Concorso ispettivo: legulei ed esperti di contabilità dovranno accertare competenze socio-pedagogiche

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Mario Maviglia

A breve (la locuzione avverbiale “breve” nel lessico della burocrazia ministeriale ha un significato del tutto diverso dal linguaggio comune degli umani…) dovrebbe essere emanato il bando di concorso per l’assunzione a tempo indeterminato di 145 dirigenti tecnici con funzioni ispettive del Ministero dell’istruzione e del merito. Data la rarefazione di questo evento (paragonabile, nel nostro sistema politico-istituzionale, alla nomina, ogni sette anni, del Presidente della Repubblica…), l’attesa è quanto mai spasmodica, e infatti molti studi legali si stanno già organizzando per assistere efficacemente i candidati che verranno “bocciati” nell’inevitabile contenzioso che ne scaturirà.

Tutti si augurano, ovviamente, che le cose si svolgano nelle forme più regolari possibili per evitare ricorsi e contenziosi vari, ma siamo in Italia, patria del diritto, e insomma un contenzioso non lo si nega a nessuno.

C’è un aspetto che però i vari legulei forse non considereranno abbastanza nelle loro azioni legali (non si chiede alcun compenso per il suggerimento che ne facciamo qui…) e riguarda la correlazione (match, direbbero gli anglofoni) tra le competenze richieste per svolgere la funzione tecnico-ispettiva (per come si evince dalla bozza di Schema di Regolamento che il MIM ha trasmesso al CSPI per il previsto parere) e la composizione della Commissione giudicatrice del concorso (sempre secondo quanto previsto dallo Schema di Regolamento). Infatti, se si analizzano le competenze richieste ai candidati dirigenti tecnici, troviamo sei settori di competenze molto ben strutturati sul piano tecnico-professionale e che fanno riferimento essenzialmente ad ambiti di tipo socio-psico-pedagogico: a) competenze in ambito educativo, pedagogico e didattico; b) competenze finalizzate al sostegno, alla progettazione e al supporto dei processi formativi; c) competenze finalizzate a supportare il processo di valutazione e di autovalutazione delle istituzioni scolastiche; d) competenze – sotto il profilo tecnico-scientifico – nelle attività di analisi, studio, ricerca sui processi educativi nazionali e internazionali a supporto dell’Amministrazione; e) competenze nell’ambito degli accertamenti ispettivi, con particolare riferimento agli aspetti didattici, organizzativi, contabili e amministrativi, anche nell’ambito del monitoraggio, del controllo e della verifica della permanenza dei requisiti previsti per il funzionamento delle istituzioni scolastiche paritarie e delle scuole non paritarie; f) competenze nell’ambito relazionale.

In realtà le prove d’esame, come sottolinea lo Schema di Regolamento, sono volte anche ad accertare le conoscenze del candidato in vari ambiti e materie, puntigliosamente riportati negli Allegati B) e C) dello Schema, e fortemente marcati in senso giuridico-amministrativo, tanto che il CSPI nel suo parere ha suggerito, in vari passaggi, di dare maggiore spazio a materie quali didattica generale, pedagogia generale e sociale, pedagogia e didattica speciale, sociologia generale, a scapito di materie afferenti lato sensu al diritto. Ma è facile immaginare che saranno soprattutto le conoscenze di tipo giuridico a fare la parte da leone nell’economia complessiva della valutazione dei candidati e questo per un motivo molto semplice legato alla composizione della Commissione d’esame. Infatti, dei cinque membri previsti dallo Schema di Regolamento, tre sono scelti tra i dirigenti appartenenti ai ruoli del Ministero che ricoprano o abbiano ricoperto un incarico di funzioni dirigenziali generali ovvero tra i professori di prima e di seconda fascia di università statali e non statali, i magistrati amministrativi, i magistrati ordinari, i magistrati contabili, gli avvocati dello Stato, i prefetti; e due vengono scelti fra i dirigenti non generali dell’area delle funzioni centrali appartenenti ai ruoli del Ministero. Non viene contemplata esplicitamente la presenza di un dirigente tecnico tra i commissari d’esame, anche se può essere fatta rientrare tra i “dirigenti non generali”. In ogni caso, c’è da chiedersi come può la Commissione verificare il possesso dei sei ambiti di competenze descritti sopra se al proprio interno non vi sono le competenze professionali specifiche. Il problema sembra peraltro tenuto presente dalla stesso Schema di Regolamento laddove prevede che “la commissione esaminatrice e le sottocommissioni possono essere altresì integrate ciascuna anche da membri aggregati esperti in selezione e valutazione del personale e/o in psicologia e/o in risorse umane.” Ma allora perché non inserire questa figura già all’interno della Commissione in forma stabile e non solo come possibilità?

Per tutti questi motivi, è facile prevedere che – come al solito – ciò che maggiormente interesserà i commissari sarà l’apparato burocratico delle conoscenze dei candidati, con buona pace del complesso delle competenze socio-psico-pedagogiche descritte sopra. D’altro canto, se tra i commissari figurano magistrati amministrativi, ordinari, contabili, avvocati dello Stato, prefetti o dirigenti amministrativi, non è azzardato supporre che il loro orizzonte professionale è costituito da norme, leggi e architetture istituzionali. Risulta difficile immaginare che abbiano dimestichezza con Dewey, Vygotskij o De Bartolomeis, o con campi del sapere come il socio-costruttivismo, la pedagogia attiva, le neuroscienze in campo educativo, o la valutazione di sistemi complessi ecc., a meno che, per strane alchimie epistemologiche, nel loro percorso professionale non siano venuti a contatti con questi ambiti. Ma nella selezione di figure così fortemente contrassegnate sul piano tecnico-professionale quali sono i dirigenti tecnici ci si può affidare a esaminatori così fortemente addentro in altri ambiti collaterali? È come se un’azienda nel selezionare psicologi si affidasse a esaminatori come ingegneri nucleari o esperti di marketing o avvocati professionisti.

Una possibile ragione di tutto ciò può essere la seguente: il management politico-amministrativo che ha redatto lo Schema di Regolamento del concorso per DT ha una visione giuridico-amministrativa della scuola, e non può che essere così in quanto quello è l’orizzonte culturale all’interno del quale si muove a proprio agio. Che questo orizzonte sia in grado di selezionare i futuri bravi dirigenti tecnici della scuola è come pensare che un architetto urbanista sia in grado di selezionare i macchinisti dei tram urbani.




Scuola: sorvegliare e punire. Problemi complessi, risposte semplici

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Mario Maviglia

Nel recente decreto Caivano, approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 settembre scorso per contrastare il disagio giovanile e la criminalità minorile, vi sono alcune misure che riguardano anche la scuola e i minori. In particolare, viene introdotta la pena fino a due anni di reclusione nei confronti di quei genitori che si rendono responsabili dell’abbandono scolastico dei figli; gli stessi genitori possono andare incontro anche alla revoca dell’assegno di inclusione, qualora destinatari. Com’è noto, attualmente i genitori che si rendono responsabili dell’evasione scolastica dei figli rischiano un’ammenda di 30 euro, come previsto dall’art. 731 del codice penale.

