Pubblicato nella GU il Decreto legislativo n. 96 in materia di inclusione

matitaPubblicato nella Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo n. 96 del 7 agosto 2019
Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo  13 aprile 2017, n. 66, recante: «Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità, a norma dell’articolo 1, commi 180 e 181, lettera c) , della legge 13 luglio 2015, n. 107».




Disabili e inclusione: problemi aperti

di Loretta Lega
(dalla rivista on line Scuola7)

Uno sguardo d’insieme
A leggere i dati del Rapporto annuale del MIUR sullo stato dell’integrazione scolastica (MIUR, I principali dati relativi agli alunni con disabilità. A.s. 2017/18, Roma, maggio 2019) dovremmo essere tutti molto soddisfatti. Si registra infatti un aumento dei posti di sostegno attivati (155.997 unità rispetto ai 90.026 di dieci anni prima), e questo, a fronte della persistente (ma quanto fondata?) denuncia di carenza di personale di sostegno, non può che essere una buona notizia.

Anche l’aumento degli alunni certificati ai sensi della legge 104/1992, che oggi ammontano a 268.246 unità (pari al 3,1% della popolazione scolastica, rispetto al 2,16% di dieci anni fa), potrebbe essere letto in quest’ottica:
– sta migliorando la capacità dei servizi educativi e sanitari di prendere in carico i casi di disabilità, attraverso l’affinamento degli strumenti diagnostici;
– si riscontra una maggiore sensibilità e attenzione di genitori e insegnanti;
– si conferma l’impegno puntuale e consistente delle istituzioni scolastiche in tema di inclusione (si pensi che il 48,1% delle classi italiane vede la presenza di almeno un alunno disabile).

Gli stessi dati, tuttavia, possono essere letti anche con qualche preoccupazione, per l’ambiguità del messaggio che veicolano: l’aumento delle certificazioni può segnalare un abbassamento della soglia di certificabilità, dando luogo ad una sorta di medicalizzazione delle difficoltà e dei disturbi generici di apprendimento, che si riscontrano in ampie fasce della popolazione scolastica.

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Bisogni educativi: speciali perchè ?

bimbo_legge  di Alain Goussot (*)

Di cosa si parla quando ci si riferisce ai bisogni educativi speciali  ?
Di bisogni particolari per quanto riguarda il processo di apprendimento e di sviluppo.
Ma, bisogni particolari non vuole dire che si tratta di bisogni così diversi da essere riservati ad una categoria speciale di alunni. O meglio a categorie speciali di alunni.
Quali categorie? Alunni con deficit e disabilità, alunni con disturbi specifici dell’apprendimento e disturbi generici dell’apprendimento, alunni con forte disagio socio-relazionale e socio-culturale, alunni con un ‘funzionamento cognitivo limite’
Qui non vi è il rischio di allargare troppo questo concetto di bisogni speciali o particolari o specifici (per usare un termine che usano di più nel mondo francofono)?
Se parlo di alunni con deficit e disabilità parlo di alunni che, per potere accedere anche ai bisogni di tutti (quelli elencati prima; cognitivi, affettivi, sociali, culturali), devono avere delle risposte specifiche per poter apprendere e crescere : come ha scritto Vygotskij il bambino con deficit ha bisogno di mediazioni e di mediatori per consolidare, sviluppare e arricchire i propri meccanismi compensativi (per Vygotskij ricordiamo che il deficit non rende automaticamente un bambino ‘deficitario’ cioè handicappato, anzi che questo attiva uno sviluppo sì ‘atipico’ ma originale e creativo); per fare questo l’educatore deve proporre dei ‘percorsi indiretti’ , cioè delle forme mediate di apprendimento (oggi parliamo di misure compensative e dispensative).

(*) docente di Pedagogia Speciale Università di Bologna prematuramente scomparso il 27 marzo 2016. L’articolo che proponiamo è stato pubblicato sulla rivista Handicap & Scuola n .169 del maggio-giugno 2013.

