La scuola secondo Valditara: la scuola come punizione

di Simonetta Fasoli

Come prevedibile, il ddl che ridisegna i contorni della scuola al tempo della destra al governo è stato approvato in via definitiva alla Camera e attende ora la pubblicazione in G.U. per entrare in vigore.
I successivi decreti attuativi ne assicureranno l’effettiva operatività.
È un provvedimento che investe diverse materie, con l’intento dichiarato di ridare credibilità e strumenti di sostegno a un’istituzione in evidente affanno. Intento lodevole…se non fosse che, a ben vedere e a mio parere, va in direzione contraria, come cercherò di argomentare.

Le analisi punto per punto sul testo (che ho ovviamente letto nella versione appena approvata) le lascio volentieri agli/alle esegeti di professione, che non mancheranno. A me interessa ragionare sullo spirito di fondo che “anima” il provvedimento (senza dargli il respiro di un disegno politico-culturale degno della posta in gioco) e che i singoli dispositivi lasciano trasparire più o meno esplicitamente.

È uno spirito, dal mio punto di vista (condiviso, a quanto leggo, dalle prime reazioni nel campo politico di opposizione) fortemente anti-educativo.
Sì, lo so che il senso comune fa esultare alcun* di fronte a quello che la norma promette (e minaccia) accogliendolo come quella stretta “liberatoria” che fa sentire sollevat* i molt*, e temo i più, al pensiero sommario “era ora!”. Ma il senso comune non è buon senso, non sempre, e in certi casi richiede una riflessione per essere smontato.
La prima considerazione è certamente quella per cui, in campo educativo, le punizioni che sanzionano i comportamenti inadeguati assai difficilmente funzionano. Potremmo spingerci ad estendere questa affermazione anche nel campo giuridico, ma su questo terreno lascio parlare voci esperte…
Parlo invece di quello che più da vicino ho sperimentato, da persona di scuola, e su cui continuo a riflettere: l’educazione e la scuola.
Per dire anzitutto che l’educazione è essenzialmente “relazione”. Ovvio? Certo, ma a quanto pare non scontato. Questo è il punto. E la domanda che ne emerge è: cosa ne è della relazione educativa in un regime che parla il linguaggio della punizione, e della “correzione” con meccanismi di automatismo sanzionatorio? Io penso che il terreno della relazione arretra a misura che avanza quello della punizione (sia pure, come dice quel falso buon senso, inferta a fini “educativi”).
Chi come me ha avuto esperienza diretta di contesti educativi sa bene che nella punizione, indipendentemente dalla consistenza del provvedimento, è implicita un’ammissione di impotenza.
La scuola che punisce è la scuola che si è arresa e ha rinunciato al suo compito.
La sanzione “sospende” non l’alunno ma il campo della relazione, dunque il terreno in cui la scuola agisce.

Questo anche quando, come nel provvedimento appena varato, ricorre all’espediente di mantenere l’alunno nelle aule scolastiche, con vari compiti da svolgere. Qui la natura delle sanzioni comminate si fa sottile nella forma quanto rudimentale nella sostanza.
È un vero e proprio paradosso pedagogico, ad esempio, prevedere per le sospensioni lievi (fino a due giorni) attività di “approfondimento” da svolgere a scuola. Per cui chi le deve eseguire è autorizzato a pensare che la scuola sia una punizione. Cosa che pensa già di suo, con tutta evidenza, e che qualunque percorso minimamente “educativo” dovrebbe invece contribuire a rivedere e in prospettiva a rimuovere.
La resa della scuola è altrettanto palese, e carica di conseguenze, nel caso di comportamenti più gravi, per i quali è previsto un percorso “rieducativo” in non meglio precisate (attendiamo elenchi e/o criteri di selezione nei decreti attuativi…) strutture convenzionate. Qui i reprobi, “finalmente” fuori dagli ambienti scolastici, dovrebbero per un prodigioso effetto di lontananza scoprirsi interessati a svolgere attività di “cittadinanza solidale”. Addirittura.

Il capolavoro pedagogico, coronamento della scuola “Valditara & C”, rifulge in sede di valutazione finale: il voto di condotta, calibrato come la bilancia di una preparazione galenica, in caso sia pari a 6, configura un “debito formativo” (che considera, udite udite, la condotta al pari di una “materia”…).
E qual è il “contrappasso” pensato dalle acute menti che allignano in Viale Trastevere? In caso si sia all’ultimo anno, prima degli esami lo studente dovrà sostenere un colloquio centrato su un elaborato di educazione civica. Argomenti di “cittadinanza attiva e solidale”, neanche a dirlo. Del resto le recenti “Linee guida” ministeriali sono state presentate come il coronamento dell’insegnamento di Educazione civica, ponendo le premesse di ogni accezione più o meno aberrante della relativa “materia”.

Non c’è bisogno di ardite dietrologie per immaginare che tipo di prestazione didattica viene richiesta nell’occasione e l’uso punitivo-repressivo riservato a chi ha “meritato” il famigerato 6 in condotta…Insomma, una piena e argomentata ritrattazione. Tutt* discepoli dello storico detto secondo cui “Parigi val bene una messa”…E con ciò la funzione dis-educativa è compiuta.

Mi fermo qui. Non c’è altro da aggiungere, se non che ci troviamo di fronte ad una norma che ha valore di legge della nostra Repubblica: dunque, piaccia o meno, cogente e produttrice di effetti.
C’è da augurarsi che si sviluppi da questo un significativo movimento di opposizione militante: non nel Parlamento, dove i numeri schiaccianti di questa legislatura lasciano pochi o nulli strumenti di agibilità. Un’opposizione nel Paese, nella società. La scuola che arretra e si arrende rispetto al proprio compito costituzionale non è affare solo degli insegnanti, degli educatori, degli studenti e delle famiglie, ma di tutt* i cittadini, di più: di tutt* coloro che vivono in questo Paese.

Intanto, auspico che nelle istituzioni scolastiche si apra un fitto dibattito sui provvedimenti e sulle strategie di contrasto che le stesse norme sull’autonomia consentono. Ma non basta. Ci vuole un soprassalto di senso civico condiviso e operante nel tessuto sociale, per sviluppare in tutte le direzioni quelle forme di “cittadinanza attiva” evocate strumentalmente nel testo. Non perchè lo dice una norma di questo governo, ma perchè è la risposta giusta a un disegno autoritario e repressivo.




La formula magica 4+2 per l’istruzione tecnica e professionale

di Raimondo Giunta

A partire da quest’anno scolastico avrà inizio la sperimentazione dei corsi di studio quadriennali dell’Istruzione secondaria tecnica e professionale, che dovrebbero assicurare agli studenti il raggiungimento degli obiettivi specifici di apprendimento e delle competenze già previsti per i normali corsi quinquennali, garantendo il conseguimento in anticipo del diploma di istruzione secondaria di secondo grado all’esito dell’Esame di Stato.
Sono 176 gli istituti che ospiteranno questi corsi e 95 sono collocati nel Sud.

Nei 4 anni di studio avranno grande rilievo le attività di alternanza scuola lavoro, il potenziamento delle discipline STEM, il processo di internazionalizzazione, la didattica laboratoriale e l’adozione di metodologie innovative.
È previsto il coinvolgimento di docenti aziendali, che avranno il compito di adeguare la formazione degli studenti ai bisogni del territorio e alle innovazioni.

