“Nuovo PEI” annullato: azzeccagarbugli e scuole in difficoltà

Disegno di alunna del primo anno della primaria di Vistrorio (TO)

di Raffaele Iosa

Il TAR Lazio il 14 settembre scorso ha letteralmente annullato il Decreto interministeriale n. 182 del 29.12.2020 e le linee guida allegate,  chiamato in gergo del ”Nuovo PEI” per gli studenti con disabilità. Un testo molto atteso e su cui molti hanno lavorato in questi mesi.

A chi conosce poco le tecniche giuridiche di normazione secondaria (cioè quelle delle amministrazioni in applicazione di una legge) o non è esperto di disabilità può sfuggire la gravità di un evento di questo tipo, che è a modo suo eccezionale ed irrituale.

Naturalmente la sentenza ha fatto clamore per ora solo in quei pochi che o per mestiere o per destino si occupano di disabilità.
Ma c’è di più: sia le associazioni di disabili ricorrenti (ovviamente contente) sia quelle che avevano in un qualche modo condiviso il Decreto (ovviamente preoccupate) stanno in queste ore gettando acqua sul fuoco, sostenendo che in fondo non cambierà molto, che ci sono già gli strumenti per continuare nella migliore prassi possibile finora attuata.
E’ nelle cose che il Ministero ricorrerà al Consiglio di Stato per una diversa sentenza o comunque un atto di “emergenza” per salvare il salvabile. In attesa delle prossime puntate, però, una riflessione senza veli è necessaria, perché è mia opinione che per quanta acqua si butti su questo incidente, la vicenda invece butta molta benzina sul fuoco in una fase di gestione dell’inclusione scolastica sempre più turbolenta, litigiosa e confusa non solo sul piano amministrativo ma anche (e soprattutto) pedagogico, che ha già avuto negli anni Covid tante dolorose difficoltà. Quanto meno accentua l’incertezza, delude chi si aspetta soluzioni di qualità. Dopo centinaia di webinar, conferenze, libri e articoli prevalentemente apologetici, chi si fiderà più di quale norma, regola o articolo seguire nella prassi inclusiva?

Una sentenza del TAR erga omnes, una rarità

 Una breve spiegazione è utile per comprendere la gravità della sentenza. Per prassi il TAR interviene sugli atti amministrativi accettando o respingendo i ricorsi dei singoli soggetti che ritengano leso un qualche diritto/interesse per presunti errori o inadempienze. Dunque una sentenza è in genere valida per il singolo caso/soggetto trattato.
Questa volta invece il TAR Lazio, con una lunga premessa giuridica (provate a leggerla, è quasi arabo, ma fidatevi) sostiene una tesi suffragata da pronunciamenti del Consiglio di Stato e della Suprema Corte, per cui si attribuisce la piena titolarità di annullare erga omnes e subito per tutti un intero Decreto Ministeriale!
Nella mia lunga esperienza di ispettore e responsabile anche di uffici inerenti l’inclusione non ricordo un evento simile. Dunque è una cosa seria, molto seria.

Perché l’annullamento del Decreto

Vediamo le due principali motivazioni della sentenza di annullamento.

1.La prima motivazione è che il Decreto 182 l’ha fatta fuori dal vaso, ha cioè normato e prescritto regole che non avevano la delega da parte della Legge 107/15 in quei commi  (c. 180 e segg..) in cui si definivano atti delegati e amministrativi su importanti questioni per la qualificazione dell’inclusione scolastica.  Dunque cosette tipo “abuso di potere”. Beh, niente male!

2. La seconda motivazione, più delicata e tecnica, è di aver introdotto il Nuovo PEI senza che fosse completato un altro decreto delegato richiesto dalla Legge 107 inerente il Profilo di funzionamento secondo l’ICF (classificazione internazionale della funzionalità), che nella logica dei processi di inclusione precede obbligatoriamente la produzione del PEI.
Come noto ai più, il PEI si basava prima sulla diagnosi funzionale e sul profilo dinamico funzionale, strumenti clinici di carattere multiassiale, indispensabili prima di costruire un buon piano educativo.

Al posto della diagnosi funzionale e del PDF la Legge 107 prevede appunto l’ICF e il conseguente “profilo di funzionamento”, una delle novità più significative a livello internazionale per una conoscenza più evoluta della persona con disabilità in chiave bio-psico-sociale,  non solo meramente clinica.
Ma c’è di più. Il Decreto 182 nell’ammettere l’assenza ancora degli atti inerenti l’utilizzo dell’ICF per colpa (come altro chiamarla dopo sei anni dalla Legge?) del Ministero Sanità, indicava l’utilizzo “nelle more” ancora delle vecchie diagnosi funzionali e PDF. Ma c’è di più ancora: nella parte inerente la richiesta di ore di sostegno da parte della scuola (o meglio dal cd. GLO) si inserivano categorie interpretative desunte (solo desunte) dall’ICF chiamate “dimensioni di funzionamento” (sono tre nell’ICF, ma poi nel Decreto diventano…quattro) per ognuna delle quali per ogni alunno con disabilità la scuola propone un “range” di ore di sostegno necessarie.
La somma minima o massima dei quattro range presentati componeva il totale di ore di sostegno settimanali richieste, entro cui l’amministrazione decide l’assegnazione.

Il tutto senza che dalla Sanità arrivassero gli atti di gestione dell’ICF nelle strutture sanitarie deputate. Il complicato metodo di calcolo delle ore di sostegno, peraltro, cercherebbe di razionalizzare il rapporto tra domanda della scuola e offerta dell’amministrazione di ore di sostegno, e si augurava così di superare la iattura delle tante cause presentate dai genitori (soprattutto quelli art. 3 comma 3 –gravi- della Legge 104/92) che in genere grossolanamente impongono all’amministrazione (senza tanti discorsi pedagogici) il rapporto 1:1. Che come noto non è mai un 1:1 sul tempo di scuola dell’alunno ma una cattedra di 25, 22,18 ore settimanali di sostegno secondo gli ordini di scuola.
Un metodo contraddittorio e alla lunga (e paradossalmente) fonte di iniquità distributiva.

Ma proprio questa parte del Decreto, così delicata ed innovativa, non aveva alcun supporto giuridico e soprattutto tecnico-scientifico in assenza della normazione sul Profilo di funzionamento ICF da parte del Ministero Sanità. Dunque il Ministero istruzione l’ha fatta davvero fuori dal vaso.

Tra le righe, ho letto in anteprima l’unica bozza di decreto preparato finora dal Ministero Sanità, un testo sconcertante, confuso e del tutto fuori tema, che è già stato oggetto di conflitto tra i due Ministeri.
Dunque siamo per l’ICF ancora in pieno alto mare, perfino burrascoso.

Dunque poteva il Ministero Istruzione decidere come fare il PEI prima di questo (nella logica procedurale) precedente atto per la certificazione di disabilità e l’inclusione scolastica?

Se qualcuno fa fatica a seguire lo capisco.  Si tratta di questioni di lana caprina o di merito vero? Insomma roba da azzeccagarbugli o temi strategici?  Purtroppo c’è materia per soffrire.

La sentenza poi si sofferma su altre questioni critiche più specifiche, tra cui il termine “esonero” presente nelle linee guida, che aveva prodotto vive discussioni tra le associazioni e gli insegnanti.
Un normale lettore si chiederà cosa c’è sotto questo clamoroso svarione.
C’è, purtroppo, una crisi della politica che non dà stabilità ai Governi (tre ministri in questa legislatura), c’è un’amministrazione che lavora a vista, c’è un’iper-produzione di testi amministrativi super regolatori che dimenticano l’autonomia delle scuole nella didattica e nell’organizzazione, c’è ormai nella disabilità (come in altri luoghi delle rappresentanze) una litigiosità e una continua richiesta di regolazioni rigide per la sfiducia su un sistema scolastico in affanno.
Io ad esempio ho subito interpretato il Decreto come una “militarizzazione” dell’inclusione, con una serie di minuzie regolativa esagerate che rispondono ad un’idea di “giuridizzazione” dell’inclusione, cioè che basti il comma e l’articolo perché tutto vada bene.
Tutte frutto di “trattative” in tempi di forte conflittualità.

