Ius scholae, un dibattito quasi lunare

di Aluisi Tosolini

Si dibatte (anche molto aspramente) in questi giorni della proposta di legge definita jus scholae che interviene sul tema della cittadinanza.

La mia personalissima impressione – dal punto di osservazione in cui mi trovo – è che il dibattito in realtà abbia qualcosa di lunare, marziano, sia fuori dal mondo.

Sto facendo in questi giorni il presidente di commissione degli esami di stato in un grande e notissimo centro della provincia di Parma dove la percentuale dei cittadini stranieri residenti (quindi sia comunitari che extra comunitari) è pari al 21,2% (una persona su 5).
Nella provincia di Parma i cittadini stranieri sono il 14,7%, mentre a livello regionale la percentuale è pari al 12,6%  della popolazione contro l’8,4 di media nazionale (e l’Emilia Romagna è la prima regione in Italia per incidenza di stranieri residenti).

Gli studenti delle classi che stanno facendo gli esami rispecchiano la composizione sociale della popolazione della zona. Con diversi candidati abbiamo discusso anche della proposta di legge sulla cittadinanza che si sta dibattendo in parlamento.
Trovarsi davanti candidati 19enni, nati in Italia e che conoscono benissimo la lingua italiana, ben inseriti nel tessuto sociale, molti con un contratto di lavoro già in tasca presso le aziende del distretto che senza lavoratori stranieri sarebbero costrette a chiudere, fa impressione.
Sono italianissimi (certo più italiani di molti discendenti di antichi emigrati in sud America che per lo jus sanguinis potrebbero ottenere la cittadinanza italiana senza fatica) ma non sono cittadini.
A loro manca un diritto fondamentale, quello della partecipazione alla vita sociale e politica da soggetti attivi, votanti. Manca il sentirsi davvero a casa, il non essere e il non percepirsi come ospiti, cittadini di serie B.
Hanno frequentato le scuole in Italia, molti dalla scuola dell’infanzia in avanti e quindi ben più dei 5 anni richiesti dalla legge e che Fratelli d’Italia anni fa chiedeva fossero 8. Prenderanno il diploma, diversi si iscriveranno all’università.
Perché non dovrebbero avere la pienezza della cittadinanza italiana se lo chiedono e lo desiderano?

Una questione di coesione sociale

Personalmente credo che riconoscere queste persone come cittadini italiani sia non solo doveroso dal punto di vista etico e politico ma anche necessario dal punto di vista socio-economico. Sono questi i cittadini che terranno in piedi l’economia italiana nei prossimi anni. Sono loro che con il loro lavoro che finanzieranno l’INPS. Sono loro la linfa vitale della nostra società futura. Chi sostiene, surrettiziamente e ricorrendo alla solita tecnica del benaltrismo, che i problemi dell’Italia d’oggi sono altri, e nello specifico la crisi economica, i salari, l’inflazione il costo della vita, non si accorge che proprio a motivo di questi problemi economici sarebbe interesse dell’Italia riconoscere la cittadinanza a chi vive da anni in Italia.

La loro posizione pecca di iper-culturalismo ovvero l’opposto di quanto dicono. Appartengono a quanti farneticano attorno alle teorie della sostituzione etnica senza accorgersi che il declino della società italiana è già in atto e vede come responsabili primi proprio gli italiani stessi.
Da qui la necessità di riconoscere come nuovi italiani quanti hanno fatto un percorso scolastico in Italia: è una questione di coesione sociale. Infatti solo chi è pienamente cittadino fa parte compiutamente della società e può essere chiamato ad operare per il suo miglioramento, la sua crescita, il suo sviluppo ma anche il suo cambiamento, la rinegoziazione delle norme e delle regole del convivere sociale. Chi non è cittadino è ospite e come ospite non è tenuto a connettersi compiutamente alla rete sociale secondo logiche solidaristiche.

La centralità della scuola

La legge proposta, sin dal titolo, riconosce la centralità della scuola nella formazione di una persona e di un cittadino. Si tratta di una valorizzazione della cultura nel processo di acculturazione che conduce a condividere la lingua, le regole della convivenza, i valori di fondo che tengono assieme il tessuto sociale.
E’ il riconoscimento che la scuola forma in primo luogo cittadini e a questo scopo utilizza i saperi, le conoscenze e le competenze organizzandole dentro percorsi significativi di crescita umana, sociale, politica.
La proposta di legge riconosce alla scuola un compito e un valore spesso nascosti o negati dall’opinione pubblica che della scuola ha spesso una concezione distorta e decisamente parziale come il dibattitto di questi mesi ha più volte evidenziato con la richiesta di ritornare alla scuola di un tempo, quella che dava vere e solide conoscenze, quella che bocciava, che usava i voti come mannaia, quella che creava dispersione e abbandono Una scuola di classe tesa a sorvegliare e punire piuttosto che a formare cittadini critici e partecipi.

