Docente esperto: proviamo a prendere il toro per le corna

di Cinzia Mion

Proviamo a prendere il “toro per le corna”. Con questo intendo solo anticipare che dirò la “mia”, opinione personale quindi senza nessuna pretesa di essere un oracolo…
Il riferimento è alla tanto discussa e famigerata questione del “docente esperto”.
Vorrei essere succinta e salto a piè pari le ragioni per cui questa proposta è da respingere al mittente. Molti più titolati di me l’hanno già fatto argomentando più che a sufficienza. Chiarisco subito, la proposta è da respingere e non per la questione della vetusta e semplicistica faccenda dell’egualitarismo, di cocciuta matrice sindacale. Nessuno ci crede, tutti sanno che non corrisponde al vero ma affermarlo sembra voglia dire bestemmiare. Ecco uno dei vantaggi di invecchiare è proprio questo: infischiarsene!
Proverò allora a dipanare il mio pensiero capovolgendo la prospettiva.
Allora iniziamo: la Scuola esiste perché esistono gli alunni.
I docenti esistono non perché rappresentano un posto di lavoro qualsiasi ma perché esistono gli alunni e anche una Costituzione che prevede una scuola dell’obbligo fino ai 14 anni (oggi 16!).
Ergo sono importanti:
– gli allievi, indispensabili;
– una Istituzione chiamata Scuola pubblica, altrettanto indispensabile (per non tornare al precettore privato, ed oggi con la scuola “parentale” siamo lìlì);
– e un articolo della Costituzione che suggerisce, o meglio pretenderebbe, l’idea di una Scuola inclusiva, (art.3) quindi “EFFICACE” al fine di mantenere in asse la Democrazia del Paese, attraverso non solo l’alfabetizzazione strumentale ma anche disciplinare, finalizzate al maggior successo formativo per tutti , (compresa la comprensione del SENSO di ciò che si legge!)
Parlavamo dei docenti che sono importantissimi ma devono essere TUTTI all’altezza del compito : “BEN FORMATI“ e di conseguenza “BEN REMUNERATI” e consapevoli che dal loro lavoro dipende il FUTURO dei giovani e quindi del Paese

