Divari territoriali, valutazione senza voti, bocciature

Stefaneldi Stefano Stefanel

In questa fase della scuola italiana, che coincide con l’avvio del PNRR, sulla scuola si stanno abbattendo alcuni dibattiti solo apparentemente distanti tra loro, che ruotano tutti attorno ad un’unica “ragione sociale”: selezionare o includere. Tutto quanto viene discusso, però, lo è in maniera un po’ convulsa e non sempre gli obiettivi del sistema sembrano essere chiari a tutti.

Per i così detti divari territoriali un congruo numero di scuole ha ricevuto complessivamente 500 milioni di euro dallo stato (circa 250.000 euro a scuola), con uno stanziamento comunicato a giugno, quasi come un fulmine a ciel sereno, visto che le scuole nulla avevano chiesto. Anche i parametri indicati dal Ministero, per decidere il finanziamento, hanno individuato situazioni di criticità non ritenute critiche da molte scuole e hanno fatto pervenire cospicui finanziamenti per sanare situazioni problematiche che alcune scuole non ritenevano di essere tali. In attesa delle Linee guide sull’argomento sono però già trascorsi quasi cinque mesi dall’invio della comunicazione e l’anno scolastico 2022/23 ha già percorso un tratto della sua strada. In questo clima e con il passaggio del ministero alla destra si sta sviluppando anche un dibattito sul voto numerico e la sua eliminazione, sul concetto di valutazione formativa in contrapposizione a quella sommativa. La valutazione attraverso voto numerico e il concetto stesso di bocciatura (ripetere nell’anno successivo tutto quello che si è fatto nell’anno precedente) vanno nella direzione di aumentare i divari territoriali e la dispersione e dunque un ragionamento sulla valutazione sta in stretto rapporto con gli elementi da introdurre per recuperare questi divari.

L’impostazione solo numerica della valutazione nella scuola secondaria italiana aiuta a combattere la dispersione o la genera? Su questa domanda sono sorte varie teorie ed opinioni, a partire da quelle che nasce nella scuola primaria a seguito della trasformazione della valutazione numerica in valutazione i obiettivi – e non di materie – attraverso livelli e non voti.

Un altro elemento interessante da analizzare è quello relativo alla possibilità che i divari territoriali si sanino con un maggior numero di bocciature e di studenti insufficienti, cioè se i 500 milioni di euro possano servire per mettere in sicurezza una parte degli studenti non curandosi degli altri. Questo potrebbe portare ad una sorta di corso di recupero generalizzato e di massa che supporti gli studenti che si collocano a vario titolo nell’ambito della dispersione, attraverso un tentativo generico di risollevare il sistema dell’istruzione con metodi tradizionali.

Tutto questo, però, ruota attorno all’idea che il numero sia l’unico modo per valutare e che le verifiche tradizionali (compiti in classe e interrogazioni) ancora svolgano la loro funzione pedagogica e formativa. Non credo che, in questa fase, sia utile addentrarsi troppo in considerazioni di pedagogia generale, perché alla fine il PNRR porterà a valutazione dei risultai raggiunti non da parte del sistema scolastico italiano, ma da parte dell’Unione Europea. Se i soldi spesi per recuperare i divari territoriali non li avranno recuperati ci sarà stato solo un travaso di risorse su venditori ed almanacchi per un tentativo (a quel punto non riuscito) di raggiungere l’obiettivo della diminuzione della dispersione. Non credo che questa sia una strada realisticamente percorribile. Non potrà restare tutto così com’è, questo almeno dovrebbe essere chiaro.

Allora resta solo la messa in atto di strumenti, strutture e didattiche che puntino a rafforzare gli elementi positivi degli studenti deboli, per far salire il rendimento generale attraverso una modifica strutturale della didattica di fascia bassa. Credo sia necessario cancellare dalla scuola italiana l’idea che possa esistere una scuola attraverso cui si forniscono conoscenze, abilità e competenze uguali per tutti gli studenti e che questi poi vengano sottoposti ad una semplice fotografia in cui alcuni hanno raggiunto risultati soddisfacenti e altri no, quasi che il ruolo dell’insegnante sia solo quello di trasmettere e misurare.

Un piano che vada a coprire i divari territoriali deve porsi dalla parte dei più deboli per vedere come può farli diventare più forti, partendo dall’idea preliminare che non sempre il più debole è in grado di mettere in campo strumenti personali e sociali utili a costituire una solida base di apprendimento. Detto in termini “western spaghetti” molto spesso il ragazzo debole, che studia poco, è disinteressato e demotivato non è “buono”, ma è proprio “brutto e cattivo”. Se, però, vogliamo eliminare i divari territoriali dobbiamo addentrarci tra i “brutti e cattivi” dove è difficile produrre grandi cambiamenti, ma può essere interessante cementare apprendimenti (anche tecnici e pratici e non solo teorici).

Nell’immediato la strada più semplice ed efficace mi pare quella che procede attraverso quattro passaggi:

  • analisi dei (pochi) punti di forza e dei (molti) punti di debolezza degli studenti deboli o in dispersione;
  • predisposizione di Piani di apprendimento personalizzati (quindi percorsi totalmente autonomi ed individuali, non un abbassamento dei livelli o degli obiettivi) che rafforzino i punti di forza e semplicemente presidino in forma essenziale i punti di debolezza
  • valutazione dell’anno scolastico centrata sui punti di forza e non sulla situazione generale dello studente
  • azione orientativa per l’uscita dal primo ciclo dell’istruzione o per l’uscita dal sistema dell’istruzione verso il mondo del lavoro.