E’ tratto caratteristico e identitario dei corsi 4+2 la scelta dell’integrazione con il mondo del lavoro.
Per dare inizio alla sperimentazione le scuole, infatti, hanno dovuto sottoscrivere almeno un accordo di partenariato con un’azienda del territorio, grazie al quale potrà essere sviluppata l’alternanza scuola-lavoro, ritornata alle 400 ore complessive per quattro anni di corso. La collaborazione delle aziende potrà, inoltre, consentire lo sviluppo di corsi specifici rispondenti alle singole esigenze territoriali, ricorrendo al potenziamento di una o più materie di indirizzo.

Non è dato di sapere se questa innovazione prenderà piede nelle scuole, ma non è improbabile che possa trovare il consenso di molte famiglie che vedrebbero di buon occhio la riduzione del tempo scolastico, soprattutto se condita con l’illusione di una più rapida inclusione dei propri figli nel mondo del lavoro.
Perché questa è di fatto la promessa che sta dietro l’innovazione dei corsi quadriennali.
L’obiettivo dichiarato è quello di offrire agli studenti una formazione vicina alle esigenze del mondo del lavoro, che agevoli al contempo sia la prosecuzione degli studi nei percorsi di istruzione terziaria degli ITS, con il conseguimento finale, in sei anni, di un titolo di alta specializzazione tecnica, sia l’iscrizione all’Università.

Tutto bello e tutto facile, ma si dimentica che ci si lamenta e ci si è lamentati spesso della qualità dei diplomati e dei laureati. Com’è possibile, allora, che come rimedio si proponga la riduzione degli anni di scolarità in uno degli indirizzi più significativi della scuola italiana?
Chi conosce la scuola sa che va riqualificata, riassettata, stabilizzata, rasserenata e sostenuta e sa che gli alunni nella quasi totalità hanno bisogno di tempi lunghi e non di didattiche brevi per maturare sul piano umano, intellettuale e professionale.

Questa storia dei quattro anni delle superiori o quella dell’età di uscita dalla scuola, di un anno in più rispetto alle scuole europee, è una scusa per ridurre le spese dell’istruzione? Risponde davvero al requisito dell’occupabilità delle nuove generazioni?
L’ampiezza della disoccupazione giovanile è un vero problema, ma non dipende solo dal disallineamento tra istruzione ed esigenze del mondo del lavoro e allora perché questa fretta?
Non toccherà forse all’attuale generazione il destino di andare in pensione a 70 anni?

Questa riforma vorrebbe rispondere ai bisogni immediati di personale delle aziende; risponde anche alle esigenze di una forte e duratura preparazione dei giovani che hanno scelto gli indirizzi tecnici e professionali?
E’ possibile che quando si parla di istruzione tecnica e professionale l’unica preoccupazione sia l’immediata e fantasticata occupabilità e che ne debba fare le spese l’approfondimento culturale delle discipline base della formazione tecnica?

L’istruzione tecnica è il prodotto originale del sistema scolastico italiano, che bisognerebbe difendere e tutelare con grande energia, e invece negli ultimi 20 anni non c’è ministro che non voglia passare alla storia per averla messa a soqquadro. L’innovazione 4+2 andrebbe iscritta nella ricorrente e immotivata pretesa di trasformare i percorsi di istruzione tecnica e professionale in lunghi periodi di formazione professionale, sperando di andare incontro nello stesso tempo alle esigenze immediate delle aziende e al bisogno di occupazione di alcune fasce sociali.
Non ha un grande respiro e forse nemmeno un grande futuro.
Le scuole della facile occupabilità sono quelle che vanno fuori mercato più facilmente e prima nelle società con alto tasso di innovazione e di sviluppo. Lo scarto tra istruzione e mondo del lavoro è strutturale e non è la ricorsa all’ultima novità che colmerà il distacco; potrà farlo un’istruzione che coltivi la solidità del possesso dei saperi e delle metodologie che li connotano; unico modo per orientarsi nel mondo che non smette mai di cambiare.

Mette tristezza doversi confrontare con questi tentativi periodici di ridimensionare la durata dei curricoli scolastici; si vuole chiudere per sempre la stagione nella quale si vantava come conquista di civiltà portare a 5 anni i professionali e il magistrale.
A pensarci bene non è proprio un bel messaggio quello che si invia alle nuove generazioni.

 




La pantera identitaria

di Giovanni Fioravanti

Quando si incita ad affermare la propria identità, in sostanza si invita a sventolarla in faccia agli altri e questo certo non si può dire che sia un gesto di amicizia.

Pensare oggi di porre a coronamento del curricolo del primo ciclo di istruzione l’acquisizione della propria identità nazionale, come sembra nelle intenzioni dell’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito, ispirato dal pensiero della coppia Galli della Loggia, Loredana Perla, rischia di mettere in serio pericolo l’impellente necessità di formare le nuove generazioni a viversi come cittadini di un mondo in cui difendere la convivenza comune e il proprio comune ambiente di vita. Significa non aver appreso la lezione della storia che è apprendimento della “grammatica della civiltà”, la propria e quella degli altri, per non ricadere nelle barbarie del passato.

Non ci sono distinguo che tengano, pretestuose denunce sull’ignoranza della storia e della geografia del proprio paese da parte di studenti e studentesse formati agli apprendimenti e alle competenze prescritte dalle attuali Indicazioni curricolari nazionali per le scuole del primo e del secondo ciclo di istruzione. Se tali carenze ci sono, le cause vanno ricercate altrove, non tanto perché non sia chiaro a cosa debba servire la scuola pubblica, ma, se mai, perché non è chiaro cosa e come la scuola pubblica debba essere.

Agitare l’identità come elemento di compattazione di un popolo nel terzo millennio del mondo dovrebbe rendere avvertiti dei pericoli che oggi comporta, rispetto ai vantaggi che si presume possano derivare.
Lo spirito patriottico dei fautori dell’insegnamento dell’identità, ci trascina tutti due secoli addietro, a quella storia risorgimentale incompiuta di un’Italia fatta che ora doveva preoccuparsi di fare gli Italiani e a questo avrebbe dovuto provvedere l’istituzione della scuola pubblica con la legge di Gabrio Casati. Ha ragione Galli della Loggia a scrivere che la scuola pubblica non può sfuggire a questo destino iscritto nella sua origine.[1]

Ma il problema è, appunto, ancora di quali italiani vogliamo formare, siamo sempre lì, ieri come oggi.
Si ha l’impressione di assistere ai corsi e ai ricorsi storici. Per Croce e Gentile il Risorgimento fu interrotto all’epoca dell’unificazione politica. Il fascismo rappresentava la prosecuzione del Risorgimento e Benito Mussolini la speranza  nel suo possibile compimento. Il primo dovette ricredersi, il secondo rimase radicato nella sua fiducia nella storia come autocoscienza di un popolo, nello specifico del popolo italiano. A questo scopo mise a disposizione del fascismo la sua riforma della scuola con la religione, filosofia del popolo, a coronamento dell’insegnamento delle medie e delle elementari.

Ora i novelli epigoni, Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla, propongono non più la religione come agglutinante disciplinare della scuola di base ma il canone cultural-identitario italiano, attraverso la narrazione, il racconto della storia e della geografia del paese.[2] Non solo,  rilanciano i best seller risorgimentali, Cuore e Le avventure di Pinocchio come modelli di educazione nazionale di rara chiarezza[3], la cui ripresa e diffusione scolastica è necessaria per combattere la deriva scolastico-educativa che ha le sue origini negli anni ‘60[4].