Per lunga esperienza, so invece che le norme debbono dire lo stretto necessario e dare fiducia alla pedagogia e all’autonomia delle scuole. Così le tante pressioni delle associazioni, il disinteresse dei sindacati (se non toccano l’orario degli insegnanti…), e forse anche (mi si dice) il desiderio della ministra Azzolina (già insegnante di sostegno) di mettere il sigillo su questo importante atto, hanno prodotto un testo sovrabbondante, che non fa mai riferimento all’autonomia delle scuole (DPR 275/99 remember), ma produce l’ingessatura di procedimenti pesanti e complicati. Posso persino pensare alla buona fede o alla voglia di produrre, ma al livello di un Ministero ciò che conta è la competenza raffinata nel produrre norme evitando errori, la saggezza di saper fare correttamente tutti i passi necessari senza ricerca per forza del consenso ma del buon senso, per un ministro l’equilibrio di governo con azioni in cui si opera armonicamente tra diversi dicasteri. Insomma di evitare pasticci come questo.

Ma chi pagherà questo guaio? Tutti innocenti?

A proposito dell’esonero

La sentenza del TAR si sofferma su un tema che mi sta a cuore, e su cui in conclusione evidenzio la mia critica verso un Decreto sovrabbondante e militarizzato, poco pedagogico molto legalistico.
Il TAR considera grave che nel Decreto si chieda in tutti i PEI le discipline in cui un alunno con disabilità sia esonerato per i più svariati motivi. Il termine, ammettiamo è sgradevole, ma è anche fuori luogo.
I presentatori del ricorso l’hanno chiamato discriminatorio e a rischio di legittimare questi esoneri. Eppure questo aspetto, certamente sgradevole, e che sembra messo più per calcolare le ore di sostegno che per elementi pedagogici, nasconde un vulnus che riflette su quanta confusione vi sia oggi nelle scuole circa l’idea di curricolo. E quanto si siano scordarti gli articoli dal 4 all’8 del Regolamento autonomia DPR 275/99.
L’esonero messo nel testo rivela la mancanza di conoscenza (e promozione) di un’idea di curricolo non spezzettato in discipline separate l’una dall’altra. Ricordo, in più, che dalla scuola dell’infanzia alla terza media non esistono le discipline in senso separato ma le “indicazioni nazionali” entro cui ogni curricolo di scuola può avere mescolamenti, integrazioni, interdisciplinarietà, specificità le più ricche e diverse.
Ricordo in più che ogni alunno con disabilità ha il “suo curricolo” nel PEI e che su questo verrà valutato non sulle discipline in senso stretto. E’ proprio questa la qualità dell’autonomia, perché garantisce flessibilità a tutti gli alunni, non solo a quelli con disabilità.  Dunque l’esonero non esiste, se non nei docenti vecchio stampo della lezione frontale, del manuale e dell’interrogazione. Per questo la parola “esonero” mal posta nel Decreto dimostra anche un’ignoranza e una speranza sul valore profondo dell’autonomia didattica, che ricordo è norma di rango costituzionale.
L’esonero non esiste, esistono le attività che l’alunno realizza nella flessibilità didattica auspicata e prevista dall’autonomia. Dunque una richiesta sbagliata dal punto di vista pedagogico ma che riflette un’idea tradizionalista di scuola pre-autonomia. Diverso, ma solo in parte, è il tema nel secondo ciclo, ma qui l’inclusione è nata per sbaglio (una sentenza della Suprema Corte) e mai compresa fino in fondo in rapporto all’autonomia.

Errori di questo tipo sono frequenti nella normazione sia di legge che ministeriale.  Cito al proposito la grave dizione di “dispensativo” e “compensativo” presente nella Legge 170/2010 quella degli alunni DSA dove la legge “obbliga per diritto” ad avere azioni didattiche “speciali” che speciali non sono ma sarebbero già previste (per tutti) già dalla flessibilità didattica del DPR 275/99.
Ma questa flessibilità è gesto pedagogico di consapevolezza, mentre la dizione della Legge 170 produce una “contrattazione” continua tra famiglia e scuola su “quanta dispensa” e “come compensa” perché fondata su un diritto astratto. Invece dispensa e compensa sono opportunità pedagogiche che è necessario pensare per tutti gli alunni, qualora serva, ma con la coscienza e la deontologia didattica dell’insegnante caso per caso, non sotto la mannaia di avvocati e cause.




Ripensare lo Stato sociale dalle fondamenta: dalle leggi di fine anni ’70 al Terzo settore.

di Paola Di Michele

 

C’è un quadro bellissimo, arcinoto, di Pellizza Da Volpedo che rappresenta il Terzo Stato in marcia. Fatto di gente povera, vestita male ma con lo sguardo dignitoso e deciso proteso al futuro di chi cerca di conquistare il proprio pezzetto di dignità. E c’è un movimento nascente di lavoratori, operatori del sociale, che comincia adesso a prendere coscienza di condizioni lavorative diventate ormai al limite della sopportazione.
Per capirci, mi riferisco alle Cooperative Sociali di tipo A, cui l’ISTAT assegna un totale di lavoratori di circa 380.000 unità, per un indotto di più di 8 miliardi di euro, e che si suddivide in servizi scolastici educativi, servizi domiciliari socioassistenziali, socioeducativi, sociosanitari, centri diurni, centri di accoglienza, case-famiglia, nidi, e altro. Fondi che lo Stato stanzia alle Cooperative Sociali e che per meno della metà giungono nelle mani dei lavoratori.

Facciamo un piccolo passo indietro. Quando nasce questa situazione? Alla fine degli Anni Settanta, in un lasso di tempo brevissimo, appena un biennio, si può collocare la nascita del moderno Stato Sociale in Italia.
A fare da spartiacque sono una serie di leggi: la Legge 517/77, che abolisce le classi differenziali nelle scuole italiane e introduce le figure dell’insegnante di sostegno e dell’assistente all’autonomia e la comunicazione; la Legge 833/78, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, introducendo un modello universale di tutela della salute, intesa come stato di «completo benessere psico-fisico», perseguendo gli obiettivi di equità, partecipazione democratica, globalità degli interventi, coordinamento tra le Istituzioni, attraverso la territorializzazione dei servizi di assistenza sanitaria (oggi ASL); la Legge 180/78, cosiddetta “Legge Basaglia”, che abolisce le strutture manicomiali, e rimane riforma a metà anche a causa della morte dello stesso Basaglia che la voleva più compiuta, con le strutture territoriali di accoglienza che avrebbero sostituito l’istituzione totale manicomiale.

Si tratta di norme giuste, necessarie, avanzatissime sotto un profilo giuridico, etico e morale. Tuttavia, a “pentole bellissime”, lo Stato Italiano dimenticò i “coperchi”. Tutto questo splendore, infatti, richiedeva strutture, personale, fondi. Che lo Stato Italiano non aveva, o non aveva predisposto. O forse si era solo distratto, chissà. Forse pensava bastasse annunciare la “Rivoluzione dei Diritti”, per vederla realizzata come d’incanto.
Quello che successe fu che lo “spontaneismo” dettato dalla voglia di impegno, politico, sociale e culturale dei tempi, portò alla nascita del Terzo Settore. Persone, amici che si associarono per creare dal nulla quei servizi, condividendo un’idea di impegno civile e solidaristico che avrebbe portato alla nascita delle prime Cooperative Sociali, Associazioni Non Profit in cui i lavoratori erano anche soci e condividevano tutto, oneri e onori, decidendo insieme. Lo Stato fu ben lieto di delegare e ringraziò. Tutti facevano una magnifica figura.

Ma cosa ne è stato di quel movimento, a più di quarant’anni di distanza? Tanto per cominciare, la Legge che regola le caratteristiche delle Cooperative Sociali è stata promulgata solo nel 1991 (Legge 381/91), introducendo il concetto di volontariato (discorso su cui, volontariamente, preferisco non soffermarmi); è stata poi integrata dalla Legge 142/01 che definisce le Cooperative Sociali come Enti senza scopo di lucro e rispondenti ai dettami del diritto privato, sottolineandone la natura determinata dal «rapporto mutualistico [che] abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio». Inoltre, «i soci lavoratori di cooperativa: a) concorrono alla gestione dell’impresa partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell’impresa; b) partecipano alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi dell’azienda».
Democrazia interna e partecipazione dei soci-lavoratori, dunque. Ebbene, una magnifica utopia! Una tale visione rimanda all’idea di un circolo di amici che discute del benessere proprio e altrui.  Ma è proprio così?
C’è ad esempio una Cooperativa lombarda che ha decine di migliaia di lavoratori e opera, oltre che in Lombardia, in Liguria, Toscana, Abruzzo, Lazio, Puglia e Sardegna.
Senza fini di lucro e con la partecipazione mutualistica di quasi 20.000 soci (non è dato sapere quanti non siano soci, per altro…)? Almeno bisognerebbe porsi il dubbio se si tratta di non profit o di un’azienda vera e propria.