Si tratta di agire su base sociale e pedagogica per avviare lente modifiche in parti complesse del sistema, con l’idea che il cambiamento della didattica impone un’idea pedagogica e non disciplinare di apprendimento. Su questo, però, le associazioni culturali e professionali sono chiare: oltre un certo limite non si può e non si deve scendere, perché altrimenti non si insegna più la disciplina, ma si fanno azioni pedagogiche e formative generiche. Ecco che allora diventa necessario verificare con attenzione se tutto quello che si insegna nella scuola secondaria deve essere necessariamente imparato da tutti: perché se è così quelli che impareranno tutto diminuiranno sempre di più e quelli che impareranno poco o niente aumenteranno sempre di più.

Parafrasando potremmo dire “che cento latini fioriscano, che cento matematiche gareggiano”, cioè che si vada verso la didattica di discipline che raggiungono una parte di popolazione in maniera profonda e approfondita e una parte di popolazione semplicemente con una infarinatura culturale. Nella vita degli adolescenti e dei ragazzi si deve fare strada un rispetto per il generalismo e al tempo stesso una possibile apertura verso il disciplinare di medio e alto livello. Proviamo a declinare un paio di domande e un paio di risposte:

  • quante matematiche si devono sviluppare in una classe dunque?
  • quante servono
  • quante matematiche sono possibili?
  • infinite

Tutto questo è possibile? Con il Piano Rigenerazione scuola, il PNRR- Futura, il Piano Nazionale Scuola Digitale sì, ma per farlo bisogna rispettare il passato, non trattarlo da presente, perché non c’è più. Quindi le scuole davanti al problema di come ridurre i divari territoriali dovranno scegliere se prendere la strada della pedagogia o quella delle discipline. Davanti all’obiezione: come si può fare pedagogia senza discipline? la risposta è molto semplice: la pedagogia è pedagogia di discipline, ma le precede, non può semplicemente essere uno stratagemma per definire il concetto di recupero.

Qui sta l’elemento più difficile da progettare e attivare: slegare il concetto di corso o attività di recupero a quello di azione per il recupero dei divari territoriali. I divari sono una cosa seria, il recupero fatto dalle nostre scuole spesso non lo è. E non lo è non per carenza di mezzi, impegno, passione, interesse per gli alunni, ma per carenza di pedagogia, quasi che un argomento spiegato al pomeriggio diventi più semplice da comprendere dello stesso argomento spiegato al mattino. Qui forse è il caso di entrare nel merito del concetto di “spiegato”. Spiegare vuol dire ampliare, cioè collocare la meta-conoscenza (spiegazione) sulla conoscenza, quasi che la seconda sia per sua natura più semplice e comprensibile della prima. Quindi lo spiegare amplia e produce i risultati che tutti consociamo: ottimi su alcuni alunni, medi o mediocri su altri, pessimi su una parte sempre crescente di alunni. Agire pedagogicamente significa saper scegliere e selezionare cosa “spiegare” cosa “piegare”, cioè cosa trasmettere per sintesi e cosa per estensione, cosa è essenziale e cosa non lo è, cosa serve a chi tende al massimo e cosa serve a chi non tende da nessuna parte.

Credo che le scuole farebbero bene a lavorare in rete e a costruire solidi team progettuali con la consulenza di esperti esterni in linea con il progetto della scuola. Serve, penso, un po’ di umiltà e capire che chi è finito in un divario territoriale farà bene a non cercare di chi è la colpa (la scuola tende comunque a dire degli studenti che non studiano come si deve, delle famiglie che non fanno più il loro dovere, del digitale imperante), ma a capire con chi allearsi.

Concludo indicando il luogo dove trovare la linea per comprendere come eliminare i divari territoriali, l’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030: “Obiettivo 4: Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.  In questa splendida definizione non c’è la parola uguaglianza (che piace tanto alla nostra scuola a livello di enunciazione ma non di fatti) ma ci sono altre parole chiave:

  • Educazione di Qualità (don Lorenzo Milani: “non c’è ingiustizia più grande che far parti uguali tra diversi”)
  • Educazione Equa (il Maestro Antonio Manzi: “quello che può fa, quello che non può non fa”)
  • Educazione Inclusiva (Edgar Morin: “servono teste ben fatte, non teste ben piene”)
  • Opportunità di apprendimento per tutti (John Dewey: “Una società consiste di un certo numero di individui tenuti insieme dal fatto di lavorare in una stessa direzione in uno spirito comune, e di perseguire mire comuni “).

 




L’articolo 34 della Costituzione: una cornice imprescindibile per parlare di merito

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Simonetta Fasoli

Ogni discussione sul merito, comunque la si argomenti, deve fare i conti con l’articolo 34, che va letto come un unico e coerente disegno politico-istituzionale.
Il comma 1 inserisce il concetto dentro l’ambito dell’universalismo dei diritti (quel “tutti” è perentorio, tanto che va oltre il perimetro stesso della cittadinanza come requisito giuridico-formale).
Il comma 2 traduce l’universalità del diritto, determinandone la portata e i termini attuativi fin dentro gli ordinamenti del sistema di istruzione e educazione.
Il comma 3 ne fa un criterio ordinatore di contrasto alle diseguaglianze socioeconomiche matrici di iniquità sociale (quel “anche se privi di mezzi”).