In definitiva Insegnare l’Italia è la copertura per tornare al passato, l’identità da inculcare è sempre quella della scuola gentiliana violata dalla scuola media unica, dall’abolizione del latino e dalla pedagogia progressista, è il Risorgimento che tradito dal fascismo si è realizzato nella Resistenza partigiana e l’autocoscienza generata dalla storia ha preso un’altra direzione anche sul piano dei valori educativi come la consapevolezza di appartenere all’avventura umana.

Storia e memoria vanno insieme, l’una sorregge l’altra e allora succede che non è possibile leggere la storia senza la memoria del prima e del dopo e cioè senza chiedersi che significato assume la parola identità oggi, a un quarto di secolo dall’inizio del millennio.

Nel 2005 Amin Maalouf ha scritto L’identità[5], convinto che negli anni in avvenire il problema dell’identità avrebbe indebolito il dibattito intellettuale e avvelenato la Storia. Una proposta per cercare di dominare la pantera identitaria prima che ci divori.
Amin Maalouf ci ricorda che quando il 9 novembre del 1989 è caduto il muro di Berlino molte persone hanno sperato che sarebbe iniziata in tutti i continenti un’epoca di pace, libertà e prosperità senza precedenti nella Storia. Ma dodici anni dopo, l’11 settembre 2001 questa speranza è svanita insieme al crollo delle Torri Gemelle del World Trade Center di New York.

Più nulla è stato come prima. Maalouf lo spiega sostenendo che con la fine della guerra fredda siamo passati da un mondo in cui gli attriti erano fondamentalmente ideologici a un mondo in cui gli attriti sono fondamentalmente identitari. Se il confronto ideologico fra comunismo e capitalismo si è rivelato pericoloso e rischioso, aveva però un merito, quello di suscitare un dibattito intellettuale permanente, al contrario, gli attriti identitari non suscitano alcun dibattito ideologico. L’identità non è oggetto di dibattito, è un a priori, non deriva da una scelta, un’identità si scopre, si assume, si proclama. Si afferma ad alta voce come appartenenza, come sfida di solito all’alterità, al non-io reale o immaginario che sia.

E, dunque, rilanciare il tema dell’identità significa lisciare il pelo alla pantera identitaria, camminare in equilibrio sul filo sottile che corre fra la diversità del mondo e l’esigenza di universalità.
L’opposto di quello che si propone l’insegnamento della storia prescritto dalle attuali Indicazioni Nazionali per il curricolo del primo ciclo di istruzione: “Nei tempi più recenti il passato e, in particolare, i temi della memoria, dell’identità e delle radici hanno fortemente caratterizzato il discorso pubblico e dei media sulla storia. Un insegnamento che promuova la padronanza degli strumenti critici permette di evitare che la storia venga usata strumentalmente, in modo improprio. […] Occorre, dunque, aggiornare gli argomenti di studio, adeguandoli alle nuove prospettive, facendo sì che la storia nelle sue varie dimensioni – mondiale, europea, italiana e locale – si presenti come un intreccio significativo di persone, culture, economie, religioni, avvenimenti che hanno costituito processi di grande rilevanza per la comprensione del mondo attuale…[6]

È evidente che andare a intaccare questa impostazione costituirebbe una precisa scelta ideologica, come del resto non nega Galli della Loggia il quale sostiene che nell’ambito dell’istruzione e delle scelte didattiche è impossibile la neutralità, l’assenza di una prospettiva ideologico-culturale.[7]

Attenzione, perché in questo modo si inverte, si altera la prospettiva delle attuali Indicazioni nazionali, vale a dire del nostro sistema scolastico nel suo complesso, non più la persona nella sua specificità come punto di partenza del processo di insegnamento-apprendimento ma la cultura di appartenenza come identità da acquisire, un’inversione netta da soggetto a oggetto dell’istruzione.

[1] E. Galli della Loggia, L. Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Morcelliana, 2023, p. 37
[2] idem. p.79
[3] idem. p. 100
[4] idem. p. 110
[5] Amin Maalouf, L’identità, Bompiani, 2005
[6] Annali della Pubblica Istruzione, Numero Speciale, 2012
[7] E. Galli della Loggia, L. Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Morcelliana, 2023, p. 37




Ragionando sulla dispersione scolastica

di Raimondo Giunta

La lotta alla dispersione scolastica è uno dei compiti più nobili che si possa svolgere nelle singole scuole, perchè dà respiro sociale ed educativo a tutta l’attività formativa. Nella società della conoscenza, dell’apprendimento durante tutta la vita, chi fuoriesce anticipatamente dal sistema formativo senza il possesso di adeguate e solide competenze per svolgere il ruolo di cittadino e di lavoratore è destinato all’emarginazione sociale.
E in linea di principio nessuno dovrebbe accettare un fatto del genere.

Alla scuola è stato indicato l’obiettivo di ridurre drasticamente la dispersione scolastica e nel frattempo anche quello di aumentare in modo cospicuo la percentuale dei diplomati di quanti frequentano le superiori per allinearsi alle relative medie europee.  I risultati sono in via di miglioramento, anche se non sono completamente soddisfacenti, perchè il fenomeno della dispersione è ancora consistente, per vecchi e inestirpati fattori, ma anche per nuovi, come la scolarizzazione dei figli degli immigrati, per la quale non si è sempre e dappertutto preparati.

A partire dagli anni ‘60 le porte delle scuole sono state aperte a tutti, soprattutto alle superiori. I risultati di questa necessaria scolarizzazione di massa, però, sono ancora contraddittori. A parità di “qualità umane”, infatti, non si ha tra i giovani parità di risultati, di successo formativo e di possibilità di inserimento nel mondo del lavoro.

Si è intervenuto su alcuni ostacoli di natura economica, ma negli ultimi tempi con risorse sempre decrescenti, (riduzione delle tasse di iscrizione, borse di studio, gratuità dei servizi di trasporto, buoni-libro, ma rare volte con le mense scolastiche). Questi provvedimenti hanno favorito l’accesso di tantissimi giovani alle scuole, ma non sono riusciti a tenervi dentro tutti quelli che vi entravano e a farli uscire a tempo dovuto con il bagaglio necessario di preparazione per affrontare la vita.

Questo significa che gli ostacoli alla piena scolarizzazione delle nuove generazioni non erano e non sono esclusivamente di natura economica.  E’ un problema di prima grandezza il contrasto di fondo che si sviluppa tra scuola, cultura scolastica, codice interno del sistema scolastico da una parte, mondo giovanile, cultura giovanile e soprattutto nuova utenza dall’altra. Il peso delle discipline logico-linguistiche, il primato della scrittura, l’astrazione inevitabile di alcuni saperi scolastici, la subalternità e la debolezza delle attività laboratoriali nei curricoli scolastici, l’organizzazione del tempo scolastico sono congeniali ad un certo tipo di alunni :quelli predisposti e in qualche modo allenati in ambienti familiari che ne comprendono e ne accettano le ragioni, per altro genere di giovani, cioè di altre estrazioni sociali, queste caratteristiche del mondo scolastico costituiscono difficoltà da superare.