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L’alunno disabile non ha il “suo” insegnante, ma i “suoi” insegnanti

di Evelina Chiocca

L’errore di fondo è, per molti, è di ritenere che a scuola “solo il docente di sostegno” possa e debba assicurare il percorso di crescita e di formazione dell’alunno con disabilità. Si tratta di una visione totalmente distorta!!! L’inclusione si realizza grazie “alla sinergia e alla collaborazione reale” di tutti i docenti della classe.
Il docente “incaricato su posto di sostegno”, da solo, non garantisce gli apprendimenti né l’attuazione del processo inclusivo.
Insistere su un’unica figura professionale è controproducente e non è neppure in linea con l’impostazione di “integrazione” introdotta negli anni Settanta del secolo scorso e di “inclusione”, oggi.
Eppure stampa, servizi dedicati, servizi giornalistici, come pure le testimonianze di alcuni docenti, ripropongono questa impostazione, consolidando una “pseudo-cultura”, direi, opposta rispetto a quella che l’inclusione promuove.

Pertanto:

  • coloro che scrivono articoli nei quotidiani, nei giornali on-line, o in riviste dedicate, in blog o altro, come pure chi propone servizi radiofonici o televisivi, dovrebbero adottare un linguaggio corretto e offrire informazioni puntuali, non distorte o condite dal “sentito dire“; l’attenzione va posta non solo ai termini, ma anche e soprattutto al senso e al significato di questo processo,
  • i docenti dovrebbero riferire in modo corretto “la loro professione”. In particolare dovrebbero mostrare di conoscere i compiti che, contrattualmente, sono tenuti a rispettare, approfondendo le competenze ‘non possedute’ in tema di inclusione, onde evitare:

a) “deliri di onnipotenza”, per cui il bambino o il ragazzo impara “Se ci sono io, altrimenti no” (se ciò avviene, si deve registrare il fallimento e non il successo, perché, e i docenti ben lo sanno, “generalizzare” gli apprendimenti, e quindi anche i comportamenti acquisiti, per gli alunni costituisce una delle più grosse difficoltà);
b)  di pensare che senza di lei/lui “l’alunno non possa imparare”;
c)  di puntare unicamente sul “proprio ego” e su “un rapporto esclusivo con l’alunno”, mentre dovrebbero favorire la collaborazione “consapevole e corresponsabile” con i colleghi;
d) di stabilire un rapporto simbiotico ed esclusivo (di conseguenza “e-scludente”) anche con la famiglia: l’alleanza scuola-famiglia si costruisce fra “tutti i docenti della classe” e la stessa “famiglia”

  • genitori, insegnanti e giornalisti (e la società nel suo insieme) dovrebbero imparare a chiamare gli alunni per nome, riconoscerli come persone e non come “sindromi o disturbi”!!! A scuola gli insegnanti lavorano (e devono lavorare) con “persone“, per l’appunto gli alunni e le alunne, e non con un disturbo, una sindrome o, come sempre più frequentemente si sente dire, con una patologia!!!

Già i padri della pedagogia affermavano che la disabilità non è una malattia!
L’alunno o l’alunna con disabilità non è il suo disturbo, non è una patologia, non è la “sua disabilità”.
Se davvero il nostro comune obiettivo è di costruire una società in cui ciascuno sia chiamato per nome, sia riconosciuto come persona, sia rispettato come unicità, allora dobbiamo uscire da questi pericolosi e devianti stereotipi, che portano alla deriva e che trascinano, pericolosamente, verso la separazione, la divisione e l’emarginazione, dando vita alla “classe speciale” nella “classe comune” e alla ormai non più così remota ipotesi di riproporre le scuole speciali.
Iniziamo a cambiare noi, noi che nella scuola agiamo ogni giorno. Modifichiamo espressioni e lessico. Adottiamo nuove prospettive. Abbracciamo l’unica modalità possibile: quella in cui l’alunno con o l’alunna con disabilità è alunno di tutti i docenti della classe che, con responsabilità condivisa e con professionalità, lavorano insieme per promuovere lo sviluppo delle potenzialità di apprendimento, di socializzazione, di relazione e di comunicazione.

Il cambiamento è possibile: comincia da noi.