Ma chi sono i lavoratori del Terzo Settore? È necessario precisare che, sin dagli albori, queste professioni erano prive di normativa, percorsi di formazione nazionale e di riconoscimento, e tali restano in moltissimi casi, come accade per gli assistenti specialistici per l’autonomia e la comunicazione che operano nelle scuole e che attendono, invano, un Profilo Nazionale dal 2017.
Si tratta di una variegata umanità composta da laureati delle discipline di aiuto (psicologi, pedagogisti, educatori, assistenti sociali) o studenti delle stesse che fanno, spesso, questo lavoro “per farsi le ossa” in attesa ( o meglio, nella speranza) di fare di meglio, nonché di operatori di “vecchia data” che hanno iniziato con titoli svariati e, nel tempo, hanno seguito una quantità assolutamente stupefacente di corsi, come ad esempio i corsi OSS [Operatori Socio Sanitari, N.d.R.], che, inizialmente erogati da Enti Pubblici, hanno finito per essere “privatizzati”, arrivando a costi proibitivi. C’è poi una parte di lavoratori, per lo più stranieri, cui spesso vengono delegati (e questo non dovrebbe stupire…) i servizi più faticosi o poco specializzati, come, ad esempio, il Servizio SAISH a Roma (Servizio per l’Autonomia e l’Integrazione della Persona Disabile).
Ciò che accomuna la maggior parte di questi lavoratori è un’attitudine agli altri, una volontà precisa di occuparsi di chi è più in difficoltà, di portare aiuto dove serve. Con tutto il carico di responsabilità, impegno morale, ma anche senso di colpa e impotenza, di fronte a situazioni dinnanzi alle quali si comprende di poter portare solo piccolo sollievo. Ciò determina quello che notoriamente viene definito come burnout, ossia una condizione di “esaurimento affettivo”, demotivazione e afflizione da cui raramente si torna indietro, con stati di prostrazione anche importanti.
Si aggiunga a questo stipendi che sono la metà esatta di quelli di un dipendente pubblico (800/900 euro retribuite “a ore”), con tutele bassissime, periodi di interruzione lavorativa “involontaria” (part-time ciclici verticali utilizzati diffusamente per i lavoratori delle scuole), che non prevedono alcun tipo di ammortizzatore sociale, una disciplina contributiva che determina pensioni ridicole, corsi di formazione e riqualificazione onerosi e frequenti e, infine, una condizione di precarietà lavorativa strutturale, determinata dai bandi pubblici a ripetizione, spesso con il solo criterio dell’offerta economica più vantaggiosa, con operatori sociali che fanno il giro delle Cooperative come turisti sperduti senza mappa né itinerario.

In un Libro Bianco sulla condizione degli assistenti educativi scolastici, ricerca che condussi a Roma nel 2019, il 64% dei colleghi dichiarava di avere cambiato Cooperativa negli ultimi tre anni (“turisti senza mappa”, appunto). Dato ancora più impressionante, solo il 29% dichiarava di essere socio-lavoratore (dunque, dipendente privato a tutti gli effetti e non mutualisticamente coinvolto nella Cooperativa). A livello nazionale, la situazione è di poco migliore, come emerge dalla ricerca nazionale effettuata dalla sottoscritta durante la pandemia, con un dato del 40% di soci-lavoratori. Dunque, che ne è del lavoratore che concorre democraticamente alla gestione della Cooperativa?

Farò un esempio che spero dirimente. Annualmente, l’Assemblea dei Soci (quei pochi che ci sono) si riunisce per approvare il bilancio, dividere eventuali utili (sic), decidere i piani programmatici e rivedere il regolamento interno, che deve rispettare alcune normative fisse dalle quali non si può derogare.
Negli ultimi anni ho lavorato in una Cooperativa di cui ero socia (nell’ultimo cambio appalto, cambiando Cooperativa, non lo sono più, in attesa che la Presidenza decida «se ne sono degna», parole testuali). Le Assemblee si facevano in estate inoltrata, mai visto un bilancio, e si svolgevano in orario lavorativo, che non consentiva ai più di partecipare. Morale della favola: vi si presentavano venti/trenta persone di cui una metà con decine e decine di deleghe di altri lavoratori. Qualunque cosa la Presidenza proponesse veniva così approvata, anche in spregio ai diritti minimi (ad esempio: abolizione degli scatti di anzianità o malattia pagata solo al 50%).
Sia chiaro, è la mia esperienza, ma da ciò che mi è dato sapere parlando con moltissimi colleghi del Bel Paese, si tratta di esperienza piuttosto comune.

È cosa nota come, specie nel settore dei servizi sociali, che le Pubbliche Amministrazioni e gli Enti Locali abbiano perseguito, negli ultimi vent’anni, una politica indiscriminata di esternalizzazione dei servizi essenziali affidati, a seconda dei casi, ad aziende private o a enti del Terzo Settore. Quali controlli le stazioni appaltanti abbiano messo in atto è sotto gli occhi di tutti, con evidenti ripercussioni specialmente nel settore sanitario, socioassistenziale ed educativo, come la pandemia in corso ha messo impietosamente a nudo in questo ultimo anno. In sintesi:
° ospedali privi di personale (molte Cooperative appaltano anche servizi infermieristici);
° utenti del domiciliare sia sanitario che sociale abbandonati a se stessi (e operatori privi di sistemi di protezione individuale e degli aggiornamenti del documento di valutazione del rischio lavorativo);
° centri diurni chiusi;
° alunni e alunne con disabilità privati dell’assistenza educativa scolastica cui avevano diritto.

Il sistema, così com’è concepito, determina:
° bandi pubblici legati al criterio del massimo ribasso, con conseguente decadimento del servizio e nocumento della continuità assistenziale ed educativa per la continua mobilità degli operatori;
° contratti Collettivi Nazionali di Lavoro discriminanti rispetto a quelli del settore pubblico per diritti e retribuzioni;
° spesa pubblica lievitata fra costi per le procedure di indizione, verifica e aggiudicazione dei bandi, con un’ampia parte dei finanziamenti utilizzata per la gestione delle strutture amministrative degli enti aggiudicatari, tale per cui la spesa reale destinata all’utente finale del servizio (e a chi di fatto lo attua, ossia l’operatore sociale) si assottiglia fino all’estremo;
° mancata applicazione della Legge 328/00 (i Progetti Individuali, questi sconosciuti…) e scarsità cronica di personale pubblico, ciò che determina un collegamento assai difficoltoso fra le strutture territoriali di coordinamento (ASL e Comuni) e gli operatori che, di fatto, “sono sul campo” spesso senza strumenti reali per incidere significativamente sulle situazioni di disagio;
° meccanismi di controllo degli enti appaltanti assolutamente deficitari e inconsistenti, spesso chiamati in causa solo dalle parti danneggiate da gestioni perlomeno dubbie (la punta dell’iceberg emersa  con il caso “Mafia Capitale”).

Caso mai tutto questo non fosse sufficiente a mostrare un sistema che, così concepito, non tutela né gli utenti, né gli operatori, la questione andrebbe posta su un piano anche normativo.
Lo Stato, esternalizzando i servizi sociali ed educativi essenziali, ha sostanzialmente delegato al Terzo Settore la gestione, progettazione, messa in atto e verifica del cosiddetto Stato Sociale.
Soffermiamoci sull’etimologia della parola delega, ossia “mandare con un incarico”. Potrebbe leggersi anche come il leggendario “armiamoci e partite”. Sinonimo di “delegare”, poi, è affidare o anche demandare. Cosa significa, dunque, demandare? Che lo Stato, e per mano sua gli Enti Locali, da oltre vent’anni ha assegnato compiti e funzioni che gli erano propri per mandato costituzionale, ad altri soggetti privati, delegando la propria oggettiva responsabilità riguardo al benessere dei propri cittadini, e in particolar modo di quei cittadini che necessitano di particolare cura e protezione.
Se lo Stato delega e demanda, determinando spreco di risorse, situazioni professionali nebulose, carenza in qualità e quantità dei servizi, e producendo un vero e proprio “esercito” di lavoratori, operatori sociali di tutti i tipi (psicologi, educatori, assistenti specialistici scolastici, assistenti domiciliari, educatori domiciliari e così via) che di fatto portano sulle proprie fragili spalle la realizzazione del welfare in Italia, forse un sistema siffatto non risponde più a criteri non solo di efficacia e di efficienza dei servizi (oltre che di costituzionalità, mi verrebbe da dire), ma anche semplicemente di giustizia sociale.  Un sistema che così com’è, significa, sinteticamente, “mettere i Penultimi ad occuparsi degli Ultimi”. Bisognerebbe, forse, ripensare lo Stato Sociale. Pubblico, come lo voleva Basaglia.