Il problema più rilevante nell’insuccesso scolastico è quello costituito dalla povertà dell’eredità culturale di cui dispongono tanti giovani che entrano nel sistema di istruzione, A scuola non sempre si riesce a contenere i disagi che ne derivano.
Si registra ancora una preoccupante correlazione tra successo scolastico e patrimonio culturale in possesso degli alunni, tra status culturale della scuola e quello delle famiglie di ceto medio. Nelle scuole, anche in quelle ad indirizzo tecnico e nelle stesse medie, vengono esaltate e premiate le forme di intelligenza che si esprimono nel rapido e più ampio possesso delle conoscenze. Poco spazio si dà al sapere fare e al sapere agire, anche se in queste finalità si devono individuare le condizioni di una vera democratizzazione del curriculum e della valutazione,

Accanto a questo primo grande problema, altri ne sono sorti, che rendono difficile per molti il successo formativo.
A) La fine della mobilità sociale che nel titolo di studio trovava alimento e giustificazione; causa fondamentale della motivazione a studiare, non sostituibile col piacere della cultura, con il diritto ad una piena cittadinanza, con la necessità di una vita continua come apprendimento. Neppure la cognizione della marginalità sociale conseguente alla povertà di cultura e alla carenza di professionalità riesce ad avere capacità di motivazione. Lo scambio sacrifici oggi per eventuali vantaggi domani non funziona e non viene praticato da molti giovani.

B) L’incapacità di dominare le nuove tecnologie per ricavarne risorse per il lavoro e per la cittadinanza.

Sono due sfide al sistema scolastico, ma solo la seconda è davvero nelle sue possibilità con i dovuti finanziamenti e con la necessaria predisposizione dell’infrastruttura materiale e professionale. La soluzione della questione fondamentale della mobilità sociale è nelle mani di chi ha la responsabilità della politica industriale e degli investimenti economici. La scuola deve soltanto non perdere battute nel preparare i giovani ad inserirsi nel modo migliore e con il dovuto bagaglio professionale e culturale nel mondo del lavoro se e quando per loro si aprono le porte

Oltre a questi problemi in Meridione se ne devono affrontare altri molto seri e che non vengono adeguatamente considerati nel nuovo e appassionante sport nazionale delle graduatorie degli istituti scolastici. . .
Problemi riassumibili nella povertà del capitale culturale del territorio (insufficienza di sedi scolastiche, grave deterioramento degli edifici scolastici, rarità di biblioteche, povertà di centri e di associazionismo culturali, disattenzione degli enti locali, casualità dei servizi alle persone, scarsa partecipazione civica alle scelte locali, vuoto e dissipazione dei mesi estivi, deprivazione culturale di molte famiglie etc) e nella disgregazione sociale del territorio di riferimento (lacerazione dei rapporti familiari, redditi familiari incerti, precarietà nel lavoro e disoccupazione di massa, illegalità e criminalità diffuse, quartieri senza servizi, degrado urbanistico, servizi dei trasporti insufficienti e sgangherati etc). Problemi che aggravano le condizioni del disagio giovanile e ostacolano il percorso di formazione di quanti provengono da questi ambienti.

Nella dispersione scolastica lavorano, quindi, a pieno regime fattori economico-sociali, fattori culturali, motivazionali e valoriali.
Per questo è una lotta difficile e dai risultati incerti. E’ una lotta che va condotta su diversi terreni, che richiede una strategia plurale e la capacità di tessere le alleanze necessarie sul territorio, perchè da sola la scuola non risolverà mai questo problema. Chiamare, allora, gli enti locali alle proprie responsabilità, le associazioni per il loro contributo, le aziende per la collaborazione, le famiglie per la partecipazione alla vita scolastica, gli insegnanti all’innovazione e alla creatività metodologica.

A scuola non dovrebbero mancare iniziative per cercare, laddove il problema si pone, di recuperare il rapporto tra generazioni; di superare ogni forma di comunicazione non dialogante all’interno della comunità scolastica; di spingere le famiglie alla riassunzione della loro responsabilità educativa, qualora come spesso succede vi avessero rinunciato; di valorizzare nello studio e nella riflessione la storia, le tradizioni, la cultura del proprio territorio per riportare criticamente i giovani alle proprie radici.

Il lavoro più importante resta sempre quello che viene quotidianamente fatto in classe; ma non al modo di sempre, perchè è quello che in parte produce la dispersione. Un lavoro che deve essere fondato sulla fiducia che viene riposta negli alunni, sulla valorizzazione del loro impegno, sull’incoraggiamento e sulla loro responsabilizzazione.
Vedi cosa sai fare? puoi farcela e in alcuni casi devi farcela.  Potrebbero essere i principi con cui regolarsi nell’attività didattica. Principi che richiamano la passione educativa dell’insegnante, la sua umanità professionale.

In situazioni in cui nell’immediato è impossibile il recupero educativo della famiglia e del territorio, con rischi incombenti di degrado e di marginalità sociale per tanti nostri giovani, le uniche risposte al problema della dispersione sono quelle che solo la scuola puo’ dare, considerando il grande patrimonio umano, culturale e professionale dei suoi insegnanti.

E se non la scuola, chi?

 




Fissiamo un tetto alle sgrammaticature di Valditara

di Mario Maviglia

Ha ragione il Ministro Valditara a scagliarsi contro chi ha stigmatizzato i suoi errori linguistici contenuti in un tweet in cui parlava della necessità di costituire classi con la maggioranza di italiani, allineandosi alle posizioni del suo capopartito Salvini, nonché Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture.

Questa vicenda ci fa capire tante cose interessanti:

  • Valditara dice: “Quando si detta un tweet al telefono non si compie un’operazione di rigore linguistico e si è più attenti al contenuto”. Verissimo! Però dall’altra parta del telefono ci si aspetta che chi prende la telefonata (ossia un collaboratore di Valditara, da lui stesso scelto, immaginiamo) abbia almeno la licenza di scuola media…
  • Il Ministro del Merito aggiunge che il processo di assimilazione degli alunni stranieri “avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani, se studieranno in modo potenziato l’italiano…”. Ecco, sarebbe opportuno che anche Valditara e l’ignoto suo collaboratore potenziassero a loro volta il loro italiano. La lingua italiana sarebbe loro grata.
  • Secondo il Valditara-pensiero (preso a prestito dal suo capopartito Salvini) questo processo di assimilazione degli studenti stranieri avverrà “se nelle scuole si insegni approfonditamente la storia, la letteratura, l’arte, la musica italiana…” [Si noti la finezza sintattica di quel “si insegni”, una vera chicca e licenza poetica. Non è ancora licenza media, ma la strada è tracciata. Con il potenziamento di cui sopra ce la possiamo fare…].
    Ma qui il Valditara-pensiero denuncia qualche défaillance (tranquillo, sig. Ministro: vuol dire “debolezza”): infatti i risultati peggiori – almeno stando alle classifiche internazionali come OCSE-PISA – gli allievi delle scuole italiane li conseguono nelle scuole superiori dove la presenza degli alunni stranieri è più bassa. E allora come la mettiamo? Forse questa necessità di “approfondimento” non riguarda solo gli studenti stranieri, ma anche e soprattutto quelli italiani.