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Il maggiore riconoscimento sociale ed economico di questa professione potrebbe farla ridiventare appetibile anche ai maschi, la cui carenza si avverte moltissimo soprattutto per la rilevanza che hanno in funzione della realizzazione dell’identità di genere, cui servono modelli sia di identificazione che di differenziazione.
Ovviamente il compito oggi del docente è indirizzato, attraverso i nuclei fondanti delle discipline e il loro valore epistemologico, verso la padronanza di fondamentali competenze che vanno PROGETTATE perché non scaturiscono per magia dalle sia pur importanti “conoscenze”.
In primis oggi troviamo il saper PENSARE , ovviamente con la propria testa, competenza chiamata anche ERMENEUTICA, applicata a tutti i sistemi simbolico culturali che la scuola offre, utile però ad orientarsi nel mondo con consapevolezza critica.
Accanto a questa competenza fondamentale, nell’epoca dei click, (sufficienti ad ottenere una risposta esatta), dobbiamo ricordare la competenza della Cittadinanza intesa anche , forse soprattutto, come osservanza dell’ETICA PUBBLICA e del BENE COMUNE, per la cui realizzazione dobbiamo saper RINUNCIARE tutti a qualcosa (magari assumendo la “parzialità” del proprio punto di vista).
Fin dall’inizio, all’entrata nell’Istituzione scolastica, alla base del rapporto docente-alunno, ma anche nella “comunità professionale dei docenti”, troviamo però la competenza socio-relazionale , visto che ci viene richiesto di interagire solidaristicamente fra noi, utilizzando quella “naturale “ INTERSOGGETTIVITA’, cui siamo programmati fin dalla nascita , come ci illustrano bene le neuroscienze. Competenza che ogni docente deve padroneggiare per gestire in modo accettabile una classe quasi sempre ormai multietnica e multiculturale, ma alla cui padronanza deve educare anche i soggetti affidati, attraverso didattiche cooperative ed interculturali.
E qui arriviamo al cuore del problema. Per diventare “docenti” in grado di affrontare la loro professione in modo adeguato a queste aspettative bisogna frequentare la SCUOLA DI ALTA FORMAZIONE?
Ma soprattutto una scuola per pochi eletti e alla fine, se si è valutati positivamente , ricevere un premio in denaro?
Non sarebbe “cosa buona e giusta” che tutti quelli che “aspirano” a diventare docenti ricevessero una formazione iniziale, e poi una formazione in servizio costante ed obbligatoria, idonee per una professione così impegnativa dal punto di vista professionale ed etico?
Una formazione universitaria che preveda innanzitutto, nel piano di studi, che ci sia la “Psicologia dell’apprendimento”(come risultava all’interno della laurea in Pedagogia anteriore al sistema 3+2, ma su questo ho argomentato più volte inutilmente, probabilmente disturbando anche qualcuno….). Vi ricordate la figura “dell’Operatore psicopedagogico” istituito dall’Ordinanza 282 del 1989? Eh l’età permette di recuperare anche queste vecchie note ministeriali, che però sono indicative di una sensibilità particolare che è stata persa. Quella però era una “figura intermedia” che aveva funzioni specifiche, soprattutto per i casi difficili e serviva a tutto intero l’Istituto. Ai docenti però della scuola primaria non era ancora richiesta la laurea. Una formazione in psicologia dell’apprendimento permette di acquisire chiavi di lettura importantissime per capire dove va a parare il nostro INSEGNAMENTO, finalizzato appunto all’APPRENDIMENTO. Possiamo dire che costituisce i FONDAMENTALI. (permettetemi una divagazione con un esempio antidiluviano ma che rende l’idea: voi riuscite ad immaginarvi un artigiano che realizza calzature a mano ma che non sappia riconoscere la differenza tra il cuoio, la pelle, la plastica o il cartone???)
Il riferimento alle figure intermedie mi permette invece di recuperare alcune riflessioni che potrebbero giustificare un richiamo alla carriera dei docenti.
Alla luce infatti delle esperienze in atto , alcune nuove “figure professionali di sistema” ( il cosiddetto middle management) dovrebbero essere riconosciute sia professionalmente (previa formazione adeguata) che finanziariamente per collocarsi proficuamente nell’attuale processo di trasformazione del sistema scolastico.
Mi riferisco particolarmente all’attuazione “vera” dell’Autonomia, alla complessità della gestione degli Istituti scolastici decisamente troppo numerosi e spesso ospitanti più indirizzi e alle tipologie di utenza, sempre più complesse, all’interno di una società che sta assumendo caratteristiche , come dice oggigiorno Vertecchi, di società “dis-educante”.
La via del middle management è il passaggio intermedio per arrivare poi al grado di “dirigente scolastico”, cui comunque si accede per concorso, ma con punteggio privilegiato. Da rilevare che in questo modo un ex-docente, con suddetta formazione psicopedagogica, diventerà sicuramente un LEADER PER L’APPRENDIMENTO, connotazione oggi carente se non mancante del tutto.




Docente esperto, ovvero la scuola basata sulla competizione

di Cristiano Corsini

L’idea di scuola dietro la trovata del “docente esperto” ha il privilegio di essere chiara e orecchiabile. È un’idea basata sulla competizione: chi insegna è disposto a migliorarsi se potrà guadagnare di più e primeggiare su un gruppo, conquistando sul campo soldi e status.
Si tratta di un’idea di scuola molto diffusa nell’opinione pubblica. Non a caso chi la difende sostiene che in molti altri ambiti lavorativi le cose stanno esattamente così.
Perché nella scuola non dovrebbe funzionare?

Ora, ammesso e non concesso che in altri ambiti questo approccio funzioni davvero (non sono in grado di stabilirlo, ma immagino che in alcuni casi funzioni di più, in altri di meno, in altri non funzioni affatto), il problema è che in campo educativo l’approccio cooperativo è più efficace rispetto a quello competitivo.
Una delle cose che ho imparato nel corso del mio dottorato di ricerca sull’efficacia scolastica è che le scuole che funzionano meglio sono quelle che hanno una cultura comune. Si tratta di scuole che hanno costruito tale cultura attraverso una condivisione di pratiche incentrata sull’idea che a problemi comuni si forniscono risposte comuni. Queste scuole esistono e non rappresentano nulla di utopistico, hanno anzi i loro problemi, ma li affrontano mettendo alla prova dell’esperienza (sperimentando e imparando) soluzioni condivise da più docenti che tra loro cooperano piuttosto che competere. E, attenzione, la cooperazione non esclude affatto la differenziazione, anzi. Esclude però la competizione.