E’ di noi che qui si parla….

Così la discussione sulla legge è in realtà la discussione su noi stessi. Su chi siamo e su chi vogliamo essere. Sul presente e sul futuro della nostra società e della nostra scuola.
E, stando alle posizioni viste in questi giorni, l’orizzonte è abbastanza depressivo

Ius Scholae, ecco il testo per una nuova legge sulla cittadinanza

 

 




La scuola di tutti è ancora un’incompiuta

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

 Erewhon è una parola che non c’è. È una parola che non si riconosce, che gli altri non sanno comprendere, perché è una parola diversa. Erewhon è una parola rovesciata, il suo dritto è Nowhere: In nessun posto.
Nel 1872 l’inglese Samuel Butler scrive un romanzo fantastico e satirico sul mondo di Erewhon dove i malati vengono messi in prigione e processati, le vittime sono considerate immorali, nelle scuole si insegna l’Irragionevolezza.

Un mondo solo apparentemente immaginario se riflettiamo bene, se pensiamo da dove siamo partiti per giungere all’inclusione di “tutti” nella scuola di tutti.
Dovremmo essere sempre inquieti, mai soddisfatti dei nostri risultati, perché noi che lavoriamo nella scuola entriamo in relazione con quanto vi è di più delicato e di più complesso nella storia di ogni persona. L’infanzia, l’adolescenza, essere bambina o bambino, ragazzo o ragazza e nessuno può scegliere quello che è, né il luogo della sua nascita né la famiglia, nessuno può scegliere la sua sorte, perché di sorte si tratta.
Abbiamo fatto molta strada per giungere a costruire la scuola di tutti, ma sono di quelle strade che non sono mai compiute, che a volte non trovi più sotto i piedi e ti tocca tornare a ripercorrerle da capo.

Le conquiste legislative non bastano se poi da strumento di progresso civile e di tutela delle persone più fragili diventano ostaggio di prassi burocratiche, dei ministri di turno e delle loro circolari.
Se guardiamo agli esiti che ci saremmo attesi dall’applicazione di leggi come la 517 e la 104 non possiamo sentirci soddisfatti. L’integrazione e l’inclusione degli alunni portatori di handicap ha costituito sempre un terreno di battaglia, per conquistare più ore di sostegno, più personale, educatori, spazi, la riduzione del numero degli alunni per classe, fino ad impedire che dentro alla scuola di tutti si riproducessero i ghetti delle classi speciali.
Le leggi coglievano i punti di arrivo della pedagogia speciale, ma le scuole e gli insegnanti rimanevano sempre identici a se stessi, salvo le eccezioni ovviamente, eccezioni che ormai non sappiamo se siano un vizio o una virtù delle nostre scuole.

La resistenza al cambiamento culturale e professionale ha prodotto la “clinicizzazione” della diversità, facendo della diversità una disabilità.
La scuola è di tutti perché tutti diversi. Invece no. Si sono pretese le certificazione cliniche per dispensare, per avere diritto ad una didattica individualizzata, fino a fare dell’essere straniero, dell’essere immigrato, del possedere una lingua madre non riconosciuta uno svantaggio da certificare. La scuola monolite. Gli insegnati monoliti.
La scuola di tutti necessitava dell’autonomia e del territorio, aspirava ad un sistema formativo integrato e nel momento in cui ne avremmo avuto bisogno non l’abbiamo trovato. In questi anni di pandemia ne abbiamo pagato la mancanza, abbiamo toccato con mano come un sistema formativo scuola-centrico abbia fallito, non sia stato in grado di essere la scuola di tutti e a pagare sono stati i bambini e le bambine, gli adolescenti che si sono persi nel bosco.
Mentre c’è chi pensa di salvare il futuro della scuola avvolto nelle nebbie dei propri pensieri come hanno dimostrato Paola Mastrocola, Luca Ricolfi e Luciano Canfora intervistati da Raffaella De Santis per la Repubblica, il PNRR procede con la Componente 1 della Mission 4: Rivedere l’organizzazione e innovare il sistema di istruzione.

La politica ha fallito, ma ha fallito soprattutto la scuola in tutte le sue componenti e a riformare il nostro sistema formativo provvederà l’Europa.
Intanto i miliardi del PNRR su disabilità e inclusione tacciono di un silenzio che non sa di distrazione.




