto – assicurano gli Autori in più passaggi del testo, nonostante la evidente forzatura – comunque dentro una cornice in cui flessibilità e modificabilità restano sempre principi basici, tesi a garantire l’equilibrio tra la sfera più  libera e ‘autonoma’ delle CdP e quella formale dell’organizzazione (il suo contesto organizzativo di lavoro).

Con questa svolta, l’attenzione di Wenger e colleghi, dal campo della teoria dell’apprendimento si sposta su quella della progettazione ‘evolutiva’ delle CdP, e quindi sul ‘pianificare e lanciare’ CdP prevedendone strumenti, ruoli, risorse, partnership per contrastare i rischi della decadenza della sua vitalità e della sua scomparsa[14].

Le CdP continuano a collocarsi / si collocano ancora al di fuori dell’organigramma delle organizzazioni; queste  però, nella nuova prospettiva, diventano soggetti in qualche modo cruciali per la ‘coltivazione’ e il supporto alle CdP. Questa previsione – che è anche una indicazione di lavoro – di un ruolo di partnership delle organizzazioni nella vita delle CdP, viene descritta come operazione promettente per entrambe. Volta a contrastare i rischi di cui sopra per le CdP, ma promettente anche per le organizzazioni che comincia a guardare in modo più consapevole alle CdP come possibile risorsa nella prospettiva del rinnovamento e dello sviluppo dei loro saperi organizzativi: condizione non ultima per vincere le sfide inedite del nostro tempo.

Anche sotto questo aspetto, la svolta prospetta discorsi di un certo interesse anche per il mondo della scuola.

Le prospettive per le scuole e il ruolo del DS in quattro punti

Si tratta, a questo punto, di capire in termini più compiuti quali potrebbero essere gli stimoli e l’interesse che queste elaborazioni possono offrire al nostro sistema scolastico:

uno, per contrastare le criticità legate alla sua cultura organizzativa e alla cultura professionale ancora egemone (sostanzialmente caratterizzata da individualismi e autoreferenzialità e scarsa responsabilità rispetto agli esiti);

due, per far crescere una cultura della formazione in itinere del personale fondata sulla dimensione ‘situata’ degli apprendimenti (da trasferire anche nel lavoro d’aula) e orientata alla promozione di comportamenti organizzativi (pratiche) decisivi per una didattica efficace (cooperazione, interazione, mutuo aiuto, coordinamento, negoziazione del senso);

tre, per alimentare una cultura associativa (delle associazioni professionali e scolastiche in generale) più mirata sul senso delle specifiche ‘mission’ e su pratiche coerenti e finalizzate;

quattro, per verificare la possibilità di ripensare le articolazioni collegiali della funzione docente (consigli, dipartimenti, gruppi di ricerca, commissioni di lavoro…) così da rendere possibile una contaminazione delle stesse con orientamenti, logiche, strumenti propri delle CdP.

Qui si cercherà di riprendere schematicamente, per economia di discorso, solo i punti 2 e 4.

Cominciamo dall’ultimo che potrebbe riformularsi così: le articolazioni collegiali tendono a strutturarsi e a viversi come CdP, sulla base di una lettura non restrittiva dell’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo, di cui agli articoli 6 e 12 del Regolamento (DPR 275/’99).
Si tratta concretamente di una prima approssimazione ad una ipotesi di lavoro che si pensa compatibile con lo sviluppo di CdP come emerge dagli studi indicati.

Abbiamo già visto che le CdP tendono generalmente ad attivarsi su base volontaria, eccetera; ma le pur diverse modalità di guardare alle CdP nelle fasi pre e post svolta, conservano, in entrambi i casi, un punto cardine così riassumibile: è la specificità delle situazioni di riferimento e dei contesti organizzativi che determina previsione e sviluppo dei processi più adeguati e agibili.

Nell’ipotesi che qui si prospetta, è la promozione e lo sviluppo degli apprendimenti ai diversi livelli (degli allievi, dei docenti e del DS, del personale ATA) che diventa la priorità in comune, il vero ‘campo tematico’ di ciascun organo collegiale. Che può eventualmente ridefinirlo autonomamente sulla base di propri interessi e bisogni.

Comunità di pratica si diventa comunque soprattutto attraverso a. la pratica maturata e messa in opera dentro ciascuna delle articolazioni collegiali (e di esse propria); b. la competenza professionale che si alimenta di conoscenza organizzativa nell’accezione prima precisata.

Garantire l’equilibrio tra sfera formale (la scuola come organizzazione) e quella più libera e ‘autonoma’ (le diverse aggregazioni previste o comunque attive negli Istituti scolastici), può diventare allora una strategia organizzativa possibile e promettente, a condizione – fondamentale – che le Istituzioni scolastiche si vivano come CdP quanto a modalità operative e relazionali e a pratiche condivise; dentro comunque spazi regolati dai riferimenti ordinamentali alla ragione sociale dell’essere Scuola.