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Dunque, se davvero vogliamo migliorare la qualità delle nostre scuole, ci sono soluzioni più efficaci rispetto alla corsa dei cavalli.
Tuttavia, temo davvero che la trovata del “docente esperto” venga perseguita dalla politica scolastica con la stessa infausta e bovina solerzia che ha già caratterizzato altre soluzioni chiare, semplici e sbagliate imposte a scuole e docenti negli ultimi decenni.
Ps. Talvolta, chi difende la trovata del “docente esperto” mi fa notare che nel campo dell’istruzione c’è già un’istituzione che differenzia notevolmente i ruoli di chi insegna, ovvero l’università.
Siccome in università ci lavoro, non posso che confermare. Tuttavia, la distinzione dei ruoli in università non ha nulla a che fare con la qualità della didattica. Un professore ordinario (un professore di prima fascia) non ha raggiunto il suo status in virtù della sua qualità di docente. Molto semplicemente, è diventato professore ordinario perché è stato selezionato in virtù delle sue pubblicazioni scientifiche. La didattica in questa procedura selettiva non c’entra nulla, sebbene possa aver avuto un peso nella selezione iniziale, ovvero quella procedura che, anni fa, consentì a chi oggi è professore ordinario di diventare ricercatore. Ma in quel caso si tratta di un parametro esclusivamente quantitativo (“numero di corsi erogati”), che con la qualità della didattica non ha nulla a che vedere.
D’altro canto, è sufficiente farsi un giro tra le studentesse e gli studenti: il più delle volte non si accorgono minimamente della differenza, proprio perché dal punto di vista della qualità della didattica non v’è alcuna soluzione di continuità, e chiamano con lo stesso termine – “professore” – il docente a contratto, il dottorando, il cultore della materia, l’assegnista di ricerca, il ricercatore a tempo determinato, il ricercatore a tempo indeterminato, il professore associato (II fascia), il professore ordinario (I fascia).
In università la differenziazione competitiva non risponde all’esigenza di migliorare la didattica.




Il fantasma delle carriere, ma già oggi ogni scuola ha il suo organigramma

di Antonio Fini

Si sta facendo una gran confusione relativamente alle “carriere” dei docenti e alle figure del cosiddetto “middle managament”.
L’ultima surreale proposta del “docente esperto”, da proclamare tra dieci anni, sta contribuendo massicciamente al caos.

Non servono premi per “esperti”; ciò che serve alla scuola (OGGI, non nel 2032!) è semplicemente (si fa per dire…) la definizione di una normativa che ufficializzi la situazione di fatto.

Basta consultare il sito web di qualsiasi istituto per imbattersi nella voce “Organigramma”.
Ohibò, ma se nella scuola non ci sono altro che docenti, tutti uguali, tutti con le stesse mansioni, a che servirà mai un organigramma?
Al contrario, se nell’organigramma risultano così tante funzioni specializzate, come mai non vi è traccia di tutto ciò nella normativa o, se c’è, risulta tutto precario e fumoso?
Un esempio su tutti: la figura del coordinatore di classe, fondamentale da sempre e ultimamente di più, letteralmente NON ESISTE. Non è prevista da alcuna norma!

Allora, vogliamo liberare una volta per tutte QUESTI FANTASMI dai pietosi lenzuoli (ad esempio l’annuale rito della contrattazione del FIS) che ancora li rendono invisibili?

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Ecco la mia proposta.

Si può definire una struttura base, più o meno valida per tutti gli istituti, con i necessari adattamenti:
– 1-2 vice, con reali poteri di sostituzione temporanea del DS (max 30 giorni continuativi), con incarico pluriennale;
– coordinatori di sede, per le scuole su più plessi, con incarico preferibilmente pluriennale;
– coordinatori dei dipartimenti disciplinari e/o di classi parallele, con incarico pluriennale. Nelle scuole anglosassoni si chiamano “Head of …” e hanno importanti compiti di supporto alla didattica;
– coordinatori di classe, con incarico annuale;
– altre funzioni di staff (ex funzioni strumentali, responsabili dei laboratori, referenti). Va definito un numero massimo per ogni istituto in funzione della complessità, con incarico annuale.