Una vasta letteratura (anche ministeriale) ha dimostrato che i fenomeni di abbandono scolastico nascono in quelle situazioni caratterizzate da degrado sociale, economico e culturale all’interno delle quali le figure che dovrebbero esercitare una funzione educativa di guida e di sostegno ai ragazzi nel loro sviluppo di crescita (i genitori, in primo luogo) non appaiono in grado di assolvere adeguatamente a tale compito. Pensare che un inasprimento delle pene previste possa risolvere o attenuare un problema così complesso è pura utopia, o, forse più correttamente, astuta demagogia.

La lotta all’abbandono scolastico implica infatti il coinvolgimento di diversi soggetti istituzionali e richiede interventi di vario tipo che vanno dall’offrire opportunità di incontro e socializzazione nel territorio per i giovani; alla possibilità di esprimere i propri interessi sportivi, musicali, culturali, ludici, espressivi, di tempo libero ecc. in spazi socialmente definiti e organizzati; alla disponibilità di edifici scolastici accoglienti e attrezzati; a una didattica attiva e personalizzata; a misure di sostegno (anche economico, es. libri di testo o di consultazione gratuiti) per chi ha difficoltà sotto questo profilo; alla possibilità di fare ricorso ad educatori di strada per creare ponti tra contesti di vita dei ragazzi e ambiente scolastico. E altri interventi ancora, che prevedano anche il coinvolgimento del terzo settore o comunque delle agenzie educative e sociali radicate nel territorio e che possono esercitare una funzione di promozione sociale nei confronti dei giovani a rischio.

La lotta alla dispersione scolastica è tremendamente complicata proprio perché non è solo scolastica, anche se la scuola purtroppo talvolta vi contribuisce attraverso forme di didattica che non riescono ad intercettare gli interessi dei ragazzi. Quando a scuola si sta seduti per ore, o si susseguono i vari docenti in un carosello di discipline il cui senso sfugge ai ragazzi, quando ci si annoia o si ha la percezione che il tempo non passi mai, o quando non ci si sente coinvolti, motivati o ascoltati nella gestione dell’impresa educativa, è facile supporre che i ragazzi più fragili o problematici si sentano estranei e la tendenza all’allontanamento dalla scuola non è solo fantasticata ma agita. E questo soprattutto quando il contesto familiare e sociale di riferimento non appaiono in grado di sostenere e motivare i giovani nel loro processo di crescita e apprendimento.

Il decreto Caivano, per la verità, prevede il potenziamento dell’organico dei docenti nelle scuole del meridione caratterizzate da alta dispersione scolastica, ma il problema – lo ripetiamo – non è esclusivamente scolastico: è soprattutto sociale e se non si interviene su questo versante si rischia di fare il solito buco nell’acqua. Le misure repressive danno una risposta semplice a un problema complesso, anche se presentano il vantaggio (sul piano politico) di offrire all’opinione pubblica l’immagine di un intervento pronto e deciso, secondo il consolidato modello pavloviano S-R (Stimolo-Risposta). D’altro canto, questo paradigma repressivo sembra informare tutto il decreto governativo: il daspo urbano, ossia l’allontanamento obbligatorio da una città, prima applicato solo ai maggiorenni, adesso può riguardare anche i quattordicenni; si abbassa anche l’età per ricevere l’avviso orale del questore (da quattordici a dodici anni) a comportarsi bene per evitare il carcere da uno a tre anni. Insomma, le decisioni in materia dell’attuale Governo, come acutamente nota Giuseppe Rizzo, “ci riportano allo splendore di quei supplizi, come li chiamava Michel Foucault, ovvero al buio della galera per i minorenni.”[1]

Si tratta, com’è intuibile, misure che danno un vantaggio effimero, che placa momentaneamente la richiesta di giustizia o di ordine dei cittadini, ma passato il blitz del momento i tanti Caivano d’Italia rimarranno con i loro endemici, irrisolti problemi. Anzi, con un problema in più, come qualcuno ha ironicamente messo in luce: nel caso in cui i genitori, in base alle nuove norme, vengano effettivamente arrestati per abbandono scolastico, chi accompagnerà i ragazzi a scuola?

[1] https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/giuseppe-rizzo/2023/09/11/decreto-carcere-minori; M. Foucault, sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976

 




Comunità educante o dis-educante?

di Cinzia Mion

A proposito del concetto di “comunità educante” é apparso con forza, intendo con intenzione persuasiva, nell’ultimo contratto nazionale del comparto scuola, all’articolo 24, che qui mi permetto di riportare: “La scuola è una comunità educante di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, improntata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia”.

Il secondo comma sottolinea: “ Appartengono alla comunità educante il dirigente scolastico, il personale docente ed educativo, il DSGA e il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, nonché le famiglie, gli alunni e gli studenti che partecipano alla comunità nell’ambito degli organi collegiali previsti dal d.lgs.n.297/1994

Credo risulti evidente a tutti l’eccessiva enfasi con cui è stato steso tale articolo che avrebbe dovuto essere, secondo me, più che una asserzione così convinta, un auspicio.
Ciò che infatti penso sia sotto gli occhi di tutti oggi (ma improvvisamente mi viene un dubbio: sotto gli occhi di tutti?) sono le “derive sociali”, a dir poco nefaste che, nella migliore delle ipotesi, gli educatori, docenti, genitori e tutti quelli che il contratto elenca come appartenenti alla cosiddetta comunità educante, dovrebbero darsi da fare soprattutto per contrastarle, non per confermarle! Naturalmente se sono ancora in grado di riconoscerle come derive diseducative e pericolose, vale a dire se non sono ancora stati sommersi da esse anche loro….

Derive sociali.

La prima, devastante, è l’indifferenza diffusa, chiamata anche noncuranza, ovvero mancanza di cura. Immagino che non serva descriverla, è sufficiente rievocare qualche atto di violenza consumato in presenza di passanti che osservano appunto indifferenti, senza sentirsi chiamati in causa.
Trent’anni di neoliberismo sempre più spinto hanno rinforzato lindividualismo come ha affermato la filosofa fiorentina Elena Pulcini[1], mancata per covid recentemente.
A questa deriva si collegano immediatamente l’affievolirsi dell’ empatia e la mancanza di com-passione. Diventa molto difficile farci una ragione di tale fenomeno soprattutto da quando la scoperta dei neuroni specchio ha rivelato che siamo tutti programmati dalla nascita per l’intersoggettività, quindi per rispondere l’uno all’altro del reciproco sentire.
Mi sovviene a questo punto l’immagine di Lévinas: “il volto dell’altro mi interpella…”[2].
Il volto dell’altro uomo sofferente e morente al quale però oggi ci siamo tutti assuefatti, tanto che non ci risuona più dentro, a livello viscerale , come intendeva dire questo filosofo lituano, di origine ebraica, quando si è espresso così. Assuefazione dovuta allora alla sovraesposizione mediatica? Pensiamoci…
Credo che direttamente collegata a queste derive possiamo mettere la progressiva e sempre più accentuata difficoltà all’ascolto dell’altro.