 

 

 

 

 




Approvata dal Governo la revisione del decreto 66 sull’inclusione. Il testo del decreto

matitaIl 31 luglio scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato in via definitiva il Decreto inclusione, che era stato esaminato in via preliminare lo scorso maggio. A partire dall’assegnazione delle ore di sostegno, che verrà decisa d’intesa con le famiglie, sussidi, strumenti, metodologie di studio non saranno più elaborati in modo “standard”, in base al tipo di disabilità, ma con un Piano didattico individualizzato che guarderà alle caratteristiche del singolo studente.

“Sono particolarmente orgoglioso del provvedimento approvato oggi in via definitiva – dichiara il Ministro Marco Bussetti -. Un obiettivo che ho fortemente voluto fin dall’inizio del mio mandato e che è stato raggiunto tramite il confronto costante con le Associazioni del settore e con l’Osservatorio permanente per l’inclusione scolastica. Anche su questo tema così importante, possiamo presentare alle famiglie i risultati del nostro impegno concreto. Ogni studente deve essere protagonista del proprio percorso di crescita. I ragazzi che hanno bisogno di maggiore assistenza, da oggi potranno beneficiare di percorsi elaborati appositamente per loro, su base individuale. Uno strumento che potrà migliorare ulteriormente l’importantissimo lavoro svolto dai nostri docenti”.

L’intera comunità scolastica sarà coinvolta nei processi di inclusione. Viene rivista la composizione delle commissioni mediche per l’accertamento della condizione di disabilità ai fini dell’inclusione scolastica: saranno sempre presenti, oltre a un medico legale che presiede la Commissione, un medico specialista in pediatria o neuropsichiatria e un medico specializzato nella patologia dell’alunno. Anche i genitori e, dove possibile, se maggiorenni, gli stessi alunni con disabilità, potranno partecipare al processo di attribuzione delle misure di sostegno.

Nascono i Gruppi per l’Inclusione Territoriale (GIT), formati su base provinciale, ovvero nuclei di docenti esperti che supporteranno le scuole nella redazione del Piano Educativo Individualizzato (PEI) e nell’uso dei sostegni previsti nel Piano per l’Inclusione. I GIT avranno anche il compito di verificare la congruità della richiesta complessiva dei posti di sostegno che il dirigente scolastico invierà all’Ufficio Scolastico Regionale.

A livello scolastico opererà il Gruppo di lavoro operativo per l’inclusione, composto dal team dei docenti contitolari o dal consiglio di classe, con la partecipazione dei genitori dell’alunno con disabilità, delle figure professionali specifiche, interne ed esterne all’istituzione scolastica che interagiscono con l’alunno stesso, nonché con il supporto dell’unità di valutazione multidisciplinare e con un rappresentante designato dall’Ente Locale. Il Gruppo di lavoro operativo per l’inclusione avrà il compito di redigere il Piano Educativo Individualizzato, compresa la proposta di quantificazione di ore di sostegno.

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Pedagogia dell’inclusione o dell’imperfezione?

di Raffaele Iosa,  già dirigente tecnico del Miur

Il declino dell’inclusione

E’ in corso da tempo una crisi strutturale di ciò che nel sociale e nelle politiche educative abbiamo per anni chiamato inclusione. Sarà per l’ età, ma pur essendo il sottoscritto per natura ottimista, vedo fenomeni macro e micro tali da poter dire che l’inclusione sembra oggi solo un benevolo mantra ripetitivo di un quasi-nulla concreto, nonostante buone eccezioni. Ho sempre pensato che il destino delle persone con disabilità, come dei poveri, come di chi non rientra nel mainstream, dipende dalla più vasta ideologia che connota una società. Che oggi non è inclusiva.

Prendo largo il pensiero su come sta l’inclusione scolastica (pur con le azioni di qualità sempre più rare) perché mi pare che la crisi non sia organizzativa né di un buon o cattivo decreto, e neppure di finanziamenti o di leggi, ma nel clima complessivo di un’epoca. Che oggi dice chiusura e non apertura. Restando alla scuola, leggo per esempio di soloni che sgridano la scuola perché boccia poco, di accademici che fanno l’apologia della lezione frontale, di nostalgici del latino, di insegnanti intolleranti verso gli alunni, di genitori violenti verso gli insegnanti.

Dominano nel mondo i muri, la paura dell’altro, l’egocentrismo identitario. Le parole sono cattive, le invettive riempiono i social, il mondo è fatto di nemici. Non è sufficiente dire che la “crisi” di solidarietà sia un fatto solo economico, c’è di più: tornano i lupi. E anche a scuola tornano i lupi.