  • Senza nascondere una certa stizza, il Ministro (Valditara, lo dobbiamo specificare sempre sennò sembra che si voglia parlare del suo capo, Salvini…) fa notare “ai tanti critici dall’indignazione facile, che in queste ore si stanno scatenando nella caccia all’errore, che così facendo ignorano la questione da me posta…”. Per la verità il Ministro (Valditara) e il suo capo (Salvini) sono i primi ad ignorare che la questione del tetto massimo degli alunni stranieri per classe era stata già oggetto di una circolare all’epoca del IV Governo Berlusconi, Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini.
    Si tratta della CM n. 2 dell’8 gennaio 2010, che fissava appunto al 30% la percentuale di “alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe”. Una circolare emanata quindi da un governo di centro-destra, come quello attuale.
    Ma è comprensibile che quando si hanno tanti tweet da fare o annunci da proclamare alla Nazione non si abbia poi il tempo di documentarsi rispetto al contenuto, quel contenuto che il Ministro (Valditara) dice di aver attenzionato a scapito della forma. Non si vuole essere cavillosi, ma qui, con tutta franchezza, sembra mancare sia la forma che il contenuto. È plausibile che ciò possa succedere al Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture (a proposito: da quando i Ministri di tale Dicastero si interessano in modo così insistente di politica scolastica? Il Ponte sullo Stretto non è già abbastanza impegnativo?), ma che un Ministro dell’Istruzione non sappia cosa ha prodotto il suo Dicastero in materia è abbastanza allarmante.
  • Volutamente abbiamo più volte parlato del Ministro Salvini come il “capo” del Ministro Valditara: non si tratta di una svista o di una nota polemica. Sia a proposito della vicenda della scuola di Pioltello che nel caso della percentuale di alunni stranieri nelle classi il la è stato dato da Salvini a cui si è accodato, come un mansueto cagnolino, o se volete come un coscienzioso corista, il Ministro Valditara.
    Insomma, sembra di capire che il Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture detta la linea della politica scolastica e il Ministro Valditara la mette in atto con sottomessa dedizione.
  • Sempre a proposito di contenuti, è facile prevedere che una norma sulla percentuale massima di alunni stranieri per classe (20 o 30% che sia) non troverà mai attuazione perché richiederebbe una concertazione di azioni tra più soggetti istituzionali, come d’altro canto ben specificava la CM 2/2010 che sottolineava l’importanza di “realizzare le conseguenti intese tra soggetti disponibili sul territorio per una gestione coordinata delle iscrizioni dei minori stranieri fra l’Amministrazione scolastica, le Prefetture, le Province e i Comuni”. Difficile pensare che oggi sia possibile un’azione di tale complessità.
  • D’altro canto, sempre citando la CM 2/2010, “non va dimenticato che a influire sulla presenza più o meno significativa di minori stranieri in un determinato territorio contribuiscono sì le capacità attrattive delle scuole che in esso insistono, ma pure – e in termini non certo irrilevanti – le disponibilità di alloggio e le offerte di lavoro in esso presenti. Il che fa immediatamente emergere il ruolo cruciale che le prassi degli accordi e delle alleanze territoriali possono svolgere per affrontare i problemi suddetti.”

Di questi problemi non vi è traccia negli interventi dei due Ministri dell’Istruzione (Valditara) e del Merito (Salvini). E allora facciamo una facile e cassandrica previsione: qualora questa coppia di Ministri dovesse partorire una norma su questa materia, la responsabilità di accogliere o non accogliere gli alunni stranieri, rispettando la quota percentuale stabilità formalmente, ricadrà interamente sulle istituzioni scolastiche e i dirigenti scolastici resteranno, ancora una volta, col cerino in mano. Parafrasando Brecht, possiamo dire che si siederanno nella parte più disagevole perché gli altri posti saranno occupati.




Il principio di laicità non esclude la necessità di una “formazione religiosa”

di Antonella Mongiardo

Una domanda semplice, in apparenza, che negli anni ha attraversato correnti di pensiero diverse e, talora, contrapposte, fino a giungere, in tempi recenti, ad interpretazioni restrittive e fuorvianti che identificano la laicità con assenza di religione nelle scuole. Cos ‘è, ad ogni modo, la laicità? Qual è il suo significato nella scuola?

La risposta, nel significato letterale, la troviamo nei dizionari. Secondo la Treccani, laico è chi non fa parte del mondo clericale. Lo stato laico è quello che riconosce l’eguaglianza di tutte le confessioni religiose, senza concedere particolari privilegi o riconoscimenti ad alcuna di esse, e che riafferma la propria autonomia rispetto al potere ecclesiastico”.

Il laicismo, quindi, si identifica con una concezione più ampia e complessiva della cultura e della vita civile, basata sulla tolleranza comprensiva delle credenze altrui, sul rifiuto del dogmatismo in ogni settore della vita associata, anche al di là dell’influenza diretta dell’istituzione religiosa dominante.

In una realtà sociale come quella di oggi, dove il cedimento dei valori etici e l’affermazione di nuovi stili educativi, talvolta discutibili, interferiscono spesso con l’azione formativa della scuola, è sempre più arduo realizzare quell’auspicata corresponsabilità educativa tra scuola e famiglia, che dovrebbe essere la base dello sviluppo identitario dei giovani. Le nuove generazioni stanno crescendo in un’epoca in cui si fa sempre più sfocato il confine tra i ruoli e le responsabilità, con una conseguente perdita di autorevolezza, sia della scuola sia della famiglia, che devono essere, invece, i due più importanti avamposti pedagogici della società.

E’ proprio nella prospettiva di un recupero di valori e di una più forte alleanza tra scuola e famiglia che si inserisce la dimensione sociale dell’elemento religioso nella scuola.

Condivido le acute osservazioni del matematico Piero Del Bene, quando sostiene che, se laicità significasse assenza di religione, allora nella scuola laica non dovrebbero trovare posto il cattolicesimo di Manzoni e di numerosi altri autori della letteratura italiana, non si dovrebbe studiare la divina commedia di Dante e non si dovrebbero visitare chiese, né ammirare le rappresentazioni sacre attraverso i libri di storia dell’arte o durante le gite scolastiche.

 

Invece, sappiamo bene che le discipline umanistiche traboccano di cultura cattolica; l’arte, la filosofia, la musica, sono ambiti in cui il cattolicesimo ha lasciato la sua impronta indelebile. La cultura religiosa fa parte, a pieno titolo, della formazione scolastica. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che essa permea tutta la nostra tradizione culturale, la nostra società, i nostri valori e i nostri linguaggi.

D’altro canto, basti dire su tutto una sola cosa: l’insegnamento della Religione cattolica è una disciplina istituzionale, presente nella scuola pubblica e affidata spesso a religiosi approvati dall’autorità ecclesiastica.

Un insegnamento che, pur nell’avvicendarsi di governi e diverse forme di Stato, non è mai venuto meno. Dall’unità d’Italia ad oggi, questa particolare disciplina è sempre stata parte integrante del progetto educativo dell’istruzione nazionale.

E’ evidente, peraltro, il senso della sua presenza nella scuola. Nell’ambito della sfera prettamente didattica, eliminare la religione cattolica significherebbe svuotare la nostra cultura, dal momento che il patrimonio culturale e artistico del nostro Paese custodisce tesori inestimabili in gran parte a tema cattolico-cristiano; e significherebbe snaturare la nostra stessa identità storica, che si è forgiata, nel corso dei secoli, a stretto contatto con la dottrina cattolica.

 

Come viene specificato anche nella normativa scolastica, la conoscenza delle radici storiche della religione cattolica “svolge un ruolo fondamentale e costruttivo per la convivenza civile, in quanto permette di cogliere importanti aspetti dell’identità culturale di appartenenza e aiuta le relazioni e i rapporti tra persone di culture e religioni differenti”.

 

E che dire, poi, della valenza educativa dell’insegnamento religioso? I principi ispiratori della religione cattolica, improntati al rispetto del prossimo, alla solidarietà e alla pace, rappresentano un faro nell’azione educativa della scuola, la quale, andando oltre i traguardi cognitivi connessi all’acquisizione di saperi disciplinari, tende alla formazione globale dello studente, alla sua crescita personale e sociale.

