La pantera identitaria

di Giovanni Fioravanti

Quando si incita ad affermare la propria identità, in sostanza si invita a sventolarla in faccia agli altri e questo certo non si può dire che sia un gesto di amicizia.

Pensare oggi di porre a coronamento del curricolo del primo ciclo di istruzione l’acquisizione della propria identità nazionale, come sembra nelle intenzioni dell’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito, ispirato dal pensiero della coppia Galli della Loggia, Loredana Perla, rischia di mettere in serio pericolo l’impellente necessità di formare le nuove generazioni a viversi come cittadini di un mondo in cui difendere la convivenza comune e il proprio comune ambiente di vita. Significa non aver appreso la lezione della storia che è apprendimento della “grammatica della civiltà”, la propria e quella degli altri, per non ricadere nelle barbarie del passato.

Non ci sono distinguo che tengano, pretestuose denunce sull’ignoranza della storia e della geografia del proprio paese da parte di studenti e studentesse formati agli apprendimenti e alle competenze prescritte dalle attuali Indicazioni curricolari nazionali per le scuole del primo e del secondo ciclo di istruzione. Se tali carenze ci sono, le cause vanno ricercate altrove, non tanto perché non sia chiaro a cosa debba servire la scuola pubblica, ma, se mai, perché non è chiaro cosa e come la scuola pubblica debba essere.

Agitare l’identità come elemento di compattazione di un popolo nel terzo millennio del mondo dovrebbe rendere avvertiti dei pericoli che oggi comporta, rispetto ai vantaggi che si presume possano derivare.
Lo spirito patriottico dei fautori dell’insegnamento dell’identità, ci trascina tutti due secoli addietro, a quella storia risorgimentale incompiuta di un’Italia fatta che ora doveva preoccuparsi di fare gli Italiani e a questo avrebbe dovuto provvedere l’istituzione della scuola pubblica con la legge di Gabrio Casati. Ha ragione Galli della Loggia a scrivere che la scuola pubblica non può sfuggire a questo destino iscritto nella sua origine.[1]

Ma il problema è, appunto, ancora di quali italiani vogliamo formare, siamo sempre lì, ieri come oggi.
Si ha l’impressione di assistere ai corsi e ai ricorsi storici. Per Croce e Gentile il Risorgimento fu interrotto all’epoca dell’unificazione politica. Il fascismo rappresentava la prosecuzione del Risorgimento e Benito Mussolini la speranza  nel suo possibile compimento. Il primo dovette ricredersi, il secondo rimase radicato nella sua fiducia nella storia come autocoscienza di un popolo, nello specifico del popolo italiano. A questo scopo mise a disposizione del fascismo la sua riforma della scuola con la religione, filosofia del popolo, a coronamento dell’insegnamento delle medie e delle elementari.

Ora i novelli epigoni, Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla, propongono non più la religione come agglutinante disciplinare della scuola di base ma il canone cultural-identitario italiano, attraverso la narrazione, il racconto della storia e della geografia del paese.[2] Non solo,  rilanciano i best seller risorgimentali, Cuore e Le avventure di Pinocchio come modelli di educazione nazionale di rara chiarezza[3], la cui ripresa e diffusione scolastica è necessaria per combattere la deriva scolastico-educativa che ha le sue origini negli anni ‘60[4].

In definitiva Insegnare l’Italia è la copertura per tornare al passato, l’identità da inculcare è sempre quella della scuola gentiliana violata dalla scuola media unica, dall’abolizione del latino e dalla pedagogia progressista, è il Risorgimento che tradito dal fascismo si è realizzato nella Resistenza partigiana e l’autocoscienza generata dalla storia ha preso un’altra direzione anche sul piano dei valori educativi come la consapevolezza di appartenere all’avventura umana.

Storia e memoria vanno insieme, l’una sorregge l’altra e allora succede che non è possibile leggere la storia senza la memoria del prima e del dopo e cioè senza chiedersi che significato assume la parola identità oggi, a un quarto di secolo dall’inizio del millennio.

Nel 2005 Amin Maalouf ha scritto L’identità[5], convinto che negli anni in avvenire il problema dell’identità avrebbe indebolito il dibattito intellettuale e avvelenato la Storia. Una proposta per cercare di dominare la pantera identitaria prima che ci divori.
Amin Maalouf ci ricorda che quando il 9 novembre del 1989 è caduto il muro di Berlino molte persone hanno sperato che sarebbe iniziata in tutti i continenti un’epoca di pace, libertà e prosperità senza precedenti nella Storia. Ma dodici anni dopo, l’11 settembre 2001 questa speranza è svanita insieme al crollo delle Torri Gemelle del World Trade Center di New York.

Più nulla è stato come prima. Maalouf lo spiega sostenendo che con la fine della guerra fredda siamo passati da un mondo in cui gli attriti erano fondamentalmente ideologici a un mondo in cui gli attriti sono fondamentalmente identitari. Se il confronto ideologico fra comunismo e capitalismo si è rivelato pericoloso e rischioso, aveva però un merito, quello di suscitare un dibattito intellettuale permanente, al contrario, gli attriti identitari non suscitano alcun dibattito ideologico. L’identità non è oggetto di dibattito, è un a priori, non deriva da una scelta, un’identità si scopre, si assume, si proclama. Si afferma ad alta voce come appartenenza, come sfida di solito all’alterità, al non-io reale o immaginario che sia.

E, dunque, rilanciare il tema dell’identità significa lisciare il pelo alla pantera identitaria, camminare in equilibrio sul filo sottile che corre fra la diversità del mondo e l’esigenza di universalità.
L’opposto di quello che si propone l’insegnamento della storia prescritto dalle attuali Indicazioni Nazionali per il curricolo del primo ciclo di istruzione: “Nei tempi più recenti il passato e, in particolare, i temi della memoria, dell’identità e delle radici hanno fortemente caratterizzato il discorso pubblico e dei media sulla storia. Un insegnamento che promuova la padronanza degli strumenti critici permette di evitare che la storia venga usata strumentalmente, in modo improprio. […] Occorre, dunque, aggiornare gli argomenti di studio, adeguandoli alle nuove prospettive, facendo sì che la storia nelle sue varie dimensioni – mondiale, europea, italiana e locale – si presenti come un intreccio significativo di persone, culture, economie, religioni, avvenimenti che hanno costituito processi di grande rilevanza per la comprensione del mondo attuale…[6]

È evidente che andare a intaccare questa impostazione costituirebbe una precisa scelta ideologica, come del resto non nega Galli della Loggia il quale sostiene che nell’ambito dell’istruzione e delle scelte didattiche è impossibile la neutralità, l’assenza di una prospettiva ideologico-culturale.[7]

Attenzione, perché in questo modo si inverte, si altera la prospettiva delle attuali Indicazioni nazionali, vale a dire del nostro sistema scolastico nel suo complesso, non più la persona nella sua specificità come punto di partenza del processo di insegnamento-apprendimento ma la cultura di appartenenza come identità da acquisire, un’inversione netta da soggetto a oggetto dell’istruzione.

[1] E. Galli della Loggia, L. Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Morcelliana, 2023, p. 37
[2] idem. p.79
[3] idem. p. 100
[4] idem. p. 110
[5] Amin Maalouf, L’identità, Bompiani, 2005
[6] Annali della Pubblica Istruzione, Numero Speciale, 2012
[7] E. Galli della Loggia, L. Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Morcelliana, 2023, p. 37




Ragionando sulla dispersione scolastica

di Raimondo Giunta

La lotta alla dispersione scolastica è uno dei compiti più nobili che si possa svolgere nelle singole scuole, perchè dà respiro sociale ed educativo a tutta l’attività formativa. Nella società della conoscenza, dell’apprendimento durante tutta la vita, chi fuoriesce anticipatamente dal sistema formativo senza il possesso di adeguate e solide competenze per svolgere il ruolo di cittadino e di lavoratore è destinato all’emarginazione sociale.
E in linea di principio nessuno dovrebbe accettare un fatto del genere.

Alla scuola è stato indicato l’obiettivo di ridurre drasticamente la dispersione scolastica e nel frattempo anche quello di aumentare in modo cospicuo la percentuale dei diplomati di quanti frequentano le superiori per allinearsi alle relative medie europee.  I risultati sono in via di miglioramento, anche se non sono completamente soddisfacenti, perchè il fenomeno della dispersione è ancora consistente, per vecchi e inestirpati fattori, ma anche per nuovi, come la scolarizzazione dei figli degli immigrati, per la quale non si è sempre e dappertutto preparati.

A partire dagli anni ‘60 le porte delle scuole sono state aperte a tutti, soprattutto alle superiori. I risultati di questa necessaria scolarizzazione di massa, però, sono ancora contraddittori. A parità di “qualità umane”, infatti, non si ha tra i giovani parità di risultati, di successo formativo e di possibilità di inserimento nel mondo del lavoro.