Un piccolo esempio. Mi occupo da anni, pur in pensione, di “bambini cattivi”, cioè quei bimbetti di 5/7 anni che menano i compagni, che non stanno mai fermi, antipatici e rumorosi. La clinica li incasella come “oppositivi provocatori” e gironzolano tecniche comportamentiste per contenerli come fossero i piccioni di Skinner. Eppure ogni bambino cattivo è diverso dagli altri e ha qualche dote. In un recente caso ho dovuto contenere l’ira dei genitori (gli altri) senza alcuna etica né pietà, capaci solo di chiedere un carceriere a tempo pieno e l’applicazione del Regio Decreto del 1928 fino all’ espulsione. Giuro: 20 anni fa non era sempre così. E’ cambiata l’aria prima che la scuola.

Nel breve di questo testo, vediamo le priorità critiche del presente, nello sguardo complessivo.

Apologia dell’imperfezione (e della resilienza)

Sulla medicalizzazione e la iatrogenesi dilaganti di oggi ho già scritto numerosi saggi sotto il titolo “La grande malattia”. A questi rinvio i curiosi per l’approfondimento.

Detto in concreto: le certificazioni di disabilità sono raddoppiate in 20 anni, quelle di DSA le superano. Dei cosiddetti BES meglio non dire, c’è di tutto. Nonostante gli orpelli burocratici e l’INPS. Ma perché tutto questo? Un’epidemia collettiva? Una crisi iper-sociale? Qualcuno pensa persino sia merito (merito!!!) di una più attenta “cura” delle diagnosi. Io temo invece vi sia un cambio di paradigma sull’idea di salute e di benessere che, sommato alla denatalità, porta i genitori a desiderare il “figlio perfetto” e un mondo iper-clinico pronto alla cura magica nel caso non lo sia. Se il figlio non è perfetto ne va dell’autostima genitoriale. Meglio scoprire una “malattia” qualsiasi che darsi responsabilità educative. Meglio poi a scuola avere un figlio “un po’ malato che bocciato”.

Negli anni d’oro dell’attivismo le sane maestre non mancinomani conoscevano con saggezza la dislessia, avevano letto perfino Vigotsky che la considera un difetto e non un disturbo, e piano piano, con pazienza e senza criminalizzare aiutavano il bimbetto a far-si e così se la cavava da solo. La partenza giusta era non avere fretta. Oggi furoreggia il compensativo e il dispensativo. L’imperfezione è il nuovo mercato della crescita dei bambini. A nessuno è più concessa come serena tappa della vita. Domina una prevenzione iatrogena. Perfino le c.d. “competenze di fine ciclo primario” lette d’un fiato profilano l’idealtipo di un “bambino perfetto” che per fortuna in natura non esiste ma che crea confronti idolatrici che inquietano genitori individualisti, amanti del precocismo. Da qui la rincorsa al dottore. Ma non riguarda solo la scuola, i dentisti sono pieni di bimbi con un dentino storto. I dermatologi per un brufoletto. Eppure accettare l’imperfezione sarebbe la base naturale di una qualsiasi buona educazione. Che non vuol dire rassegnarsi, ma darsi tempo, accogliere la differenza non sempre come male, anzi a volte come originalità.

E poi: la medicalizzazione produce un effetto educativo perverso: una sorta di “sanatoria” che abbassa le potenzialità dell’io, lo clinicizza e lo rende sempre (per sempre) bisognoso di cure e attenuanti.

E’ anche la negazione della resilienza come capacità autonomia di far-si da sé cavandosi da soli dai guai. E’ anche il crollo della responsabilità individuale: nessuno è colpevole mai, né bambino né genitore, per ogni imperfezione c’è una cura magica. In genere costosa. Con questo non nego esista la sofferenza, la difficoltà, l’handicap come impedimento fattuale. Sostengo però la presenza di un’esagerazione clinicistica che ammala chi non è malato, che “protegge” chi ha bisogno invece di imparare la resilienza per cavarsela da soli. Bambini medicalizzati eterni pazienti, bisognosi per ogni guaio di cura e non di una scelta. Questa medicalizzazione chiede “tecniche” non didattiche, considera gli altri bambini come ostacoli più che opportunità e l’ambiente scolastico pericoloso. Da qui anche la mitologia della sicurezza che incarcera banchi e corridoi.