L’insieme del contesto, dunque, vieta ogni deriva meritocratica al concetto di merito.

Per “meritocrazia” intendo l’uso strumentale del “merito” per stabilire o consolidare gerarchie sociali e di potere, che riportano la dinamica sociale dentro l’orizzonte di una società elitaria: basata sul censo, sul privilegio della nascita, sulla cultura che da “bene comune” si trasforma in fattore di discriminazione e in patrimonio da tramandare nel perimetro escludente della stessa classe sociale.
Se tutto questo è vero, e se una ri-contestualizzazione del dettato costituzionale è possibile, o addirittura auspicabile, ne farei discendere i seguenti corollari.
1) tutti sono “meritevoli”: di attenzione, riconoscimento, supporto attivo nei percorsi di crescita e di educazione.
2) nessuno de-merita, nel senso suindicato.
3) de-merita, invece, il sistema educativo di istruzione e formazione che, preordinato per mandato costituzionale al compito di attenzione, riconoscimento, supporto attivo, viene meno alla propria funzione.

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Trasformare l’istruzione, costruire il nostro futuro

di Aluisi Tosolini

Il vertice delle Nazioni Unite Transforming Education è stato convocato in risposta a una crisi globale dell’istruzione, che riguarda l’equità e l’inclusione, la qualità e la pertinenza. Spesso lenta e invisibile, questa crisi sta avendo un impatto devastante sul futuro dei bambini e dei giovani di tutto il mondo allontanando il raggiungimento dell’obiettivo 4 dei “Goals per lo sviluppo sostenibile” (SDG 4).

Il Vertice offre un’opportunità unica per portare l’istruzione in cima all’agenda politica globale e per mobilitare l’azione, l’ambizione, la solidarietà e le soluzioni per recuperare le perdite di apprendimento legate alla pandemia e gettare i semi per trasformare l’istruzione in un mondo in rapida evoluzione.
Il vertice è nato anche sulla spinta del lavoro della commissione  International Commission for the future of education dell’Unesco che nel novembre 2021 ha pubblicato un fondamentale rapporto dal titolo “Reimagining our futures together: A new social contract for education” .

La discussione del vertice è stata ampiamente preparata nel corso dei mesi passati grazie al lavoro svolto su 5 Action track, ovvero cinque percorsi tematici e tracce d’azione

Gli Action Track cercano di mobilitare nuovi impegni, mettendo in evidenza gli interventi politici che funzionano e sfruttando le iniziative e le partnership esistenti, comprese quelle emerse in risposta alla pandemia di COVID-19.

Vediamo analiticamente i 5 action track riprendendone la descrizione dal sito del summit

Action Track 1: Scuole inclusive, eque, sicure e sane

L’istruzione è in crisi. La povertà, l’esclusione e la disuguaglianza di genere continuano a impedire a milioni di persone di apprendere. In aggiunta a ciò, il COVID-19 ha messo in luce le disuguaglianze nell’accesso e nella qualità dell’istruzione. Inoltre, sono aumentati la violenza, i conflitti armati, i disastri e l’inversione dei diritti delle donne.

L’educazione inclusiva e trasformativa serve a garantire che tutti gli studenti abbiano pieno accesso e prendano parte all’istruzione. Che gli studenti siano sani e salvi, liberi da violenza e discriminazione.

Problemi chiave

  • Inclusione ed equità
  • Educazione trasformativa di genere
  • Scuole sicure
  • Salute e alimentazione scolastica
  • Educazione nelle emergenze e nelle crisi prolungate

Action Track 2: Apprendimento e competenze per la vita, il lavoro e lo sviluppo sostenibile 

C’è una crisi nell’apprendimento di base. Mancano competenze di alfabetizzazione e calcolo tra i giovani studenti. Nel 2020, oltre 770 milioni di persone non avevano competenze di alfabetizzazione di base. Due terzi dei quali erano donne.

Trasformare l’istruzione significa conferire agli studenti conoscenze, abilità e valori. Costruire atteggiamenti per essere resilienti, adattabili e preparati per il futuro incerto. Contribuire al benessere umano e planetario e allo sviluppo sostenibile.

Problemi chiave

  • Apprendimento fondamentale (dalla prospettiva dell’apprendimento permanente)
  • Competenze per l’occupazione e l’imprenditorialità
  • Educazione allo sviluppo sostenibile compresa l’educazione ambientale

Action Track 3: Insegnanti e professione docente

Gli insegnanti sono essenziali per raggiungere i risultati dell’apprendimento e per raggiungere l’SDG 4. Ma l’istruzione deve far fronte a carenza di personale, mancanza di opportunità di sviluppo professionale e basso status.

Accelerare il progresso verso l’SDG 4 e trasformare l’istruzione richiede un numero adeguato di professionisti. Insegnanti e personale educativo formati, motivati e supportati. Per raggiungere questo obiettivo, l’istruzione ha bisogno di finanziamenti e politiche forti.