Si è intervenuto su alcuni ostacoli di natura economica, ma negli ultimi tempi con risorse sempre decrescenti, (riduzione delle tasse di iscrizione, borse di studio, gratuità dei servizi di trasporto, buoni-libro, ma rare volte con le mense scolastiche). Questi provvedimenti hanno favorito l’accesso di tantissimi giovani alle scuole, ma non sono riusciti a tenervi dentro tutti quelli che vi entravano e a farli uscire a tempo dovuto con il bagaglio necessario di preparazione per affrontare la vita.

Questo significa che gli ostacoli alla piena scolarizzazione delle nuove generazioni non erano e non sono esclusivamente di natura economica.  E’ un problema di prima grandezza il contrasto di fondo che si sviluppa tra scuola, cultura scolastica, codice interno del sistema scolastico da una parte, mondo giovanile, cultura giovanile e soprattutto nuova utenza dall’altra. Il peso delle discipline logico-linguistiche, il primato della scrittura, l’astrazione inevitabile di alcuni saperi scolastici, la subalternità e la debolezza delle attività laboratoriali nei curricoli scolastici, l’organizzazione del tempo scolastico sono congeniali ad un certo tipo di alunni :quelli predisposti e in qualche modo allenati in ambienti familiari che ne comprendono e ne accettano le ragioni, per altro genere di giovani, cioè di altre estrazioni sociali, queste caratteristiche del mondo scolastico costituiscono difficoltà da superare.

Il problema più rilevante nell’insuccesso scolastico è quello costituito dalla povertà dell’eredità culturale di cui dispongono tanti giovani che entrano nel sistema di istruzione, A scuola non sempre si riesce a contenere i disagi che ne derivano.
Si registra ancora una preoccupante correlazione tra successo scolastico e patrimonio culturale in possesso degli alunni, tra status culturale della scuola e quello delle famiglie di ceto medio. Nelle scuole, anche in quelle ad indirizzo tecnico e nelle stesse medie, vengono esaltate e premiate le forme di intelligenza che si esprimono nel rapido e più ampio possesso delle conoscenze. Poco spazio si dà al sapere fare e al sapere agire, anche se in queste finalità si devono individuare le condizioni di una vera democratizzazione del curriculum e della valutazione,

Accanto a questo primo grande problema, altri ne sono sorti, che rendono difficile per molti il successo formativo.
A) La fine della mobilità sociale che nel titolo di studio trovava alimento e giustificazione; causa fondamentale della motivazione a studiare, non sostituibile col piacere della cultura, con il diritto ad una piena cittadinanza, con la necessità di una vita continua come apprendimento. Neppure la cognizione della marginalità sociale conseguente alla povertà di cultura e alla carenza di professionalità riesce ad avere capacità di motivazione. Lo scambio sacrifici oggi per eventuali vantaggi domani non funziona e non viene praticato da molti giovani.

B) L’incapacità di dominare le nuove tecnologie per ricavarne risorse per il lavoro e per la cittadinanza.

Sono due sfide al sistema scolastico, ma solo la seconda è davvero nelle sue possibilità con i dovuti finanziamenti e con la necessaria predisposizione dell’infrastruttura materiale e professionale. La soluzione della questione fondamentale della mobilità sociale è nelle mani di chi ha la responsabilità della politica industriale e degli investimenti economici. La scuola deve soltanto non perdere battute nel preparare i giovani ad inserirsi nel modo migliore e con il dovuto bagaglio professionale e culturale nel mondo del lavoro se e quando per loro si aprono le porte

Oltre a questi problemi in Meridione se ne devono affrontare altri molto seri e che non vengono adeguatamente considerati nel nuovo e appassionante sport nazionale delle graduatorie degli istituti scolastici. . .
Problemi riassumibili nella povertà del capitale culturale del territorio (insufficienza di sedi scolastiche, grave deterioramento degli edifici scolastici, rarità di biblioteche, povertà di centri e di associazionismo culturali, disattenzione degli enti locali, casualità dei servizi alle persone, scarsa partecipazione civica alle scelte locali, vuoto e dissipazione dei mesi estivi, deprivazione culturale di molte famiglie etc) e nella disgregazione sociale del territorio di riferimento (lacerazione dei rapporti familiari, redditi familiari incerti, precarietà nel lavoro e disoccupazione di massa, illegalità e criminalità diffuse, quartieri senza servizi, degrado urbanistico, servizi dei trasporti insufficienti e sgangherati etc). Problemi che aggravano le condizioni del disagio giovanile e ostacolano il percorso di formazione di quanti provengono da questi ambienti.

Nella dispersione scolastica lavorano, quindi, a pieno regime fattori economico-sociali, fattori culturali, motivazionali e valoriali.
Per questo è una lotta difficile e dai risultati incerti. E’ una lotta che va condotta su diversi terreni, che richiede una strategia plurale e la capacità di tessere le alleanze necessarie sul territorio, perchè da sola la scuola non risolverà mai questo problema. Chiamare, allora, gli enti locali alle proprie responsabilità, le associazioni per il loro contributo, le aziende per la collaborazione, le famiglie per la partecipazione alla vita scolastica, gli insegnanti all’innovazione e alla creatività metodologica.

A scuola non dovrebbero mancare iniziative per cercare, laddove il problema si pone, di recuperare il rapporto tra generazioni; di superare ogni forma di comunicazione non dialogante all’interno della comunità scolastica; di spingere le famiglie alla riassunzione della loro responsabilità educativa, qualora come spesso succede vi avessero rinunciato; di valorizzare nello studio e nella riflessione la storia, le tradizioni, la cultura del proprio territorio per riportare criticamente i giovani alle proprie radici.

Il lavoro più importante resta sempre quello che viene quotidianamente fatto in classe; ma non al modo di sempre, perchè è quello che in parte produce la dispersione. Un lavoro che deve essere fondato sulla fiducia che viene riposta negli alunni, sulla valorizzazione del loro impegno, sull’incoraggiamento e sulla loro responsabilizzazione.
Vedi cosa sai fare? puoi farcela e in alcuni casi devi farcela.  Potrebbero essere i principi con cui regolarsi nell’attività didattica. Principi che richiamano la passione educativa dell’insegnante, la sua umanità professionale.

In situazioni in cui nell’immediato è impossibile il recupero educativo della famiglia e del territorio, con rischi incombenti di degrado e di marginalità sociale per tanti nostri giovani, le uniche risposte al problema della dispersione sono quelle che solo la scuola puo’ dare, considerando il grande patrimonio umano, culturale e professionale dei suoi insegnanti.

E se non la scuola, chi?

 




Fissiamo un tetto alle sgrammaticature di Valditara

di Mario Maviglia

Ha ragione il Ministro Valditara a scagliarsi contro chi ha stigmatizzato i suoi errori linguistici contenuti in un tweet in cui parlava della necessità di costituire classi con la maggioranza di italiani, allineandosi alle posizioni del suo capopartito Salvini, nonché Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture.

Questa vicenda ci fa capire tante cose interessanti:

  • Valditara dice: “Quando si detta un tweet al telefono non si compie un’operazione di rigore linguistico e si è più attenti al contenuto”. Verissimo! Però dall’altra parta del telefono ci si aspetta che chi prende la telefonata (ossia un collaboratore di Valditara, da lui stesso scelto, immaginiamo) abbia almeno la licenza di scuola media…
  • Il Ministro del Merito aggiunge che il processo di assimilazione degli alunni stranieri “avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani, se studieranno in modo potenziato l’italiano…”. Ecco, sarebbe opportuno che anche Valditara e l’ignoto suo collaboratore potenziassero a loro volta il loro italiano. La lingua italiana sarebbe loro grata.
  • Secondo il Valditara-pensiero (preso a prestito dal suo capopartito Salvini) questo processo di assimilazione degli studenti stranieri avverrà “se nelle scuole si insegni approfonditamente la storia, la letteratura, l’arte, la musica italiana…” [Si noti la finezza sintattica di quel “si insegni”, una vera chicca e licenza poetica. Non è ancora licenza media, ma la strada è tracciata. Con il potenziamento di cui sopra ce la possiamo fare…].
    Ma qui il Valditara-pensiero denuncia qualche défaillance (tranquillo, sig. Ministro: vuol dire “debolezza”): infatti i risultati peggiori – almeno stando alle classifiche internazionali come OCSE-PISA – gli allievi delle scuole italiane li conseguono nelle scuole superiori dove la presenza degli alunni stranieri è più bassa. E allora come la mettiamo? Forse questa necessità di “approfondimento” non riguarda solo gli studenti stranieri, ma anche e soprattutto quelli italiani.