Ognuna di queste figure dovrebbe avere una retribuzione differenziata e un orario di lavoro specifico. Per alcune figure si può prevedere esonero parziale/totale da attività in classe, in base alla complessità dell’istituto.
No FIS, ma stipendio diverso. Il MOF può quindi essere molto ridimensionato e con i relativi risparmi si finanzia, almeno parzialmente sta cosa. Per il resto, si investono i soldini del PNRR, ora, non nel decennio successivo.
Per accedere alle funzioni, si presenta una domanda, esibendo il CV e dimostrando di possedere le necessarie competenze (certo, acquisite anche mediante formazione!, come si fa comunemente in qualsiasi lavoro.
La decisione sugli incarichi è affidata al DS, coadiuvato dal comitato di valutazione, i cui membri, sempre eletti, devono però essere retribuiti.

Ecco, così cominceremmo a somigliare ad un’organizzazione seria. 




Docente esperto, ma dal 2032: la novità che preoccupa

di Rosolino Cicero

In questa calda stagione estiva, un tema altrettanto caldo ha destabilizzato la serena estate dei docenti, delle organizzazioni sindacali, delle forze politiche: l’istituzione nell’alveo degli obiettivi del PNRR di una nuova qualifica – il/la “Docente esperto/a” – a partire dall’anno scolastico 2032-2033.
Si tratta di 32.000 docenti che nei successivi quattro anni scolastici avranno riconosciuta la nuova qualifica ma con vincolo di permanenza di almeno un triennio nella scuola di servizio e non dovranno svolgere mansioni aggiuntive rispetto alla normale attività di insegnamento. In altre parole, devono insegnare e stop!

E’ arcinoto che il PNRR offre all’Italia risorse dell’Europa finalizzate a dare quelle opportunità capaci di cambiare il nostro Paese entro i prossimi due decenni.

Tra le missioni, la quarta pone al centro la scuola e l’università.
In particolare, per la scuola si parla di investimento nelle infrastrutture connesse agli ambienti di apprendimento da zero ai 19 anni, all’implementazione di quelle digitali, alla revisione delle procedure di reclutamento e orientamento, al sostegno e potenziamento dell’azione didattica dei docenti e, infine, alla valorizzazione professionale.
Se concentriamo l’attenzione al personale, nel PNRR è scritto chiaro che l’obiettivo principale è procedere con la formazione che sarà coordinata, monitorata e verificata dalla tanto discussa Scuola di Alta formazione: è una delle 6 riforme previste dal piano per migliorare nel corso del prossimo decennio la qualità della didattica e le competenze metodologiche, digitali e culturali dei docenti.

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Come scritto e sostenuto da più parti, anche autorevoli, non si potranno utilizzare le risorse per il rinnovo contrattuale che invece devono essere estrapolate dal bilancio dello Stato e messe sul tavolo della contrattazione.

Quindi il tema della formazione dei docenti riconosciuta e certificata nel breve e medio periodo per il legislatore è una PRIORITA’!
Il Parlamento ha ritenuto che la qualità dell’azione didattica non possa prescindere dalla formazione e già nel comma 124 della Legge 107/2015 ha previsto la formazione in servizio dei docenti di ruolo come azione “obbligatoria, permanente e strutturale” da prevedere nel PTOF.

Ma torniamo al DL Aiuti bis: considerato che nel DL 36/2022 i tre trienni di formazione (obbligatoria per i docenti neoimmessi e facoltativa per i docenti già in ruolo) alla fine del percorso non producevano di fatto alcun effetto nel curriculum professionale (erroneamente si confonde con la “carriera”), il Governo – su pressione dell’Europa – ha sanato questa incomprensibile “dimenticanza” prevedendo quale completamento la possibilità di “concorrere” per accedere al riconoscimento della nuova qualifica di “docente esperto/a” con la previsione di un riconoscimento economico annuale di 5.650 euro in aggiunta al trattamento stipendiale maturato per anzianità.

Tutto chiaro, logico e coerente per chi guarda al dispositivo giuridico senza pregiudizi ideologici: se non sei un docente neoimmesso, sei libero di aderire al piano di formazione e, al decimo anno, concorrere per la qualifica! Un’interessante novità di medio periodo che integra la progressione economica per anzianità che intanto continua a esistere per tutti come oggi la conosciamo.

E’ poco…è troppo….è lenta….è limitata nei numeri….discutiamone ma non possiamo eludere il punto: la formazione in servizio finalmente assume un importante valore aggiunto nella professione docente unitamente alla progressione di anzianità.