(*) Paola Di Michele è psicologa clinica, formatrice, assistente specialistica all’autonomia e alla comunicazione




Il nuovo PEI. Tra rose e spine. E un dulcis in fundo


di Raffaele Iosa

Il “nuovo PEI” previsto dal DM 182/2020, con annesse corpose “Linee Guida”, è una cosa seria. Seria e complessa perché il Ministero (di concerto col MEF)  ha messo insieme molte questioni,  alcune delicatissime,  realizzando ben  più di un semplice adattamento del PEI come strumento di programmazione, ma toccando vaste  altre questioni connesse: l’uso dell’ ICF, il calcolo delle  risorse di personale, fino ai temi della valutazione,  anche con l’interessante debutto del tema della transizione alla vita adulta nell’istruzione superiore.

Un’operazione vasta di restyling da leggere bene,  con molta (a volte pesante) scrittura, che tocca non solo la disabilità ma l’intero fare scuola. Spesso questi temi sembrano specialistici e tecnicamente difficili, almeno per gli insegnanti curricolari, e rischiano di restare cosa di nicchia. Per questo cercherò qui di esprimere con un linguaggio il più accessibile possibile un mio commento tecnico sia su questioni generali che analitiche sui punti più “caldi”  .

Esprimo da subito una mia valutazione d’insieme: è un lavoro di  spessore, con aspetti importanti di innovazione (le rose) ma contiene anche alcuni vizi e assenze (le spine) che rischiano di produrre per lo più l’ennesima “grida manzoniana”  di come dovrebbe essere l’inclusione (ce ne sono state molte in passato), con attese di qualità che potrebbero essere difficilmente mantenute.

Ne scrivo qui criticamente ma in modo propositivo sulla base della mia esperienza professionale  pedagogica, scientifica, amministrativa, a livello locale, nazionale, internazionale.

 

  1. Una struttura militarizzata?

Una prima spina di carattere generale. In tutto il testo delle Linee guida è scarsa  l’autonomia, se non piccoli e marginali spazi sulla didattica. Tutti gli elementi  inerenti certificazioni, ICF e diagnosi funzionale, GLO,  perfino la struttura  grafica del PEI,  il calcolo delle proposte di risorse, ecc… sono affidate a precisazioni e  pignolerie che trasmettono una forte ordinatività normativa,  e nessuno spazio di flessibilità. Non sono presenti mai le parole flessibilità, ricerca e creatività che sarebbero invece auspicabili se rispettano i medesimi obiettivi inclusivi.

Ciò rappresenta per me la crisi di una normazione  che preveda nel Ministero istruzione il soggetto titolare delle finalità generali ( Reg. Autonomia DPR 275/99, norma di rango costituzionale)  e alle scuole l’autonomia necessaria ad adattare le finalità con diverse vie anche originali. Non mi pare questione da poco, e dovrebbe allarmare non solo chi si occupa della nicchia “inclusione”.

In sostanza una normazione che chiede alle scuole  “l’applicazione” e non “l’interpretazione responsabile”. Non è una scelta qualsiasi, e non era l’unica possibile. Dunque i temi e i problemi non sono nuovi, ma diverse sono le forme di risoluzione.
Sarà certo un segno dei tempi, con la crisi delle autonomie,  ma nel caso della disabilità questa direttività è data da una questione di fondo più “culturale” e  “pedagogica” che amministrativa.
Il fatto è che queste norme escono, a mio parere,  in una fase di “declino dell’inclusione”, in cui sono stravolte   le ispirazioni inclusive degli anni 70. Alle nuove ampie difficoltà inclusive si pensa a risposte con abbondanti dosi di direttività e burocrazia.  In breve  gli elementi principali:

  • In meno di 20 anni le certificazioni di disabilità sono raddoppiate, i posti di sostegno sono di più di questo raddoppio, il rapporto alunno h/docente sostegno è passato dai 2,4 del 1999 a 1.6 di quest’anno.  Gli assistenti all’autonomia dei comuni da 4.000 a 60.000 di quest’anno. Stiamo cioè assistendo ad un fenomeno di medicalizzazione che pesa nell’imaginario delle famiglie e degli insegnanti. Non c’è in Italia nessuna ricerca seria sui motivi e gli effetti dal punto di vista clinico, sociale, demografico e in educazione: una meta-epidemia? Una lettura  ansiosa del dolore umano? La moda legata al mito del ben-essere come perfezione?
    Si  sommi a questo la Legge sui DSA e  l’invenzione dei BES (entrambe  iatrogene) per individuare una profonda mutazione dell’idea di persona, delle relazioni,  dell’apprendere.
  • Questa mutazione accompagna un cambio di paradigma per cui la “clinica” (in primis comportamentista) si impone con terapie paradidattiche dure, riducendo l’educativo  comunitario,  in un qualche modo imponendo agli insegnanti di togliersi il grembiule e di mettersi il camice.
  • Le due questioni sopra descritte hanno determinato l’emergere di una conflittualità nuova tra famiglie  e scuole, il mito del “sostegno” non come “attività di tutti i docenti” ma come azione specialistica separativa  totalizzante. Di fatto lontana dal mainstream della classe. Da qui  cause, tribunali, conflitti. Qualsiasi intervento per regolare le certificazioni  o la ripetizione del mantra sempre più retorico  “il sostegno lo fanno tutti” sono in gran parte falliti.
    Tutti i decreti usciti in questo periodo risentono di questo conflitto trasversale di tipo pedagogico che produce due aree di pensiero in conflitto: quella che chiamo degli “scolasticistici”,   erede della tradizione degli anni 70 (sostegno diffuso azione di tutti) contro gli “specialistici”   (tecniche separative  centrate sui sintomi e non sulla persona). Si pensi, ad esempio,  allo scontro sulla formazione dei  docenti di sostegno: una laurea ad hoc o corsi post-laurea? Grembiule o camici?
  • Accompagna questo conflitto una degradante gestione dei posti di sostegno e la totale assenza di formazione seria per  i docenti curricolari. Quando un figlio cambia sostegno ogni anno, magari precario che non sa nulla di disabilità non ci sono attenuanti. Il degrado è garantito.

Dunque, è il recente passato complesso, mal gestito, con un aumento della spesa fuori controllo, disattenzione al fatto che l’inclusione è di tutti i docenti,  che forse ha portato i ministeriali autori di questi documenti a scegliere una via  così militarizzata: la speranza che mettendo “le braghe al mondo” si riducano i conflitti, un modello imposto renderà  le scuole più brave,  e così si migliorerà (sigh) l’inclusione. Paradossale opzione se si tiene conto che oggi la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità parla invece della loro inclusione come “accomodamento ragionevole”, diverso da caso a caso.

Temo  che queste Linee guida produrranno il fiorire di nuovi quesiti,   un contenzioso infinito che già oggi è fiorente (basta leggere nei social). D’altra parte i malumori di famiglie o insegnanti non chiedono  soluzioni ragionevoli per  un qualche  conflitto, ma “in quale norma”   si precisi pignolescamente una certa questione.  Un  piccolo caso sul quale chiedo  ai lettori di non ridere: un’insegnante di sostegno della primaria mi scrive: “una mia collega mi ha detto che bisogna passare dallo stampatello al corsivo con il bambino perché poi alle medie, quando avrà l’esame,  dovrà per legge scrivere in corsivo. Mi potete dire quale norma prescrive il corsivo?”

Nessuna applicazione obbediente migliorerà la qualità dell’inclusione. L’obbedienza non è sempre una virtù e può mortificare la passione e la fantasia. Rischia invece di produrre soluzioni formalistiche e pesanti.  Ci lavoreranno autori di manuali e avvocati.

  1. Un testo cui manca il prima e il dopo

Questo DM  e Le linee Guida escono prive di altri elementi presenti nella delega della Legge 107/15, tali da rendere insicura oggi la sua applicazione.

2.1 Manca ancora il  “profilo di funzionamento” nella logica bio-psico-sociale ICF, strumento  importante per una nuova modalità di interpretazione della disabilità. Questo profilo è la base e la premessa su cui costruire il PEI, viene prima. La classificazione ICF ci descrive ogni persona con disabilità nella sua natura complessa,   superiore al “sintomo” e al di là della confusa  dicotomia dell’art. 3 della Legge 104/92 tra “lieve” e “grave”. Ogni ragazzino con disabilità viene letto attraverso l’ICF  come “Antonio” o come “Maria” in tutte le sue dimensioni e non solo in base alla mera diagnosi clinica. Non tutti i ragazzi con la sindrome di Down sono gravi e neppure gli autistici. Molte variabili concorrono alla gravità, anche quelle personali e ambientali. L’ICF supera lo stigma della “malattia” e individua le “barriere”, anche esterne, che ostacolano l’inclusione e  i “facilitatori” interni ed esterni che aiutano ad un progetto di vita individuale più congruo ad ogni persona.  Quindi una base teorica e pratica decisiva per realizzare un buon PEI.