  • Senza nascondere una certa stizza, il Ministro (Valditara, lo dobbiamo specificare sempre sennò sembra che si voglia parlare del suo capo, Salvini…) fa notare “ai tanti critici dall’indignazione facile, che in queste ore si stanno scatenando nella caccia all’errore, che così facendo ignorano la questione da me posta…”. Per la verità il Ministro (Valditara) e il suo capo (Salvini) sono i primi ad ignorare che la questione del tetto massimo degli alunni stranieri per classe era stata già oggetto di una circolare all’epoca del IV Governo Berlusconi, Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini.
    Si tratta della CM n. 2 dell’8 gennaio 2010, che fissava appunto al 30% la percentuale di “alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe”. Una circolare emanata quindi da un governo di centro-destra, come quello attuale.
    Ma è comprensibile che quando si hanno tanti tweet da fare o annunci da proclamare alla Nazione non si abbia poi il tempo di documentarsi rispetto al contenuto, quel contenuto che il Ministro (Valditara) dice di aver attenzionato a scapito della forma. Non si vuole essere cavillosi, ma qui, con tutta franchezza, sembra mancare sia la forma che il contenuto. È plausibile che ciò possa succedere al Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture (a proposito: da quando i Ministri di tale Dicastero si interessano in modo così insistente di politica scolastica? Il Ponte sullo Stretto non è già abbastanza impegnativo?), ma che un Ministro dell’Istruzione non sappia cosa ha prodotto il suo Dicastero in materia è abbastanza allarmante.
  • Volutamente abbiamo più volte parlato del Ministro Salvini come il “capo” del Ministro Valditara: non si tratta di una svista o di una nota polemica. Sia a proposito della vicenda della scuola di Pioltello che nel caso della percentuale di alunni stranieri nelle classi il la è stato dato da Salvini a cui si è accodato, come un mansueto cagnolino, o se volete come un coscienzioso corista, il Ministro Valditara.
    Insomma, sembra di capire che il Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture detta la linea della politica scolastica e il Ministro Valditara la mette in atto con sottomessa dedizione.
  • Sempre a proposito di contenuti, è facile prevedere che una norma sulla percentuale massima di alunni stranieri per classe (20 o 30% che sia) non troverà mai attuazione perché richiederebbe una concertazione di azioni tra più soggetti istituzionali, come d’altro canto ben specificava la CM 2/2010 che sottolineava l’importanza di “realizzare le conseguenti intese tra soggetti disponibili sul territorio per una gestione coordinata delle iscrizioni dei minori stranieri fra l’Amministrazione scolastica, le Prefetture, le Province e i Comuni”. Difficile pensare che oggi sia possibile un’azione di tale complessità.
  • D’altro canto, sempre citando la CM 2/2010, “non va dimenticato che a influire sulla presenza più o meno significativa di minori stranieri in un determinato territorio contribuiscono sì le capacità attrattive delle scuole che in esso insistono, ma pure – e in termini non certo irrilevanti – le disponibilità di alloggio e le offerte di lavoro in esso presenti. Il che fa immediatamente emergere il ruolo cruciale che le prassi degli accordi e delle alleanze territoriali possono svolgere per affrontare i problemi suddetti.”

Di questi problemi non vi è traccia negli interventi dei due Ministri dell’Istruzione (Valditara) e del Merito (Salvini). E allora facciamo una facile e cassandrica previsione: qualora questa coppia di Ministri dovesse partorire una norma su questa materia, la responsabilità di accogliere o non accogliere gli alunni stranieri, rispettando la quota percentuale stabilità formalmente, ricadrà interamente sulle istituzioni scolastiche e i dirigenti scolastici resteranno, ancora una volta, col cerino in mano. Parafrasando Brecht, possiamo dire che si siederanno nella parte più disagevole perché gli altri posti saranno occupati.




Il principio di laicità non esclude la necessità di una “formazione religiosa”

di Antonella Mongiardo

Una domanda semplice, in apparenza, che negli anni ha attraversato correnti di pensiero diverse e, talora, contrapposte, fino a giungere, in tempi recenti, ad interpretazioni restrittive e fuorvianti che identificano la laicità con assenza di religione nelle scuole. Cos ‘è, ad ogni modo, la laicità? Qual è il suo significato nella scuola?

La risposta, nel significato letterale, la troviamo nei dizionari. Secondo la Treccani, laico è chi non fa parte del mondo clericale. Lo stato laico è quello che riconosce l’eguaglianza di tutte le confessioni religiose, senza concedere particolari privilegi o riconoscimenti ad alcuna di esse, e che riafferma la propria autonomia rispetto al potere ecclesiastico”.

Il laicismo, quindi, si identifica con una concezione più ampia e complessiva della cultura e della vita civile, basata sulla tolleranza comprensiva delle credenze altrui, sul rifiuto del dogmatismo in ogni settore della vita associata, anche al di là dell’influenza diretta dell’istituzione religiosa dominante.

In una realtà sociale come quella di oggi, dove il cedimento dei valori etici e l’affermazione di nuovi stili educativi, talvolta discutibili, interferiscono spesso con l’azione formativa della scuola, è sempre più arduo realizzare quell’auspicata corresponsabilità educativa tra scuola e famiglia, che dovrebbe essere la base dello sviluppo identitario dei giovani. Le nuove generazioni stanno crescendo in un’epoca in cui si fa sempre più sfocato il confine tra i ruoli e le responsabilità, con una conseguente perdita di autorevolezza, sia della scuola sia della famiglia, che devono essere, invece, i due più importanti avamposti pedagogici della società.

E’ proprio nella prospettiva di un recupero di valori e di una più forte alleanza tra scuola e famiglia che si inserisce la dimensione sociale dell’elemento religioso nella scuola.

Condivido le acute osservazioni del matematico Piero Del Bene, quando sostiene che, se laicità significasse assenza di religione, allora nella scuola laica non dovrebbero trovare posto il cattolicesimo di Manzoni e di numerosi altri autori della letteratura italiana, non si dovrebbe studiare la divina commedia di Dante e non si dovrebbero visitare chiese, né ammirare le rappresentazioni sacre attraverso i libri di storia dell’arte o durante le gite scolastiche.

 

Invece, sappiamo bene che le discipline umanistiche traboccano di cultura cattolica; l’arte, la filosofia, la musica, sono ambiti in cui il cattolicesimo ha lasciato la sua impronta indelebile. La cultura religiosa fa parte, a pieno titolo, della formazione scolastica. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che essa permea tutta la nostra tradizione culturale, la nostra società, i nostri valori e i nostri linguaggi.

D’altro canto, basti dire su tutto una sola cosa: l’insegnamento della Religione cattolica è una disciplina istituzionale, presente nella scuola pubblica e affidata spesso a religiosi approvati dall’autorità ecclesiastica.

Un insegnamento che, pur nell’avvicendarsi di governi e diverse forme di Stato, non è mai venuto meno. Dall’unità d’Italia ad oggi, questa particolare disciplina è sempre stata parte integrante del progetto educativo dell’istruzione nazionale.

E’ evidente, peraltro, il senso della sua presenza nella scuola. Nell’ambito della sfera prettamente didattica, eliminare la religione cattolica significherebbe svuotare la nostra cultura, dal momento che il patrimonio culturale e artistico del nostro Paese custodisce tesori inestimabili in gran parte a tema cattolico-cristiano; e significherebbe snaturare la nostra stessa identità storica, che si è forgiata, nel corso dei secoli, a stretto contatto con la dottrina cattolica.

 

Come viene specificato anche nella normativa scolastica, la conoscenza delle radici storiche della religione cattolica “svolge un ruolo fondamentale e costruttivo per la convivenza civile, in quanto permette di cogliere importanti aspetti dell’identità culturale di appartenenza e aiuta le relazioni e i rapporti tra persone di culture e religioni differenti”.

 

E che dire, poi, della valenza educativa dell’insegnamento religioso? I principi ispiratori della religione cattolica, improntati al rispetto del prossimo, alla solidarietà e alla pace, rappresentano un faro nell’azione educativa della scuola, la quale, andando oltre i traguardi cognitivi connessi all’acquisizione di saperi disciplinari, tende alla formazione globale dello studente, alla sua crescita personale e sociale.

 

Come scrive la Congregazione per l’educazione cattolica nella lettera n°520/2009: “Ai fanciulli e ai giovani va garantita la possibilità di sviluppare armonicamente le proprie doti fisiche, morali e intellettuali; essi vanno anche aiutati a perfezionare il senso di responsabilità, ad imparare il retto uso della libertà, e a partecipare attivamente alla vita sociale (cfr c. 795 Codice di Diritto Canonico [CIC]; c. 629 Codice dei Canoni delle Chiese Orientali [CCEO]). Un insegnamento che disconoscesse o emarginasse la dimensione morale e religiosa della persona opporrebbe un ostacolo insormontabile per una educazione completa, perché «i fanciulli e i giovani hanno il diritto di essere aiutati a valutare con retta coscienza e ad accettare con adesione personale i valori morali”.