E’ un primo seme di valorizzazione professionale che ci pone di fronte le seguenti domande: siamo convinti che nella scuola di oggi e del futuro si debba ancora procedere per progressione di anzianità e con modesti incrementi stipendiali indifferenziati? Siamo sicuri che nella scuola già OGGI non si possano definire criteri per individuare le caratteristiche culturali e le competenze professionale del/della docente esperto/a?
Chiediamoci: nella scuola autonoma di oggi, chi potrebbe essere: il/la più bravo/a?….il/la più competente?….il/la più anziano/a in servizio?…..chi si dedica sine tempora alla sua comunità scolastica?…..il/la più formato/a?….chi possiede più titoli culturali e professionali?

Provo a rispondere partendo dalla scuola reale.

Poniamo “per assurdo” l’ipotesi di avere un’Istituzione scolastica con 750 alunni dei quali il 10% con BES, ripartiti in 5 plessi e in 3 diversi comuni, con un dirigente scolastico bravissimo, un vero leader, una dsga stracompetente, con gli uffici amministrativi efficientissimi con tutto il personale in organico e di ruolo, con i collaboratori scolastici ipercollaborativi e, infine, con un corpo docente brillante e di grande qualità professionale impegnato esclusivamente nell’insegnamento.

Questa scuola (magari esiste ma ditemi per favore dove!) potrebbe assolvere adeguatamente ed efficacemente al suo ruolo istituzionale nei confronti degli alunni e della comunità nel suo complesso? Si…no….forse….
Manca l’anello fondamentale, quello intermedio.

Infatti, vista la complessità del “fare” scuola, il Ds con i poteri conferiti dalla legge – ai sensi del DPR 275/99 art. 5, del D.lgs 165/2001 art. 25 commi 4 e 5 e della Legge 107/2015 comma 83 – si avvale di docenti da lui individuati “ai quali delega specifici compiti” che “lo coadiuvano in attività di supporto organizzativo e didattico dell’istituzione scolastica”.
Non è un caso se il legislatore, nell’istituire la dirigenza scolastica nel lontano 1997, abbia voluto chiaramente prevedere “Nel rispetto del principio della libertà di insegnamento e in connessione con l’individuazione di nuove figure professionali del personale docente….”.

Ecco allora già previsto l’anello mancante di fatto sempre presente, necessario e imprescindibile, per il “fare” scuola in modo efficiente e corrispondente alla complessità della scuola: il lavoro a scuola così non è più soltanto l’orario frontale di lezione!

Per questa ragione, nella scuola in continuo e dinamico cambiamento non è possibile lasciare il personale in una condizione permanentemente statica, dove la lenta attesa dello scorrere degli anni scolastici è l’unica ragione per aspettarsi un incremento stipendiale.
La complessità del sistema scuola, le conoscenze culturali e disciplinari unitamente alle strategie didattiche e alle competenze metodologiche e relazionali, la partecipazione attiva e informata all’organizzazione della scuola (e anche alla gestione in quella in reggenza), la conoscenza di norme e regolamenti relativi alla professione docente (stato giuridico, contratto di lavoro) in relazione ai propri diritti e doveri, la partecipazione al sistema delle decisioni all’interno della scuola, la conoscenza delle fonti giuridiche che determinano il corretto funzionamento dell’organizzazione scolastica anche in ordine alla sicurezza, la capacità di ascolto, di mediazione comunicativa e di propensione al lavoro di gruppo, la partecipazione alle diverse sedi di decisione nel rispetto delle funzioni delegate e di ruoli professionali, l’assunzione di responsabilità nel funzionamento organizzativo e didattico, la partecipazione alle attività di formazione e di aggiornamento, sono sufficienti per poter affermare che già OGGI nella scuola italiana possono individuarsi – secondo criteri, procedure di accesso e di valutazione definiti – docenti esperti/e, pronti/e ad assumere responsabilità professionali più ampie e trasversali oltre l’esclusiva attività di docenza, meritevoli di una carriera professionale integrata.

E’ arrivato il tempo di dare pari dignità giuridica all’attività didattica negli ambienti di apprendimento e a quella funzionale al funzionamento organizzativo e didattico.
Come prevede il comma 16 dell’art. 21 della Legge 59/97 diamo un profilo agli attuali docenti esperti, che posseggono i necessari requisiti di competenza e professionalità, che hanno una visione multipla della loro scuola (didattica, organizzazione e formazione), che hanno seguito percorsi di formazione, che sono riconosciuti risorse per la comunità scolastica.
Basta delineare la modalità di accesso, le aree della formazione, l’esplicazione delle funzioni, sulla base dei fondamenti giuridici oggi in vigore.