L’ICF e il conseguente profilo di funzionamento però non ci sono ancora perché il Ministero Sanità non lo ha ancora scritto. Dunque le citazioni dell’ICF presenti nel DM e nelle Linee guida e persino il sostenere che il PEI deve essere realizzato nella “logica ICF” pecca di  precipitazione e incertezza.

Dovremmo chiederci perché il Ministero Sanità non ha completato il profilo, e non mi pare sia solo causa il carico di lavoro del COVID: c’è perplessità nei clinici nei confronti dell’ICF. E’ più semplice fare diagnosi secche dei sintomi con l’ arido DSM V  che ti dice “cos’ha”  ma mai “chi è”.

2.2 Ma c’è dell’altro. Manca ancora un Decreto sulla governance della disabilità a livello locale, per intenderci dai vecchi “accordi di programma provinciali” della Legge 104/92  a logiche di governance nello stile dei piani di zona della Legge 328/2000.

2.3 Mancano infine i profili professionali degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione di competenza dei comuni, il cui profilo vago e generico non offre una competenza precisa su cui contare. Ma nel PEI si dovrà scrivere se serviranno per l’inclusione di un certo alunno, nella vaghezza piuttosto che nella precisione degli obiettivi per cui si utilizza.
Questo lavorare a sprazzi, senza una visione armonica tra diverse norme sullo stesso tema è grave, rischia una fatica alle scuole immeritata, un’incertezza del mai completato.

Se penso al povero insegnante di sostegno senza titolo che sarà costretto (com’è d’uso in moltissime scuole) a farsi carico di scrivere questo malloppo pesante e direttivo del PEI, mi tremano i polsi. Rischiamo la parodia.  Il PEI è cosa seria, se mancano i contorni di contesto  l’unica soluzione è…copiare da uno dei tanti manuali che usciranno. E sperare in Dio che a qualcosa serva.

  1. Mediazione versus controparti

E’ sorprendente il fatto che nelle pubbliche amministrazioni, in particolare in quelle che erogano servizi di carattere sociale e alla persona,  siano del tutto assenti sedi e modalità di mediazione dei conflitti a fronte del pullulare di malessere, disagio, litigiosità sempre più vivide. L’amministrazione pubblica segue vie giuridiche  o di controllo prevalentemente legate alla forma o ispezioni che devono rilevare se esistono lesioni o errori. Il tema conflitti nella scuola è caldissimo, al punto  che ormai molti genitori considerano spesso la scuola controparte. Nel mondo della disabilità il tema è ancora più caldo ed ha la sua ,massima espressione nei ricorsi ai tribunali sulle ore di sostegno, da cui ricevono sentenze spesso non pedagogicamente fondate.

Basta leggere nei siti le tantissime lamentele di carattere prevalentemente relazionale.

Il nuovo PEI contiene così tante e delicate decisioni e confronti tra istituzioni che pensare alla soluzione per via giudiziaria o amministrativa mi pare dolorosamente ingiusto.
Sulla base della mia lunga esperienza di ispettore considero gran parte dei conflitti tra genitori e scuola frutto di divergenze dove non c’è necessariamente un colpa in senso stretto, ma la compresenza di punti di vista, atteggiamenti, approcci diversi se non divergenti. Molto spesso  in entrambe le “controparti” vi sono aspetti di ragione e di torto, soprattutto sugli aspetti educativi, ma non ci sono strumenti precisi per portare ad una ricomposizione se non la buona volontà.

Io penso sia giunta l’ora di pensare invece a sedi, professionalità e modalità di mediazione tra erogatori ed utenti che sia predisposta da tecnici terzi non in forma giudiziaria ma, appunto, in forma mediativa. E che sia necessaria sempre prima di ricorrere al tribunale.

So bene che non era  tema centrale dell’oggetto PEI,  ma propongo si cominci a pensarci anche con sperimentazioni come un importante passo in avanti. Altrimenti ognuno avrà il suo difensore, si sentirà sempre controparte. La mediazione aiuta anche a migliorare il senso civico e delle responsabilità individuali e collettive.

  1. I dolori del giovane GLO

Il GLO è la nuova sigla del vecchio GLI, con le stesse persone. Il DM e le Linee guida  precisano fino alla pignoleria  regole, puntigli, lacci di cui capisco in parte le ragioni: finora in molte scuole il GLI non esisteva di fatto, il PEI veniva redatto dall’insegnante di sostegno  e i genitori coinvolti solo per la “firma”. Dunque bene richiamare un impegno collettivo. Ma forse si è esondato.

  • In una prima bozza il GLO era stato ridefinito “organo collegiale”. Ne capivo le ragioni per responsabilizzare tutti i suoi componenti, dagli insegnanti, alle famiglie ai servizi sociosanitari.
    Ma è nata una violenta querelle sulla questione del “voto” che ogni organo collegiale prevede per le decisioni da assumere, al punto che la collegialità è scomparsa nella versione finale.  Però merita  una riflessione  il tema delle “decisioni” negli organi  a diversa composizione com’è il GLO.  Se anche fosse rimasto  il GLO “organo collegiale” va ricordato che, a parte il Consiglio di Istituto che è di natura elettivo,  tutti gli altri “organi” della scuola  non sono democratici  in senso politico ma organi tecnici competenti cui compete individuare soluzioni tecniche. Dunque il concetto di “maggioranza” in questi organi nasce dal bisogno di prendere una qualche decisione ma niente più. Se un genitore o un insegnante non condividono una certa scelta va registrata e può avere effetti per comporre il conflitto o per ricorrere. Questa confusione sugli organi collegiali come il ,collegio docenti se sono o no democratici è vecchia come i decreti delegati. Negli organi collegiali dove chi ci sta c’è d’ufficio, il cosiddetto “voto” è una via solo decisionale. Dunque professionale di carattere deontologico. Ciò vuol dire attenzione alla necessità di cercare sempre più ciò che unisce di ciò che divide. Questo è ancora più vero perché nel GLO i genitori sono una parte non qualsiasi, sono di fatto utenti diretti.
    Riflettiamo quindi di più su come costruire un PEI davvero condiviso e ben praticato, che non è questione di forma ma di sostanza relazionale e pedagogica.
  • C’è poi la  complicata questione della “proposta di risorse” del GLO per le ore di
    sostegno, assistente autonomia, ATA per assistenza di base, strumenti e strutture.
    Cerco di spiegare il nuovo metodo che il GLO dovrà adottare evitando il più possibile al lettore le vertigini. Per quanto riguarda il sostegno, finora le “proposte di ore di sostegno dei GLI”  derivavano  più  dalla diagnosi clinica e sulla presenza di “gravità” (art. 3 comma 3 Legge 104/92).   Poi interveniva l’USR   che assegnava ore in più dell’organico di diritto in una specie di “rabbocco di ore” un po’ discrezionale simile alla vecchia “deroga”, ore che venivano date a docenti a tempo determinato.  Per effetto di una certa Sentenza della Corte Costituzionale questo “metodo” è stato in parte cassato sul principio del considerare diversamente la “gravità”.  I tribunali coinvolti dai genitori per ottenere più ore di quante assegnate dall’USR giudicano la proposta del GLI quella “necessaria” cui riferirsi perchè frutto del progetto educativo. Ma spesso fanno di più: se l’alunno in causa è “grave” la decisione dei tribunali è quasi scontata: a tutti il rapporto 1 a 1, magari più di quanto avesse proposto il GLI nel PEI.  E così tante cause perse dal MIUR.
    Con il nuovo GLO, sostanzialmente, cambia poco: decide sempre l’USR! Ma  cambia il metodo di calcolo di ore della proposta del GLO.  E’ stata inserita nella scheda PEI  una tabella  in cui il nuovo GLO (ex GLI) “ spacchetta” la gravità o meno dell’alunno con disabilità su cinque “dimensioni”  desunte dall’ ICF e dal profilo di funzionamento dell’alunno  (relazione, interazione, comunicazione, autonomia, cognitivo neuropsicologico). Per ognuna di queste dimensioni, il GLO  pesa i cd.  “debiti di funzionamento” (brutto termine, ma pazienza), intesi più prosaicamente come “difficoltà-barriere per l’inclusione”. Pe ognuna di queste dimensioni il GLO propone  la quantità di ore necessarie a recuperare il “debito”  in una progressione a 5 livelli  di “ore di sostegno necessarie a settimane”.  Ogni livello contiene un  range di + o – ore. Per esempio il  range lieve” nella scuola dell’infanzia corrisponde a una gamma tra  0-5 ore/settimana,  il “range  molto grave” oscilla tra 20 a 25 ore settimana per la scuola dell’infanzia. La media dei 5 range individuati  è la proposta di range delle ore di sostegno settimanali proposte dal GLO.  Poi tocca all’USR la finale definizione delle ore settimanali scegliendo la cifra entro il  range proposto dal GLO.  Sperando che  chi mi legge sia ancora sveglio, faccio notare come  la proposta del GLO sia ben più articolata di prima e anzi va ben oltre alla solo generica dizione di “grave”.