In definitiva, si pur dire che Laicità non significa assenza di religione. E non potrebbe del resto significare assenza di religione nella scuola, se l’insegnamento della religione cattolica viene istituito dallo Stato come garanzia di laicità. A riprova di ciò, difatti, nella normativa scolastica, l’unico riferimento esplicito alla laicità della scuola lo si rinviene nelle Indicazioni Nazionali del curricolo, laddove si parla dell’Insegnamento della Religione Cattolica, ma non per limitarla, bensì per salvaguardare il diritto dell’alunno a non avvalersene, facendo risaltare così l’effettivo significato della laicità nella scuola. Una laicità che non si adagia nell’indifferenza verso i valori religiosi, ma che, al contrario, rafforza la funzione educativa della scuola, rivolta anche al rispetto delle scelte e all’integrazione di differenti culture.

 

“La Scuola Italiana – si legge nelle Integrazioni alle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione – si avvale della collaborazione della Chiesa cattolica per far conoscere i principi del cattolicesimo a tutti gli studenti che vogliano avvalersi di questa opportunità. L’insegnamento della religione cattolica (Irc), mentre offre una prima conoscenza dei dati storico-positivi della Rivelazione cristiana, favorisce e accompagna lo sviluppo intellettuale e di tutti gli altri aspetti della persona, mediante l’approfondimento critico delle questioni di fondo poste dalla vita. Per tale motivo, come espressione della laicità dello Stato, l’Irc è offerto a tutti in quanto opportunità preziosa per la conoscenza del cristianesimo, come radice di tanta parte della cultura italiana ed europea. Stanti le disposizioni concordatarie, nel rispetto della libertà di coscienza, è data agli studenti la possibilità di avvalersi o meno dell’Irc”.

 

Dal punto di vista pedagogico, dunque, la presenza della Religione cattolica nella scuola va vista come un contributo, in coordinamento con le altre discipline, alla formazione complessiva dell’identità di ciascuno.

 

Ma il significato “laico” dell’insegnamento religioso nella scuola ha anche un fondamento giuridico. Il principio di laicità dello Stato, così come delineato nella giurisprudenza costituzionale, è la sintesi di più disposizioni costituzionali, ossia degli artt. 2-3, 7-8, 19 e 20 Cost., ove assume un ruolo centrale “la salvaguardia della libertà religiosa in regimedi pluralismo religioso e culturale” (Corte cost., sent. n. 203 del 1989).

L’Irc è presente nella scuola italiana in virtù dell’art.7 della Costituzione, sorto dall’accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana, per garantire, in regime di pluralismo religioso (art.8), l’insegnamento della cultura religiosa nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado. E’ da questa norma  che discende  il fondamentale principio di laicità: lo Stato, senza essere indifferente rispetto alle religioni, deve garantire a tutte pari libertà.

L’Irc si inserisce così, a pieno titolo, “nel quadro delle finalità della scuola”. Lo Stato italiano riconosce “il valore della cultura religiosa”, dichiarando di tener conto del fatto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” (art. 9.2). La finalità principale della scuola, che l’Irc assume come propria, non può essere altra da quella desumibile dalla Costituzione e dalla legislazione scolastica, cioè lo sviluppo della persona umana, senza distinzioni di sorta, neanche di carattere religioso (art. 3 Cost.).

 

E, in seguito, con l’Accordo del 1984 viene aggiunto che l’accesso all’Irc avviene sulla base di una libera scelta, che ognuno è chiamato ad operare.

Il principio della libertà di scelta viene richiamato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n°203/1989: “Lo Stato è obbligato, in forza dell’Accordo con la Santa Sede, ad assicurare l’insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti decidano di non avvalersene, l’alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione”.

 

E, a proposito della non obbligatorietà di seguire corsi alternativi all’insegnamento della religione cattolica, viene puntualizzato nella sentenza della Corte costituzionale n°13/1991: “Alla stregua dell’attuale organizzazione scolastica è innegabile che lo “stato di non-obbligo” può comprendere, tra le altre possibili, anche la scelta di allontanarsi o assentarsi dall’edificio della scuola”.

 

 

Orbene, alla prima domanda, posta come incipit di questo articolo, ne segue inevitabilmente un’altra. Si può pregare o celebrare atti di culto nelle scuole?

La risposta arriva dal Consiglio di Stato, che, con sentenza n.1388 del 27 marzo 2017, riconosce la possibilità delle benedizioni religiose a scuola in orario extrascolastico. Nel contempo, però, il CdS pone dei limiti ben precisi all’attività di culto nella scuola, conciliando il principio di laicità della scuola con la libertà di partecipazione ad iniziative culturali o di espressione religiosa e garantendo l’autorevolezza dell’esercizio dell’autonomia scolastica.

La vicenda vede protagonista il Consiglio di Istituto di un I.C. di Bologna che, nel febbraio del 2015, concedeva i locali scolastici a tre parroci per le benedizioni pasquali in orario extrascolastico. L’iniziativa era rivolta agli alunni, i quali liberamente potevano parteciparvi, accompagnati da un adulto per la vigilanza.  La parte ricorrente adduceva che tale misura non preservava la laicità della scuola pubblica.

Il Tar accoglieva il ricorso facendo leva sul “principio costituzionale della laicità o non confessionalità dello Stato”, e dell’ “equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose”. Si legge nella sentenza del Tar: “Non v’è spazio per riti religiosi riservati per loro natura alla sfera individuale dei consociati, mentre ben possono esservi occasioni di incontro che su temi anche religiosi consentano confronti e riflessioni in ordine a questioni di rilevanza sociale, culturale e civile, idonei a favorire lo sviluppo delle capacità intellettuali e morali della popolazione, soprattutto scolastica, senza al contempo sacrificare la libertà religiosa o limitare le relative scelte”.

Il primo Giudice affermava, inoltre, che “un’invalicabile linea di confine sia a tali fini costituita dalla circostanza che si tratti o meno di un atto di culto religioso”, e che nel caso in esame, al contrario, sarebbe stato «autorizzato un vero e proprio rito religioso da compiersi nei locali della scuola e alla presenza della comunità scolastica, sì che non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 96, comma 4, del d.lgs. n. 297 del 1994, e neppure quella di cui al successivo comma 6, riferito al ben diverso ambito di iniziative di socializzazione e stimolo della maturazione degli studenti per “fronteggiare il rischio di coinvolgimento dei minori in attività criminose”.

Il Consiglio di Stato, invece, riformando la sentenza di primo grado, precisa nel dispositivo che “tale rito – avvenuto a scuola ma in orario non scolastico – va accolto al pari di un’attività parascolastica e che la natura religiosa dell’evento non può ritenersi un elemento discriminatorio”.

Si riporta il passaggio conclusivo della sentenza del CdS, la cui pronuncia assumeva ormai carattere soltanto morale, il cui unico effetto, ora per allora, avrebbe potuto avere il solo effetto di costituire anche un precedente.

“Com’è noto, la benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità, senza necessità di particolari preparativi.

Il fine di tale rito, per chi ne condivida l’intimo significato e ne accetti la pratica, è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le persone che a tale titolo li frequentano.

Non avrebbe senso infatti la benedizione dei soli locali, senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità di credenti, non potendo tale vicenda risolversi in una pratica di superstizione.

Tale rito dunque, per chi intende praticarlo, ha senso in quanto celebrato in un luogo determinato, mentre non avrebbe senso (o, comunque, il medesimo senso) se celebrato altrove; e ciò spiega il motivo per cui possa chiedersi che esso si svolga nelle scuole, alla presenza di chi vi acconsente e fuori dall’orario scolastico, senza che ciò possa minimamente ledere, neppure indirettamente, il pensiero o il sentimento, religioso o no, di chiunque altro che, pur appartenente alla medesima comunità, non condivida quel medesimo pensiero e che dunque, non partecipando all’evento, non possa in alcun senso sentirsi leso da esso.

Deve quindi concludersi che la “benedizione pasquale” nelle scuole non possa in alcun modo incidere sullo svolgimento della didattica e della vita scolastica in generale. E ciò non diversamente dalle diverse attività “parascolastiche” che, oltretutto, possono essere programmate o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza una formale delibera.

  1. È appena il caso di rilevare che non può logicamente attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, con le limitazioni stabilite nelle prescrizioni annesse ai provvedimenti impugnati, un trattamento deteriore rispetto ad altre diverse attività “parascolastiche” non aventi alcun nesso con la religione, soprattutto ove si tenga conto della volontarietà e della facoltatività della partecipazione nella prima ipotesi, ma anche che nell’ordinamento non è rinvenibile alcun divieto di autorizzare lo svolgimento nell’edificio scolastico, ovviamente fuori dell’orario di lezione e con la più completa libertà di parteciparvi o meno, di attività (ivi inclusi gli atti di culto) di tipo religioso.