Potremmo prevedere, utilizzando anche una parte dei fondi del PNRR, per il prossimo anno scolastico attraverso un numero di scuole rappresentative del territorio nazionale una sperimentazione per l’individuazione delle funzioni intermedie strutturali, per l’elaborazione dei criteri di accesso e determinazione del tempo di lavoro, di un modello per lo sviluppo professionale nella carriera docente, di un modello di valutazione delle professionalità, di un percorso formativo.
In questo modo fra due anni scolastici potremo finalmente avere una vera carriera professionale che corrisponda in pieno alle attese dell’Europa.

Dunque, perché aspettare il 2032?

 

 




Ma il docente esperto sarà in grado di collaborare con i colleghi?

di Beppe Bagni

Si può non ascoltare nessuno e non rileggere nulla di quello che è stato scritto negli anni recenti sulla valutazione dei docenti e la loro progressione di carriera. Ma c’è del metodo in questa follia del docente esperto partorito all’interno di un decreto denominato Aiuti, ma che in questo caso spinge a chiedere aiuto.
Ci deve essere una logica altrimenti non si spiegherebbe perché tutte le principali novità che riguardano la scuola vengono sempre proposte in estate a scuole chiuse. Quando dovremmo attenderci di sentire il rumore dei lavori in corso dentro le scuole in vista di un rientro degli alunni più sicuro ascoltiamo invece il rimbombo delle notizie su nuove normative che stravolgono i difficili equilibrio di un sistema complesso quale la scuola.

La figura del docente esperto spinge a tre brevi osservazioni.

La prima riguarda la scuola come contesto nel quale opera la nuova figura.
Fra una decina di anni saranno 8000 su 800.000 i nuovi docenti esperti. Uno su cento; in una ipotetica distribuzione omogenea sarebbero meno uno per collegio: quale contributo su presume possano dare al sistema scuola non è dato capirlo, forse raccoglieranno qualche incarico dal dirigente, ma sarà difficile non siano invisi agli altri colleghi.
Ma ovviamente non saranno distribuiti omogeneamente: alcune scuole ne avranno molti, altre pochi, altre ancora nessuno. Come verranno gestiti? Tutti in una sezione o come capita? E come si risponderà al genitore che chiede di avere per il figlio o la figlia il docente doc?
Come spenderanno la quota dei futuri super docenti in servizio nelle proprie istituzioni i dirigenti nel perenne marketing scolastico per alzare le iscrizioni? La “dote” sarà pubblicata nella Homepage e nei trasferimenti trattati come merce preziosa? Auguri a chi dovrà gestire la situazione.

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La seconda considerazione riguardo proprio i docenti che concorreranno nella competizione.
Se ho capito bene si tratta di tre serie di formazione triennale tutte superate con valutazione positiva. Nove anni di formazione che non riguarda le necessità della propria scuola né tanto meno di propri alunni e alunne. Sarà un percorso di studio sulle nuove forme di valutazione, sulle nuove metodologie didattiche, sui sistemi d’istruzione europei, certamente sulla scuola 4.0, 5.0, n fattoriale punto zero.
Sono sicuri questi docenti di uscire più esperti nel loro lavoro? Di saper meglio collaborare con i loro colleghi in un lavoro quotidiano che porta risultato solo se è collaborativo e coerente tra tutti gli adulti che prendono parte all’impresa e soprattutto con gli allievi che avrà di fronte? Avrà trovato il tempo, con il peso di tanto studio personale e individuale, per imparare ad ascoltarli e saper scegliere non la metodologia più in voga ma i contenuti e in percorsi più adatti per far crescere ciascuno di loro?

L’ultima considerazione mi spinge a porre alcune domande al ministero e il governo.
Questo invenzione del docente esperto vi era stata chiesta dal mondo della scuola? No? Allora da chi?
Vi è sembrato fosse una questione di “ordinaria amministrazione” un provvedimento che impatta così pesantemente sulla scuola, sugli insegnanti e sui delicati rapporti al suo interno?
Allora spiegate, visto che avete deciso di introdurre questa nuova figura all’interno di una decretazione d’urgenza, in quale logica vi è sembrato “urgente”?
Era urgente perché l’estate dura poco e a scuole aperte poi con questa tocca discuterci?
Non si può aver paura di confrontarsi con i soggetti interessati e più in generale con il Paese.
Il vertice di una piramide è tale se ha segmenti che lo collegano agli spigoli della base.
Se li cancella non è più un vertice ma solo un puntino insignificante.