Inclusione e dintorni, a 30 anni dalla legge 104

di Cinzia Mion

Il mio caro amico Reginaldo Palermo, direttore di PavoneRisorse, mi ha posto una domanda cruciale e difficile, cui vorrei provare a rispondere. Mi ha chiesto : come mai in Italia con una storia dell’inclusione che arriva da lontano – con la L.118/1971, ma soprattutto nel 1977 con la famosa L.517 eppoi con la L.104/92 e successive ‘manutenzioni’ – oggi la situazione sta peggiorando invece di migliorare?
La domanda mi sollecita ricordi professionali a bizzeffe ma mi trattengo dal dare loro la stura e cerco di soffermarmi sull’essenziale .
Ricordo degli anni 70 il fervore ideale e l’entusiasmo fermentativo intorno alle grandi discussioni, tra cui la dialettica tra il concetto di normalità/diversità che approderà, nel mondo civile, alla famosa Legge 180/1978, chiamata legge Basaglia, che ha destrutturato l’ospedale psichiatrico di Trieste. Riporto, per chi non avesse vissuto quegli anni , le innovazioni scolastiche che cercheranno di realizzare i dettati costituzionali: in primis l’articolo 3 sull’uguaglianza, stella polare per ogni impegno politico/istituzionale ma nel nostro caso per la Scuola.
Riassumo : la scuola media unica (1962), la legge 820/1971, istitutiva del Tempo Pieno contro lo svantaggio socio-culturale, la legge istitutiva della scuola materna statale (L.444/1968).
La pubblicazione di Lettera a una professoressa di don Milani aprì poi la critica sociopolitica alla ‘valutazione scolastica sommativa tradizionale’ e il Movimento studentesco del ’68 fece da cassa di risonanza a tale critica sottolineando che, se la valutazione scolastica emarginava ed escludeva le fasce più deboli (figli dei contadini e degli operai ), fasce per cui la Costituzione aveva creato il Diritto allo Studio, allora era meglio che non valutasse….
Fu la Legge 517/77 che affrontò sia il problema della valutazione, offrendo l’idea rivoluzionaria della Valutazione formativa, (puntualmente sconfessata fino quasi ai giorni nostri, ma questa è un’altra storia!) sia l’attenzione ai più fragili, con il dettato legislativo che parla non più solo di inserimento nelle classi comuni della scuola dell’obbligo – come fa la L.118/1971 che si riferisce ai soggetti con invalidità lieve, invalidi o mutilati civili, senza però accennare alla didattica speciale – ma si parla di vera e propria attività di integrazione degli alunni con forme di handicap (art.2) abolendo nel frattempo le classi differenziali.

Dall’integrazione all’inclusione.

La legge 517, con l’individuazione di modelli didattici flessibili, l’auspicio delle classi aperte e soprattutto l’arruolamento degli insegnanti specializzati, ha permesso l’affacciarsi lentamente di un progressivo cambiamento dal semplice inserimento all’integrazione. A quel tempo l’integrazione dei soggetti portatori di handicap (definiti successivamente ’diversamente abili’, ora ‘persone con disabilità’) ha costituito un miglioramento rispetto a tutti i bambini, per quanto attiene la formazione dei docenti nei confronti degli aspetti psicopedagogici e didattici. Uno di questi è stata l’attenzione agli stadi di sviluppo piagetiani, precedentemente solo incontrati nei libri, utilizzata per decodificare i dati delle diagnosi. Un altro aspetto è stato l’attivazione dell’attività psicomotoria, precedentemente destinata solo ai bambini disabili, estesa invece in alcuni istituti a tutti i bambini. Questo è avvenuto per esempio nelle scuole del secondo circolo di Conegliano, nel cui territorio sorgeva l’Istituto ‘La nostra Famiglia’, circolo di cui dall’anno 1974 all’anno 1994 sono stata direttrice didattica.


L’integrazione è una parola ‘grossa’ ed impegnativa che ha impiegato molto tempo per realizzarsi. Ha ricevuto pieno riconoscimento dalla L.104/1992 la quale ha promosso l’integrazione per tutti e per ogni ciclo, compresa l’Università. E’ stata questa legge a far intravedere la diversità come valore – a dire il vero già i Nuovi Programmi per la scuola elementare del 1985 avevano sottolineato che le ‘diversità andavano valorizzate, a patto che non fossero a rischio di ‘disuguaglianza’- ed inoltre aveva anche fatto la sua comparsa la necessità che ogni soggetto con disabilità diventasse protagonista della propria vita.