Marianella Sclavi[3] ha affrontato molto bene tale problematica, legata alla necessità di uscire dalle proprie cornici di riferimento, delle quali non siamo consapevoli, per riuscire a decentrare il nostro punto di vista ma soprattutto direi oggi più semplicemente di allentare il nostro egocentrismo per sintonizzarci autenticamente all’ascolto.

Passiamo ora al narcisismo dilagante, su cui non è necessario soffermarci tanto è lampante la sua diffusione.
Direttamente però collegata a questo effetto dirompente risulta essere la voglia di apparire (e mostrarsi) al posto di essere. Non si tratta più soltanto della voglia tracimante da parte di certe ragazze di avere una comparsata in TV sculettando davanti a un rapper ma , molto più grave, il riferimento va oggi  ai recenti fatti di cronaca che ci hanno rivelato, attraverso i canali di Youtube l’esistenza di gruppi deliranti come The Borderline, che nella più completa insensatezza hanno provocato un mortale incidente stradale in cui ha perso la vita un bambino di 5 anni.

Sullo sfondo si intravede uno dei  padri adultescenti,( cfr M.Ammaniti) non in grado di fare da guida genitoriale valida, perché eternamente teenager.
Oltre ad un rapporto difficile con l’alterità, già esaminato, appare sempre più rinforzata una difficoltà a considerare in modo adeguato la diversità, aspetto che lascia trasparire un aumento del razzismo e della omofobia, evidentissimo attraverso l’analisi del voto recente di moltissimi italiani che non si professano razzisti o omofobi ma hanno premiato partiti che lo sono. Vorrà dire qualcosa!!!.
Non possiamo trascurare l’importanza sempre più evidente data all’avere, rappresentata dalla valorizzazione crescente del profitto, a scapito dell’essere. Ne è dimostrazione evidente la crescente disparità e forbice nel Paese tra ricchi e poveri (in preoccupante aumento).
Alla fine, ma non per importanza, possiamo annoverare, non senza un grande rammarico da parte mia, il crescente deficit di Etica Pubblica, rivelando il soggiacente familismo amorale[4], intriso di volgare “tornacontismo”, sdoganato recentemente ai massimi livelli, ecc,ecc. Potrei continuare…

Voi capite che prima di aver la forza e la competenza per contrastare tali derive bisogna averne consapevolezza e sapersi interrogare e autovalutare rispetto alla propria adeguatezza in proposito. In altre parole saper chiamare con il loro vero nome i fenomeni intorno a noi. Amici miei allora questa che ci circonda, ma che soprattutto circonda i nostri ragazzi in crescita, non è una “comunità educante” ma una COMUNITA’ DIS-EDUCANTE. O partiamo da questa consapevolezza o ci troveremo sempre peggio con una famiglia e una scuola devastate. E non ditemi che sono pessimista.

 

 

[1] Pulcini E. L’individuo senza passione. Individualismo e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, 2001.

[2] Lévinas E., Totalità e infinito.Joca Book, 1961.

[3] Sclavi M.,L’arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, Milano-Pescara,2002.

[4] Banfield E.,Le basi morali di una società arretrata.,Il Mulino, 1976, Bologna.




L’orientamento scolastico e professionale, in salsa ‘Valditara’. E oltre

di Antonio Valentino

  1. “La grande rivoluzione del merito”, annunciata dal Ministro a tambur battente a fine marzo, si è materializzata nelle sue linee portanti il 5 aprile col Decreto n. 63 e con la Circolare ministeriale, stessa data, con oggetto: Avvio delle iniziative propedeutiche all’attuazione delle Linee guida sull’orientamento[1] – A.S.2023-2024 (sottotitolo: Il tutor scolastico: prime indicazioni).

Dal Decreto si derivano essenzialmente queste indicazioni:

  • si destinano 150 milioni di euro alle istituzioni scolastiche statali del II ciclo di istruzione e più precisamente alle ultime tre classi -, per ‘valorizzare’ l’impegno dei docenti chiamati a svolgere la funzione di tutor e di orientatore”.
  • si precisano i requisiti dei docenti interessati per l’accesso alla formazione – a carico dell’Indire e per la durata di 20 ore -: condizione per svolgere le funzioni delle due figure;
  • si prevede che le iniziative da mettere in campo siano destinate alle classi del secondo biennio e dell’ultimo anno del Secondo Ciclo e che le figure saranno attive a partire dal prossimo anno scolastico.

La Circolare Ministeriale definisce invece in modo particolare le cose fondamentali che c’è da sapere: gli obiettivi dell’orientamento, le attività che devono svolgere le due figure e la consistenza dei raggruppamenti di studenti destinatari delle attività proposte; la consistenza come criterio per il compenso alle due figure.

  1. Quanto agli obiettivi dell’operazione, si precisa che sono: (a) rafforzare il raccordo tra il primo e il secondo ciclo di istruzione e formazione, per permettere una scelta consapevole che valorizzi le potenzialità e i talenti degli studenti e, inoltre, (b) contribuire alla riduzione della dispersione scolastica e dell’insuccesso scolastico e (c) favorire l’accesso alle opportunità formative dell’istruzione terziaria”.

    Obiettivi sostanzialmente condivisibili se solo non evidenziassero una vistosa incongruenza.
    Praticamente si dice: obiettivo urgente e prioritario è il raccordo tra la secondaria di primo grado e il biennio successivo – per le ragioni a tutti note -, ma il decreto prevede  di intervenire prioritariamente sulle ultime tre classi della secondaria. Così. Un arcano

  1. Rispetto poi alle attività del docente tutor, le stesse che di fatto assorbono quelle più significative nei percorsi di orientamento, sono ricondotte alle seguenti due:
  • aiutare ogni studente a rivedere su una apposita piattaforma[2]digitale unica”…., le parti fondamentali che contraddistinguono ogni E-port-folio personale (cioè percorso di studi; sviluppo delle competenze; a sviluppare riflessioni “in chiave valutativa, auto-valutativa e orientativa sul percorso svolto e, soprattutto, sulle sue prospettive”; a provvedere alla “scelta di almeno un prodotto, riconosciuto criticamente dallo studente come il proprio ‘capolavoro’ (sic!)”. E questo, per ciascun anno scolastico e formativo,
  • “costituirsi consigliere delle famiglie” nei momenti di scelta dei percorsi formativi o delle prospettive professionali dello studente.