Sul “docente esperto”: per una necessaria ricognizione della professionalità

di Simonetta Fasoli

La questione del “docente esperto”, aperta dai provvedimenti appena disposti, ha comprensibilmente suscitato una serie di reazioni, a partire da quelle degli organismi di rappresentanza sindacale. Il tema è delicato e tocca, per così dire, “nervi scoperti” e annose diatribe.
Forse vale la pena rispondere alla frettolosa (e a mio parere abborracciata) soluzione governativa con una più ponderata riconsiderazione dei temi sottesi alla problematica. Solo così, a mio avviso , possiamo sottrarci al clima da derby che sembra profilarsi, e che non aiuta a fare qualche serio passo in avanti.
Il dispositivo di legge ha, mi pare, il limite di fondo nella stessa cornice di emergenza da cui è scaturito. Ne è nata una configurazione parziale, in cui si parla di “docente esperto” come mero prodotto di un non meglio precisato percorso di “formazione” spalmato in un lungo arco di tempo, senza un esplicito riferimento alle dimensioni professionali della docenza in quanto tale. Questa scotomizzazione di partenza ha reso a mio parere arbitraria e in-fondata l’intera operazione.

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Per cominciare, riporterei la questione nell’alveo nell’interezza che le appartiene. Parliamo allora di “articolazione delle funzioni” all’interno della professionalità docente, che è composita in sé stessa, multidimensionale. Se questa caratteristica strutturale diventa via di accesso ad una forma di gerarchizzazione (sancita infine dal trattamento economico fortemente differenziato e dalla platea dei “pochi” cui esso è programmaticamente destinato) si determina una torsione concettuale (e giuridica) dello stesso profilo.
Si sta immaginando una “comunità di pratiche” ispirata alla specializzazione dei “ruoli”, che diventano “figure” e non “funzioni” dello stesso profilo? Se questo è il modello di funzionamento, penso sia opportuno mostrarne le incongruenze, gli effetti negativi proprio sulla qualità dei processi di insegnamento-apprendimento che si dice di voler meglio assicurare.
Per esempio: la competenza progettuale non può essere delegata a un “esperto”, in quanto è parte integrante della prestazione didattica, che, se avulsa da essa, sarebbe attività meramente esecutiva. Così anche una didattica che, in quanto progettualità, ignori le implicazioni gestionali e organizzative è privata del suo corollario che è il criterio di fattibilità, rischiando di restare (come non di rado succede) una nobile ma inerte dichiarazione di intenti.
Diverso è il ragionamento se si considera la necessaria funzione di coordinamento, che un sistema complesso qual è l’istituzione scolastica richiede. Le “funzioni strumentali” (eredi delle “funzioni obiettivo”) sono un esempio largamente sperimentato di questo modello di funzionamento. Si tratta di istituti ancorati alla pianificazione educativo-didattica, dunque coerenti con le scelte collegiali e non correlati (come sembra adombrare la norma in questione) ad un “cursus honorum” de-contestualizzato, perseguito individualisticamente.
Partiamo da qui: da un ripensamento e, se necessario, da una rinnovata declinazione delle dimensioni che articolano la professionalità docente; tenendo ferma l’istanza di “tenerle insieme” nello stesso profilo, in concreto nella stessa persona, in netta controtendenza rispetto a ogni forma di “divisione del lavoro” che richiama concezioni tayloristiche decisamente superate.
Ragioniamo, infine, sulle funzioni di coordinamento, sostenendo la capacità delle istituzioni scolastiche, nell’esercizio responsabile della collegialità e nella cooperazione di tutte le componenti, di individuare i nodi della rete progettuale/organizzativa che connotano il sistema-scuola, affinché siano presidiati. Non vedrei male in questo caso un avvicendamento, regolato da criteri espliciti e trasparenti definiti dall’istituzione autonoma, nell’assumere tali funzioni di coordinamento: questo non per omaggio ad un principio astratto di democraticismo, ma perché ritengo che ogni docente dovrebbe farne concreta esperienza (diventarne “esperto”…) per maturare quella visione complessiva del sistema che è troppo spesso carente e delegata a pochi.