L’INCLUSIONE

La grande novità però è avvenuta con le ‘Linee guida’ sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (4/8/2009). Compare qui infatti il termine INCLUSIONE. Si afferma, a proposito del ruolo del dirigente scolastico, che la riorganizzazione del sistema in funzione di tale finalità rappresenti un’occasione di crescita per ‘tutti’. L’inclusione diventa perciò un valore fondativo, un nuovo assunto culturale. Tralasciamo quelle che sono state le sollecitazioni che sono scaturite da tale importante documento (ICF, progetto di vita, coinvolgimento di tutta la scuola non solo dell’’insegnante di sostegno, ecc) da cui sono scaturite a cascata le altre disposizioni legislative successive(L.170, BES, formazione referente BES, attivazione PAI, ecc).
Il senso profondo del processo di ‘inclusione’ ha fatto man mano però fatica ad affermarsi secondo le intenzioni del legislatore.
Affinchè i processi di tale aspetto valoriale diventassero modalità in grado coinvolgere tutta la comunità educativa del contesto, definita da Coleman ‘capitale sociale’ (famiglie, EELL, associazioni culturali del territorio, ecc) dovevano essere presenti alcune condizioni che vedremo un po’ alla volta invece evaporare.
Si pensava infatti che i processi di inclusione autentica, caratterizzati da una didattica considerata terreno fertile, in grado di far crescere uno spazio di vera e propria educazione alle differenze, valorizzazione solidale e incentivo al raggiungimento delle pari opportunità in tutti i sensi, potesse trasformare, attraverso cerchi concentrici, tutti gli altri sistemi sociali a partire dal sistema scuola (Brofenbrenner). [1]
Proprio qui invece il sistema ha dovuto incontrare molte difficoltà.
Non mi soffermo sull’aumento abnorme delle certificazioni e dei posti di sostegno, sulla progressiva medicalizzazione delle difficoltà di apprendimento di cui molti si sono già occupati in modo egregio. Desidero affrontare il problema delle ‘derive sociali’ che hanno cominciato a depotenziare la spinta verso l’inclusione ed anzi hanno dato il via a strategie di stampo furbesco, diseducative e, direi, soprattutto regressive.

L’individuo senza passioni

Così recita un famoso testo di Elena Pulcini [2] ,la filosofa fiorentina mancata prematuramente, portata via dal Covid. Una delle derive sociali, cui facevo riferimento, è infatti un diffuso individualismo regalatoci inopinatamente da una sbornia di neoliberismo che ci sta affiggendo da quasi trent’anni. Naturalmente questo sfacciato individualismo, accompagnato da altrettanta dilatata indifferenza verso l’altro, non può che portare a ripiegarsi su se stessi, attraverso un autocompiacimento definito narcisismo, come hanno dichiarato recentemente sia Canevaro che Iosa. Per non parlare dell’aumento dell’intolleranza, del razzismo e dell’omofobia. Ce n’è abbastanza per connotare una società di cui tutto possiamo dire tranne che sia benevola, solidale e in grado di stemperare le disuguaglianze, portandoci verso quella che ci stavamo augurando fosse la direzione di una sana inclusione.
Pensavamo che la scuola potesse diffondere all’esterno i suoi valori costituzionali e sta avvenendo invece il contrario. Le derive sociali stanno permeando la scuola che non è più in grado di frapporre una diga, dei filtri, per depennare la responsabilità educativa degli adulti tutti, chiamati in causa senza scusanti . Tutti : genitori e docenti, dirigenti scolastici e tecnici. La responsabilità è di tutti. A partire dai vertici che procedono come se in periferia la situazione corrispondesse alle norme varate. Poi di chi avrebbe il compito ‘istituzionale ed intenzionale’ di educare le giovani generazioni ai valori costituzionali (magari sono gli stessi che in classe predicano l’educazione civica!).
Nessuno può far finta di non sapere che, alla faccia dell’inclusione, sono tornate le classi di serie A e di serie B (per le quali negli anni 60/70 ci siamo battuti tanto!). E non ditemi che non è vero: Dirigenti che si vantano che nei loro Istituti non frequentano né stranieri né disabili! Tutti sanno che la scuola ormai è ritornata una scuola di classe [3] e non solo a partire dall’Orientamento. A partire dall’Inclusione tradita.
Troppo difficile? Certamente. Nessuno ha mai promesso e certificato che fare l’insegnante oggi sia una professione facile. E’ una professione molto difficile ma vivificante. Chi la intraprende deve saperlo. Alcuni tutor universitari, che seguono i docenti per la formazione al sostegno, garantiscono che questi escono preparati a puntino per lavorare per l’Inclusione….Sono gli altri che, contrariamente a quello che ci si aspetta da anni, non hanno ricevuto la formazione iniziale ed in servizio adeguata ad accompagnare questa innovazione .
Che accade infatti? Si afferma che Il sistema si pone come uno schiacciasassi che rimane inesorabilmente impermeabile. Tranne qualche eccezione che per fortuna esiste e che però fatica a poter perseverare ..
Dario Janes, che da sempre si interessa di inclusione, afferma che bisognerebbe rompere gli schemi: del curriculum a tutti i costi, dell’orario, dei ruoli, delle aule…Nemmeno con l’autonomia didattica, approvata nel 2000, calata nella realtà di un sistema scuola con scarsa presenza della cultura progettuale e senza una seria formazione di tutti i docenti, è cambiato molto. L’inclusione dei disabili rimane una cosa separata. Il PAI è accanto al PTOF. La normativa è rimasta solo illusoriamente inclusiva, nei fatti è rimasto un sistema duale, nel quale convivono il modello di scuola per tutti e quello ‘in perenne sperimentazione’ per gli alunni con disabilità. Avere una quantità di risorse dedicate ai disabili, non sempre aiuta l’inclusione, perché, aggiunge Janes, “spesso è proprio l’insegnante di sostegno che si autoesclude dalla classe”. Qualche volta per sopravvivere.