Problemi chiave

  • Carenze di insegnanti
  • Sviluppo professionale iniziale e continuo – pedagogie
  • Condizione professionale e condizioni di lavoro
  • Leadership educativa, innovazione

Action Track 4: apprendimento e trasformazione digitale

La crisi del COVID-19 ha portato innovazioni senza precedenti nell’apprendimento a distanza sfruttando le tecnologie digitali. Allo stesso tempo, i divari digitali hanno escluso molti dall’apprendimento. Più di due terzi degli studenti in età scolare (1.3 miliardi di bambini) non avevano accesso a Internet da casa. Queste disuguaglianze nell’accesso hanno fatto sì che alcuni gruppi, come giovani donne e ragazze, fossero esclusi dalle opportunità di apprendimento.

La trasformazione digitale richiede lo sfruttamento della tecnologia come parte di sforzi sistemici più ampi. Rendere la tecnologia più inclusiva, equa, efficace, pertinente e sostenibile.

Problemi chiave

  • Trasformazione digitale dei sistemi educativi
  • Connettività/riduzione del divario digitale; tecnologie inclusive/assistenziali
  • Contenuti di formazione digitale gratuiti, aperti e di alta qualità
  • Cittadinanza digitale, benessere, privacy e sicurezza

Action Track 5: finanziamento dell’istruzione

La spesa globale per l’istruzione è cresciuta, ma è ostacolata dall’elevata crescita della popolazione. La gestione dell’istruzione durante la pandemia di COVID-19 e la riduzione degli aiuti ha lasciato l’istruzione con un grave divario finanziario.

In questo contesto, il primo passo verso la trasformazione è esortare i finanziatori a reindirizzare le risorse all’istruzione per colmare il divario di finanziamento. In seguito, i paesi devono disporre di finanziamenti maggiori e sostenibili per raggiungere l’SDG 4. Queste risorse devono essere allocate e monitorate in modo equo ed efficace.

Affrontare le lacune nel finanziamento dell’istruzione richiede una politica in:

  • Mobilitare più risorse, soprattutto domestiche
  • Aumentare l’efficienza e l’equità degli stanziamenti e delle spese
  • Miglioramento dei dati sul finanziamento dell’istruzione

La determinazione di quali aree devono essere finanziate e come sarà informata dalle raccomandazioni di ciascuno degli altri quattro binari.

Problemi chiave

  • Finanziamenti adeguati e sostenibili adeguati alle esigenze del Paese
  • Equità ed efficienza della spesa per l’istruzione

The Youth Declaration on trasforming education

Uno dei documenti chiave presentati al Summit è la Dichiarazione dei giovani presentata come contributo dei giovani alla Sintesi della presidenza del Vertice sulla trasformazione dell’istruzione.
L’obiettivo della dichiarazione è quello di stimolare l’impegno politico sulla necessità di trasformare l’istruzione e di far sì che i giovani si approprino di questo processo.
La dichiarazione (disponibile in inglese al seguente link ) è costituita da un preambolo, 25 richieste specifiche ai decisori politici, e cinque impegni che i giovani assumono direttamente e che chiudono il documento.
Ne riportiamo qui la traduzione (effettuata automaticamente con DeepL)

Guidati dai principi, dagli scopi e dalle richieste di cui sopra, noi – i giovani del mondo – ci impegniamo a:

  1. Continuare a essere solidali con tutti i giovani in tutto il mondo e in tutta la loro diversità, in particolare con le giovani donne e le ragazze, i giovani LGBTIQ+, i giovani con disabilità, i giovani rifugiati e migranti, i giovani indigeni e altri gruppi vulnerabili ed emarginati, per trasformare l’istruzione;
  2. Continuare a sostenere la trasformazione dell’istruzione individualmente e collettivamente attraverso movimenti sociali, organizzazioni della società civile, soluzioni guidate dai giovani e altro ancora;
  3. Continuare a ritenere i responsabili delle decisioni, in particolare gli Stati membri, responsabili durante l’intero processo di progettazione, esecuzione, consegna, monitoraggio e valutazione delle richieste di cui sopra, assicurando che i nostri quadri di responsabilità siano trasformativi dal punto di vista del genere;
  4. Lanciare un piano d’azione coordinato dalla Rete dei Giovani SDG4 per portare avanti le suddette richieste oltre il Vertice, mobilitare le parti interessate per continuare a far crescere un movimento globale per la trasformazione dell’istruzione e dotare i giovani delle competenze necessarie per sostenere un’istruzione di qualità sia a livello locale che globale;
  5. Promuovere il dialogo e la cooperazione intergenerazionale, interculturale e interreligiosa nei sistemi educativi di tutte le comunità, paesi e regioni per creare un mondo migliore costruito sulla solidarietà, la diversità, l’empatia, la comprensione reciproca e il rispetto.

