Archivi categoria: NORMATIVA

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Il docente esperto: uno su cento ce la fa…

di Mario Maviglia

Prendete una delle categorie più vilipese in Italia, sia sul piano sociale che economico, ancorché – contraddittoriamente – più tutelata sul piano occupazionale. Si tratta di una professione più che dignitosa, ma sempre più oberata di impegni burocratici. Su questa categoria i vari Ministri che si sono succeduti nel tempo hanno sempre nutrito l’ambizione di lasciare un segno con le loro (spesso dannose) riforme. Nessuno che si sia mai preoccupato di creare le condizioni migliori per consentire a questi professionisti di svolgere il proprio lavoro in modo tranquillo e sereno, centrando l’attenzione sul compito principale che dovrebbe assolvere la loro ”azienda”, ossia la promozione e lo sviluppo dei processi di apprendimento e di socializzazione degli studenti. Nel tempo, anzi, le condizioni lavorative di questi professionisti sono andate viepiù peggiorando.

Oggi, attraverso una delle tante leggi che nulla ha a che fare con il mondo della scuola (Decreto Aiuti bis), viene inserito un meccanismo di “premiazione” dei docenti, che non trova eguali in altri contesti professionali, attraverso la creazione della figura dell’”insegnante esperto”, un super-docente dotato di grandi capacità, quasi taumaturgiche, soprattutto considerando l’iter che dovrà seguire per diventare “esperto”. Infatti il super-docente dovrà completare tre corsi triennali di formazione consecutivi e non sovrapponibili tra loro, con valutazione positiva. Questi docenti niciani non potranno essere più di 8 mila (poco più dell’1% del totale) e alla fine di questa eroica cavalcata formativa potranno meritatamente godere di un assegno annuale ad personam di 5650 euro all’anno, ossia circa 400 euro in più al mese rispetto ai colleghi non “esperti”.

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Ius scholae, un dibattito quasi lunare

di Aluisi Tosolini

Si dibatte (anche molto aspramente) in questi giorni della proposta di legge definita jus scholae che interviene sul tema della cittadinanza.

La mia personalissima impressione – dal punto di osservazione in cui mi trovo – è che il dibattito in realtà abbia qualcosa di lunare, marziano, sia fuori dal mondo.

Sto facendo in questi giorni il presidente di commissione degli esami di stato in un grande e notissimo centro della provincia di Parma dove la percentuale dei cittadini stranieri residenti (quindi sia comunitari che extra comunitari) è pari al 21,2% (una persona su 5).
Nella provincia di Parma i cittadini stranieri sono il 14,7%, mentre a livello regionale la percentuale è pari al 12,6%  della popolazione contro l’8,4 di media nazionale (e l’Emilia Romagna è la prima regione in Italia per incidenza di stranieri residenti).

Gli studenti delle classi che stanno facendo gli esami rispecchiano la composizione sociale della popolazione della zona. Con diversi candidati abbiamo discusso anche della proposta di legge sulla cittadinanza che si sta dibattendo in parlamento.
Trovarsi davanti candidati 19enni, nati in Italia e che conoscono benissimo la lingua italiana, ben inseriti nel tessuto sociale, molti con un contratto di lavoro già in tasca presso le aziende del distretto che senza lavoratori stranieri sarebbero costrette a chiudere, fa impressione.
Sono italianissimi (certo più italiani di molti discendenti di antichi emigrati in sud America che per lo jus sanguinis potrebbero ottenere la cittadinanza italiana senza fatica) ma non sono cittadini.
A loro manca un diritto fondamentale, quello della partecipazione alla vita sociale e politica da soggetti attivi, votanti. Manca il sentirsi davvero a casa, il non essere e il non percepirsi come ospiti, cittadini di serie B.
Hanno frequentato le scuole in Italia, molti dalla scuola dell’infanzia in avanti e quindi ben più dei 5 anni richiesti dalla legge e che Fratelli d’Italia anni fa chiedeva fossero 8. Prenderanno il diploma, diversi si iscriveranno all’università.
Perché non dovrebbero avere la pienezza della cittadinanza italiana se lo chiedono e lo desiderano?