Ed ancora, c’è da chiedersi come sia possibile che un (minimo) impiego di tempo sottratto alle ordinarie attività scolastiche, sia del tutto legittimo o tollerabile se rivolto a consentire la partecipazione degli studenti ad attività “parascolastiche” diverse da quella di cui trattasi, ad esempio di natura culturale o sportiva, o anche semplicemente ricreativa, mentre si trasformi, invece, in un non consentito dispendio di tempo se relativo ad un evento di natura religiosa, oltretutto rigorosamente al di fuori dell’orario scolastico.

Va aggiunto che, per un elementare principio di non discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa di un’attività, una valenza negativa tale da renderla vietata o intollerabile unicamente perché espressione di una fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta ammissibile e legittima.

Del resto, la stessa Costituzione, all’art. 20, nello stabilire che «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative (…) per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività», pone un divieto di un trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto tali.

Ovviamente, la partecipazione ad una qualsiasi manifestazione o rito religiosi (sia nella scuola che altrove) non può che essere facoltativa e libera, non potendo non godere, solo perché tale, di minori spazi di libertà e di minore rispetto di quelli che sono riconosciuti a manifestazioni di altro genere, nonché tollerante nei confronti di chi esprime sentimenti e fedi diverse, ovvero di chi non esprime o manifesta alcuna fede.

Negli atti impugnati i parametri ora indicati sono tutti rigorosamente rispettati, essendo garantita la libertà di partecipare all’evento in orario non scolastico, senz’alcuna forma di contrapposizione con altri credo religiosi o con qualsivoglia diversa ideologia.

  1. Resta da verificare se i provvedimenti impugnati siano espressione di una determinata potestà, riconducibile ad una categoria rispondente al normale principio di tipicità degli atti amministrativi.

Al riguardo può richiamarsi l’art. 96, quarto comma, del D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297, secondo cui gli edifici scolastici possono essere utilizzati fuori dell’orario del servizio scolastico per attività che realizzino la funzione della scuola come centro di promozione culturale, sociale e civile.

Tra tali finalità può comprendersi quella rivolta alla realizzazione di un culto religioso, sempre che ne sia libera, volontaria e facoltativa la partecipazione, e ciò avvenga, come richiesto, al di fuori dell’orario del servizio scolastico e previa delibera dell’organo competente, ai sensi del precedente art.10 del D.Lgs. del 1994, n. 297 cit., ivi indicato nel Consiglio di Circolo o di Istituto.

Ed è appena il caso di ricordare che, nella prassi oggi invalsa, le competenze di tali organi scolastici sono intese in senso non certamente restrittivo, bensì estensivo o comunque elastico e flessibile, quanto alla tipologia ed alla natura delle attività “parascolastiche”, “extrascolastiche”, o comunque “complementari”, che gli stessi organi possono liberamente ed autonomamente programmare o autorizzare.

Del resto, il D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275 (regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 della L. 15 marzo 1997, n. 59), all’art. 4, relativo all’autonomia didattica, dispone: «Le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema (…) concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo», intendendosi in tal modo evidentemente ampliare la sfera dell’autonomia di tali organi, ed ammettendo esplicitamente, con l’espressione «riconoscono e valorizzano le diversità», tutte quelle iniziative che si rivolgano, piuttosto che alla generalità unitariamente intesa degli studenti, soltanto a determinati gruppi di essi, individuati per avere specifici interessi od appartenenze, per esempio di carattere etico, religioso o culturale, in un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto, oggi tanto più decisivo in relazione al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e della conseguente necessità di integrazione”.

 

 

 

 

Nelle aule di giustizia è stata affrontata anche un’altra questione assai controversa: l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è in contrasto con il principio di laicità?

Secondo la Suprema Corte di Cassazione, l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, al quale si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo, non crea divisioni o contrapposizioni ma è espressione di un sentire comune e simbolo di una tradizione culturale millenaria. Alla luce di questa epocale sentenza, si coglie appieno il senso delle parole del segretario generale della Cei: “È innegabile che quell’uomo sofferente sulla croce non possa che essere simbolo di dialogo perché nessuna esperienza è più universale della compassione verso il prossimo e della speranza di salvezza. Il cristianesimo di cui è permeata la nostra cultura, anche laica, ha contribuito a costruire e ad accrescere nel corso dei secoli una serie di valori condivisi che si esplicitano nell’accoglienza, nella cura, nell’inclusione, nell’aspirazione alla fraternità”.

Una funzione di indirizzo morale, che richiama valori civilmente rilevanti. E’ questa la chiave di lettura che si desume anche dalla sentenza n°556 del 2006, in cui il Consiglio di Stato chiarisce il senso del simbolo religioso nella scuola: “È evidente che il crocifisso è esso stesso un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto per il luogo ove è posto. In un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed esclusivamente un “simbolo religioso”, in quanto mira a sollecitare l’adesione riverente verso il fondatore della religione cristiana.  In una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile. In tal senso il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte “laico”, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni. Ora è evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana.  Questi valori, che hanno impregnato di sé tradizioni modo di vivere, cultura del popolo italiano, soggiacciono ed emergono dalle norme fondamentali della nostra Carta costituzionale, accolte tra i “Principi fondamentali” e la Parte I della stessa, e, specificamente, da quelle richiamate dalla Corte costituzionale, delineanti la laicità propria dello Stato italiano.  Il richiamo, attraverso il crocifisso dell’origine religiosa di tali valori e della loro piena e radicale consonanza con gli insegnamenti cristiani, serve dunque a porre in evidenza la loro trascendente fondazione, senza mettere in discussione, anzi ribadendo, l’autonomia (non la contrapposizione, sottesa a una interpretazione ideologica della laicità che non trova riscontro alcuno nella nostra Carta fondamentale) dell’ordine temporale rispetto all’ordine spirituale, e senza sminuire la loro specifica “laicità”, confacente al contesto culturale fatto proprio e manifestato dall’ordinamento fondamentale dello Stato italiano. Essi, pertanto, andranno vissuti nella società civile in modo autonomo (di fatto non contraddittorio) rispetto alla società religiosa, sicché possono essere “laicamente” sanciti per tutti, indipendentemente dall’appartenenza alla religione che li ha ispirati e propugnati. Come ad ogni simbolo, anche al crocifisso possono essere imposti o attribuiti significati diversi e contrastanti, oppure ne può venire negato il valore simbolico per trasformarlo in suppellettile, che può al massimo presentare un valore artistico. Non si può però pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad una suppellettile, oggetto di arredo, e neppure come ad un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto come ad un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili sopra richiamati, che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato. Nel contesto culturale italiano, appare difficile trovare un altro simbolo, in verità, che si presti, più di esso, a farlo(…). La decisione delle autorità scolastiche, in esecuzione di norme regolamentari, di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, non appare pertanto censurabile con riferimento al principio di laicità proprio dello Stato italiano”.




La scuola del merito di Valditara: per gli studenti prove Invalsi difficili, per i docenti test di concorso facili e imbarazzanti

di Aluisi Tosolini

In questi giorni si stanno svolgendo le prove scritte (test computer based) dei concorsi docenti di ogni ordine e grado.
E, sempre in queste settimane, si discute moltissimo di valutazione accusando spesso la scuola di non essere abbastanza difficile, di non pretendere abbastanza dagli studenti e di essere preda di un rammollitismo ideologico le cui origini sono ritrovate dal Ministro, stando al suo ultimo libro sulla scuola, nell’ideologica sinistra e sinistroide del 1968. Insomma la scuola del merito e dei talenti deve essere più difficile, deve alzare l’asticella.
Se dunque la scuola è accusata di essere troppo facile – mi sono detto – chissà come saranno le prove scritte (test) dei concorsi per docenti. Sarà una strage.

La stessa preoccupazione è stata espressa, ad esempio, da La Repubblica che l’11 marzo 2024 così scrive:  “Concorsi al via. È la settimana delle prove a quiz per chi sogna una cattedra di ruolo. Hanno fatto domanda in 372.804 per 44.654 posti di cui 15.588 sul sostegno. Entreranno poco più di uno su dieci. Al netto della disomogeneità dei posti disponibili rispetto alle domande e soprattutto delle bocciature che nel test selettivo da 50 quesiti hanno tassi sempre molto elevati

Ma è davvero così?
Siamo andati a vedere. Ma prima di darvi l’esito della nostra ricerca facciamo il punto sulla prova scritta.

In cosa consiste la prova scritta?