Link al documento: https://www.un.org/sites/un2.un.org/files/2022/09/tes_youthdeclaration_en.pdf




L’alternanza Scuola-lavoro e il binomio Capire/Riuscire

di Cinzia Mion

Rispetto alla problematica che sta focalizzando l’attenzione delle scuole secondarie di secondo grado in questi ultimi tempi, io penso che- per capire fino in fondo l’opportunità di sostenere, con i dovuti aggiustamenti da ambo le parti, l’autentica connessione tra scuola e lavoro- bisogna rendere plasticamente accessibile il CAPIRE  insieme al RIUSCIRE, intrecciando perciò sempre queste due dimensioni, rendendole quasi simultanee o comunque “contemporanee”.

Per poter tentare di rendere più chiaro il mio pensiero devo fare riferimento all’intelligenza connettiva, termine coniato da Derrick de Kerchove. Il  noto pensatore allude con questa espressione alla connessione digitale di vari soggetti che pensano, si esprimono e condividono insieme un sapere diffuso. Essi mantengono le varie individualità ed anche le differenze, essendo però in grado di costruire una comunità di conoscenza. De Kerchove però non prende in considerazione la declinazione di Gardner delle intelligenze personali, che si articolano in interpersonale ma anche in intrapersonale: egli focalizza infatti soltanto quella interpersonale tanto è vero che, secondo Nicholas Carr, sottovaluta l’influenza negativa della digitalizzazione sulla nostra intelligenza connettiva intrapersonale. Carr infatti lamenta che la digitalizzazione depotenzia il pensiero critico e riflessivo, che ci permette di creare autonomamente le connessioni mentali, in cambio di un click che “connette” al posto nostro.

Io allora intendo fare riferimento con questo mio contributo proprio alle connessioni mentali non soltanto interpersonali ma anche intrapersonali, che si mettono in moto quando un soggetto cerca di creare legami, correlazioni  tra i dati a disposizione, anche se a prima vista questi possono apparire sconnessi.

L’intelligenza connettiva, sia personale che collettiva, allora, si sviluppa perché il nostro cervello funziona organizzando il sapere attraverso la ricerca di analogie e differenze, sviluppando competenze essenziali di elaborazione e riflessività. Il pensare autentico consiste in fondo nel creare nessi e relazioni tra i dati, gli elementi, le esperienze, vale a dire la pratica illuminata dalla teoria, e la teoria dalla pratica, per ricondurre il discorso al tema di apertura.                                                                                                                                                  Il filo rosso allora che intendo afferrare è quello dato dal binomio Capire/Riuscire, e viceversa, partendo da alcune riflessioni dei grandi pensatori del secolo scorso. Se Piaget infatti aveva superinvestito il termine capire di energia speculativa, tanto da pretendere che nel capire fosse inclusa la competenza dello spiegare, Bruner invece connotava il capire da una forza conoscitiva tesa al comprendere profondamente. Per questo motivo egli avrebbe suggerito a Piaget di sollecitare la “verbalizzazione durante l’azione” in riferimento, per esempio, ai suoi esperimenti sulla conservazione, individuando nel linguaggio, che “narra” l’azione, la chiave di volta per catturare il processo mentale congruente. Riassumendo: l’azione riconducibile al RIUSCIRE, descritta attraverso la narrazione, fa scaturire la mentalizzazione del CAPIRE.                            Bruner azzarda che in questo modo gli esiti degli esperimenti piagetiani sarebbero stati ben diversi.

D’altro canto il paradigma culturale della complessità, come ci insegna Edgar Morin, ci induce a coniugare logiche diverse, anche contrapposte. Siamo noi, con le nostre radici culturali immerse nel paradigma della linearità, che obbedisce alla logica binaria (o vero o falso, o capire o riuscire,ecc.) che facciamo fatica ad attivare l’operazione logica della “coniugazione”. Teniamo però presente che i ragazzi che occupano le nostre aule oggi  abiteranno domani una cultura ancora più complessa.

Anche il metodo “dell’apprendistato cognitivo”, impregnato di didattica vigotskiana, descritto molto bene nella raccolta “I contesti sociali dell’apprendimento” a cura di C.Pontecorvo, A.M.Ajello, C.Zucchermaglio, offre un esempio incomparabile di riuscire-capendo ma anche di capire-riuscendo. Il riferimento, per quanto attiene la competenza della comprensione del testo scritto, trasversale ed essenziale per ogni disciplina, è  alle ricerche di  Brown e Palincsar che utilizzano l’insegnamento reciproco insieme all’espediente di pensare a voce alta. La strategia infatti descritta dagli autori suddetti utilizza le quattro fasi vigotskiane dell’apprendistato tradizionale (modellamento, assistenza, sostegno, progressiva diminuzione dell’aiuto) ma le  rielabora ponendo l’enfasi sui processi cognitivi e metacognitivi che, attraverso appunto la funzione del pensiero a voce alta, non rimangono taciti e nascosti nella mente del docente, dotato di expertise, ma vengono messi a disposizione dell’allievo apprendista.

Scorrendo l’indice del testo in questione troviamo inoltre il saggio interessante della Resnick “Imparare dentro e fuori alla scuola”. Dice la Resnick: Ho identificato quattro tipi generali di discontinuità tra l’apprendimento a scuola e la natura dell’attività cognitiva fuori della scuola. In breve, la scuola si concentra sulla prestazione individuale, mentre il lavoro mentale all’esterno è spesso condiviso socialmente. La scuola è finalizzata a incoraggiare il pensiero privo di supporti, mentre il lavoro mentale fuori della scuola include abitualmente strumenti cognitivi. La scuola coltiva il pensiero simbolico, laddove l’attività mentale fuori della scuola è direttamente coinvolta con oggetti e situazioni. Infine la scuola ha il fine di insegnare capacità e conoscenze generali, mentre all’esterno dominano le competenze specifiche per la situazione”.