 

Come scrive la Congregazione per l’educazione cattolica nella lettera n°520/2009: “Ai fanciulli e ai giovani va garantita la possibilità di sviluppare armonicamente le proprie doti fisiche, morali e intellettuali; essi vanno anche aiutati a perfezionare il senso di responsabilità, ad imparare il retto uso della libertà, e a partecipare attivamente alla vita sociale (cfr c. 795 Codice di Diritto Canonico [CIC]; c. 629 Codice dei Canoni delle Chiese Orientali [CCEO]). Un insegnamento che disconoscesse o emarginasse la dimensione morale e religiosa della persona opporrebbe un ostacolo insormontabile per una educazione completa, perché «i fanciulli e i giovani hanno il diritto di essere aiutati a valutare con retta coscienza e ad accettare con adesione personale i valori morali”.

In definitiva, si pur dire che Laicità non significa assenza di religione. E non potrebbe del resto significare assenza di religione nella scuola, se l’insegnamento della religione cattolica viene istituito dallo Stato come garanzia di laicità. A riprova di ciò, difatti, nella normativa scolastica, l’unico riferimento esplicito alla laicità della scuola lo si rinviene nelle Indicazioni Nazionali del curricolo, laddove si parla dell’Insegnamento della Religione Cattolica, ma non per limitarla, bensì per salvaguardare il diritto dell’alunno a non avvalersene, facendo risaltare così l’effettivo significato della laicità nella scuola. Una laicità che non si adagia nell’indifferenza verso i valori religiosi, ma che, al contrario, rafforza la funzione educativa della scuola, rivolta anche al rispetto delle scelte e all’integrazione di differenti culture.

 

“La Scuola Italiana – si legge nelle Integrazioni alle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione – si avvale della collaborazione della Chiesa cattolica per far conoscere i principi del cattolicesimo a tutti gli studenti che vogliano avvalersi di questa opportunità. L’insegnamento della religione cattolica (Irc), mentre offre una prima conoscenza dei dati storico-positivi della Rivelazione cristiana, favorisce e accompagna lo sviluppo intellettuale e di tutti gli altri aspetti della persona, mediante l’approfondimento critico delle questioni di fondo poste dalla vita. Per tale motivo, come espressione della laicità dello Stato, l’Irc è offerto a tutti in quanto opportunità preziosa per la conoscenza del cristianesimo, come radice di tanta parte della cultura italiana ed europea. Stanti le disposizioni concordatarie, nel rispetto della libertà di coscienza, è data agli studenti la possibilità di avvalersi o meno dell’Irc”.

 

Dal punto di vista pedagogico, dunque, la presenza della Religione cattolica nella scuola va vista come un contributo, in coordinamento con le altre discipline, alla formazione complessiva dell’identità di ciascuno.

 

Ma il significato “laico” dell’insegnamento religioso nella scuola ha anche un fondamento giuridico. Il principio di laicità dello Stato, così come delineato nella giurisprudenza costituzionale, è la sintesi di più disposizioni costituzionali, ossia degli artt. 2-3, 7-8, 19 e 20 Cost., ove assume un ruolo centrale “la salvaguardia della libertà religiosa in regimedi pluralismo religioso e culturale” (Corte cost., sent. n. 203 del 1989).

L’Irc è presente nella scuola italiana in virtù dell’art.7 della Costituzione, sorto dall’accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana, per garantire, in regime di pluralismo religioso (art.8), l’insegnamento della cultura religiosa nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado. E’ da questa norma  che discende  il fondamentale principio di laicità: lo Stato, senza essere indifferente rispetto alle religioni, deve garantire a tutte pari libertà.

L’Irc si inserisce così, a pieno titolo, “nel quadro delle finalità della scuola”. Lo Stato italiano riconosce “il valore della cultura religiosa”, dichiarando di tener conto del fatto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” (art. 9.2). La finalità principale della scuola, che l’Irc assume come propria, non può essere altra da quella desumibile dalla Costituzione e dalla legislazione scolastica, cioè lo sviluppo della persona umana, senza distinzioni di sorta, neanche di carattere religioso (art. 3 Cost.).

 

E, in seguito, con l’Accordo del 1984 viene aggiunto che l’accesso all’Irc avviene sulla base di una libera scelta, che ognuno è chiamato ad operare.

Il principio della libertà di scelta viene richiamato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n°203/1989: “Lo Stato è obbligato, in forza dell’Accordo con la Santa Sede, ad assicurare l’insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti decidano di non avvalersene, l’alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione”.

 

E, a proposito della non obbligatorietà di seguire corsi alternativi all’insegnamento della religione cattolica, viene puntualizzato nella sentenza della Corte costituzionale n°13/1991: “Alla stregua dell’attuale organizzazione scolastica è innegabile che lo “stato di non-obbligo” può comprendere, tra le altre possibili, anche la scelta di allontanarsi o assentarsi dall’edificio della scuola”.

 

 

Orbene, alla prima domanda, posta come incipit di questo articolo, ne segue inevitabilmente un’altra. Si può pregare o celebrare atti di culto nelle scuole?

La risposta arriva dal Consiglio di Stato, che, con sentenza n.1388 del 27 marzo 2017, riconosce la possibilità delle benedizioni religiose a scuola in orario extrascolastico. Nel contempo, però, il CdS pone dei limiti ben precisi all’attività di culto nella scuola, conciliando il principio di laicità della scuola con la libertà di partecipazione ad iniziative culturali o di espressione religiosa e garantendo l’autorevolezza dell’esercizio dell’autonomia scolastica.

La vicenda vede protagonista il Consiglio di Istituto di un I.C. di Bologna che, nel febbraio del 2015, concedeva i locali scolastici a tre parroci per le benedizioni pasquali in orario extrascolastico. L’iniziativa era rivolta agli alunni, i quali liberamente potevano parteciparvi, accompagnati da un adulto per la vigilanza.  La parte ricorrente adduceva che tale misura non preservava la laicità della scuola pubblica.

Il Tar accoglieva il ricorso facendo leva sul “principio costituzionale della laicità o non confessionalità dello Stato”, e dell’ “equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose”. Si legge nella sentenza del Tar: “Non v’è spazio per riti religiosi riservati per loro natura alla sfera individuale dei consociati, mentre ben possono esservi occasioni di incontro che su temi anche religiosi consentano confronti e riflessioni in ordine a questioni di rilevanza sociale, culturale e civile, idonei a favorire lo sviluppo delle capacità intellettuali e morali della popolazione, soprattutto scolastica, senza al contempo sacrificare la libertà religiosa o limitare le relative scelte”.

Il primo Giudice affermava, inoltre, che “un’invalicabile linea di confine sia a tali fini costituita dalla circostanza che si tratti o meno di un atto di culto religioso”, e che nel caso in esame, al contrario, sarebbe stato «autorizzato un vero e proprio rito religioso da compiersi nei locali della scuola e alla presenza della comunità scolastica, sì che non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 96, comma 4, del d.lgs. n. 297 del 1994, e neppure quella di cui al successivo comma 6, riferito al ben diverso ambito di iniziative di socializzazione e stimolo della maturazione degli studenti per “fronteggiare il rischio di coinvolgimento dei minori in attività criminose”.

Il Consiglio di Stato, invece, riformando la sentenza di primo grado, precisa nel dispositivo che “tale rito – avvenuto a scuola ma in orario non scolastico – va accolto al pari di un’attività parascolastica e che la natura religiosa dell’evento non può ritenersi un elemento discriminatorio”.