Il docente orientatore si farà invece carico di “gestire i dati forniti dal Ministero   preoccupandosi “di raffinarli [ohibò] e di integrarli con quelli specifici raccolti nelle differenti realtà economiche territoriali e metterli a disposizione di docenti, famiglie e studenti”. Una figura praticamente “a sostegno dell’orientamento”, come si legge nella Circolare più volte citata.

La cosa, anche qui, un po’ strana e misteriosa, è la denominazione delle due figure: il docente che svolge tutte le funzioni tipiche dell’orientatore/di orientamento viene chiamato tutor e chi raccoglie dati dalla piattaforma dedicata e li ‘raffina’ (!) e li integra e li diffonde tra docenti e genitori, lo si chiama orientatore. Mah!

  1. Però ai fini di una funzionalità sensata dell’intera operazione, l’aspetto che pone più interrogativi è il numero delle risorse professionali da mettere in campo. Il Ministro nell’ultima intervista al Corriere, dove preannunciava “la grade rivoluzione del merito”, declamava trionfalmente che “sono in arrivo 100.000 tutor”. Una cifra impressionante e sorprendente, con un sottotesto facilmente intuibile.

I dati per venirne a capo e capirne il valore ce li offre la già citata Circolare ministeriale del 5 aprile.

Questi i parametri numerici della Circolare ministeriale: 1 tutor ogni 30 studenti; studenti che  possono diventare anche 50, se 30 vi sembran pochi. (Nella circolare si parla addirittura di raggruppamenti, lasciando così pensare di raccogliere ragazzi di classi diverse per arrivare ai numeri previsti: tutti con un unico tutor!).

Stiamo parlando di una funzione, come si può dedurre da quanto riportato al precedente punto 3, molto delicata   e pesante per compiti, responsabilità, oltre che per numero dei soggetti con cui rapportarsi; funzione che si affianca, nella stessa persona, a quella di docente ( 3 e più classi da gestire) in nessun modo alleggerita.
Pensate solo al “dialogo costante con lo studente, la sua famiglia e i colleghi coinvolti nell’attività didattica rivolta al singolo studente, ecc. ecc.”, moltiplicato per 30, 40, 50 ragazzi, famiglie ecc..

Spiderman o lo stesso Batman, ne uscirebbero vivi?

Il tutto con un compenso accessorio annuo compreso tra i 2800 euro a 4.700 lordo stato. Da scialarci, se ci pensate. (Per il docente ‘orientatore’ – uno per ogni istituzione scolastica – il compenso va da 1.500 euro lordo Stato a 2.000 euro, sempre lordo Stato: si sciala di meno, ma si sopravvive di più).

Quelli qui sopra indicati sono gli impegni sull’orientamento delle scuole del secondo ciclo per le quali sono stati stanziati dal ministero i 150 milioni di euro di cui al Decreto del 5 aprile.

  1. Dal prossimo anno sono previste inoltre iniziative di formazione per gli studenti, a carico dei fondi PNRR, che interesseranno classi della Secondaria.

Consideriamole nel riquadro che segue:

  • Percorsi formativi di 15 ore per ciascun studente nel corso degli ultimi 3 anni delle scuole del secondo ciclo della secondaria (5 h x anno) “da erogare con modalità curricolare ed extracurricolare”. Saranno organizzati dalle Università sulla base di accordi con le scuole. Praticamente, se ho capito bene: 5 ore per anno scolastico! Su tematiche, di tutto rispetto: dal conoscere il contesto della formazione superiore / i settori di lavoro / gli sbocchi occupazionali / i lavori del futuro; al fare esperienza di didattica disciplinare attiva, partecipativa laboratoriale; dall’autovalutare, verificare consolidare le proprie conoscenze, al consolidare competenze riflessine e trasversali, al ….. Tutto sempre in 5 ore annue per tre anni. Manca solo – se è possibile – una lezione con conseguenti esercitazioni (che sarebbe sicuramente molto apprezzata dai ragazzi, su Le fughe dalle lezioni ovvero Saltare scuola come esperienze di vita).
  • Percorsi formativi previsti dalle Linee guida per l’Orientamento (Decreto n. 328 del 22 dicembre 2022), 1. per le le scuole della Secondaria di primo grado e per il primo biennio della secondaria di secondo grado, di almeno 30 ore di orientamento anche extracurricolari, per ogni anno di corso; 2. per l’ultimo triennio della Secondaria di secondo grado, altrettante ore, queste però curricolari, per ogni anno. Per questi ultimi si concede che si possono integrare, qualunque cosa ciò significhi, con le 15 ore gestite dei percorsi universitari e con i percorsi PICTO.
  1. Un altro punto di attenzione riguarda la natura giuridica delle ‘figure’ introdotte. Quello che si capisce è che non si tratta delle figure di sistema prefigurate dall’articolo 21 della Legge 59/1997, col quale si istituisce l’autonomia scolastica. Presumibilmente si tratterà ancora di docenti che coprono funzioni specifiche ma in modo volatile, occasionale, e spesso senza che se ne abbia adeguata preparazione e competenza.
    Va anche considerato che i famosi 150 milioni previsti per ‘la valorizzazione degli insegnanti’ impegnati nelle funzioni di tutor e orientatore valgono solo per il corrente anno finanziario.  Quindi, sotto questo aspetto, la prospettiva è ancora una navigazione a vista?

  2. L’impressione che un po’ si deriva dai dati e dalle iniziative sopra riportati è che questa ‘riforma’, è quella di una debolezza complessiva di visione e di strategie appropriate.

Alla base di una valutazione di questo tipo c’è la convinzione, molto diffusa tra docenti e dirigenti del secondo ciclo e delle ultime classi del primo, che l’orientamento – come anche l’insuccesso scolastico e la dispersione – non è un problema per la cui soluzione ci si può lavare le mani pensando di uscirne  introducendo nelle scuole figure di cirenei, da formare con 20 ore di corsi, e condendo il tutto con percorsi formativi per gli studenti, che sono anch’essi un punto di domanda.
Assenti gli insegnanti come comunità professionale. Scompare il CdC a cui comunque dovrebbe essere il compito principale della formazione dei ragazzi. C’è invece il cireneo solitario che si fa carico di tutto e anche delle famiglie.
Sbarazziamo il campo da un possibile equivoco. Nessuno può ovviamente pensare che non siano necessarie, per questa come per altre operazioni dello stesso tipo, figure di coordinamento delle diverse azioni e iniziative dei percorsi formativi da prevedere nelle sedi proprie.

In una organizzazione complessa come la scuola, le figure di coordinamento sono fondamentali.
Ma che siano però figure di sistema: docenti cioè con un profilo potenziato, definito giuridicamente e contrattualmente. Non volatili e casuali.
E ancora: non è in discussione la presenza nella scuola secondaria di un counselor o un mentor, come figure professionali anche esterne (con competenze da attingere anche dalla psicologia dinamica), per le situazioni problematiche più complesse della classe.
Ma i soggetti da valorizzare in questa importante partita non sono forse i docenti tutti della classe, come gruppo professionale, sulla base di un progetto condiviso per orientamento? Non è ciò che sa qualsiasi persona che si intende un po’ di scuola?