In questa ipotesi diventa rilevante la figura del DS in quanto rappresentante della scuola/organizzazione, in base a come gioca il suo ruolo e al profilo che intende privilegiare.
Ma qui il discorso passa anche attraverso le figure di funzionamento organizzativo e didattico dell’istituto; e tra queste, in primo luogo, quelle di coordinamento, di collaborazione e di presidio delle aree più fragili e più strategiche nella vita della scuola. E richiede pertanto strategie adeguate che spostano ancora l’attenzione sul DS (e, prima ancora, su aggiornamenti contrattuali appropriati).

Tra le strategie possibili, quelle più funzionali al “coltivare CdP” mi sembrano quelle emerse recentemente in un gruppo di lavoro interregionale dell’Associazione professionale Proteo Fare Sapere, in preparazione della sua prossima Conferenza Nazionale[15]; se ne richiamano qui i tratti più significativi opportunamente ripensati con riferimento alla CdP:

  1. assicurare una maggiore vicinanza al lavoro dei suoi insegnanti, anche per prevenire eventuali difficoltà e problemi professionali e facilitare il loro coinvolgimento nei lavori delle articolazioni collegiali e nel loro funzionamento anche come CdP;
  2. garantire supporto e vicinanza alle figure professionali impegnate nella conduzione dei gruppi gestiti come comunità, attraverso appositi momenti strutturati e programmati o impegnati in compiti di collaborazione e di presidio delle aree più bisognose di attenzione;
  3. favorire, anche in base a quanto previsto dal ‘modello’ wengeriano, un funzionamento della scuola come memoria collettiva da coltivare e valorizzare per evitare che vada dispersa (le esperienze migliori dei gruppi di insegnanti con una marcia in più, ‘passati’ dalla scuola) e come luogo in cui si raccoglie e si classifica – e si ‘deposita’ -, con criteri che facilitino la ricerca e la fruizione di quanto può risultare didatticamente stimolante per migliorarsi come singolo e come gruppo. Impresa certamente ardua, ma comunque promettente;
  4. favorire attraverso il Piano di formazione di Istituto (PFI) la realizzazione di momenti formativi nella logica e nello spirito dell’apprendimento ‘situato’ che riprendiamo subito dopo.

Per ultima, ma comunque centrale, la formazione.

Concludo sul punto 2. con alcune annotazioni di contorno sulla “formazione” in servizio, che rimane comunque un ‘campo tematico’ per eccellenza anche delle associazioni professionali che organizzano il personale scolastico (e non solo)[16].

Qui mi preme solo richiamare che le questioni relative a quella in servizio trovano nella teoria dell’apprendimento situato sollecitazioni utili perchè riportano in primo piano l’importanza

  • della condivisione delle difficoltà e delle esperienze, delle pratiche e dei loro esiti, a partire dagli scambi di esperienze e conoscenze ‘indagate’ a più livelli e tradotte in schemi operativi ‘sensati’ e negoziati
  • dei luoghi in cui essa matura con maggiore cognizione di causa: lo specifico contesto organizzativo (la scuola di appartenenza ed eventualmente quelle di ambito) e le sue specifiche articolazioni (dipartimenti, classi parallele o aggregazioni informali proprie delle CdP), dove è più facile sviluppare apprendimenti funzionali all’ambiente in cui si opera; luoghi da vivere come spazi  di più libera ricerca, esplorazione di nuove pratiche che, opportunamente socializzate, arricchiscono il patrimonio di esperienze a disposizione della collettività[17].  

NOTE

[1] Apprezzabile quella di Patrizia di Giovanni che riserva nella sua tesi (2006) Istituzioni del cambiamento e cambiamento delle istituzioni, un lungo capitolo “Le “comunità di pratica” come setting di apprendimento collettivo”, in https://www.tesionline.it/tesi/brano/Le-“comunità-di-pratica”-come-setting-di-apprendimento-collettivo

[2] Lipari D, P. Valentini P., Comunità di pratica in pratica, Edizioni Palinsesto 2016; Tommasini M., L’apprendimento organizzativo nella scuola dell’Autonomia, in L. Benadusi, R. Serpieri (a cura di), Organizzare la scuola dell’autonomia, Carocci, dic 2000 pp. 224 – 230; Fabbri L. (2007). Comunità di pratiche e apprendimento riflessivo. Carocci: Roma; Alessandrini G. (a cura di) (2007). Comunità di pratica e società della conoscenza. Roma: Carocci; Gherardi, S. (1998). “Apprendimento come partecipazione ad una comunità di pratiche”. In «Scuola democratica», v. 1, 2, pp. 247-264.