Questo artificio tecnico sembra esser uno dei tanti modi per superare la secca simmetria grave = posto intero sostegno. Naturalmente vedo una richiesta del Ministero Economia di trovare metodi più documentati per diminuire le cause giudiziarie,   e ovviamente i rischi di spreco e disparità.

E’ evidente  che il metodo creerà non poche discussioni tra i componenti del GLO, in primis la famiglia  con reciproche accuse  di sottovalutare o drammatizzare il debito di funzionamento. Temo però che questa soluzione, di per sé interessante non basterà a ridurre a sufficienza i contenziosi, e la sua applicazione sarà  complessa da scuola a scuola e da classe a classe.

Per la verità, le commissioni regionali USR che assegnano in via definitiva le ore di sostegno per i gravi utilizzano criteri comparativi e range simili a questo proposto nelle linee guida.

Mi pare giusto che si chieda al GLO un impegno più analitico di valutazione dei bisogni dell’alunno, anche se quello inventato dai ministeriali mi pare oneroso. Ma nello stimare  il range più opportuno c’è sempre una discrezionalità quasi naturale. E, quindi, temo che continueranno ad esserci (anche se in minor numero) avvocati che chiedono l’accesso agli atti dei nostri PEI. Perché, a questo punto, la responsabilità non è più dei soli USR, ma anche dei GLO se a parere di un giudice hanno sottostimato i debiti di funzionamento.

4.3  E infine faccio notare come questo nuovo GLO avrà un carico di impegno certo maggiore e più complicato di prima. In alcune classi vi sono anche 2 disabili, nei primi anni delle superiore perfino 4 a classe. Quindi una miriade di GLO, riunioni, carte da compilare, Teniamone conto.

  1. L’errore della separazione tra “progetto di vita” e PEI

Con la normativa sul nuovo PEI si persevera nell’errore di separare il PEI dal Progetto di vita previsto dalla Legge 328/2000. E’ una separazione sbagliata, nata dagli equivoci tra il MIUR e i Comuni  che separano educazione da assistenza. L’ispirazione del concetto di “progetto di vita” è che tutti (tutti) i soggetti locali che agiscono verso una persona interagiscano tra di loro condividendo i diversi percorsi educativi, clinici e sociali con una comune visione interdisciplinare, tale da rendere il soggetto  protagonista partecipe del proprio progetto di vita. Questa visione coincide anche con il concetto di “accomodamento ragionevole” previsto dalla Convenzione Onu sulle persone con disabilità, che prevede appunto una governance attiva locale come strumento per facilitare  lo sviluppo armonico di ogni persona. Invece in questa strana separazione tra “progetti individuali” di carattere “assistenziale”  dei comuni soggetti ai piani di zona della Legge 328/2000 e il nostro PEI si prevedono solo “dialoghi diplomatici” qualora serva e qualora lo richiedano le famiglie. Non solo, il “progetto clinico” verso la persona rimane lontano, al punto che i clinici nel GLO “supportano” le scuole se serve e non necessariamente condividono. Assurdo.

Occorre a questo proposito ribaltare del tutto il punto di vista che non si è mai riusciti a modificare in venti anni. Per me il PEI è semplicemente una parte, quella scolastica, del progetto di vita della persona con disabilità in età scolare.   Essere una parte vuol dire “essere compreso” da una visione unitaria e multidisciplinare in cui tutti i soggetti che erogano servizi alla stessa persona dialogano e condividono le diverse pratiche, cercandone armonia e connessione.

In termini eleganti si chiama governance centrata sulla sussidiarietà e al servizio della persona.

Invece, niente da fare. Nel nostro caso al clinico spetta compilare l’ICF, parlare ogni tanto con i docenti e le famiglie, se serve “sostiene” il GLO,  ma nulla dice di ciò che intende fare di terapeutico sul bambino. Altrettanto il Comune è presente al GLO se serve nei casi particolari.
E infine perché manca il gran mondo del territorio, fatto da volontariato, aggregazioni sociali ecc.. che agisce verso il nostro alunno con disabilità? Non abbiamo nulla da dirci?.

In un’esperienza di ricerca-azione che ho fatto a Jesi (Ancona) alcuni anni fa abbiamo prodotto un percorso che non a caso si è chiamato “progetto di vita-PEI” in cui tutti i soggetti coinvolti  nella “cura della persona” condividevano e  registravano in un unico strumento tutti gli interventi di inclusione che ogni soggetto prevedeva nel suo settore, cercandone una sintesi e una correlazione. Dal punto di vista del genitore uno strumento formidabile: la scuola scrive la sua parte, la clinica racconta quali terapie ha in corso, il Comune quali azioni di sostegno vuol realizzare, se si vuole  gli scouts raccontano cosa faranno col nostro ragazzo nella sua esperienza scoutistica in corso.

Vorrebbe dire governance effettiva e non questa mania della canne d’organo dove ogni istituzione pensa solo al suo pezzetto di impegno.  Mescolare insieme vuol dire costruire anche una comunità multiprofessionale, dove tutti imparano dagli altri e si connettono a cercare la quadra. E dulcis in fundo… anche ai genitori a Jesi toccava scrivere il loro impegno familiare verso il figlio. Perchè i genitori sono importanti e occorre anche  dar merito alle loro competenze in atto.

Questo modello è radicalmente diverso da questo PEI monumento della scolasticità. Pensa a servizi capaci di progettare la vita per la persona “con la persona” e non ognuna per conto suo.

  1. La privacy e la trasparenza

C’è una questione surreale che sta creando molte discussioni sulla produzione del nuovo PEI.

Dunque: nel nuovo PEI si devono scrivere le ore effettive che ogni alunno/studente con disabilità frequenta davvero e le materie scolastiche effettive che apprende. La cosa ha creato molte critiche e sa anche di un “controllo” indiretto di certi presunti abusi.  Si teme anche che rendere trasparenti l’esonero da ore o discipline favorisca la legittimazione di un abuso.  Il tema è delicatissimo perché tocca una grande varietà di situazioni, alcune periodiche, altre stabili, in cui  ci si trova a lavorare nei diversi anni scolastici.  Eppure è un tema vero e molto serio. Se abbiamo alunni con disabilità iscritti al tempo pieno della primaria che escono alle 14 dopo il pranzo  piuttosto che alle 16 si deve scriverlo o nasconderlo? Se un bambino è costretto, per colpa dei servizi terapeutici, a fare logopedia di mattina che colpa ne ha? I casi sono più di quanto si creda, possono servire per fare una statistica delle diverse forme di inclusione, ma niente più.

Eppure questo tema tocca una questione delicata sulla flessibilità didattica e organizzativa della scuola, legata anche alla sua autonomia. Bizzarro  che il modulo PEI chieda le ore effettive ma non le ragioni pedagogiche o cliniche di questo evento.

Sulle discipline, invece, ricordo che fino all’esame di terza media gli studenti con disabilità vengono formati e valutati secondo il PEI che potrebbe anche valorizzare alcune discipline e considerare meno significative altre. Ma anche qui le Linee guida si prolungano su questioni legate alla frequenza e agli esami.

Piuttosto meriterebbe rilevare quante ore uno studente con disabilità sta in classe e quante nei ghetti delle aule h. Lì c’è il principale problema educativo da considerare, perché una frequenza totale in una classe-ghetto non è inclusione ma isolazione pura.