  1. Interrogativi questi che riportano in primo piano due questioni – anch’esse complesse e difficili e non più rinviabili – che rappresentano altrettante risposte a due criticità della nostra scuola, che proprio una riforma dell’orientamento avrebbe dovuto prevedere nelle modalità possibili:

– la visione dell’insegnamento disciplinare capace di produrre una idea aperta della conoscenza e di sviluppare competenze di prim’ordine; come l’integrazione dei saperi, la correlazione e l’osservazione, con occhi e sguardi diversi, dei diversi oggetti di studio e apprendimento (competenze di base in ogni discorso sull’orientamento);

– la pratica di didattiche individualizzate/personalizzate[3], che, quando ‘agite’ con professionalità, possono creare ponti preziosi tra caratteristiche delle materie scolastiche e caratteristiche degli studenti (quest’ultime in termini di bisogni, attese, aspirazioni, ma anche di specifici ritmi e modalità di apprendimento, di tipo di intelligenza e capacità linguistiche, di prerequisiti cognitivi). Pratiche che, come sanno in tanti nelle scuole, diventano didattiche orientative quando guardano all’insegnamento disciplinare anche come ‘strumento’ per sviluppare capacità trasversali (soft skills); con particolare riferimento alla riflessività, alla comunicazione efficace, all’ascolto attivo, al problem setting & solving, alla flessibilità …,).

9. Ancora un’ultima considerazione. Legata alla percezione che questa ‘riforma’ dell’orientamento sembra abbia scelto di ignorare le esperienze positive e innovative di tante nostre scuole.
Il riferimento è alle pratiche, didattiche – diffuse tra l’altro  nei nostri Istituti  più di quanto non si creda – come il debate o lavori di gruppo opportunamente strutturati o attività di autovalutazione dello studente, esperienze di peer education: utili certamente per apprendimenti disciplinari più solidi e duraturi, ma utili anche per sviluppare competenze necessarie per orientarsi con consapevolezza e sensatezza anche nella scelta tra i diversi   percorsi scolastici o professionali; o più in generale, nelle scelte di vita.

Ma il riferimento è anche

ai Centri di Informazione e Consulenza gestiti da docenti di riferimento (tutor per l’orientamento nominati dal ds), diffusamente attivi nella secondaria di secondo grado e previste dal PTOF di istituto e

ai percorsi formativi gestiti da insegnanti in genere di materie scientifiche o tecnologiche del secondo ciclo, per classi terminali del primo ciclo (l’ex terza media).

Che dire conclusivamente, a seguito delle analisi e riflessioni critiche di questo contributo?

Solo che all’autore è del tutto estraneo l’idea di alimentare – nei cinque o sei che in esso incappassero – tentazioni di disimpegno rispetto alle iniziative che le scuole sono chiamate a mettere in campo in base alle indicazioni del Decreto e materiali connessi.
L’intento è stato piuttosto quello di riportare in primo piano le opportunità che offre la tematica dell’orientamento per il rinnovamento della nostra scuola (la centralità del ruolo della comunità professionale e dei C.d.C come gruppo di lavoro: in primo luogo attraverso didattiche individualizzate e orientative e un coordinamento responsabile delle attività; ma anche attraverso il coinvolgimento del gruppo classe). Opportunità che non sono in alternativa o in contrapposizione a quelle previste dall’impianto ministeriale e da recuperare opportunamente, e nei tempi giusti, attraverso un eventuale, apposito Piano di Istituto.
Comunque se all’intento non corrispondono gli esiti attesi, preme qui chiarire manzonianamente che “non si è fatta apposta”.

[1]Nota ministeriale del 22 dicembre 2022

[2] Con tutte queste piattaforme si ha a volte l’impressione che l’autonomia opportunamente regolata [Piero Romei] sia sempre più declinata come autonomia uniformata.

[3]Istruzione individualizzata non significa ovviamente istruzione individuale, generalmente realizzata in un rapporto 1 ad 1. Essa, come è noto, consiste piuttosto nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche individuali di ciascuno cercando di permettere al singolo di conseguire individualmente obiettivi comuni al resto della classe. Altro è l’istruzione personalizzata che tende invece a traguardi diversi e personali per ciascuno, ponendo per ognuno obiettivi differenti.

 

 

 

 

 

 




ll progetto su “dispersione e dislivelli territoriali”: una sfida per le scuole  

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Antonio Valentino

La percezione

In questi ultimi mesi l’attenzione di dirigenti scolastici, insegnanti, personale tutto è apparsa rivolta essenzialmente alla gestione dei fondi previsti per il Piano, agli adempimenti a cui si è chiamati, all’uso della piattaforma messa a disposizione per facilitarne le operazioni.

 

Sono tuttora abbastanza rari gli incontri in presenza in cui socializzare dubbi, perplessità, limiti.

Poco e male finora sono entrate nel dibattito – anche in quello pubblico in generale – le ragioni per cui l’Unione Europea[1] ha previsto investimenti – in misura come mai prima era successo – su settori strategici della vita pubblica e, tra questi, quelli di Scuola e Università.
La stessa Amministrazione centrale – a partire dal Ministro – e quella periferica hanno finora dimostrato scarsa consapevolezza della dimensione strategica e della centralità e rilevanza della problematica dei divari  territoriali anche in fatto di istruzione; e quindi dell’importanza di  strategie di contrasto agli insuccessi e agli abbandoni precoci da mal di scuola che, nel nostro Paese, risultano tra i più alti d’Europa.

Anche altri due progetti del Piano Scuola del PNRR – ‘Zero-Sei’ e ‘Ambienti di apprendimento (‘Aule’ e ‘Laboratori’) – possono ben essere visti come occasioni importanti per contrastare alla base i fenomeni di inadeguatezza del nostro sistema di istruzione, cause non secondaria della dispersione.
A questi è ancora da aggiungere il progetto sull’orientamento (le Linee Guida nel Decreto Ministeriale sono del 22 dicembre 2022), perché anche Orientamento è parola chiave nelle misure previste dal DM 170 sul contrasto alla dispersione[2].

All’interno di questo quadro complessivo, il progetto sulla dispersione andrebbe considerato – a ragione – come l’anima dell’intera operazione del Piano Scuola, in quanto le azioni di contrasto in esso previste investono aspetti ‘vitali’ del fare scuola: – cultura professionale e didattica,  organizzazione e leadership, ambienti apprendimento, … – che attraversano anche gli altri progetti.
Investire su di essi significa investire sul ‘motore’ dell’intera macchina del sistema di istruzione.

Novità (parziali) e interrogativi

È in questa ottica che andrebbero pertanto considerate azioni e percorsi previsti nei documenti di accompagnamento ai Decreti ministeriali citati e soprattutto in  “Istruzioni operative” del 30 dicembre 2022 – a cui va aggiunto la Piattaforma “Futura PNRR – Gestione Progetti”: che, in realtà,  è parecchio più di uno ‘strumento’ operativo.