[3] Lave, J & Wenger ESituated Learning: Legitimate Peripherical Participation, Cambridge: Cambridge University Press, 1991, tradotto in Italia col titolo L’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti di apprendimento. Erickson, 2006.

[4] Non assimilabile comunque all’apprendimento al lavoro e, in particolare, alle forme storiche di apprendistato, come risulta dal testo sopra citato.

[5] Sull’importanza e  il valore dell’imparare osservando e dei contesti in cui questo avviene, le botteghe artigiane del Rinascimento – che normalmente ruotavano intorno ad un artista noto,  rappresentano a tutt’oggi un modello organizzativo sul quale, per alcuni aspetti di fondo,  andrebbe ripresa la discussione (da noi aperta, almeno due decenni fa da Clotilde Pontecorvo). In queste esperienze infatti è possibile vedere in nuce il nucleo concettuale alla base delle teorie moderne dell’Apprendimento e dell’Organizzazione su cui ha lavorato Wenger. Delle quali sappiamo essere capitoli importanti per il mondo della scuola Learning by Doing (John Dewey), Learning Organization (Peter Senge ….), Cooperative  Learning (che è soprattutto una strategia didattica alla cui definizione contribuirono in misura importante David e Roger Johnson), la ‘Pedagogia del fare’ di Maria Montessori.

[6] Modello qui non indica, coerentemente con quanto è proprio delle teorie che fanno riferimenti a esperienze ‘situate’, qualcosa da imitare, fatta di canoni definiti che si fanno norma operativa; ma qualcosa a cui ispirarsi, da assumere a riferimento per ‘fare meglio’ o ‘diverso’.

[7] E. Wenger, Communities of practice – Learning, meaning, and identity, Cambridge University Press. 1998; E. Wenger, R. MCDermott, & W. M. Snyder, Cultivating Communities of Practice, HBS Press 2002. Rispettivamente pubblicati in Italia coi titoli di ‘Comunità di pratica.  Apprendimento, significato e identità’ (Franco Angeli editore, 2006) e ‘Coltivare Comunità di pratica. Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza’ (GueriniNEXT editore, 2007).

[8] I. Summa, Se il docente fa “comunità professionale, in Rivista dell’istruzione, n. 6 – 2013. V. anche al riguardo: A. Valentino, Gli insegnanti nella organizzazione della scuola, pp. 63-82 (Cap. 5 “Comunità di pratiche e leadership diffusa”), Edizioni Conoscenza 2015.

[9] Interessanti le annotazioni di Lipari-Valentini, cit. sul punto. Si chiarisce infatti che certamente l’idea di Comunità porta con sé suggestioni che possono funzionare come “potente veicolo di proselitismo per il bisogno di trovare forme elementari di solidarietà in un mondo (organizzativo) sempre più atomizzato, frammentato, anonimo e chiuso” (Cfr  C. Bauman, La grande voglia, 2001)”. Però affermano   che è difficile cogliere nell’elaborazione complessiva di Wenger e colleghi una qualche tentazione di indulgere a forme di  retorica comunitarista (mai esplicitata ma sempre presente come tratto essenziale della maggior parte  delle proposte circolanti),  perché consapevoli che dietro di esse “si nascondono ipotesi di intervento che incidono poco sulle dinamiche reali e sulle concrete relazioni organizzative”, pg. 30.

[10] Sulla riflessività, si recuperano, come è evidente, gli studi di Schön che sin dagli anni 70 del secolo scorso ne aveva fatto oggetto importante della sua elaborazione nell’ambito delle teorie dell’apprendimento. Con Wenger gli apprendimenti e le pratiche diventano significativi quando si fanno oggetto di riflessione; altrimenti sono come “gocce d’acqua che scivolano su un vetro, senza lasciare traccia alcuna”.

[11]  V. home page del sito ewenger.it (interessante) si dà rilievo soprattutto ai seguenti ambiti tematici: progettare organizzazioni orientate alla conoscenza, creare sistemi di apprendimento tra organizzazioni, la formazione permanente, ripensare il ruolo delle associazioni professionali.

[12] in E. Wenger, Apprendimento situato (2006)

[14] A queste voci corrispondono altrettanti paragrafi nel testo della svolta.

[15] V. in http://www.proteofaresapere.it/cms/resource/5271/documento-dirigenza-e-organizzazione-scolastica-2.pdf

[16] Il ripensamento del ruolo delle associazioni professionali è un campo tematico a cui Wenger guarda con particolare attenzione (v. nota 12)

[17] Si segnala al riguardo, e più in generale sulla CdP, il recente contributo di M. Giacci, Formarsi nelle comunità di pratica, www.scuolaoggi.org (giugno 2021) che riprende anche il ‘modello’ per valorizzare le CdP come contesto di formazione e autoformazione di  LipariValentini, cit..