Si veda, quindi, come questioni collegate alla cd.. “trasparenza” nascondano non tanto la risposta giusta o la bugia, ma il bisogno (prima di tutto pedagogico) di conoscere le diverse condizioni di scolarità e le ragioni delle scelte delle scuole, se pedagogicamente fondate o solo forme di difesa o di sconfitta di una buona scolarizzazione. Il tema riguarda, ad esempio, le troppe scuole che suggeriscono ai genitori di tenersi a casa i figli all’inizio anno se non c’è ancora l’insegnante di sostegno, o ai tanti bambini “cattivi” che si tengono a casa non con una “sospensione” ma come “aiutino” per calmarsi, sia loro che i compagni di classe.

La scuola è per molti bambini e ragazzi molto comp0lessa, sia per quelli con disabilità che gli altri, a volte non c’è spirito comunitario tra famiglie. C’è di tutto, e non solo il bene.

Infine, non comprendo un’ansiosa apologia della privacy sui documenti scolastici degli alunni con disabilità. Spesso insegnanti nuovi non vengono messi in condizione di leggere i PEI dei loro nuovi alunni perché c’è “la privacy”. Sui documenti c’è sempre discussione sulle formulazioni da mettere. In genere chi si vergogna meno e chiede poca privacy è proprio la famiglia del nostro alunno con disabilità, che sa bene come sta il proprio figlio, ma che vorrebbe che tutti gli adulti che operano col figlio fossero messi in grado di conoscere e agire insieme per la qualità dell’inclusione. Dunque, almeno questo nuovo GLO sia un luogo aperto di conoscenza e dialogo, in cui le “carte” non siano strumenti top secret, ma piani di lavoro da condividere serenamente.

  1. Novità sull’inclusione sul secondo grado, un po’ rose un po’ spine

Trovo una bella rosa per l’istruzione secondaria di 2° grado la presenza della questione “transizione alla vita adulta” per il loro PEI. Per un ragazzo con disabilità spesso questa scuola rischia di essere l’ultima che condivide con coetanei, e per lui il passaggio alla vita adulta è certamente più difficile.

E’ un tema appassionante, ho iniziato a lavorarci più di venti anni fa all’Agenzia europea per i bisogni educativi speciali e finalmente si dice qualcosa. Anche se non basta, è per esempio poco marcata la necessità di connessione con la Legge 68/99 sull’inserimento lavorativo agevolato per le persone con disabilità.

Si tratta di avere una visione dell’alunno non solo scolastica, ma integrale delle competenze di autonomia e responsabilità di ogni studente, con percorsi di orientamento, inclusione effettiva, esperienze sul campo,  collegamento con i servizi territoriali che seguono la disabilità adulta. Il rischio altrimenti è che troppi nostro studenti con disabilità finiscano nei cronicari o strutture protette pur avendo abilità maggiori da sviluppare. C’è dunque un vasto campo di crescita della qualità inclusiva del nostro sistema secondario.

Ricordo che se i nostri ragazzi con disabilità frequentano l’istruzione superiore non è merito di una legge ma di una sentenza della Corte Costituzionale. Per il resto la scuola è rimasta la stessa, con quella ridicola separazione tra “percorso equivalente” e percorso differenziato”, cui il MIUR non ha mai messo mano. Anzi, è stupefacente (una vera spina) il tormentone nelle linee guida sulla valutazione dei disabili nella secondaria, dove si arriva  a dire “i disabili hanno il diritto allo studio, ma non il diritto al titolo di studio”. Frase quanto mai sgradevole e persino offensiva, come se i ragazzi con disabilità fossero “ladri” di titoli. Si sa bene che la questione è ben altra, e cioè che ad ognuno va dato il massimo di sviluppo delle potenzialità individuali, cognitive e sociali,  e ad un ragazzo con disabilità il sogno di un futuro migliore possibile, non una carta col timbro.

  1. Dulcis in fundo

Qualche anno fa, in un istituto professionale alberghiero della mia regione.
Viene in visita ufficiale la direttrice generale del Ministere de l’education national di Francia. E’ qui per preparare il viaggio del suo ministro nella nostra regione,  dedicato all’inclusione.
Al tavolo per il pranzo ho la preside a sinistra e la direttrice francese a destra. All’antipasto ci serve un ragazzo di terza, giacca e cravatta, e la preside gli chiede: “Come va, Giovanni?” (nome di fantasia). E Giovanni risponde: “Molto bene, preside!”.  E poi sottovoce mi dice: “Giovanni è arrivato con una diagnosi psichiatrica pesante, una brutta bipolarità, e timori di autolesionismo, ma mi pare che qui stia bene”. Traduco alla ,collega francese che mi ascolta stupita.  Al secondo giro, la preside dice a Giovanni “ma stai davvero bene, Giovanni? Cosa abbiamo fatto qui per farti star bene?” E Giovanni risponde “Da quando mi avete nominato tutor di un ragazzino di  prima sono felice. Devo farmi veder bravo per lui”.

Dunque: ad un ragazzo psichiatrico grave, art. 3 comma 3, la scuola affida (cioè si fida, da fiducia) un ruolo tipico di queste scuole: i ragazzi di terza si prendono in cura un ragazzino di prima facendo loro quasi da fratello maggiore. E questa scuola di affidarne uno a Giovanni!  Che si è accorto che forse non tutto in lui è follia, che anche lui può dare non solo ricevere.

Racconto brevemente questo piccolo caso per suggerire a tutti coloro che avranno a che fare col nuovo PEI un approccio certamente attento  ai suoi diversi aspetti formali, ma con uno sguardo di fondo squisitamente pedagogico. Servono carte ben scritte che hanno al centro non l’adempimento ma una spinta  di impegno a farne un progetto di inclusione davvero utile  per tutti i nostri vari Giovanni. Dunque che sia  la ricerca di soluzioni positive, di scambio, di apertura alla partecipazione di tutti.

L’esempio di Giovanni dimostra che una buona inclusione è ancora possibile.  L’esperienza italiana di inclusione, nonostante le difficoltà e regressioni, è ancora un valore, va salvaguardata.
Per questo mi offro volentieri a  fare formazione con chi vorrà accogliermi per gestire bene questo nuovo PEI con gli occhi di Giovanni. Per la qualità pedagogica vera fatta sul concreto, senza arrendersi alla forma e alla ritualità.




La crisi irreversibile dell’inclusione scolastica italiana

Ecco il testo “intervista a Raffaele Iosa a commento sui dati della ricerca ISTAT 2020 su scuola e inclusione disabilità. Perché in 20 anni le certificazioni sono raddoppiate?
Perché questa grave medicalizzazione di troppi bambini? Perché c’è una gestione caotica e squalificata dei posti di sostegno e degli assistenti autonomia? Perché una medicalizzazione violenta mette in crisi l’inclusione? I segni di una crisi irreversibile?

“Un’analisi critica dura e dolorosa che – commenta ancora Raffaele Iosa – stanno mettendo in luce una brutta verità: l’inclusione italiana è in una crisi ormai irreversibile, culturale e organizzativa.  Domina la ‘tecnica terapeutica’ isolante, un conservatorismo compassionevole pieno di vizi assistenziali. È un fallimento dei sogni e della fatica di molti di noi, ormai vecchi, che per l’inclusione hanno dato la vita. Né la politica né il sindacato né la “cultura accademica” pensano. Il dolore infantile e dei bambini, che esiste, è solo un pretesto per altre cose. Posti, carriere, mercato iatrogeno. La mia tristezza non ha più limiti”.

 




Nuovo PEI: dalla condivisione all’approvazione. Cosa cambia?

di Evelina Chiocca

L’art. 7 del decreto legislativo 96/2019, il provvedimento che ha modificato il decreto legislativo 66/2017, al comma 2 lettera a) prevede quanto segue:
2. Il PEI di cui all’articolo 12, comma 5, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, come modificato dal presente decreto:
a) è elaborato e approvato dal Gruppo di Lavoro Operativo per l’inclusione di cui all’articolo 9, comma10;».
In sintesi, il Gruppo di lavoro operativo, composto dai docenti della classe, dai genitori, dagli specialisti ASL e da personale “interno ed esterno alla scuola” che interagisce con la classe e con l’alunno con disabilità (ma l’alunno con disabilità non è parte integrante della classe?), è chiamato a “elaborare e approvare” il PEI.
Secondo il nuovo provvedimento (applicativo della legge Buona scuola), nel GLO si perderebbero il confronto, il dialogo, la co-progettazione, che si caratterizzano nella condivisione, fulcro essenziale. Ciò avverrebbe se venisse adottata l’approvazione del PEI.
L’approvazione supporta o impedisce il processo inclusivo?
Approvare le scelte assunte durante la redazione del PEI significa chiedere ai componenti di esprimersi con un voto, esattamente come avviene nel Consiglio di classe o in Collegio docenti, dove la maggior parte delle decisioni è assunta a maggioranza.
Appare evidente che, secondo questa impostazione, nel GLO la famiglia risulta essere la parte più debole, in quanto numericamente inferiore rispetto agli altri partecipanti.
Al conteggio dei voti, le indicazioni dei genitori.