Di questi documenti vanno certamente segnalati in positivo – perché prefigurano differenze promettenti rispetto a iniziative analoghe già sperimentate nelle nostre scuole – quelle parti che

  1. indicano come strategie importanti un insieme di azioni: dal mentoring[3] all’orientamento[4]; dai percorsi di potenziamento delle competenze di base[5] (visti anche come occasione di motivazione e di accompagnamento) ai percorsi di orientamento per le famiglie;
  2. prevedono percorsi formativi e laboratoriali co-curriculari che includono progetti speciali di scuola (dalle attività teatrali a quelle sportive, dai laboratori di musica ai percorsi di educazione emotiva-affettiva ….), visti come momenti di aggregazione volti non solo a sviluppare socialità e favorire inclusione, ma anche integrazione (che include normalmente anche ricadute sul rendimento scolastico in termini di apprendimenti).

Anche la previsione di aprire le scuole alla collaborazione – comprensiva di co-progettazione, ma anche di gestione di attività con agenzie formative accreditate e affidabili – è un punto importante dell’intero progetto, in quanto aiuta a fare uscire le scuole dall’auto-isolamento, in cui qualche volta si confinano, e a trarne arricchimenti salutari di vario tipo.

(Ma al riguardo va annotato che sono emersi, da più parti, interrogativi e dubbi che nascono – e non solo con riferimento a questo progetto – dall’enfasi con cui le collaborazioni con enti del terzo settore vengono prospettate alle scuole dal Ministero. Non si vorrebbe che tale enfasi preludesse a scivolamenti rischiosi per l’autonomia scolastica e a derive gestionali di tipo privatistico.)

Un nodo centrale: fruizione individuale dei percorsi o individualizzazione dell’offerta formativa?

In tale quadro complessivamente positivo, pone però seri interrogativi la scelta di intervenire su fragilità e insuccessi attraverso i percorsi di cui al precedente punto b., per le quali si prevede una modalità che sembra ignorare strategie che la ricerca pedagogica e didattica raccomanda da tempo.
Per i percorsi di mentoring e di orientamento, destinati soprattutto agli studenti a rischio dispersione, si prevedono infatti:

  1. una fruizione ‘individuale’ degli stessi (rapporto studente-docente / esperto esterno: 1 a 1);
  2. una loro collocazione di norma al di fuori dell’orario scolastico e degli spazi delle lezioni[6].

Manca in questa scelta operativa delle Istruzioni ministeriali ogni riferimento alle metodologie didattiche di individualizzazione o di personalizzazione, che, come è noto, sono cosa altra rispetto ad azioni a ‘fruizione individuale’. Metodologie che, per diverse e buone ragioni, meritavano attenzione – e non solo  –.

Le recupero da Massimo Baldacci[7] che, già in un suo libro del 2005, le richiama esplicitamente: “L’istruzione individualizzata non è una istruzione individuale, realizzata semplicemente in un rapporto 1 ad 1. Essa consiste nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche individuali di ciascuno (ritmi di apprendimento, capacità linguistiche, prerequisiti cognitivi) cercando di permettere al singolo di conseguire individualmente obiettivi comuni al resto della classe. (…)”[8].

E, a proposito di spazi e collocazione oraria possono ben valere, come aspetti importanti della dimensione collettiva dell’apprendere, le seguenti considerazioni di Simonetta Fasoli, particolarmente importanti ed esplicite perché ancorate a richiami normativi: “La strategia di contrasto va individuata nello stesso registro dell’ordinarietà, più che nella predisposizione di percorsi gestiti in ambito extracurricolare. Si vedano in proposito pietre miliari quali il documento della Commissione Falcucci (1975) e la legge 517/77 (…). Se è il gruppo di apprendimento la risorsa essenziale, non è la separatezza la risposta adeguata per chi si senta o sia stato escluso…”[9]. [i corsivi sono miei]

La didattica individualizzata – che è espressione operativa della teoria dell’individualizzazione degli apprendimenti, si configura pertanto come modalità del fare scuola particolarmente importante per l’integrazione nel gruppo classe degli allievi che se ne sentono esclusi; integrazione quindi come processo importante nel contrasto agli abbandoni precoci, soprattutto in quanto facilita l’apprendere migliorando livello e qualità delle relazioni nel gruppo [10].

Delle due pratiche didattiche sopra considerate sono indubbiamente diverse le idee di scuola ad esse sottese e diverso il tasso di carica innovativa. Penso però che, nella situazione attuale, entrambe potrebbero,  se ben condotte, sortire gli esiti previsti dal progetto.  Ne guadagnerebbe da questa scelta anche l’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Due questioni non sottovalutabili.

Ci sono infine questioni, non propriamente secondarie, che non si possono trascurare, se si vuole partire col piede giusto. Si tratta di ‘mancanze’ o sottovalutazioni di variabili con cui fare i conti. Quali soprattutto

  • la non previsione di incentivi significativi per il surplus di lavoro delle scuole che la nuova progettualità del piano di contrasto inevitabilmente porterà (per i docenti, le segreterie, le figure di sistema, per i ruoli intermedi di raccordo e accompagnamento).
    Si è dimenticato infatti nelle Istruzioni operative che il cambiamento passa dal lavoro quotidiano, sempre più complesso e gravoso sulle spalle dei docenti e delle scuole;
  • la scarsa attenzione ad un principio guida per l’operazione in corso: è difficile aspettarsi cambiamenti duraturi e significativi se la scuola nel suo insieme non si sentirà parte essenziale dei processi attivati e non se ne farà carico. La lotta contro la dispersione non è affare di singoli insegnanti o esperti esterni che operano dentro protocolli indicati dai pochi docenti del team di scuola e dal gruppo di co-progettazione: o è impegno dell’insieme dei docenti della scuola che, nelle loro articolazioni, lavorano collegialmente per individuare problemi e possibili soluzioni o sarà molto difficile che si producano esiti positivi e duraturi.

La vera sfida del progetto dispersione e i principali terreni su cui giocarla

Quello che in conclusione si vuole soprattutto sottolineare è che la scuola, per essere la risorsa giusta contro insuccessi e rischi di abbandono – e saper fare al meglio la propria parte -, dovrebbe prioritariamente sviluppare consapevolezza autocritica che, in molti casi, è essa stessa parte del problema dispersione[12].