[1] Brofenbrenner U.,(1979)Ecologia dello sviluppo umano, Il Mulino.
[2] Pulcini E., (2001)L’individuo senza passioni. Individualismo moderno
[3] Romito M., (2016)Una scuola di classe. Orientamento e disuguaglianze nelle transizioni scolastiche,Guerini Scientifiche.




La legge 104 ha trent’anni e si vedono tutti

di Flavio Fogarolo

Ho fatto l’insegnante di sostegno negli Anni ’80, quindi prima della 104, e posso assicurare che con questa Legge i passi in avanti sono stati enormi rispetto all’organizzazione, al coinvolgimento delle ASL e dei territori, alla dotazione di risorse e altro. Ma poi tutto è rimasto uguale.
È vero che la 104 è stata spesso aggiornata, ma per quel che riguarda la scuola di fatto è sempre la stessa. Si è intervenuti più sull’università ma rispetto all’inclusione scolastica c’è stato solo il DL 66 del 2017, di fatto mai entrato realmente in vigore.

L’unico decreto attuativo approvato, dei tanti previsti, è stato il DM 182, quello sul nuovo PEI, annullato dal TAR. Varie novità introdotte che hanno modificato la L. 104, come le nuove procedure di certificazione, il Profilo di Funzionamento, i GIT, sono ancora inapplicate e inapplicabili, mentre è formalmente abrogato, creando di fatto un pesante vuoto normativo, l’atto di indirizzo del 1994 (DPR del 24 febbraio) che era alla base di molte procedure della nostra inclusione.
La 104 ha trent’anni e per quel che riguarda la scuola è quindi sempre la stessa, anche se la realtà della nostra inclusione (o “integrazione”, come si diceva allora) è profondamente cambiata.

Cominciamo dai numeri: nel 1992 nelle scuole statali c’erano circa 100.000 alunni con disabilità, 112.000 con le private, che rappresentavano poco più dell’1% della popolazione scolastica complessiva. Adesso sono oltre 300.000 (report ISTAT 2022), quindi triplicati in valore assoluto, ma, considerando che la popolazione scolastica nel frattempo è nettamente diminuita, si arriva ora in percentuale al 3,6%, con un incremento quindi assai più marcato.

Nel 1992 gli insegnanti di sostegno erano circa 50.000, adesso sono 180.000. Anche in questo caso è interessante analizzare il dato percentuale (insegnanti di sostegno sul totale degli insegnanti) e si scopre che, essendo diminuito il corpo docente complessivo, la percentuale di quelli di sostegno è aumentata di oltre 4 volte: erano circa il 6% nel 1992 (50.000 su 800.000) mentre adesso sono il 26% (180.000 su 684.000).

Ma non è solo questione di numeri.