La prima osservazione da fare è che se la scuola utilizzasse più spesso attività laboratoriali e progettasse, insegnasse e valutasse “competenze”, e non solo conoscenze generali e capacità, già si avvicinerebbe a colmare il  gap tra apprendimento a scuola e fuori dalla scuola.

Se poi, come affermavo più sopra, a scuola si utilizzassero metodi come l’apprendistato cognitivo, allora si può pensare che la preparazione a trarre beneficio mentale ed operativo dall’alternanza scuola-lavoro, diventerebbe più accessibile ed efficace. Nell’apprendistato cognitivo infatti l’autoefficacia che sperimenta l’allievo nel cimentarsi attraverso l’imitazione nel compito sollecitato, dopo aver assimilato i processi riportati, corrisponde al passaggio dialettico tra CAPIRE/RIUSCIRE.  Bisognerebbe che anche nell’esperienza  lavorativa gli studenti venissero accompagnati da un tutor, formato ad hoc, vale a dire in grado di sollecitare la riflessione sull’esperienza, man mano che questa viene affrontata, rielaborata, ne viene colto il senso, viene collegata con i saperi già acquisiti e con altri di cui eventualmente si avverta la necessità di approfondimento.

Anche nell’acquisizione della competenza le Indicazioni per la scuola dell’infanzia chiedono “la riflessione sull’esperienza” come modalità paradigmatica dell’avviamento di tutte le competenze in genere, su cui poi dovrà avvenire l’attività dell’allenamento. Che cos’è questo se non riuscire/capire?

Il nostro sistema scolastico è sempre stato caratterizzato da una grave scissione: da una parte la scuola del capire, i licei, dall’altra quella del riuscire, gli istituti tecnici e quelli professionali. Secondo me l’obbligo di organizzare l’alternanza scuola-lavoro in tutti gli ordini di scuola secondaria di secondo grado va nella direzione di attenuare questa scissione a tutto vantaggio dell’apprendimento e della formazione delle nuove generazioni e della sfida che si sta parando davanti alla scuola. Sfida che il nostro sistema scuola, organizzato intorno alle conoscenze ed alla lezione trasmissiva, fa fatica ad accettare, rischiando di non tenere il passo con i tempi e di non assumere in debita considerazione i nuovi bisogni formativi dei nostri giovani.

Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi?,Cortina, 2011
De Kerckhove DerricK, La rete ci renderà stupidi?, Castelvecchi, 2016
Pontecorvo C.,Ajello A.M.,Zucchermaglio C.(a cura di), I contesti sociali dell’apprendimento,LED, Milano, 1995




PNRR e innovazione del lavoro: una falsa partenza

di Pietro Calascibetta

Parliamo di carriera o di lavoro? Una premessa necessaria a proposito del “docente esperto”.

L’ istituzione della figura del “docente esperto” con il “Decreto Aiuti bis” [1] è stata interpretata come l’introduzione di una carriera per i docenti e ha innescato subito un’accesa discussione.

Franco De Anna nel webinar del 17 agosto promosso da “Gessetti Colorati”[2] ci ha fatto notare che la disposizione, anche se inserita in modo inusuale in un decreto di tutt’altro tema, è frutto della Legge n. 79 del giugno 2022 che definisce la cornice di alcune delle azioni previste dal PNRR tra cui quelle relative all’istruzione ed è su questo che bisogna porre l’attenzione.

Osservando meglio la premessa della parte che riguarda l’istruzione e i rimandi normativi si scopre infatti  che l’art.38 del Decreto Aiuti e la Legge 79 in realtà dovrebbero essere finalizzati a dare una risposta nell’ambito della pubblica istruzione alla richieste della UE di avviare con il Recovery Plan italiano un processo pluriennale “ di innovazione del lavoro pubblico[3] con l’obiettivo di riqualificare la pubblica amministrazione migliorando la professionalità dei suoi dipendenti.

Se le cose stanno veramente così, piuttosto che discutere della carriera sarebbe più interessante e utile interrogarsi sulle valenze e sull’efficacia dei provvedimenti nel poter effettivamente raggiungere l’obiettivo di innovare il lavoro nella scuola come richiesto dalla UE e dare ad esso la dignità che merita e quali proposte fare per aggiustare il tiro di un provvedimento in essere che presenta già prima di essere applicato molte ambiguità in modo che non diventi l’ennesima occasione sprecata per affrontare la questione del lavoro nella scuola.

Un quadro normativo contraddittorio

Da quanto si legge la modalità scelta per innovare il lavoro nella scuola è stata l’introduzione di un “ sistema di formazione e aggiornamento permanente delle figure di sistema[4] , individuate nei “docenti con incarichi di collaborazione a supporto del sistema organizzativo dell’istituzione scolastica e della dirigenza scolastica[5] e più genericamente dei docenti di ruolo “articolato in percorsi di durata almeno triennale” e gestito dalla “ Scuola di alta formazione dell’istruzione[6] istituita contestualmente.