Che si crea sempre quando – al netto delle responsabilità del sistema, che sono comunque enormi e condizionanti – si sottovaluta (anche se per fortuna sempre di meno) l’incidenza, fra gli studenti,  di fattori non secondari del mal di scuola;  che se bene riconosciuti e analizzati possono suggerire una mappa di comportamenti professionali competenti e mirati di cui soprattutto c’è necessità se si vuole, come sarebbe opportuno e prioritario, trasformare l’esperienza scolastica degli studenti in una avventura che li veda partecipi e interessati; e prevenire così le diverse manifestazioni di abbandono, sapendone capire i sintomi. La lista di tali comportamenti è la stessa che gira da sempre e che vede in primo piano soprattutto:

  • la padronanza riflessiva di pratiche didattiche partecipative e coinvolgenti,
  • una cultura professionale, e relative pratiche, che sappia alimentarsi di esperienze condivise che si fanno occasioni di formazione ‘situata’,
  • la pratica attiva del lavoro di squadra, vincendo individualismi e autoreferenzialità,
  • la cura degli ambienti di apprendimento; che significa impegno a trasformarli da non-luoghi a spazi accoglienti, stimolanti, polifunzionali,
  • una leadership che coltivi l’idea di scuola come comunità professionale e dimostri attenzione costante al funzionamento delle diverse articolazioni funzionali del Collegio e al loro coordinamento interno.

[1]. Va richiamato che il  Piano di Ripresa (formula abbreviata che traduce la sigla PNRR) fa parte del Programma dell’Unione europea, noto come Next Generation EU.

[2] L’insieme di questi tre progetti è parte del Piano Scuola (capitolo importante del Programma PNRR per l’Italia), che si articola in ben sei Riforme, per altrettante aree problematiche del nostro sistema di Istruzione: questo per richiamare la complessità dell’operazione entro cui ci si muove.

[3] Attività che mira a vincere il disagio che generalmente si manifesta con modalità che vanno dal basso rendimento fino all’abbandono scolastico precoce. Si tratta di percorsi ad apprendimento guidato.  

[4] Che andrà configurato secondo le Linee Guida del Decreto ministeriale del 22 dicembre del 2022, che prospettano azioni articolate e promettenti che richiedono non solo progettazione attenta, ma anche competenze professionali adeguate.

[5]. Particolarmente importanti dopo i due anni di pandemia che non ha garantito continuità e regolarità delle attività didattiche e ha sacrificato pesantemente la socialità.

[6] V. però la nota 10.

[7] M. Baldacci, Personalizzazione o individualizzazione? Edizioni Erickson, 2005

[8] In questo differenziandosi dall’”istruzione personalizzata che tende a traguardi diversi e personali per ciascuno, ponendo per ognuno obiettivi differenti”. Sempre Baldacci, ibidem.

[9] Simonetta Fasoli in Didattica del recupero o recupero della didattica? pubblicato recentemente su Nuovopavonerisorse.it

[10] La didattica individualizzata, nelle esperienze più comuni, assume generalmente la classe come l’ambiente di apprendimento nel quale si alternano momenti di attività a dimensione collettiva (lezioni parzialmente frontali, debate, brainstorming …), con lavori di gruppo a dimensioni variabili, a seconda dei luoghi, del tipo di attività ecc. Durante i quali l’insegnante copre funzioni, tutte comunque sostanzialmente riconducibili al proprio profilo.

[11] In essa si apre alla possibilità, che andrebbe però chiarita su più versanti, di svolgere anche in orario antimeridiano i percorsi di mentoring e orientamento e di potenziamento delle competenze. Alcune altre aperture interessanti:  l’individuazione di docenti/tutor/esperti interni attraverso deliberazione del Collegio Docenti;  riconoscimento economico per attività gestionali di progettazione e tecnico-operative del personale interno, il supporto educativo e/o psico-pedagogico di  docenti o altre figure specialistiche interne e/o esterne, le attività operative strumentali alla gestione dei percorsi formativi (da parte segreteria didattica), ….

[12] V. al riguardo, in Associazione professionale Proteo Fare Sapere, le considerazioni approfondite nel documento “La dispersione. La scuola da parte del problema a parte della soluzione”, elaborato da un gruppo di lavoro dell’Associazione; documento dal quale sono state riprese le riflessioni del paragrafo.

 




Caro Ministro, l’orientamento educativo è altra cosa

di Simonetta Fasoli

Quasi sul finire dell’anno, il ministero dell’Istruzione e del Merito ha emanato un provvedimento che adotta Linee guida concernenti l’orientamento, il D.M. 328 del 22/12/2022.
Si tratta di un testo che si presenta con l’ambizione di assumere un’ottica di sistema, e non solo perché investe i diversi segmenti del sistema di istruzione secondaria di primo e secondo grado, ma anche perché mira ad inserirli in un’unica cornice istituzionale, pur nelle distinzioni dei rispettivi ordinamenti. Il filo conduttore è nell’idea di orientamento che attraversa l’intero percorso delineato, quasi a farne una chiave di volta.
Se questa è, come sembra, l’operazione, è il caso di fare qualche riflessione di approfondimento.
Il testo, in più di un passaggio, parla di “orientamento educativo”: ebbene, partiamo da questa espressione, per sottrarla al rischio di usarla come una formula che da sé basti a dare senso (vorrei dire, “dignità pedagogica”) alle indicazioni date.

Per dire, anzitutto, che un percorso di orientamento è “educativo” se
* si discosta nettamente da ogni forma, esplicita o implicita, di addestramento al lavoro
* si propone di formare soggetti capaci di riconoscersi parte attiva delle proprie scelte di vita
* non adotta il punto di vista del mercato come luogo di incontro della domanda/offerta, sovrapponendo in ultima istanza le sue esigenze economiciste ai percorsi formalizzati di istruzione/formazione
*non restringe lo sguardo dei soggetti in crescita nei tempi e negli spazi angusti di una idea fuorviante di “prossimità”, del territorio e delle sue caratteristiche produttive