Gli insegnanti di sostegno specializzati di cui parlava la L. 104 nel 1992 erano assai diversi da quelli di adesso. Non si vuole ovviamente colpevolizzare nessuno di loro, ma era evidente che quando il legislatore di allora diceva che “Nelle scuole di ogni ordine e grado […] sono garantite attività di sostegno mediante l’assegnazione di docenti specializzati (art. 13 c. 3)” intendeva che ci dovesse essere qualcuno che sa come si fa a insegnare ad alunni con esigenze diverse, e deve quindi leggere e conoscere il braille se c’è un cieco, comunicare efficacemente con un sordo, rapportarsi in modo adeguato con un alunno con autismo ecc.
Nel 1992 gli insegnanti di sostegno si formavano seguendo sostanzialmente gli stessi percorsi dei docenti delle vecchie scuole speciali, i corsi erano ancora biennali anche se da poco erano diventati “polivalenti”, ossia validi per tutte le minorazioni.
Poi, visto che ciechi e sordi erano pochi e la maggior parte dei docenti specializzati non avrebbe mai insegnato a nessuno di loro, si è pensato bene di eliminare tutti gli insegnamenti specifici rinviando ad altre modalità formative, di fatto mai attivate, le formazioni sulle esigenze particolari.

La 104 del 1992 dava enorme importanza al ruolo delle ASL, chiamate non solo a “certificare” gli alunni con disabilità ma a gestire assieme alla scuola (“congiuntamente” diceva il vecchio comma 5 dell’art 12, abrogato nel 2019) tutto il processo di inclusione, dalla progettazione alla verifica degli esiti.

La reale applicazione negli anni successivi è stata molto diversa, con differenze territoriali enormi per cui in certe regioni d’Italia le ASL, spesso sostituite in toto da soggetti privati in convenzione, nelle scuole non hanno mai messo piede fisicamente e di verifiche neppure a parlarne. Il legislatore nel 2017, con il DL 66 confermato nel 2019, ha pensato bene di adeguarsi a questa situazione eliminando la gestione congiunta, lasciando tutta la responsabilità alle scuole e assegnando all’ASL un generico ruolo di supporto. Di fatto mettendo in crisi il servizio anche nelle regioni dove, nonostante tutto, un supporto effettivo, a base di reali incontri, funzionava ancora.

Le differenze territoriali rappresentano oggi una delle maggiori criticità della nostra inclusione, rivelando quanto sia inattuato l’impegno ad assicurare ovunque i diritti fondamentali. Nei cinque articoli della 104 dedicati all’inclusione scolastica, dal n. 12 al n. 16, il termine “garantito”, o espressioni analoghe, è usato una decina di volte ma la realtà è totalmente diversa: oggi il nostro sistema scolastico non riesce per nulla a “garantire” un servizio adeguato di istruzione e educazione per gli alunni con disabilità, ossia a far sì che in qualsiasi situazione, in ogni scuola l’Italia, il livello delle prestazioni risponda a livelli minimi di erogazione. Ne risulta un quadro molto diversificato, anche nello stesso territorio, con scuole distanti tra loro solo pochi chilometri che possono offrire servizi radicalmente diversi, dall’eccellenza educativa e inclusiva, a forme sistematiche di ghettizzazione dell’alunno disabile e del suo insegnante di sostegno.

Dal 2014 gestisco, con alcuni collaboratori, un gruppo Facebook[1] di consulenza sulla normativa che regola la nostra inclusione scolastica, destinato a insegnanti e genitori, e mi arrivano ogni giorno tante testimonianze allarmanti, con storie di disservizi e di esclusione.

Ne riporto solo una, di pochi giorni fa:

Mio figlio rientra nello spettro autistico, asperger alto funzionamento. Doveva avere 5 ore e mezza di sostegno ma per tutta una serie di circostanze il maestro è stato presente solo il primo mese, poi sospeso ufficialmente a gennaio.
Le maestre non hanno mai seguito le indicazioni della terapista, rendendo il clima pesante… Il bambino è in continuo sovraccarico e si sono manifestati diversi comportamenti “problema” che hanno gestito con note disciplinari.
Di fronte all’ennesima giornata no, ieri all’uscita mi è stato chiesto dalle insegnanti di tenerlo a casa, in quanto la sua presenza a scuola richiede solo una sorveglianza, visto che non vuol più lavorare.
Premetto che a casa o a terapia, a parte la tensione che deriva da questo vissuto scolastico traumatico, è un bambino assolutamente diverso.
È giusta questa richiesta delle insegnanti, di non farlo frequentare? Se non lo vogliono a scuola posso chiedere almeno la DAD?

In sintesi: ci sono genitori che raccontano di un figlio con disabilità, lasciato senza sostegno ma allontanato da scuola perché nessuno lo sa tenere, che chiedono se è possibile avere almeno la DAD.
Cosa è cambiato dal 1992? Vuoi mettere: adesso abbiamo la DAD!