Quel pasticciaccio brutto (ma proprio brutto) del “docente esperto”

di Marco Guastavigna

Sul pasticciaccio brutto brutto brutto del “docente esperto” si sono già espressi in molti e in modo sistematico, a partire da considerazioni complessive sull’organizzazione del cosiddetto “mondo della scuola”.

Io sono invece un po’ confuso e mi limiterò a proporre quanto mi si è affacciato alla mente in questi giorni, convinto (illuso?) di poter comunque dare un contributo alla riflessione, che mi auguro porti alla soppressione del provvedimento.

La prima considerazione è questa: mi sono immediatamente ricordato del “tempo potenziato”, dispositivo contrattuale previsto, esaltato e poi inattuato, tanto che non solo gli insegnanti più giovani, ma il fior fiore dei motori di ricerca lo confondono con l’organico di potenziamento. Per non parlare del “concorsone” di Luigi Berlinguer, che provocò una fortissima reazione della “categoria”, in quasi tutte le sue – variegate allora forse più di ora – componenti ideali e ideologiche, fino ad essere cancellato.
Potrei sbagliarmi, ma il mio reflusso professionale ha rigurgitato anche la figura del “docente senior”, che avrebbe riproposto nell’istruzione secondaria un modello qua e là usato in quella terziaria.
E poi ancora la vicenda della valutazione degli insegnanti in rapporto al riconoscimento di un presunto “merito” innescata dalla Legge 107 del 13 luglio 2015 e via via depotenziata con provvedimenti e accordi con i sindacati. Le forzature per la differenziazione delle carriere degli insegnanti con lo scopo di introdurre gerarchizzazione – insomma – sono un evento frequente e hanno un trend di fallimento, anche grottesco.

La seconda considerazione: l’istruzione pubblica è devastata da decenni dalla cultura e dalla pratica della competizione tra e all’interno delle scuole con bandi, concorsi, premi, riconoscimenti, percorsi di formazione riservati, certificazioni private e simili.
La pandemia e il distanziamento delle operazioni didattiche hanno reso definitiva la colonizzazione delle aule e delle menti da parte del capitalismo cibernetico, assurto a sfondo inevitabile, syllabus adattivo universale.
Segmenti della formazione sono nominalmente e strutturalmente subordinati al mercato del lavoro (ovvero alla mercificazione dell’attività umana) come approccio generale e come dato di contesto spazio-temporale. Ma, storicamente, gli insegnanti si accorgono dei rapporti concorrenziali fondati sull’utilitarismo solo quando ne sono colpiti in forma diretta; e individuale. E davvero pochi sembrano cogliere ora che l’obiettivo del “docente esperto” servirà soprattutto a costruire e validare un’altra filiera della cultura intesa come potere e sottopotere.

Del resto, anche i più fieri oppositori di questo e di altri provvedimenti analoghi soffrono – è la terza considerazione – di un grave limite: ritengono che il pensiero critico, anziché intenzione e posizionamento espliciti, sia il frutto di un percorso di istruzione curriculare, fondato sulle certezze dei saperi disciplinari. Una neutra e rassicurante “capacità di esaminare nuove informazioni e idee concorrenti in modo spassionato, logico e senza preconcetti emotivi o personali”, come lo definisce Tom Nichols.

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Non è un caso (siamo alla considerazione finale), del resto, che il dibattito sulla “professione-docente” sia e sia stato – salvo momenti ormai remoti e comunque irripetibili – intorno a un profilo esclusivamente individuale dell’insegnante, che incarna uno o più saperi, per alcuni anche quelli psico-pedagogici, in forma più o meno prevalente. A coloro che apprendono, fare la somma.
A mio fallibile giudizio, questo approccio non porta da nessuna parte. Andrebbe invece più che mai riconosciuta e valorizzata la dimensione politica di una scolarizzazione di massa e democratica, capace di muoversi in modo significativo nei meccanismi di interdipendenza e di crisi planetaria. Ed essa è in primo luogo responsabilità, azione e progetto collettivi, a dimensione sociale. Che quindi si incarna in un’istruzione che ha il compito di innescare, estendere in quantità, incrementare per qualità, garantire per consapevolezza e prolungare nel tempo capacità culturali e – appunto – sociali finalizzate allo sviluppo umano.
Ma questa, probabilmente, è utopia.