Se tutto questo è vero e plausibile, l’orientamento “educativo” attraversa allora l’intero sistema di istruzione/formazione, perché coincide con i processi di crescita in tutto l’arco della vita: senza precocismi e senza fughe in avanti. È la premessa pedagogica forte e irrinunciabile di ogni successiva opzione di vita. È l’antidoto a ogni interpretazione mercificante di interessi e attitudini; è la trama stessa della conoscenza, che nella sua piena accezione investe, come si sa, dimensioni relazionali, affettive, cognitive.
Suggerisco a chi fosse interessato di svolgere una ricognizione sul tema con uno sguardo alle sue matrici nel tempo, per evitare di prendere per buona ogni ricerca di “novità” fine a sé stessa. E di andarsi a rileggere, in questa prospettiva, le pagine illuminanti dei Programmi della Scuola media (D.M. 9 febbraio 1979). Qui si trova, a mio parere, esemplarmente riportato un impianto pedagogico ricco di implicazioni per il discorso che in questa sede mi interessa. Si vedrà agevolmente che la Scuola media (secondaria di Primo grado) è orientativa perché IN SÉ STESSA ORIENTANTE: cosa altro vuol dire, se non questo, l’espressione “scuola che colloca nel mondo”? Ne discende che la trama disciplinare concorre a promuovere “conoscenza di sé e del mondo”: due movimenti interconnessi di un unico processo. E che ogni disciplina, correttamente intesa, è un “modo” della realtà che essa racconta, nella specificità della sua “grammatica epistemologica”, del suo linguaggio e del suo metodo. Un’impostazione originaria che le Indicazioni nazionali del Primo Ciclo nelle diverse edizioni (2007, 2012 e 2018) hanno ulteriormente declinato, ma non superato né tantomeno resa obsoleta.
Devo confessare che, pur nell’attenta lettura del decreto ministeriale, non ho trovato traccia articolata di questa idea di orientamento qui in sintesi richiamata: la dimensione “educativa” resta un’evocazione senza radici culturali e pedagogiche, un mero artificio retorico. Di qui, duole dirlo, un travisamento che si ripercuote sull’intero disegno, coinvolgendo anche le declinazioni riguardanti la scuola secondaria di secondo grado. Qui si dà luogo, a me sembra, ad una vera e propria “commedia degli errori”, in cui gli aspetti meramente “informativi” dell’orientamento fanno agio su quelli propriamente formativi, in un frequente salto di dimensioni, in una confusione disfunzionale di obiettivi e metodi di approccio.
Il tutto condito da un’enfasi degli aspetti gestionali e dei risvolti organizzativi, spesso molto dettagliati, che non riesce a nascondere, semmai fa risaltare, la pochezza dell’approccio culturale e l’insufficienza della consapevolezza dei problemi affrontati.
No, cari signori del ministero soi-disant del merito, non ci siamo… Si raccomanda una rilettura dei “fondamentali”, un paziente lavoro di ripensamento, senza nostalgie certo ma senza nuovismi. L’orientamento è un tema strategico per il sistema di istruzione, solo se parliamo davvero di educazione e non di un restyling intrapreso su mandato, neanche tanto surrettizio, del sistema produttivo.




C’è proprio bisogno del tutor?

di Raimondo Giunta

Il ricorso a parole anglosassoni (seppure riprese con varianti semantiche dal vecchio latino..) accompagna talvolta qualche innovazione o qualche idea pedagogica,  con la speranza che forniscano un adeguato corredo di prestigio …Una di queste parole è “Tutor”.

Nel mondo giuridico, in cui è nata la parola,  il tutore è la persona che si prende le responsabilità di proteggere e guidare i minori,  in assenza o in sostituzione dei genitori .E’ la persona che deve assicurare la salvaguardia dei diritti e degli interessi del tutelato nel contesto sociale in cui vive e deve crescere.
E nella scuola?

A scuola la persona da tutelare è l’alunno, in posizione di minorità rispetto agli insegnanti e rispetto all’istituzione scolastica e chiaramente solo rispetto agli uni e all’altra.

A rigore, una figura terza come il tutor, tra l’insegnante e l ‘alunno, che sostenga quest’ultimo nell’esercizio del diritto a essere formato ed educato non dovrebbe esserci, perché questa cura dovrebbe essere indissolubilmente legata all’attività di docenza di qualsiasi docente.
Ciò nondimeno, in diverse forme dell’attività formativa (formazione professionale, educazione degli adulti, corsi di aggiornamento,  etc) questa figura si è resa necessaria, come supporto alla docenza e come aiuto all’apprendimento; figura di mediazione e di accompagnamento.
Ma c’è questo particolare bisogno nell’attività didattica di ogni classe di ogni tipo e grado di istruzione? A quale tipologia di alunno dovrebbe essere dedicata questa particolare figura professionale?
A quelli che restano indietro o anche a quelli che marciano da soli in avanti come vorrebbe il ministro? La preoccupazione per le sorti del “minore” in educando è ancora in capo ad ogni insegnante o viene delegata al tutor?

Le funzioni di guida e di orientamento sono costitutive dell’adulto e del genitore, figure finora e ancora ambedue assorbite e interpretate in modi particolari dal docente nell’esercizio dei suoi compiti. Non sarà più così?

Il Ministro dell’Istruzione e del Merito(?) sicuramente sa che un tentativo di introdurre il tutor nella scuola italiana c’è già stato e che  per vari motivi non se ne è più fatto cenno.

Prima di riparlarne non bisognerebbe partire dalle ragioni di quel fallimento? La cura, l’attenzione ai problemi degli alunni, la guida nel loro processo di apprendimento, l’affiancamento nel loro processo di crescita non sono azioni possibili del e nel processo educativo, ma azioni doverose. Fanno parte delle responsabilità di ogni figura professionale che entra in una classe per svolgervi il proprio lavoro,  sapendo  che senza di esse non si genera la formazione, l’educazione, la crescita umana dell’alunno.

Non è sufficiente  sollecitare ed esaltare  queste responsabilità per affrontare i problemi che sorgono nella gestione quotidiana di una classe?

Si è vissuta una lunga stagione in cui con superbia intellettuale questi problemi sono stati giudicati marginali nella professione docente, tutta centrata sulle tecniche didattiche e organizzative.

Si sono sminuiti come superflui il mondo delle relazioni e la dimensione affettiva del lavoro, deresponsabilizzando il docente dal suo dovere di “cura” e di attenzione nei confronti di ogni singolo alunno.

Si è insistito con protervia nella formalizzazione di un processo dinamico, complesso, ricco, intrigante, emotivo, sentimentale come quello dell’educazione.  Molti, abusivamente a mio parere, hanno ridotto l’insegnamento alla sola dimensione conoscitiva, alla professionalità,  al culto della disciplina.

La dimensione educativa è stata spesso rinviata alla famiglia o nella versione più laica all’equipe psico-pedagogica.

Il problema è che le famiglie non sempre ci sono e se ci sono, spesso latitano, ma i ragazzi e i giovani ci sono e quindi non può essere eluso, da chi se li trova davanti per la gran parte del tempo della loro crescita,  il loro bisogno di “tutela”.

Se non si fosse giocato parecchio con la separatezza tra educazione e istruzione, se gli insegnanti non si fossero trincerati dietro il loro specialismo e non avessero difeso ad oltranza il loro insindacabile individualismo, rendendo di fatto impossibile l’assunzione della responsabilità collegiale di fare crescere armoniosamente l’alunno, a nessuno sarebbe venuta e verrebbe in mente l’idea di parlare di tutor.

Al massimo si sarebbe parlato dei nuovi compiti del coordinatore di classe, del coordinamento dell’azione unitaria dell’educare e dell’istruire.
Con la figura del tutor di fatto si scompone la figura del docente e se ne gerarchizzano le funzioni.

Il tutor a condizioni immutate del normale esercizio dell’insegnamento, senza una riconsiderazione radicale del suo svolgimento, potrebbe essere una pezza peggiore del buco che vorrebbe coprire, perché  professionalizzarebbe la funzione d’accompagnamento (con i rischi di impoverimento culturale ed umano del restante personale) e accentuerebbe e giustificherebbe la deresponsabilizzazione educativa dei docenti .In una parola è meglio lasciar perdere.