La prova consiste in un test computer based di 50 quesiti a risposta multipla (4 risposte, una sola corretta). La prova ha una durata di 100 minuti.
I 50 quesiti sono organizzati per aree o ambiti 

Ambito pedagogico, psicopedagogico e didattico-metodologico

  • 10 quesiti di ambito pedagogico
  • 15 quesiti di ambito psicopedagogico (inclusione inclusa)
  • 15 quesiti di ambito metodologico didattico (valutazione inclusa)

Lingua inglese: 5 quesiti a risposta multipla, livello B2.

Competenze digitali: 5 quesiti sull’uso didattico delle tecnologie e dispositivi elettronici multimediali

I quesiti si basano sui programmi dell’allegato A al DM n. 206 del 26 ottobre 2023 e allegato A al dm n. 205 del 26 ottobre 2023 rispettivamente per infanzia primaria e secondaria.

Come si supera la prova

Il punteggio massimo per la prova scritta è di 100 punti. Ogni risposta esatta vale 2 punti. La risposta errata o non fornita vale zero. La prova è superata con il punteggio complessivo non inferiore a 70 punti, ovvero con 35 risposte esatte su 50. Il punteggio del test (prova scritta) è conteggiato nel punteggio complessivo che è costituito da punteggio prova scritta, punteggio prova orale (max 100) e punteggio titoli (max50) per un totale massimo di 250 punti.

La prova scritta: difficilissima, difficile, facile, facilissima, …… o imbarazzante ?

Una gentilissima dirigente amica mi ha recapitato i 50 test cui sono stati sottoposti i docenti delle scuole secondarie (di primo e secondo grado) in uno dei giorni scorsi. Ricordo che in quella giornata la stessa prova è stata somministrata a tutti i concorrenti in tutta Italia (l’unica variazione è infatti nella disposizione random dei quesiti)

I 50 quesiti sono scaricabili qui.

Invito tutti prima a mettersi mentalmente alla prova e poi a rispondere ad un’unica domanda al seguente link https://forms.gle/c7Vxd4FTravxXKPQ6  dove esprimere il proprio parere sulla complessità della prova.

Una valutazione dei quesiti

In realtà gli argomenti di molti quesiti sarebbero anche interessanti e si presterebbero a quella ipotizzata strage di cui parla Repubblica. Il problema è che tra le 4 risposte possibili tre sono proprio sbagliatissime ed in sostanza è impossibile non azzeccare la risposta giusta.
Ad esempio la domanda 50 chiede quale tra i seguenti NON è un organo collegiale di cui al Dlgs 297/1994. E fornisce le seguenti opzioni

  • Piano triennale dell’offerta formativa
  • Collegio dei docenti
  • Consiglio di interclasse
  • Consiglio di intersezione

Ora, anche se una viene da Marte (ma conosce la lingua italiana) non può che rispondere correttamente spuntando PTOF che, essendo un Piano triennale, è difficile sia un organo collegiale.
E lo stesso si può dire per quasi tutti (se non tutti ! ) i quesiti. Alcuni poi sono di una semplicità imbarazzante, come quello della domanda 7. Altri gridano vendetta al cospetto di Dio, e penso al quesito sulla pedagogia della cura dove anche mio nipotino di 2 anni e mezzo risponderebbe correttamente.
Taciamo poi, per carità di patria sui quesiti riferiti a pedagogisti e affini (Piaget, Dewey, Bloom,..).

Insomma, una persona che conosca la lingua italiana e legga con attenzione le domande, difficilmente riesce a sbagliare più di 15 risposte e quindi a non accedere all’orale, dove barcamenarsi pronti ad andare in cattedra negli anni successivi.
Ignorantissimi o preparatissimi non è dato sapere, visto che certo questa prova scritta non ci permette di capirlo.
Ma certo pronti ad essere cattivissimi con gli studenti e le studentesse che, secondo moltissimi Catoni contemporanei, non sanno niente e che non hanno voglia di imparare nulla.

Una modesta proposta

Magari – modestissima proposta da parte mia – potremmo chiedere agli studenti di quinta superiore di svolgere il test che vi ho proposto (invece che il test invalsi) così da verificare quanti prendono più di 70 ed abbuonare a questi l‘esame di stato. Tanto, ne sanno come i futuri docenti.
E magari ai docenti facciamo fare il test invalsi….. e allora forse sarà davvero una strage !

 

 

 

 




Liceo del Made in Italy: i verbali segreti delle rimostranze del Ministro alle critiche di Gavosto

di Aristarco Ammazzacaffé

Premessa. Al Direttore della Fondazione Agnelli sfugge l’essenziale.

L’ultima clamorosa bocciatura, a firma dell’autorevole Direttore della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto – quella sul Liceo del Made in Italy – ha creato non poco scompiglio nell’intera maggioranza di governo. E soprattutto nella Premier che, a un percorso liceale di questo tipo, ci ha sempre pensato e tenuto.
Di tale interesse sono testimonianza verace, come è noto, sia la corsa all’approvazione della Legge sul Made in Italy[1]  il 20 dicembre del 2023 – che istituisce formalmente (art. 18) il Nuovo Liceo -, sia anche la pubblicazione a tambur battente in G.U. della specifica Nota Ministeriale [2], con tanto di disposizioni normative per le scuole, sollecitate proprio dalla Premier.
Il tutto, nei sette giorni a cavallo del Natale.
E vai!
Per la serie: veni, vidi, vici.
Mai tanta solerzia, tempismo, coordinamento in un Governo di questo Paese!
Grazie Giorgia, ci sarebbe da dire, doverosamente. Eppure….

Eppure, di fronte a questo vero e proprio miracolo italiano, sono volati stracci e pallottole, un po’ ovunque e di ogni tipo, che mai ti saresti aspettato.
Che ingratitudine! Un popolo di ingrati. Proprio.
E, per il mondo della scuola, il capofila, finalmente venuto allo scoperto, è proprio il Direttore Gavosto.
Che figura! Una persona tanto a modo! Eppure… Ma come si fa?
E meno male che, immediata ed anche ardita, è scattata la reazione del nostro Ministro Valditara – che Dio l’abbia in gloria! (in senso affettuoso, ovviamente) – che non ha esitato a denunciare la gravità dell’uscita gavostiana: “Una sciabolata atroce”. Così, quelli che sanno, riferiscono che abbia detto.
(Per la Meloni, invece, il suo staff ha parlato di bazuca contro il Governo; che, se ci pensate bene, pare più appropriato).
Del Ministro si dice anche che, dopo aver letto solo le prime righe della bocciatura del Nuovo Liceo, ha addirittura smesso immediatamente il suo regolare aplomb d’ordinanza; e, non riuscendo a capacitarsi, convoca d’urgenza i suoi collaboratori di prima fascia, e letteralmente sbotta.
(È di tale sbotto – se me lo passate – che qui si riporta la testimonianza, verace anche questa, del number one della Segreteria del Ministro, che è anche nostro coscienzioso agente all’Avana: è lui che ci ha infatti fornito la registrazione per questo resoconto. Altro non si può dire. Problemi di privacy)

Il Ministro Valditara che sbotta

“La prima cosa che andrebbe detta – questo, l’incipit dello sbotto, qui ancora ‘trattenuto” (a dettarne il modus è, in tutta evidenza, ancora l’aplomb) – è come fa una Fondazione benemerita, intestata ad Agnelli, a tollerare, nella funzione di Direttore, il Gavosto Andrea [l’articolo davanti ai cognomi e nomi propri è comune a Milano; e Valditara è dato per milanese. NdR]
“E aggiungo subito: ma come fa il Gavosto, a proposito del nuovo Liceo, a parlare – testuale – di un ‘indirizzo organizzato in fretta e furia, per soddisfare le richieste della Premier’, e a cianciare immediatamente dopo, addirittura di ‘contenuti didattici confusi’? Proprio così ha detto: ‘confusi’! Ma si può? Falsità e calunnie!) Alla sua età, poi! Da non credere. (Qui il tono della voce, d’emblée, scala in quarta. Ma si sente che regge)”
“Un’altra cosa che non mi va giù: sui ‘tempi di attivazione del nuovo Liceo’, osa addirittura affermare che ‘sono stati talmente stretti da mettere le scuole in seria difficoltà e famiglie e studenti interessati nell’impossibilità di disporre delle informazioni per una scelta ponderata”.
“A questo punto, mi dico e chiedo anche a voi: Come fa a dire queste cose? Chi gliele ha dette? Ha le prove? Invece di ringraziare il Governo e la sua Presidente per aver portato a casa un risultato di eccellenza con una celerità che neanche Speedy Gonzales, si cerca addirittura di vilipenderli! E questo perché la sua prospettiva – del Gavosto, dico – è evidentemente un Paese di lumaconi; che arriva a contestare l’urgenza di una domanda formativa a cui il nuovo liceo dà risposte di certo serie! Perché – e qui lo ribadisco anche a voi, e non potete dirmi di no – la domanda di questi nuovo liceo, in giro, c’è eccome. Si convincano i nostri detrattori senza scrupolo! Non fermiamoci però, per favore, alla percentuale di adesioni degli studenti. Quella che gira: lo 0,8% a livello nazionale, in realtà, dice e non dice. Comunque, chi può negarci la speranza che le percentuali di botto si mettano a salire? La speranza è una cosa seria. È una virtù teologale. E nessuno pretenda di insegnarmela. La mia vita parla per me. E anche la mia biografia, se è per questo! Parlatene con chiunque. Vi potrei dare, se volete, anche una lunga lista di referenze da interpellare”.
“E c’è ancora una terza pesante accusa che il Gavosto ci muove. [Ma proprio qui, attraverso la registrazione a cui attingiamo, si nota, nel tono della voce, una improvvisa alterazione e, nel ritmo delle parole, una certa accelerazione. Tra i presenti, preoccupazioni, che si colgono attraverso un leggero mormorio in sottofondo. (NdR)] -. L’accusa, è che ‘manca nel nuovo Liceo una riflessione approfondita sulle maggiori competenze che gli studenti devono sviluppare rispetto a indirizzi già esistenti”.