Se divergenti da quelle degli altri componenti del GLO, le indicazioni dei genitori, poste al conteggio dei voti, non potranno che risultare “nulle”.
Se ciò si verificasse, quale altro spazio resterebbe alla famiglia? Forse il Tribunale? Ma non si può continuare a pensare che il Tribunale debba essere chiamato in causa per dirimere questioni che devono essere affidate alla condivisione, alla collaborazione, alla corresponsabilità di tutti i componenti.
Il futuro non è ancora noto.
Non sappiamo se nel nuovo modello verrà ignorata l’approvazione del PEI, come indicato nel d.lgs. 96/19. Non lo sappiamo.
Per contro sorprenderebbe – e non poco – l’introduzione della votazione in un gruppo costituito per elaborare la progettazione annuale a favore dell’alunno con disabilità, ovvero il percorso scolastico.
Certo che nei recenti provvedimenti traspare una visione “distorta” del processo di inclusione (vi è una particolare – e, diciamo, preoccupante – insistenza nell’affermare “il docente di sostegno e il suo alunno”); ma ciò potrebbe sviare.
Appare decisamente improbabile che il Ministero dell’istruzione, guidato dalla ministra Azzolina, già docente specializzata, possa adottare l’approvazione per il PEI, con tanto di “voto favorevole” e “voto contrario”.
Non è ipotizzabile.
I docenti specializzati sanno quanto sia importante, anche quando il dialogo è difficile, mantenere un clima di condivisione, di partecipazione, di collaborazione. Ogni altra situazione diversa non consente di attuare inclusione. Ecco, in sintesi, non voglio credere che si possano non considerare i diritti degli alunni con disabilità e che si possano buttare all’aria più di quarant’anni di storia.
Non pensiamoci.
Attendiamo il nuovo PEI.
E se ci fosse l’approvazione?
No. Un docente specializzato sa che l’approvazione porterebbe verso un’impostazione di scuola non coerente con quella inclusiva.



ICF, un nuovo approccio alla disabilità

bimbo_leggedi Antonia Carlini

La definizione di “persona handicappata” usata nell’art.3 legge 104 restituisce un’idea della disabilità ancora legata al modello medico tradizionale, coerente con la logica della categorizzazione e della classificazione delle patologie riconosciute a livello organico. Secondo tale norma, è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione.

Nella definizione, la disabilità (difficoltà nello svolgimento di una attività o azione nei tempi e nei modi convenzionali) è strettamente legata alla patologia (minorazione), secondo una logica deterministica lineare, da cui consegue una condizione di svantaggio personale e sociale (handicap). Secondo tale visione, solo per un gruppo ristretto di soggetti speciali viene prevista la necessità di un intervento di compensazione, di adeguamento e molto spesso di “normalizzazione”. Sicché solo gli alunni disabili con deficit strutturati e certificati risultano titolati a ricevere interventi individualizzati mirati.

Tale paradigma, tuttavia, anche nel dibattito culturale e pedagogico nazionale e internazionale, è evoluto verso una prospettiva diversa, coerente con un approccio di tipo socio-culturale, per cui la disabilità è determinata dall’interazione negativa tra le caratteristiche personali (patologia e funzionamenti) e le condizioni ambientali e di contesto poco favorevoli ed ostacolanti, piuttosto che l’effetto automatico di un deficit. Ne consegue che non sempre il deficit è causa di disabilità.

Il nuovo modello di classificazione ICF, in prospettiva biopsicosociale, valuta la disabilità come “la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali, e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo” (OMS, 2001).
Secondo tale approccio la disabilità origina quando la “condizione di salute”, debole per la presenza del deficit, non si relaziona con fattori personali “forti” – le aree sane, le potenzialità, gli stili cognitivi ed le intelligenze personali … – da sviluppare attraverso un efficace intervento educativo e con fattori ambientali “facilitanti” per l’assenza di barriere fisiche, psicologiche, sociali e culturali.
L’introduzione di fattori di natura socio-ambientale e culturale, fra quelli che determinano difficoltà e disabilità e generano differenze ed esclusioni, apre a nuove forme di disabilità ed amplia la platea dei titolari di bisogni educativi particolari ai quali corrispondere con risposte formative coerenti e specifiche.
Il modello ICF ha contribuito in maniera significativa all’ampliamento del significato di bisogno educativo speciale, inizialmente legato alle sole disabilità e poi aperto alla più vasta platea di alunni che manifestano difficoltà negli apprendimenti e nella partecipazione, tali da esporli all’insuccesso formativo.

Nel nuovo paradigma biopsicosociale ICF gli ausili e le tecnologie rientrano nel dominio della componente Fattori contestuali e, nello specifico, dei fattori ambientali abilitanti, poiché sono facilitatori migliorano il funzionamento della persona con una determinata condizione di salute e riducono disabilità.
La funzione «abilitante» degli ausili, dei materiali e degli strumenti, anche tecnologici, è descritta attraverso le immagini che seguono, riprese da una presentazione utilizzata da chi scrive in occasione di seminari formativi destinati alla formazione di insegnanti per l’attività di sostegno.

La sequenza mostra in modo semplice e immediato, come gli ausili, gli strumenti, i materiali e le tecnologie assistive possono fare la differenza e abilitare il soggetto, così da trasformare una condizione di disabilità e di handicap in una condizione di attività e di partecipazione.

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La diapositiva 1 mostra la logica sequenziale e lineare sottesa all’approccio medico tradizionale, alla base della stessa definizione di persona handicappata riportata nella stessa Legge quadro 104: la menomazione (danno organico o funzionale relativo a una specifica area che ha carattere transitorio o permanente es. deficit visivo grave) determina una disabilità (limitazione parziale o totale della capacità di svolgere un’attività nei tempi e nei modi considerati normali es. leggere) che è causa di handicap (svantaggio che si vive quando il contesto non offre condizioni e possibilità alternative es. partecipare alle attività di lettura in classe). Secondo tale approccio, come abbiamo visto, la disabilità è un problema esclusivamente personale che richiede adattamenti alla persona.

 La diapositiva 2 mostra l’intervento di un fattore contestuale – di tipo ambientale   facilitante (es. un testo in braille) legato agli oggetti e alle tecnologie (codice e – dominio e 1 della Classificazione ICF) che è abilitante rispetto alla condizione di disabilità del soggetto (es. lettura di un testo comune).

Le diapositive 3 e 4 mostrano come la presenza di un fattore ambientale facilitante trasforma la disabilità (es. lettura di un testo comune) in attività (es. lettura dello stesso testo in versione braille) e l’handicap (es. l’esclusione dall’ attività del gruppo classe) in partecipazione (es. inclusione nell’attività del gruppo).

NOTA PER I LETTORI

Questo breve saggio è liberamente trattodal Manuale “Concorso scuola e TFA Posti di sostegno – Sintesi, tabelle, focus e schemi riepilogatividegli argomenti comuni a tutti gli ordini di scuola” di Antonia Carlini Edizione 2020 – acquistabile solo su Amazon https://www.amazon.it/dp/B0882HYHZ6

 

 




L’insegnante di sostegno che riduce la distanza

bambini_scuolaL’istituzione della Repubblica che ha la fortuna di fondarsi su relazioni umane dirette ed evolutive – tra bambini, ragazzi e adulti da una parte e tra pari dall’altra – è ferma.
Sostenere che l’emergenza può diventare per la scuola un’opportunità è marketing politico-commerciale. Pertanto, non ci appartiene.
Siamo insegnanti di sostegno specializzati e in via di specializzazione, specificamente formati e valutati sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ma non ci interessa parlare di innovazione: ci interessa garantire inclusione. È il nostro compito professionale, sul piano deontologico e sul piano operativo, della quotidianità didattica. E in questo momento la scuola inclusiva è fortemente a rischio.

Sono le parole con cui un gruppo di Insegnanti di sostegno specializzati e specializzandi della secondaria di secondo grado del Piemonte presenta una propria ricerca su attività didattiche pensate per essere inclusive.
Il documento – spiegano i docenti –  vuole contribuire al lavoro di coloro che in questi giorni sono impegnati a progettare e mettere in atto “scuola a distanza” in modo consapevole e critico, senza ingenua improvvisazione e con un approccio che vada oltre gli aspetti funzionali degli strumenti digitali per la comunicazione a distanza.

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