Archivi categoria: NORMATIVA

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Sul “docente esperto”: per una necessaria ricognizione della professionalità

di Simonetta Fasoli

La questione del “docente esperto”, aperta dai provvedimenti appena disposti, ha comprensibilmente suscitato una serie di reazioni, a partire da quelle degli organismi di rappresentanza sindacale. Il tema è delicato e tocca, per così dire, “nervi scoperti” e annose diatribe.
Forse vale la pena rispondere alla frettolosa (e a mio parere abborracciata) soluzione governativa con una più ponderata riconsiderazione dei temi sottesi alla problematica. Solo così, a mio avviso , possiamo sottrarci al clima da derby che sembra profilarsi, e che non aiuta a fare qualche serio passo in avanti.
Il dispositivo di legge ha, mi pare, il limite di fondo nella stessa cornice di emergenza da cui è scaturito. Ne è nata una configurazione parziale, in cui si parla di “docente esperto” come mero prodotto di un non meglio precisato percorso di “formazione” spalmato in un lungo arco di tempo, senza un esplicito riferimento alle dimensioni professionali della docenza in quanto tale. Questa scotomizzazione di partenza ha reso a mio parere arbitraria e in-fondata l’intera operazione.

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Quel pasticciaccio brutto (ma proprio brutto) del “docente esperto”

di Marco Guastavigna

Sul pasticciaccio brutto brutto brutto del “docente esperto” si sono già espressi in molti e in modo sistematico, a partire da considerazioni complessive sull’organizzazione del cosiddetto “mondo della scuola”.

Io sono invece un po’ confuso e mi limiterò a proporre quanto mi si è affacciato alla mente in questi giorni, convinto (illuso?) di poter comunque dare un contributo alla riflessione, che mi auguro porti alla soppressione del provvedimento.

La prima considerazione è questa: mi sono immediatamente ricordato del “tempo potenziato”, dispositivo contrattuale previsto, esaltato e poi inattuato, tanto che non solo gli insegnanti più giovani, ma il fior fiore dei motori di ricerca lo confondono con l’organico di potenziamento. Per non parlare del “concorsone” di Luigi Berlinguer, che provocò una fortissima reazione della “categoria”, in quasi tutte le sue – variegate allora forse più di ora – componenti ideali e ideologiche, fino ad essere cancellato.
Potrei sbagliarmi, ma il mio reflusso professionale ha rigurgitato anche la figura del “docente senior”, che avrebbe riproposto nell’istruzione secondaria un modello qua e là usato in quella terziaria.
E poi ancora la vicenda della valutazione degli insegnanti in rapporto al riconoscimento di un presunto “merito” innescata dalla Legge 107 del 13 luglio 2015 e via via depotenziata con provvedimenti e accordi con i sindacati. Le forzature per la differenziazione delle carriere degli insegnanti con lo scopo di introdurre gerarchizzazione – insomma – sono un evento frequente e hanno un trend di fallimento, anche grottesco.

La seconda considerazione: l’istruzione pubblica è devastata da decenni dalla cultura e dalla pratica della competizione tra e all’interno delle scuole con bandi, concorsi, premi, riconoscimenti, percorsi di formazione riservati, certificazioni private e simili.
La pandemia e il distanziamento delle operazioni didattiche hanno reso definitiva la colonizzazione delle aule e delle menti da parte del capitalismo cibernetico, assurto a sfondo inevitabile, syllabus adattivo universale.
Segmenti della formazione sono nominalmente e strutturalmente subordinati al mercato del lavoro (ovvero alla mercificazione dell’attività umana) come approccio generale e come dato di contesto spazio-temporale. Ma, storicamente, gli insegnanti si accorgono dei rapporti concorrenziali fondati sull’utilitarismo solo quando ne sono colpiti in forma diretta; e individuale. E davvero pochi sembrano cogliere ora che l’obiettivo del “docente esperto” servirà soprattutto a costruire e validare un’altra filiera della cultura intesa come potere e sottopotere.

Del resto, anche i più fieri oppositori di questo e di altri provvedimenti analoghi soffrono – è la terza considerazione – di un grave limite: ritengono che il pensiero critico, anziché intenzione e posizionamento espliciti, sia il frutto di un percorso di istruzione curriculare, fondato sulle certezze dei saperi disciplinari. Una neutra e rassicurante “capacità di esaminare nuove informazioni e idee concorrenti in modo spassionato, logico e senza preconcetti emotivi o personali”, come lo definisce Tom Nichols.