Si riporta il passaggio conclusivo della sentenza del CdS, la cui pronuncia assumeva ormai carattere soltanto morale, il cui unico effetto, ora per allora, avrebbe potuto avere il solo effetto di costituire anche un precedente.

“Com’è noto, la benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità, senza necessità di particolari preparativi.

Il fine di tale rito, per chi ne condivida l’intimo significato e ne accetti la pratica, è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le persone che a tale titolo li frequentano.

Non avrebbe senso infatti la benedizione dei soli locali, senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità di credenti, non potendo tale vicenda risolversi in una pratica di superstizione.

Tale rito dunque, per chi intende praticarlo, ha senso in quanto celebrato in un luogo determinato, mentre non avrebbe senso (o, comunque, il medesimo senso) se celebrato altrove; e ciò spiega il motivo per cui possa chiedersi che esso si svolga nelle scuole, alla presenza di chi vi acconsente e fuori dall’orario scolastico, senza che ciò possa minimamente ledere, neppure indirettamente, il pensiero o il sentimento, religioso o no, di chiunque altro che, pur appartenente alla medesima comunità, non condivida quel medesimo pensiero e che dunque, non partecipando all’evento, non possa in alcun senso sentirsi leso da esso.

Deve quindi concludersi che la “benedizione pasquale” nelle scuole non possa in alcun modo incidere sullo svolgimento della didattica e della vita scolastica in generale. E ciò non diversamente dalle diverse attività “parascolastiche” che, oltretutto, possono essere programmate o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza una formale delibera.

  1. È appena il caso di rilevare che non può logicamente attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, con le limitazioni stabilite nelle prescrizioni annesse ai provvedimenti impugnati, un trattamento deteriore rispetto ad altre diverse attività “parascolastiche” non aventi alcun nesso con la religione, soprattutto ove si tenga conto della volontarietà e della facoltatività della partecipazione nella prima ipotesi, ma anche che nell’ordinamento non è rinvenibile alcun divieto di autorizzare lo svolgimento nell’edificio scolastico, ovviamente fuori dell’orario di lezione e con la più completa libertà di parteciparvi o meno, di attività (ivi inclusi gli atti di culto) di tipo religioso.

Ed ancora, c’è da chiedersi come sia possibile che un (minimo) impiego di tempo sottratto alle ordinarie attività scolastiche, sia del tutto legittimo o tollerabile se rivolto a consentire la partecipazione degli studenti ad attività “parascolastiche” diverse da quella di cui trattasi, ad esempio di natura culturale o sportiva, o anche semplicemente ricreativa, mentre si trasformi, invece, in un non consentito dispendio di tempo se relativo ad un evento di natura religiosa, oltretutto rigorosamente al di fuori dell’orario scolastico.

Va aggiunto che, per un elementare principio di non discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa di un’attività, una valenza negativa tale da renderla vietata o intollerabile unicamente perché espressione di una fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta ammissibile e legittima.

Del resto, la stessa Costituzione, all’art. 20, nello stabilire che «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative (…) per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività», pone un divieto di un trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto tali.

Ovviamente, la partecipazione ad una qualsiasi manifestazione o rito religiosi (sia nella scuola che altrove) non può che essere facoltativa e libera, non potendo non godere, solo perché tale, di minori spazi di libertà e di minore rispetto di quelli che sono riconosciuti a manifestazioni di altro genere, nonché tollerante nei confronti di chi esprime sentimenti e fedi diverse, ovvero di chi non esprime o manifesta alcuna fede.

Negli atti impugnati i parametri ora indicati sono tutti rigorosamente rispettati, essendo garantita la libertà di partecipare all’evento in orario non scolastico, senz’alcuna forma di contrapposizione con altri credo religiosi o con qualsivoglia diversa ideologia.

  1. Resta da verificare se i provvedimenti impugnati siano espressione di una determinata potestà, riconducibile ad una categoria rispondente al normale principio di tipicità degli atti amministrativi.

Al riguardo può richiamarsi l’art. 96, quarto comma, del D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297, secondo cui gli edifici scolastici possono essere utilizzati fuori dell’orario del servizio scolastico per attività che realizzino la funzione della scuola come centro di promozione culturale, sociale e civile.

Tra tali finalità può comprendersi quella rivolta alla realizzazione di un culto religioso, sempre che ne sia libera, volontaria e facoltativa la partecipazione, e ciò avvenga, come richiesto, al di fuori dell’orario del servizio scolastico e previa delibera dell’organo competente, ai sensi del precedente art.10 del D.Lgs. del 1994, n. 297 cit., ivi indicato nel Consiglio di Circolo o di Istituto.

Ed è appena il caso di ricordare che, nella prassi oggi invalsa, le competenze di tali organi scolastici sono intese in senso non certamente restrittivo, bensì estensivo o comunque elastico e flessibile, quanto alla tipologia ed alla natura delle attività “parascolastiche”, “extrascolastiche”, o comunque “complementari”, che gli stessi organi possono liberamente ed autonomamente programmare o autorizzare.

Del resto, il D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275 (regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 della L. 15 marzo 1997, n. 59), all’art. 4, relativo all’autonomia didattica, dispone: «Le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema (…) concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo», intendendosi in tal modo evidentemente ampliare la sfera dell’autonomia di tali organi, ed ammettendo esplicitamente, con l’espressione «riconoscono e valorizzano le diversità», tutte quelle iniziative che si rivolgano, piuttosto che alla generalità unitariamente intesa degli studenti, soltanto a determinati gruppi di essi, individuati per avere specifici interessi od appartenenze, per esempio di carattere etico, religioso o culturale, in un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto, oggi tanto più decisivo in relazione al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e della conseguente necessità di integrazione”.

 

 

 

 

Nelle aule di giustizia è stata affrontata anche un’altra questione assai controversa: l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è in contrasto con il principio di laicità?

Secondo la Suprema Corte di Cassazione, l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, al quale si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo, non crea divisioni o contrapposizioni ma è espressione di un sentire comune e simbolo di una tradizione culturale millenaria. Alla luce di questa epocale sentenza, si coglie appieno il senso delle parole del segretario generale della Cei: “È innegabile che quell’uomo sofferente sulla croce non possa che essere simbolo di dialogo perché nessuna esperienza è più universale della compassione verso il prossimo e della speranza di salvezza. Il cristianesimo di cui è permeata la nostra cultura, anche laica, ha contribuito a costruire e ad accrescere nel corso dei secoli una serie di valori condivisi che si esplicitano nell’accoglienza, nella cura, nell’inclusione, nell’aspirazione alla fraternità”.