Questo approccio, inutile negarlo, modifica l’idea di inclusione a scuola, chiede che le maestre si mettano il camice e non il grembiule, abbassa le occasioni di fare insieme agli altri bambini per invece una “didattica individualizzata” che produce quel paradosso che in altri scritti ho chiamato isolazione, la più falsa delle inclusioni. Per me l’anticipo mascherato del ritorno alle scuole speciali. Dove i bambini meanstream non avranno più in mezzo i piedi bambini nervosi, stupidini, strambi, e dove si potrà fare solennemente l’antica grammatica come pontifica il guru Corrado Augias.

E i genitori saranno tutti contenti. Saranno contenti davvero?

Io continuo a credere, nonostante tutto, che educare accettando l’imperfezione come un dono di Dio e non una condanna sia l’inizio profondo di una vera e serena crescita guidata dal buon senso.

Le certificazioni e il Libro Cuore

Da una decina d’anni presiedo la Commissione regionale che assegna ore di sostegno in deroga in Emilia-Romagna. Ho visto crescere certificazioni una volta desuete, altre strane. Tutte considerate “gravi”, ma per la verità il prototipo dell’alunno che non funziona secondo gli antichi canoni del Libro Cuore. Sono aumentati a dismisura i Franti, crescono i bambini stupidini, crescono gli strambi, cresce chi fa fatica ad imparare. La clinica del DSM li chiama oppositivi provocatori, con ritardo mentale lieve, autistici con uno spettro di anno in anno più vasto, oppure DSA così gravi ma così gravi che non imparano niente. Naturalmente so che dietro ogni “caso” c’è una storia di difficoltà, di dolore, ma come non notare che i quattro prototipi deamicisiani in grande aumento rappresentano esattamente quell’area sociale e culturale “inadatta” ad una scuola meanstream da sempre, che chiede eccellenza, precocità, performance soddisfacenti.        Altro che inclusione: siamo alla certificazione ideologica di chi non si riesce ad adattare in modo naturale e attivistico alla scuola. Da qui una nuova grande domanda di medicalizzazione. Non è questa una crisi profonda della pedagogia inclusiva, incapace di adattarsi lei ai bambini e non viceversa?

Lo scontro tra scolasticisti e specialisti

Ho seguito con un po’ di noia l’acceso dibattito sul decreto per l’inclusione effetto della Legge 107. Ma questa volta credo che i malumori non siano colpa della politica. Io intravedo infatti un contrasto storico di carattere pedagogico più che politico  tra i diversi soggetti sociali e professionali coinvolti nella disabilità. In sintesi, si contrappongono  due scuole di pensiero.

 L’approccio scolasticistico.  

Gli scolasticisti sostengono la necessità di andare oltre la separazione tra docenti curricolari e di sostegno, si basano sul  sostegno partecipato, come ad esempio l’idea dei docenti bis-abili a cattedre miste. Lo scopo è creare una speciale normalità in cui tutti i docenti realizzano inclusione. La visione dell’alunno con disabilità è tendenzialmente olistica, la vita tra pari è significante. Gli scolasticisti mettono al centro la scuola comunità, flessibile in ogni momento educativo,  fondata nel sostegno diffuso  in forme comuni. È la tendenza più vicina alla storia pedagogica dell’inclusione degli anni ‘70. Ma è anche una tesi minoritaria e in crisi nella pratica. Spesso criticata dalle famiglie. E’ anche la mia pedagogia, la mia scuola di pensiero.

L’articolo completo è in corso di pubblicazione sulla rivista Handicap & Scuola

 




Pedagogia dell’imperfezione o cultura dell’analgesico ?