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Il docente esperto: uno su cento ce la fa…

di Mario Maviglia

Prendete una delle categorie più vilipese in Italia, sia sul piano sociale che economico, ancorché – contraddittoriamente – più tutelata sul piano occupazionale. Si tratta di una professione più che dignitosa, ma sempre più oberata di impegni burocratici. Su questa categoria i vari Ministri che si sono succeduti nel tempo hanno sempre nutrito l’ambizione di lasciare un segno con le loro (spesso dannose) riforme. Nessuno che si sia mai preoccupato di creare le condizioni migliori per consentire a questi professionisti di svolgere il proprio lavoro in modo tranquillo e sereno, centrando l’attenzione sul compito principale che dovrebbe assolvere la loro ”azienda”, ossia la promozione e lo sviluppo dei processi di apprendimento e di socializzazione degli studenti. Nel tempo, anzi, le condizioni lavorative di questi professionisti sono andate viepiù peggiorando.

Oggi, attraverso una delle tante leggi che nulla ha a che fare con il mondo della scuola (Decreto Aiuti bis), viene inserito un meccanismo di “premiazione” dei docenti, che non trova eguali in altri contesti professionali, attraverso la creazione della figura dell’”insegnante esperto”, un super-docente dotato di grandi capacità, quasi taumaturgiche, soprattutto considerando l’iter che dovrà seguire per diventare “esperto”. Infatti il super-docente dovrà completare tre corsi triennali di formazione consecutivi e non sovrapponibili tra loro, con valutazione positiva. Questi docenti niciani non potranno essere più di 8 mila (poco più dell’1% del totale) e alla fine di questa eroica cavalcata formativa potranno meritatamente godere di un assegno annuale ad personam di 5650 euro all’anno, ossia circa 400 euro in più al mese rispetto ai colleghi non “esperti”.

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Ius scholae, un dibattito quasi lunare

di Aluisi Tosolini

Si dibatte (anche molto aspramente) in questi giorni della proposta di legge definita jus scholae che interviene sul tema della cittadinanza.

La mia personalissima impressione – dal punto di osservazione in cui mi trovo – è che il dibattito in realtà abbia qualcosa di lunare, marziano, sia fuori dal mondo.

Sto facendo in questi giorni il presidente di commissione degli esami di stato in un grande e notissimo centro della provincia di Parma dove la percentuale dei cittadini stranieri residenti (quindi sia comunitari che extra comunitari) è pari al 21,2% (una persona su 5).
Nella provincia di Parma i cittadini stranieri sono il 14,7%, mentre a livello regionale la percentuale è pari al 12,6%  della popolazione contro l’8,4 di media nazionale (e l’Emilia Romagna è la prima regione in Italia per incidenza di stranieri residenti).

Gli studenti delle classi che stanno facendo gli esami rispecchiano la composizione sociale della popolazione della zona. Con diversi candidati abbiamo discusso anche della proposta di legge sulla cittadinanza che si sta dibattendo in parlamento.
Trovarsi davanti candidati 19enni, nati in Italia e che conoscono benissimo la lingua italiana, ben inseriti nel tessuto sociale, molti con un contratto di lavoro già in tasca presso le aziende del distretto che senza lavoratori stranieri sarebbero costrette a chiudere, fa impressione.
Sono italianissimi (certo più italiani di molti discendenti di antichi emigrati in sud America che per lo jus sanguinis potrebbero ottenere la cittadinanza italiana senza fatica) ma non sono cittadini.
A loro manca un diritto fondamentale, quello della partecipazione alla vita sociale e politica da soggetti attivi, votanti. Manca il sentirsi davvero a casa, il non essere e il non percepirsi come ospiti, cittadini di serie B.
Hanno frequentato le scuole in Italia, molti dalla scuola dell’infanzia in avanti e quindi ben più dei 5 anni richiesti dalla legge e che Fratelli d’Italia anni fa chiedeva fossero 8. Prenderanno il diploma, diversi si iscriveranno all’università.
Perché non dovrebbero avere la pienezza della cittadinanza italiana se lo chiedono e lo desiderano?

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Alla ricerca delle competenze sperdute (le non cognitive). Commento semiserio a un recente ardito disegno di legge

di Aristarco Ammazzacaffè

“Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi delle istituzioni scolastiche …”.