La norma precisa che l’attività di formazione e aggiornamento ha come obiettivo “promuovere e sostenere processi di innovazione didattica e organizzativa della scuola, rafforzare l’autonomia scolastica e promuovere lo sviluppo delle figure professionali di supporto all’autonomia scolastica e al lavoro didattico e collegiale[7]

Fin qui tutto bene. Sembrava proprio da queste premesse che tale formazione supplementare dovesse distinguersi da quella obbligatoria per tutti i docenti di ruolo già prevista dall’ articolo 1, comma 124 della “Buona scuola” e che fosse finalizzata a quella formazione appunto aggiuntiva e specifica dedicata a chi avesse voluto o dovuto per ragioni di servizio occuparsi di qualcosa di più e di diverso dal solo insegnare come è d’obbligo per tutti i docenti.

A prima vista sembrava che fosse l’innovazione si fondasse  su  una differenziazione tra i docenti non basata sulla “bravura” o l’anzianità, bensì basata da una parte sull’acquisizione e il rafforzamento di competenze addizionali per compiti particolari rispetto all’insegnare e al progettare la propria lezione d’aula, dall’altra sulle mansioni effettivamente svolte nell’organizzazione scolastica oltre la docenza.

A questa apertura iniziale non è corrisposta però nell’articolazione successiva della norma, una esplicita e chiara definizione di percorsi formativi specificatamente attribuibili alle figure di sistema attualmente presenti in tutte le scuole, né di percorsi per quei docenti che si offriranno volontari, prefigurandone un ruolo di supporto nell’organigramma di un istituto attraverso una formazione specifica, magari come “agenti di cambiamento” nei collegi o nei gruppi o come psicopedagogisti , o altro.

Le indicazioni dei percorsi di formazione sono invece deludenti e oltremodo generiche trattando di  “attività di progettazione, tutoraggio, accompagnamento e guida allo sviluppo delle potenzialità degli studenti, volte a favorire il raggiungimento di obiettivi scolastici specifici e attività di sperimentazione di nuove modalità didattiche”. Tutto e niente. La solita demagogia dell’indicare con roboanti espressioni come novità ciò che non è tale, facendo sfumare così la possibilità di uno “sviluppo delle figure professionali”   come reale, anche se parziale,   elemento di innovazione nel lavoro dei docenti.

[1] DL 9 agosto 2022, n. 115, art. 38
[2] L’intervento si può ascoltare  in: https://www.youtube.com/watch?v=n4UuYFbiC_4
[3] DL n. 36 del 30 aprile 2022  “Misure   per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Convertito con la Legge  n. 79 del  29 giugno 2022.
[4] Ivi, Art. 16 ter comma 1
[5] Ivi, Art.16 ter comma 3
[6] Ivi. Art. 16 bis
[7] Ivi, Art. 16ter comma 3

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Docente esperto: una scheda di sintesi

di Evelina Chiocca
(Coordinamento italiano insegnanti di sostegno)

Si leggono tanti commenti, si scrivono tante parole.
Direi di “leggere la norma” e di attingere direttamente alla fonte, ovvero dall’art. 38 del decreto-legge 115/2022 che, ricordo, è entrato in vigore il 10 agosto 2022.

Dopo la reazione negativa da parte dei docenti (e non solo) che, anche attraverso i social, hanno fatto pervenire il loro dissenso, le forze politiche, che hanno approvato il decreto-legge, si sono spese nell’affermarsi “non d’accordo con l’introduzione del docente esperto”, ribadendo l’impegno a stralciare il relativo articolo.
Ma se si afferma la volontà di stralciare la parte relativa al “docente esperto”, perché poi lo troviamo pubblicato in Gazzetta Ufficiale?
Mistero!

MA CHI È IL “DOCENTE ESPERTO”? Quali saranno i compiti che attribuiti? E i benefici? E quale giovamento porterà al sistema scuola?
Nella scheda qui pubblicata potete vedere, in sintesi, ciò che è scritto nella norma (che vi invito a leggere direttamente in Gazzetta Ufficiale)

 




Non sparate a zero sul Docente Esperto

di Giovanni Fioravanti

Si conosce poco circa il docente esperto spuntato durante la calura estiva tra le norme del decreto Aiuti bis. Si sa che saranno in tutto ottomila per quattro anni, per un totale di trentaduemila, che per diventare esperti occorre studiare per dieci anni e che al termine del percorso si riceverà un aumento stipendiale pensionabile. Pare che non sarà una nuova figura di sistema perché continuerà a esercitare la sua funzione docente.

La reazione del mondo della scuola a leggere petizioni, stampa e social è senza alcun dubbio di generale rigetto rispetto al trapianto che sembrerebbe nelle intenzioni del ministero, per cui non si comprende come sia possibile produrre un rinnovamento, se tale era nelle intenzioni governative, senza il coinvolgimento dei diretti interessati, vale a dire gli insegnanti.

Compulsando internet ho scoperto che l’idea del docente esperto non è nuova, qualcuno ci ha già pensato da tempo e siccome ormai nulla è novità, se non assume un brand anglosassone, si tratta dei corsi di formazione e-learning con esame in presenza per  acquisire la qualifica di Expert Teacher organizzati dall’Erickson in collaborazione con la IUL, Università Telematica  degli Studi, e con l’ANPA, associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola.