“A questo punto, sono io che chiedo: ma come può dire ciò che dice? In primo luogo, a cosa si riferisce? All’attuale Liceo economico-sociale? Agli Istituti Tecnici e Professionali esistenti? A tutti e due? E perché non ‘parla onesto’ nella sua catilinaria? Per sollevare fumo e mettermi in difficoltà? Pensava, nella sua supponenza, che io ignorassi una obiezione di questo tipo, comunque infondata? Ma se si aspetta una risposta a questa provocazione, che si sappia: io non rispondo. Non gli do questa soddisfazione. Ho una mia dignità. Si scorra, ripeto, il mio curricolo e la mia biografia. [Qui il tono cresce ancora e si avverte un certo farfugliamento nella pronuncia. Costretto a una piccola pausa. (NdR)]. Con questo tipo di mentalità – riattacca anche se un po’ a stento – non cresceremo più. Diciamocela tutta: abbiamo perso ormai orgoglio e pregiudizio. [Proprio così, dice!]”
“E siamo all’ultimo assalto proditorio – tralascio gli altri secondari che pure esprimono anch’essi pura malevolenza -: che senso ha l’obiezione gravissima che ‘il quadro di riferimento del nuovo liceo presenta molti aspetti in bianco e che il profilo in uscita è ancora tutto da pensare e sperimentare’? Polemica per polemica, qui ribatto immediatamente: Ma, per caso, Roma, che è Roma, si è fatta dall’oggi al domani o addirittura dalla sera al mattino? Bisognerebbe chiederglielo al nuovo padreterno della scuola Italiana”.

“Comunque [si avvia alle conclusioni? Mah (NdR)] – di queste cose parlerò in tempi brevi col ministro Urso. Urso, dico bene? Sì, il collega allo Sviluppo che adesso si è allargato con l’aggiunta “e del Made in Italy” e pensa di farmi ombra. Scioglieremo comunque tutti i dubbi che meritano e convinceremo tutti quelli che ci stanno. Ne stia pur certo il ‘Direttore’, come si fa chiamare!
“Ora basta. Scusate lo sfogo. Io son fatto così. Faremo al più presto una riunione dopo il mio incontro con Urso. Pensateci anche voi. Buon lavoro”.
(E sottovoce, un po’ rientrato nel suo aplomb di ordinanza, quasi tra sé e sé: “Urso? ma come fa uno a chiamarsi così? Mah!”.)

Un cruccio personale: un sì profondo a una Scuola per le nostre eccellenze produttive; ma perché in Inglese?
Così il Ministro da par suo. Da parte mia, una sola annotazione dopo aver ascoltato la registrazione della sfuriata. Per quel che mi riguarda, sono ovviamente d’accordissimo con le parole del Ministro.
In tutta questa storia, però, una cosa mi sfugge.
Giusto valorizzare, con il nuovo Liceo, come fa la Nota ministeriale citata [3], le italiche eccellenze e incentivare così – cito in termini testuali – la proprietà industriale e, insieme, anche la filiera nazionale del legno 100% per l’arredo e quella degli ulivi vergini (è importante, nei tempi promiscui che ci tocca vivere, che questi ultimi, vengano conservati tali).
E considero pure fondamentale – sempre citando testualmente – diffondere nella nostra moda le misure Made in Italy per la transizione digitale (qui capisco poco, ma ci credo) e promuovere anche il settore della nautica da diporto.

E chi ha dubbi al riguardo? Personalmente sono sempre stato per le promozioni contro le bocciature a gogo. E poi: i nostri marchi di particolare interesse nazionale, li vogliamo per caso lasciar fuori? Non li vogliamo tutelare? Vogliamo scherzare? Tutto questo non è solo opportuno, è addirittura cosa buona e giusta, eccetera.
Però, a naso, Tutte queste valorizzazioni e promozioni e incentivazioni, in tutta onestà, mi sembra che c’entrino un po’ poco con la scuola-scuola. Comunque, adesso – è l’obiezione che mi faccio – vogliamo metterci a fare gli schizzinosi proprio sul tipo di scuola che ne viene fuori dalla Legge e dalla Nota citate? Sinceramente, in questo ridisegno, di scuola ce n’è pochina. Tuttavia, io mi dico in tutta modestia: se va bene al Ministro e soprattutto a Giorgia, chi sono io per fare il baston contrario?
Avrà certamente le sue ragioni, il Valditara, se parla di questa scelta come la” vera rivoluzione” della nostra scuola o, più modestamente (come preferisce dire lui che modesto lo è dentro): della “sua” / di lui grande riforma. Proprio così dice. D’altra parte, cos’altro può dire, povero!
Il mio problema vero però è un altro: perché Made in Italy? Perché ricorrere all’Inglese per valorizzare un patrimonio che è solo nostro e che – come noi ci diciamo con legittimo orgoglio identitario – tutti ci invidiano? Perché no la lingua di Dante, che il ministro alla Cultura Sangiuliano, fratello di Giorgia, ha dottamente e finalmente additato come il primo vero uomo di destra della nostra storia patria? Svendiamo anche questo punto fermo?
Comunque, pensatela come volete, ma questa storia di ricorrere all’inglese per farne vetrina per le nostre eccellenze nazionali, io non la bevo bene.
Ma, su questo, qualcuno ha parlato con Giorgia?

1L. 206/2023, in G.U., il 27.12.2023.
2 Nota M.I.M 28.12.2023
3 Nota M.I.M, cit., artt. 8-15.




Gli apprendisti stregoni dell’autonomia differenziata applicata alla scuola

di Stefano Stefanel

Nel generalizzato disinteresse generale si sta sviluppando sotterraneamente e mediaticamente l’applicazione dell’autonomia differenziata, inserita in Costituzione nel 2001 con la legge costituzionale n° 3 del 12 marzo 2001 emanata il 18 ottobre 2001 a seguito del referendum popolare confermativo del 7 ottobre 2001 (10.433.574 voti favorevoli, 5.816.527 voti contrari, 229.376 schede bianche e 363.943 schede nulle).
L’autonomia differenziata riguarda molti settori e quello scolastico non si sottrae a questo esperimento di ingegneria costituzionale che non pare riuscito finora benissimo, almeno a livello teorico.
L’autonomia differenziata è una novità per quindici regioni italiane, mentre di fatto già c’era negli statuti speciali per le cinque Regioni individuate dalla Costituzione del 1948 (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta), anche se tre delle cinque regioni hanno applicato le norme anche sulla scuola soprattutto per l’applicazione di trattati internazionali (il Trentino Alto Adige per la sola provincia di Bolzano, il Friuli Venezia Giulia per la minoranza di lingua slovena, la valle d’Aosta per le norme di collegamento con la Francia) e una sola (il Trentino Alto Adige per la sola provincia di Trento) ha realmente regionalizzato la scuola per decisione non derivata da norme internazionali con la legge n° 5 del 7 agosto del 2006.

In questo momento l’autonomia differenziata applicata alla scuola viene rivendicata da poche Regioni e – tra tutte – solo il Veneto pare avere le idee chiare su cosa fare e pretende una totale regionalizzazione del sistema scolastico, uscendo di fatto dal sistema scolastico nazionale. Ci sono delle parti politiche interessate all’autonomia differenziata e parti che sono ostili anche alla sola idea inserita in Costituzione (queste ultime sono soprattutto forze di centro sinistra e sindacali, che paiono essere diventate nemiche dell’autonomia differenziata pur avendola inventata). Ma nel complesso l’opinione pubblica non è interessata alla cosa, la sente distante e non guarda con interesse oltre la scuola frequentata dai propri figli.