[1] “Normativa inclusione” https://www.facebook.com/groups/1500673850185239




A trent’anni dalla legge 104. Il contributo della mia generazione

di Paolo Fasce

La legge 104 del 5 febbraio 1992 è una pietra miliare nell’ambito della tutela dei diritti delle persone con disabilità e il giorno in cui scrivo questo contributo intellettuale, sociale e civile della generazione che ha preceduto la mia nelle responsabilità operative del paese compie trent’anni.
Quando è stata emanata, Giulio Andreotti era presidente del Consiglio dei Ministri, la maggioranza parlamentare era quella del quadripartito (DC-PSI-PSDI-PLI) e il presidente della Repubblica era, nel suo declinare, Francesco Cossiga.
Il 17 febbraio di quell’anno, Antonio Di Pietro chiedeva l’arresto di Mario Chiesa e quello che si era appena avviato quale anno del centenario della fondazione del Partito Socialista Italiano, si sarebbe sostanzialmente rivelato essere l’ultimo di quella gloriosa esperienza.

Il 5 febbraio 1992 lo scrivente non aveva ancora compiuto 25 anni, non immaginava che sarebbe diventato insegnante e poi dirigente scolastico, progettava il proprio Programma Erasmus e assisteva alla trasformazione della propria città in polo turistico grazie all’esposizione universale delle colombiadi che regalavano il Porto Antico al mondo attraverso le celebrazioni del cinquecentenario della scoperta dell’America.
Scoperta da parte del mondo occidentale, beninteso.
Questa lunga premessa al semplice fine di inquadrare il contesto storico che mostra chiaramente come questo paese abbia viaggiato su due binari.

Quello del malaffare emerso con Tangentopoli, e dal quale stimo non siamo mai usciti, e quello delle questioni alte, affrontate alla luce del dettato costituzionale e sulla spinta della società civile e che ha sostenuto le evoluzioni emerse in seno al pensiero scientifico, in particolare quello pedagogico, accolto e sviluppato dal mondo politico nelle commissioni parlamentari. Un paese di contraddizioni quotidiane, quindi.
Da allora sono passati trent’anni. Il panorama politico della mia gioventù è stato travolto e sostituito da altri pensieri politici e altre modalità di aggregazione che sono intervenute in tutto il mondo non solo a causa dell’avvento della tecnologia, ma anche per evoluzioni socio culturali che la realtà ci costringe ad affrontare. Spesso, lo stile è di tipo oppositivo, accondisceso e accolto da forze politiche ciniche a caccia di facile consenso, e l’uscita da logiche reattive non è facile sia per limiti personali che per l’insieme di relazioni entro le quali ciascuno di noi è inserito.
Trent’anni non sono passati invano, almeno nel mondo scolastico, e la lettura della Legge 104 effettuata oggi è significativa e istruttiva. Se da un lato è un approdo alto della “prima Repubblica”, figlio di evoluzioni che partono con la Costituzione, attraversano la scuola media unica (1962) e la chiusura delle classi differenziali (1971-1977), d’altro canto il suo lessico è oggi irritante perché quanto oggi conosciamo grazie all’ICF sembra tanto distante da quel vocabolo tante volte utilizzato: handicappati. Oggi parliamo di persone con disabilità che apprezziamo in molti campi, come ad esempio quello delle paralimpiadi, ma che continuiamo a celare per difficoltà che spesso non riusciamo a superare nel campo della disabilità mentale e comportamentale.
Nel contesto dei contributi che le generazioni successive a quelle della “prima Repubblica”, non possiamo tralasciare le linee guida sull’inclusione scolastica del 2009, né la Legge 170 sui DSA e le circolari successive che hanno introdotto il tema dei bisogni educativi speciali e non possiamo che essere orgogliosi del comma 961 della Legge 178/2020 che istituisce la formazione finalmente obbligatoria, per davvero, per tutti gli/le insegnanti con studenti o studentesse disabili, in questo caso orientata all’inclusione scolastica: “Il fondo …, è incrementato di 10 milioni di euro per l’anno 2021 destinati alla realizzazione di interventi di formazione obbligatoria del personale docente impegnato nelle classi con alunni con disabilità. Tale formazione è finalizzata all’inclusione scolastica dell’alunno con disabilità e a garantire il principio di contitolarità nella presa in carico dell’alunno stesso”.
Dico “finalmente obbligatoria” giacché il comma 124 della Legge 107 che istituiva la formazione “obbligatoria, permanente e strutturale” è svuotato di senso per il fatto che la delibera in merito alla sua attuazione è demandata al generalmente riottoso Collegio dei Docenti che, con grave danno per il credito sociale dei docenti e per la crescita professionale possibile in trenta/quarant’anni di carriera sui temi didattici e pedagogici alla portata di qualunque “ingenuo volenteroso”, si pensa più come Assemblea Sindacale che come consesso di professionisti.
Vediamo quindi quali sono i contributi che la mia generazione è chiamata a dare per restare nella tradizione alta della “pedagogia ministeriale e normativa” incarnata dalla legislazione oggi vigente, con un occhio sulla scuola e uno sulla 104.
Per quel che riguarda la prima, stante l’evidente indisponibilità sindacale a convergere verso una scuola pedagogica, giacché i contratti che questi sono disponibili a firmare sono mediazioni al ribasso centrate sulle esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori, a detrimento delle necessità dell’utenza, scaricando le contraddizioni evidenti, sui poveri dirigenti scolastici che dovrebbero essere selezionati unicamente sulle loro capacità di moral suasion, giacché raramente hanno a disposizione altri strumenti.
La soluzione di questo grave problema è chiara ed è tutta politica: occorre riscrivere il testo unico figlio dei “decreti delegati” e che nella versione vigente compirà 30 anni a breve (ma ne ha di fatto cinquanta). Tale soluzione ci è indicata proprio dalla Legge 178 che ha reso diffusamente possibile quella formazione necessaria ed elusa per molti lustri da chi non volesse esserne coinvolto.
Per quel che riguarda gli aggiornamenti della Legge 104, mi sento di indicare solo alcuni ritocchi estetici (una riscrittura in linguaggio moderno e non lesivo delle persone) e pochi sostanziali. In particolare quelli che affrontino il grave problemi degli abusi in merito ai permessi che sono tanto doverosi nei casi realmente aventi diritto, quanto osceni negli abusi che è troppo difficile fare emergere.
Fatto questo, la mia generazione potrà passare serenamente il testimone alle donne e agli uomini del nuovo millennio.