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Alla ricerca delle competenze sperdute (le non cognitive). Commento semiserio a un recente ardito disegno di legge

di Aristarco Ammazzacaffè

“Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi delle istituzioni scolastiche …”.

È il titolo del ddl che la Camera ha approvato l’11 gennaio scorso e che ora tocca al Senato esaminare e approvare, se ne ha l’animo. I parlamentari firmatari, poco più di una decina (per la precisione, una Dozzina, con l’iniziale maiuscola per deferenza) appartengono ai diversi schieramenti politici del Parlamento, nessuno escluso. (Almeno 4 però di sola Forza Italia: con tutti nomi arcinoti agli ‘scolastici’. Gli altri parlamentari presentatori della proposta, con l’eccezione di un paio, sono associabili al mondo della scuola più o meno come la catalogna alla pasta al forno. Per dire.

Comunque un disegno di legge (ddl) sulle competenze non cognitive[1], se ci pensate, era proprio quello che ci voleva e soprattutto in questo periodo. Quando uno dice, le mancanze! E le attese!
Tranquilli, però. Gli articoli sono solo cinque e quasi tutti brevi. E non pochi passaggi, come accade spesso: acqua fresca e mica fresca.

Partiamo comunque fiduciosi.

L’articolo 1. L’inizio – molta nebbia padana anni ’60 (semplice annotazione d’ambiente; non critica) – dà per scontato che l’oggetto (le competenze non cognitive) sia chiaro a tutti.
‘Competenze non cognitive’? Cioè? Una declinazione esotica di competenza? Una proposta nuova e innovativa per la scuola che recupera il passato? Un’idea dirompente che apre al futuro, da parte di parlamentari attrezzati in teorie della conoscenza, che sfidano elaborazioni che vanno per la maggiore?
Perché no? Perché sì? Mah!

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La scuola di tutti è ancora un’incompiuta

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

 Erewhon è una parola che non c’è. È una parola che non si riconosce, che gli altri non sanno comprendere, perché è una parola diversa. Erewhon è una parola rovesciata, il suo dritto è Nowhere: In nessun posto.
Nel 1872 l’inglese Samuel Butler scrive un romanzo fantastico e satirico sul mondo di Erewhon dove i malati vengono messi in prigione e processati, le vittime sono considerate immorali, nelle scuole si insegna l’Irragionevolezza.

Un mondo solo apparentemente immaginario se riflettiamo bene, se pensiamo da dove siamo partiti per giungere all’inclusione di “tutti” nella scuola di tutti.
Dovremmo essere sempre inquieti, mai soddisfatti dei nostri risultati, perché noi che lavoriamo nella scuola entriamo in relazione con quanto vi è di più delicato e di più complesso nella storia di ogni persona. L’infanzia, l’adolescenza, essere bambina o bambino, ragazzo o ragazza e nessuno può scegliere quello che è, né il luogo della sua nascita né la famiglia, nessuno può scegliere la sua sorte, perché di sorte si tratta.
Abbiamo fatto molta strada per giungere a costruire la scuola di tutti, ma sono di quelle strade che non sono mai compiute, che a volte non trovi più sotto i piedi e ti tocca tornare a ripercorrerle da capo.