E allora, verrebbe da chiedersi, dove sta il problema? Anche perché tutto va a rilento e i Livelli Essenziali delle Prestazioni, che dovrebbero definire il quadro economico di partenza e la solidarietà nazionale alle parti del territorio nazionale che quei livelli non li raggiungono nemmeno lontanamente, sono più uno schema di lavoro che una solida base di partenza.

DOVE STA IL PROBLEMA

Il problema sta in alcuni punti del (mancato) dibattito che si possono così riassumere:
a) l’applicazione dell’autonomia differenziata richiederebbe una unanimità di intenti di tipo federalistico in tutta Italia, in modo che si vada verso uno stato con elementi di federalismo dentro l’unitarietà nazionale confermata, mentre invece stanno venendo avanti proposte autonomistiche legate a forze politiche partitiche con progetti di parte, indifferenti a qualunque richiamo ad un disegno unitario (ad esempio quella del Friuli-Venezia Giulia che propone di regionalizzare il solo Ufficio scolastico regionale);
b) l’autonomia differenziata nella scuola non deve riguardare l’intero sistema di istruzione, ma può riguardare anche singole e marginali parti di quel sistema, il che vuol dire che non è necessario per regionalizzare avere un progetto generale e organico, ma è possibile anche intervenire su piccoli punti, molto adatti alla propaganda politica e poco alla gestione quotidiana delle scuole;
c) non tutto ciò che riguarda l’autonomia differenziata abbisogna di LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) e dunque è possibile anche regionalizzare parti del sistema scolastico partendo dal proprio punto di vista e non da quello generale: l’esempio più eclatante è quello del segmento 0 – 6 (da zero a sei anni, scuola non dell’obbligo, asili nido, sezioni primavere, scuole dell’infanzia in parte consistente non di proprietà statale) attualmente per lo più in mano a soggetti non statali e quindi non “tabellabile” dentro livelli di prestazione nazionali;
d) una volta approvati i LEP è possibile che le regioni più ricche (Veneto e Lombardia in testa) li accettino a scatola chiusa, perequazione a favore del meridione italiano inclusa, e dunque a quel punto il sistema scolastico nazionale si sfaldi, anche perché i LEP possono prevedere livelli alti di prestazioni (che solo le Regioni più ricche possono fornire), ma anche LEP più realistici che – paradossalmente – possono produrre un vantaggio economico per le regioni più ricche e che quindi diventerebbero elemento politico vincente (il presidente della regione Veneto Zaia e l’assessore all’istruzione Donazzan qualche tempo fa hanno dichiarato che vogliono regionalizzare la scuola veneta per stabilizzare i docenti attraverso aumenti stipendiali che possono tranquillamente erogare).

LA CONFUSIONE DELLA POLITICA

Una materia così tecnica e sistemica dovrebbe essere maneggiata solo dagli esperti del settore e dovrebbe avere dei passaggi esplicativi chiari nei confronti dell’opinione pubblica, destinata a portare bambini e ragazzi a scuola almeno finché non nasce una modalità alternativa all’istruzione, cioè, dico io, per almeno altri duecento anni. Invece tutto è lasciato in mano a politici e giuristi che col mondo della scuola non hanno alcuna familiarità. Lo si vede chiaramente da quanto viene portato all’attenzione pubblica sui documenti (per lo più segreti) di cui si sta discutendo in parlamento e nei consigli regionali.
Perché avviene questo? Io ritengo per un motivo molto semplice: un qualunque professionista della scuola può smontare il tutto in un batter d’occhio, perché quello che viene proposto mediaticamente ha come primo obiettivo quello di smantellare il sistema scolastico nazionale, che sta alla base della nostra costituzione e della nostra convivenza civile e che in Italia pochissimi vogliono, invece, smantellare a favore di regionalismi collegati alla propaganda politica.
Ci son però dei fatti molto gravi, alcuni dei quali talmente di dettaglio da essere praticamente invisibili (ma si sa che il diavolo sta nel dettaglio). Recentemente il Governo ha razionalizzato (tagliato) la rete scolastica eliminando alcuni posti in organico di diritto di dirigenti scolastici e direttori dei servizi generali e amministrativi.
Il provvedimento ministeriale è stato di tipo contabile e naturalmente poteva essere osteggiato da chi lo riteneva sbagliato. Ma alcune regioni, governate dal centrosinistra, hanno impugnato il provvedimento chiedendone il suo ritiro perché avrebbe violato la potenziale autonomia regionale e forze di opposizione al centrodestra hanno accusato i “governatori” regionali di non aver difeso l’autonomia regionale. Se lo si analizza dal punto di vista di un sistema scolastico regionale è molto grave chiedere l’applicazione dell’autonomia differenziata su un singolo provvedimento, perché chi governa attualmente le Regioni ha allora diritto ad applicare quell’autonomia come ritiene meglio di fare.

O l’autonomia differenziata è una riforma in applicazione della costituzione che non deve toccare l’idea di sistema scolastico nazionale, ma solo definire in forma autonoma le specificità regionale, oppure se la si può richiamare ogni qual volta qualcuno a livello centrale decide in maniera diversa da come la si pensa allora tutto diventa lecito: sia quello che si decide a destra, sia quello che si decide a sinistra, senza tenere in alcun conto l’interesse generale, ma occupandosi solo dell’interesse di parte. Anche perché – io penso – se si regionalizzassero i dirigenti scolastici e i direttori dei servizi generali e amministrativi (cosa possibilissima) lo Stato perderebbe su di loro immediatamente il potere di “razionalizzazione”, ma si assisterebbe a quella che – per me -sarebbe un’involuzione inqualificabile di un sistema scolastico nazionale, che vuole la sua dirigenza scelta attraverso concorsi pubblici e nazionali, anche se su base numerica regionale.

E DUNQUE COSA VUOL DIRE REGIONALIZZARE

Per capire cosa vuol dire regionalizzare un sistema scolastico o una sua parte porto solo alcuni sintetici esempi. In sé ognuno di questi esempi porta dei vantaggi per chi regionalizza e immediatamente svantaggi per gli altri, ma sono tutte questioni molto tecniche che chi sta dentro la scuola vede bene e chi sta fuori dalla scuola difficilmente comprende:

a) Sistema 0-6: in questo momento è già “selvaggiamente regionalizzato”, nel senso che i servizi che ci sono al nord non ci sono al sud e che il livello delle prestazioni non è definibile a livello nazionale, anche per una carenza strutturale di edifici adatti all’infanzia. Il sistema attualmente è diviso in due segmenti (0-3: asili nido e 3-6: scuole dell’infanzia) con un segmento di unione (sezioni primavera) e solo il secondo segmento vede la presenza diretta dello stato con le scuole dell’infanzia statali. Su questo segmento insistono 7-8 contratti diversi per personale di diversa derivazione, con una babele normativa che non ha niente di nazionale o sistematico. Ora se una regione regionalizzasse questo segmento facendolo diventare tutto regionale si accollerebbe una spesa notevole, ma al tempo stesso interverrebbe massicciamente sul welfare delle famiglie a cominciare da quelle più giovani, che hanno figli piccoli. Ma in questo modo l’omogeneità del sistema nazionale “scapperebbe” per sempre.

b) Organico del personale della scuola: è regionalizzato solo in Trentino e costa un mucchio di soldi, perché la regionalizzazione ha aumentato gli stipendi del personale. Diciamo che questa tipologia di regionalizzazione è la più costosa e per ora la rivendica solo il Veneto: è una gabbia salariale di nome diverso, che parte da un reclutamento e una formazione regionale e non nazionale.

c) Istruzione tecnica e professionale e formazione professionale: questa regionalizzazione toglierebbe quel tipo di segmento di istruzione dal sistema scolastico nazionale potendo prevedere anche qualifiche di tipo diverso decise dalle regioni per tutta la filiera e – soprattutto – toglierebbe il dualismo tra formazione e istruzione professionale, gestendo qualifiche e percorsi in forma diretta.

d) Ufficio socialistico regionale: regionalizzare solo l’ufficio scolastico (che si chiama regionale, ma è di fatto un ufficio statale che agisce nelle singole regioni, ma risponde al Ministero) significherebbe far dirigere il personale dello stato selezionato con concorsi statali (dirigenti, direttori, docenti, ata) da personale di nomina regionale, mettendo la politica regionale in posizione di vantaggio rispetto alla gestione del sistema.

Mi fermo qui perché questo è solo un articolo. Tutto quello che ho scritto meriterebbe approfondimenti passo per passo, mentre vedo in giro poco interesse e soltanto posizioni di parte, prive di qualunque logica di sistema. Cioè, vedo molti apprendisti stregoni su una questione come la scuola dove si ha a che fare con le menti e le intelligenze di tutta la gioventù italiana.