Una funzione di indirizzo morale, che richiama valori civilmente rilevanti. E’ questa la chiave di lettura che si desume anche dalla sentenza n°556 del 2006, in cui il Consiglio di Stato chiarisce il senso del simbolo religioso nella scuola: “È evidente che il crocifisso è esso stesso un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto per il luogo ove è posto. In un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed esclusivamente un “simbolo religioso”, in quanto mira a sollecitare l’adesione riverente verso il fondatore della religione cristiana.  In una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile. In tal senso il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte “laico”, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni. Ora è evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana.  Questi valori, che hanno impregnato di sé tradizioni modo di vivere, cultura del popolo italiano, soggiacciono ed emergono dalle norme fondamentali della nostra Carta costituzionale, accolte tra i “Principi fondamentali” e la Parte I della stessa, e, specificamente, da quelle richiamate dalla Corte costituzionale, delineanti la laicità propria dello Stato italiano.  Il richiamo, attraverso il crocifisso dell’origine religiosa di tali valori e della loro piena e radicale consonanza con gli insegnamenti cristiani, serve dunque a porre in evidenza la loro trascendente fondazione, senza mettere in discussione, anzi ribadendo, l’autonomia (non la contrapposizione, sottesa a una interpretazione ideologica della laicità che non trova riscontro alcuno nella nostra Carta fondamentale) dell’ordine temporale rispetto all’ordine spirituale, e senza sminuire la loro specifica “laicità”, confacente al contesto culturale fatto proprio e manifestato dall’ordinamento fondamentale dello Stato italiano. Essi, pertanto, andranno vissuti nella società civile in modo autonomo (di fatto non contraddittorio) rispetto alla società religiosa, sicché possono essere “laicamente” sanciti per tutti, indipendentemente dall’appartenenza alla religione che li ha ispirati e propugnati. Come ad ogni simbolo, anche al crocifisso possono essere imposti o attribuiti significati diversi e contrastanti, oppure ne può venire negato il valore simbolico per trasformarlo in suppellettile, che può al massimo presentare un valore artistico. Non si può però pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad una suppellettile, oggetto di arredo, e neppure come ad un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto come ad un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili sopra richiamati, che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato. Nel contesto culturale italiano, appare difficile trovare un altro simbolo, in verità, che si presti, più di esso, a farlo(…). La decisione delle autorità scolastiche, in esecuzione di norme regolamentari, di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, non appare pertanto censurabile con riferimento al principio di laicità proprio dello Stato italiano”.




La scuola del merito di Valditara: per gli studenti prove Invalsi difficili, per i docenti test di concorso facili e imbarazzanti

di Aluisi Tosolini

In questi giorni si stanno svolgendo le prove scritte (test computer based) dei concorsi docenti di ogni ordine e grado.
E, sempre in queste settimane, si discute moltissimo di valutazione accusando spesso la scuola di non essere abbastanza difficile, di non pretendere abbastanza dagli studenti e di essere preda di un rammollitismo ideologico le cui origini sono ritrovate dal Ministro, stando al suo ultimo libro sulla scuola, nell’ideologica sinistra e sinistroide del 1968. Insomma la scuola del merito e dei talenti deve essere più difficile, deve alzare l’asticella.
Se dunque la scuola è accusata di essere troppo facile – mi sono detto – chissà come saranno le prove scritte (test) dei concorsi per docenti. Sarà una strage.

La stessa preoccupazione è stata espressa, ad esempio, da La Repubblica che l’11 marzo 2024 così scrive:  “Concorsi al via. È la settimana delle prove a quiz per chi sogna una cattedra di ruolo. Hanno fatto domanda in 372.804 per 44.654 posti di cui 15.588 sul sostegno. Entreranno poco più di uno su dieci. Al netto della disomogeneità dei posti disponibili rispetto alle domande e soprattutto delle bocciature che nel test selettivo da 50 quesiti hanno tassi sempre molto elevati

Ma è davvero così?
Siamo andati a vedere. Ma prima di darvi l’esito della nostra ricerca facciamo il punto sulla prova scritta.

In cosa consiste la prova scritta?

La prova consiste in un test computer based di 50 quesiti a risposta multipla (4 risposte, una sola corretta). La prova ha una durata di 100 minuti.
I 50 quesiti sono organizzati per aree o ambiti 

Ambito pedagogico, psicopedagogico e didattico-metodologico

  • 10 quesiti di ambito pedagogico
  • 15 quesiti di ambito psicopedagogico (inclusione inclusa)
  • 15 quesiti di ambito metodologico didattico (valutazione inclusa)

Lingua inglese: 5 quesiti a risposta multipla, livello B2.

Competenze digitali: 5 quesiti sull’uso didattico delle tecnologie e dispositivi elettronici multimediali

I quesiti si basano sui programmi dell’allegato A al DM n. 206 del 26 ottobre 2023 e allegato A al dm n. 205 del 26 ottobre 2023 rispettivamente per infanzia primaria e secondaria.

Come si supera la prova

Il punteggio massimo per la prova scritta è di 100 punti. Ogni risposta esatta vale 2 punti. La risposta errata o non fornita vale zero. La prova è superata con il punteggio complessivo non inferiore a 70 punti, ovvero con 35 risposte esatte su 50. Il punteggio del test (prova scritta) è conteggiato nel punteggio complessivo che è costituito da punteggio prova scritta, punteggio prova orale (max 100) e punteggio titoli (max50) per un totale massimo di 250 punti.

La prova scritta: difficilissima, difficile, facile, facilissima, …… o imbarazzante ?

Una gentilissima dirigente amica mi ha recapitato i 50 test cui sono stati sottoposti i docenti delle scuole secondarie (di primo e secondo grado) in uno dei giorni scorsi. Ricordo che in quella giornata la stessa prova è stata somministrata a tutti i concorrenti in tutta Italia (l’unica variazione è infatti nella disposizione random dei quesiti)

I 50 quesiti sono scaricabili qui.

Invito tutti prima a mettersi mentalmente alla prova e poi a rispondere ad un’unica domanda al seguente link https://forms.gle/c7Vxd4FTravxXKPQ6  dove esprimere il proprio parere sulla complessità della prova.

Una valutazione dei quesiti

In realtà gli argomenti di molti quesiti sarebbero anche interessanti e si presterebbero a quella ipotizzata strage di cui parla Repubblica. Il problema è che tra le 4 risposte possibili tre sono proprio sbagliatissime ed in sostanza è impossibile non azzeccare la risposta giusta.
Ad esempio la domanda 50 chiede quale tra i seguenti NON è un organo collegiale di cui al Dlgs 297/1994. E fornisce le seguenti opzioni

  • Piano triennale dell’offerta formativa
  • Collegio dei docenti
  • Consiglio di interclasse
  • Consiglio di intersezione

Ora, anche se una viene da Marte (ma conosce la lingua italiana) non può che rispondere correttamente spuntando PTOF che, essendo un Piano triennale, è difficile sia un organo collegiale.
E lo stesso si può dire per quasi tutti (se non tutti ! ) i quesiti. Alcuni poi sono di una semplicità imbarazzante, come quello della domanda 7. Altri gridano vendetta al cospetto di Dio, e penso al quesito sulla pedagogia della cura dove anche mio nipotino di 2 anni e mezzo risponderebbe correttamente.
Taciamo poi, per carità di patria sui quesiti riferiti a pedagogisti e affini (Piaget, Dewey, Bloom,..).

Insomma, una persona che conosca la lingua italiana e legga con attenzione le domande, difficilmente riesce a sbagliare più di 15 risposte e quindi a non accedere all’orale, dove barcamenarsi pronti ad andare in cattedra negli anni successivi.
Ignorantissimi o preparatissimi non è dato sapere, visto che certo questa prova scritta non ci permette di capirlo.
Ma certo pronti ad essere cattivissimi con gli studenti e le studentesse che, secondo moltissimi Catoni contemporanei, non sanno niente e che non hanno voglia di imparare nulla.

Una modesta proposta

Magari – modestissima proposta da parte mia – potremmo chiedere agli studenti di quinta superiore di svolgere il test che vi ho proposto (invece che il test invalsi) così da verificare quanti prendono più di 70 ed abbuonare a questi l‘esame di stato. Tanto, ne sanno come i futuri docenti.
E magari ai docenti facciamo fare il test invalsi….. e allora forse sarà davvero una strage !