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Istruire è diverso da forgiare (a proposito delle competenze non cognitive)

di  Giuseppe Bagni
(per gentile concessione dell’autore della Associazione CIDI)

Si fa fatica a commentare il Ddl approvato alla Camera l’11 gennaio scorso che vuole l’introduzione di competenze non cognitive nei percorsi formativi. Verrebbe voglia di fermarsi a una alzata di spalle, scuotere la testa in sala insegnanti e continuare il proprio lavoro nella scuola reale.
Quella che evidentemente è sconosciuta nelle sedi parlamentari. Eppure si deve commentare, perché la deriva verso cui si sta andando è grave e non può essere ignorata né minimizzata. La proposta approvata nel primo passaggio parlamentare mette in evidenza la convinzione che la scuola debba ammodernarsi rompendo il dominio del cognitivo e del formale per essere, come ha dichiarato Valentina Aprea, “volano delle economie innovative e creative, per poter consentire crescita, sviluppo e risoluzione dei problemi del nostro tempo in una prospettiva originale…”
Il propugnare un qualunque livello di originalità risulta paradossale se confrontato con il progetto di mettere le mani fin nella sfera più interna degli allievi per forgiarne il carattere.
Come se l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura mentale fossero attitudini insegnabili direttamente dalla cattedra invece che il risultato della metabolizzazione personale delle conoscenze acquisite, dei legami costruiti, delle testimonianze offerte loro nella scuola.
Una scuola secondo Costituzione non forgia il carattere, non cerca elementi di valutazione nell’animo dei suoi allievi; crea e offre le condizioni per favorire “lo sviluppo armonico e integrale della persona”.
Le competenze non cognitive non sono oggetti misteriosi per la scuola: le norme e i suoi documenti vi fanno riferimento da molti anni.

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Il regime di incompatibilità per il personale scolastico

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di Antonella Mongiardo e Ferdinando Rotolo

La questione delle incompatibilità e del cumulo di impieghi per il personale della scuola è
alquanto complessa, perché si inquadra in una disciplina normativa frastagliata e in
continua evoluzione, caratterizzata da leggi, decreti, sentenze e circolari.
L’istituzione scolastica, come ogni amministrazione pubblica, è soggetta al principio di
esclusività del rapporto di lavoro, sancito dalla Costituzione a tutela del buon andamento
della P.A.
Pertanto, il personale della scuola, docente e ATA, ha il dovere di prestare il proprio lavoro
ad esclusivo servizio dell’amministrazione scolastica. Ne conseguehttps://www.gessetticolorati.it/dibattito/wp-content/uploads/2021/10/INCOMPATIBILITA.pdf che, al momento
dell’assunzione, il personale scolastico deve essere libero da ogni altra occupazione
lavorativa e, in caso di eventuale rapporto esistente, pubblico o privato che sia, questo deve
immediatamente cessare.

L’ampio saggio di Antonella Mongiardo è disponibile in allegato 

Comunità di pratica nella scuola. Appunti e spunti per la ripartenza

Stefaneldi Antonio Valentino

Alcune ragioni per parlarne.

La percezione diffusa, mi sembra, è che la nostra scuola sia stata poco coinvolta dal dibattito e da esperienze legati alla Comunità di Pratica (d’ora in avanti: CdP). Prima della pandemia è stato oggetto di interesse soprattutto nei convegni e nelle sedi universitarie dove si coltivano questioni riguardanti le teorie dell’apprendimento. Non sono mancate tesi di laurea e pubblicazioni [1] – molto più numerose di quanto si possa credere – che hanno approfondito l’argomento proponendo anche esperienze maturate in Italia[2]. Però la loro risonanza era e continua ad essere ancora modesta.

Nello stesso sito dell’Indire, alla voce ‘Comunità di pratica’ , vengono riportate poco più di un centinaio di iniziative e studi, che però si riferiscono, nella stragrande maggioranza dei casi, a progetti italiani ed europei di School Improvement (progetti di miglioramento delle scuole), che solo tangenzialmente toccano questioni riconducibili specificamente alle CdP e alle ricerche ed elaborazioni al centro di queste riflessioni.

Però, a ben vedere, non poche, nè di poco conto sono le ragioni che spingono anche e soprattutto le persone di scuola ad avvicinarsi a tali questioni, in quanto volte a capire più e meglio la natura dell’apprendimento come fenomeno sociale collettivo e a coltivare quindi luoghi e strategie che ne permettono lo sviluppo.

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