In cuor mio confidavo che ci fosse un nesso tra l’iniziativa del Ministro e l’offerta dell’Erickson, un nesso che avrebbe aiutato a fornire un senso all’evanescente figura scaturita dal decreto Aiuti bis. Non pensavo a nulla che non fosse più che legittimo e trasparente, ma evidentemente, indubbiamente per causa mia, ho suscitato con un mio articolo la sensibilità degli ideatori e dei promotori dell’Expert Teacher, della qualcosa mi dolgo pubblicamente.

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Tuttavia di fronte all’alzo zero con il quale pare sarà impallinata la proposta del docente esperto mi rimangono aperti tutti i miei interrogativi.

Siamo tutti convinti che il nostro sistema scolastico necessita di una rifondazione radicale?
Che il differenziale fra noi e gli altri Paesi è cresciuto anche perché non abbiamo saputo pensare al nostro sistema scolastico in termini moderni, un sistema scolastico che accusa una crisi profonda nei suoi moduli organizzativi, nelle sue strutture organizzative, nella formazione dei suoi docenti.
Che la scuola è una grande questione nazionale che deve essere affrontata con grandissima lungimiranza e fortissimo impegno, perché un paese e una comunità vivono del futuro che sanno preparare ai loro giovani, ragazze e ragazzi.

L’ultimo rapporto dell’Unesco sollecita un nuovo contratto sociale per l’istruzione al cui centro siano gli insegnanti e la loro professione rivalutata e reimmaginata come uno sforzo collaborativo che stimola nuove conoscenze per realizzare una trasformazione educativa e sociale. Gli insegnanti hanno un ruolo unico da svolgere nella costruzione di un nuovo contratto sociale per l’istruzione. Per svolgere questo lavoro complesso, gli insegnanti hanno senza dubbio bisogno di comunità di insegnamento collaborative ricche, caratterizzate da ampi spazi di autonomia e da un generale sostegno. Sostenere l’autonomia, lo sviluppo e la collaborazione degli insegnanti è un’importante espressione di solidarietà pubblica per il futuro dell’istruzione.

Quando gli insegnanti sono riconosciuti come professionisti riflessivi e produttori di conoscenza, contribuiscono alla crescita dei corpi di conoscenza necessari per trasformare gli ambienti di apprendimento, le politiche, la ricerca e la pratica, all’interno e al di fuori della loro stessa professione.

Ma come incamminarsi verso tutto questo, che richiede tempo, pazienza, lungimiranza, investimenti nelle risorse umane?
Non sono certo sufficienti le petizioni di principio, le dichiarazioni di intenti, né le elucubrazioni sulla scuola che ognuno  vorrebbe.
Occorre scegliere, occorre scommettere, come sempre nella scuola.
Occorre decidere contro le resistenze al cambiamento dall’interno, e pure dall’esterno,  contro chi invoca il passato e accusa di tutti i mali il progressismo educativo.
Bisogna decidere sapendo che la chiave del cambiamento sono gli insegnanti, coloro che ogni giorno lavorano nel rumore d’aula, che su di loro bisogna puntare e investire. Sapendo che non possiamo convincerli tutti e coinvolgerli tutti contemporaneamente, i mezzi al momento non ci sono e vanno rispettate le opinioni di ciascuno. Ma l’interesse della Scuola e del Paese, in particolare delle giovani generazioni, deve prevalere su ogni corporativismo e immobilismo.

Se la strategia è quella di intervenire sul versante della formazione e del reclutamento da un lato e dall’altro sulla riqualificazione di quote di personale in servizio, non mi sembra una strategia sbagliata e ritengo che valga la pena impegnarsi in questa direzione.

Si avvierà  così un processo di innovazione dall’interno della scuola attraverso il ricambio di personale per via dell’avvicendamento tra i docenti che vanno in pensione e i neo assunti che avranno ricevuto una nuova formazione e quelli in servizio che nel frattempo avranno compiuto il percorso per essere riconosciuti come docenti esperti.

Da tutto questo si evincono due piani di intervento per riqualificare il nostro sistema formativo facendo leva sull’unica leva credibile: il coinvolgimento degli insegnanti, perché solo da loro dipende il destino del nostro sistema formativo.
Intervenendo sui due fronti è credibile pensare che nel giro di dieci anni si possa realizzare già un profondo rinnovamento e una autentica riqualificazione della nostra scuola con un’efficacia e una capacità di centrare l’obiettivo che nessuna riforma del sistema potrebbe assicurare, starà poi alla politica accompagnare tempestivamente con lo strumento delle leggi le innovazioni che si produrranno nella nostra scuola per effetto del processo di riqualificazione del personale docente.

È indispensabile che questo processo veda il coinvolgimento e il protagonismo di altri soggetti irrinunciabili per la formazione dei docenti e il rinnovamento del nostro sistema formativo, dalle Università all’Indire, alle Avanguardie educative, all’associazionismo professionale degli insegnanti, ai centri studi e alle case editrici qualificate sul piano della didattica e della formazione professionale dei docenti. Un lavoro corale capace di far suonare le corde migliori del nostro sistema scolastico e dei nostri insegnanti.