L’originale contributo di Raffaele Iosa sta suscitando le riflessioni dei nostri lettori.
Pubblichiamo qui l’intervento di Tina Naccarato, docente specializzata di scuola primaria

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Ormai più di 20 anni fa, un eccellente docente universitario utilizzava in maniera reiterata e quasi provocatoria il termine cultura dell’analgesico. Chi scrive, a quel tempo studentessa molto giovane e certamente non avvezza e tantomeno propensa a ricorrere ad analgesici con frequenza, inizialmente accolse tale termine con una certa leggerezza, come un’immagine, una trama, un vezzo dell’argomentazione.
Eppure, a tanti anni di distanza, si ritrova a ricordarlo sempre più spesso, a cercarne vecchi e nuovi significati, ad imparare ancora da quanto imparato rinnovandone sensi ed accezioni alla luce dei tempi che sono.
Ogni analgesico, infatti, è come un oppio che seda e risponde alle impellenze di una diagnosi. Il dolore, l’imperfezione, il difetto devono infatti oggi trovare un farmaco, un medicamento, Se non è cura è terapia, ma non si sfugge.
Così come è vietato invecchiare e sorgono chirurgie miracolose e mirabolanti attraverso cui tutti, più o meno, possono sperare di avere per un tempo indefinito un’età indefinita. E dove non arriva il chirurgo arrivano le magiche correzioni alle immagini, per correggere rughe o capelli bianchi, così da sembrare in foto, almeno sui social media, eternamente giovani.

Sulla stessa via veniamo così alla clinicizzazione dei figli, da aggiustare in qualche modo, se non perfetti. E se proprio perfetti non sono, bisogna diagnosticarlo, così non ci sono colpe e responsabilità. Il bimbo, finalmente medicalizzato, può dunque permettersi di essere imperfetto. Diviene possibile anche fare a meno di quella faticosa resilienza, perché le difficoltà sono descritte nei certificati e dunque anche lo sforzo per superarle può essere ridimensionato.

Certo, è bene precisare, non si vuole qui in alcun modo sminuire la portata, le ricadute o il grande impatto traumatico che una disabilità comporta a chi la vive ed alla sua famiglia. Non è certo questo il senso del presente breve intervento. Tuttavia, non si può non rilevare, come acutamente ha fatto R. Iosa, il proliferare di un diagnosticismo crescente e non può non sorgere il dubbio che una parte di esso risponda ad un bisogno sociale di clinicizzare per anestetizzare.
Se qualcosa sembra non andare come atteso serve un medico, una terapia, un analgesico, perché l’imperfezione non ha cittadinanza.
A scuola sarà inclusione o piuttosto, come osserva Iosa, prevale la certificazione ideologica di chi non si riesce ad adattare in modo naturale e attivistico alla scuola?
Sarà ancora possibile una visione olistica dell’alunno con certificazione oppure la strada è ormai aperta per la restaurazione di una contestata medicalizzazione di antica memoria? Chi scrive sposa con ostinazione la speranza di una visione organica dell’individuo, nelle sue peculiari specificità, ma teme la deriva atomizzante, la pedagogia del sintomo, fino agli estremi della farmacologia, perché ne ravvisa le tendenze, anche nelle famiglie: l’insegnante è mio e me lo gestisco io, perché mio figlio ha questo ed ha bisogno di questo…
E l’inclusione? Cosa resta? Il groviglio della burocrazia, le giacchette tirate alle nomine dei supplenti, la presentazione dei documenti secondo lo scadenzario della scuola? E in classe invece?
La parcellizzazione delle personalizzazioni e delle individualizzazioni, rigorosamente elencate nere su bianco per scongiurare i ricorsi un giorno sì e l’altro pure? Cosa resta però dello sguardo su di sé e sull’altro, dell’accoglienza della differenza, ma vera, reale, concreta, fatta anche delle nostre imperfezioni? Siamo ancora in grado di accettare senza giustificazione, di volere nonostante, di amare incondizionatamente?
Eppure servirebbe assai, perché la vita è continuum, è divenire, è cambiamento è possibilità: ogni giorno un’etichetta spegne il sogno di un bambino, gli toglie speranza, se essa perde la sua funzione di strumento per il supporto per divenire dispositivo giustificazionista.
Chi assume quest’ultima visione, va da sé, potrà forse fornire analgesici, ma non potrà mai insegnare a superare il dolore dell’accoglienza della specificità, che, sia pure imperfetta, rimane comunque la sola modalità e possibilità di esistenza, la vita stessa.