È il titolo del ddl che la Camera ha approvato l’11 gennaio scorso e che ora tocca al Senato esaminare e approvare, se ne ha l’animo. I parlamentari firmatari, poco più di una decina (per la precisione, una Dozzina, con l’iniziale maiuscola per deferenza) appartengono ai diversi schieramenti politici del Parlamento, nessuno escluso. (Almeno 4 però di sola Forza Italia: con tutti nomi arcinoti agli ‘scolastici’. Gli altri parlamentari presentatori della proposta, con l’eccezione di un paio, sono associabili al mondo della scuola più o meno come la catalogna alla pasta al forno. Per dire.

Comunque un disegno di legge (ddl) sulle competenze non cognitive[1], se ci pensate, era proprio quello che ci voleva e soprattutto in questo periodo. Quando uno dice, le mancanze! E le attese!
Tranquilli, però. Gli articoli sono solo cinque e quasi tutti brevi. E non pochi passaggi, come accade spesso: acqua fresca e mica fresca.

Partiamo comunque fiduciosi.

L’articolo 1. L’inizio – molta nebbia padana anni ’60 (semplice annotazione d’ambiente; non critica) – dà per scontato che l’oggetto (le competenze non cognitive) sia chiaro a tutti.
‘Competenze non cognitive’? Cioè? Una declinazione esotica di competenza? Una proposta nuova e innovativa per la scuola che recupera il passato? Un’idea dirompente che apre al futuro, da parte di parlamentari attrezzati in teorie della conoscenza, che sfidano elaborazioni che vanno per la maggiore?
Perché no? Perché sì? Mah!

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La scuola di tutti è ancora un’incompiuta

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

 Erewhon è una parola che non c’è. È una parola che non si riconosce, che gli altri non sanno comprendere, perché è una parola diversa. Erewhon è una parola rovesciata, il suo dritto è Nowhere: In nessun posto.
Nel 1872 l’inglese Samuel Butler scrive un romanzo fantastico e satirico sul mondo di Erewhon dove i malati vengono messi in prigione e processati, le vittime sono considerate immorali, nelle scuole si insegna l’Irragionevolezza.

Un mondo solo apparentemente immaginario se riflettiamo bene, se pensiamo da dove siamo partiti per giungere all’inclusione di “tutti” nella scuola di tutti.
Dovremmo essere sempre inquieti, mai soddisfatti dei nostri risultati, perché noi che lavoriamo nella scuola entriamo in relazione con quanto vi è di più delicato e di più complesso nella storia di ogni persona. L’infanzia, l’adolescenza, essere bambina o bambino, ragazzo o ragazza e nessuno può scegliere quello che è, né il luogo della sua nascita né la famiglia, nessuno può scegliere la sua sorte, perché di sorte si tratta.
Abbiamo fatto molta strada per giungere a costruire la scuola di tutti, ma sono di quelle strade che non sono mai compiute, che a volte non trovi più sotto i piedi e ti tocca tornare a ripercorrerle da capo.

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Istruire è diverso da forgiare (a proposito delle competenze non cognitive)

di  Giuseppe Bagni
(per gentile concessione dell’autore della Associazione CIDI)

Si fa fatica a commentare il Ddl approvato alla Camera l’11 gennaio scorso che vuole l’introduzione di competenze non cognitive nei percorsi formativi. Verrebbe voglia di fermarsi a una alzata di spalle, scuotere la testa in sala insegnanti e continuare il proprio lavoro nella scuola reale.
Quella che evidentemente è sconosciuta nelle sedi parlamentari. Eppure si deve commentare, perché la deriva verso cui si sta andando è grave e non può essere ignorata né minimizzata. La proposta approvata nel primo passaggio parlamentare mette in evidenza la convinzione che la scuola debba ammodernarsi rompendo il dominio del cognitivo e del formale per essere, come ha dichiarato Valentina Aprea, “volano delle economie innovative e creative, per poter consentire crescita, sviluppo e risoluzione dei problemi del nostro tempo in una prospettiva originale…”
Il propugnare un qualunque livello di originalità risulta paradossale se confrontato con il progetto di mettere le mani fin nella sfera più interna degli allievi per forgiarne il carattere.
Come se l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura mentale fossero attitudini insegnabili direttamente dalla cattedra invece che il risultato della metabolizzazione personale delle conoscenze acquisite, dei legami costruiti, delle testimonianze offerte loro nella scuola.
Una scuola secondo Costituzione non forgia il carattere, non cerca elementi di valutazione nell’animo dei suoi allievi; crea e offre le condizioni per favorire “lo sviluppo armonico e integrale della persona”.
Le competenze non cognitive non sono oggetti misteriosi per la scuola: le norme e i suoi documenti vi fanno riferimento da molti anni.

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