Inclusione: forse per i dirigenti amministrativi ci vorrebbero 24 CFU

di Mario Maviglia

 Due interessanti e puntuali articoli scritti dall’amico e collega Raffaele Iosa e pubblicati su queste pagine (Nuovo PEI annullato: azzeccagarbugli e scuole in difficoltà, 16/09/2021; Il tempo della scuola; il tempo della disabilità, 20/09/2021), mi offrono lo spunto per analizzare un aspetto implicitamente presente nei due contributi (soprattutto nel secondo), che merita di essere ulteriormente approfondito e disvelato. Mi riferisco all’equilibrio che vi deve essere, nelle norme riguardanti l’inclusione scolastica, tra gli aspetti amministrativi e quelli pedagogici.
Raffaele Iosa fa un’analisi molto calzante sul significato del tempo all’interno della disabilità, un tempo segnato da attese, da terapie spesso coincidenti con il tempo delle lezioni, dalle tante angosce per un tempo che scappa via e che proietta il disabile in un’età adulta (vero banco di prova per i processi inclusivi in una società matura) carica di incognite e di preoccupazioni, soprattutto per i genitori.

Se non si tengono presenti questi aspetti di carattere pedagogico e sociale, il tempo diventa una qualsiasi nozione burocratica, sganciata dalla specifica realtà delle persone disabili (persone, prim’ancora che disabili) ed allora si entra nei meandri asfittici ed impersonali del diritto amministrativo, che tutto omogeneizza e rende opaco. In parte è quanto avviene con la CM 2044 del 17/09/2021 che fornisce indicazioni operative alle scuole dopo la sentenza del TAR Lazio del 13/09/2021 che annulla il nuovo PEI introdotto con DI 182 del 29/12/2020.

Ci vogliono competenze giuridiche adeguate per condurre un’esegesi dell’intera vicenda; ma qui vogliamo fare un discorso più generale riguardante lo stretto intreccio che dovrebbe esserci tra la dimensione giuridico-amministrativa e quella psicopedagogica, soprattutto in un campo come quello dell’inclusione dei disabili a scuola. E allora, mentre possiamo immaginare che il management ministeriale abbia una certa preparazione a districarsi all’interno della materia giuridico-amministrativa (anche se la vicenda della sentenza del TAR citata sopra fa nascere qualche dubbio in proposito), c’è da chiedersi che tipo di competenze abbia per interpretare in modo adeguato i fenomeni pedagogici. E d’altro canto, se non si hanno competenze anche in questo campo si rischia di trattare la materia dell’inclusione alla stessa stregua dell’adozione dei libri di testo o delle tasse scolastiche.

Ed ecco perché, provocatoriamente (ma non tanto), bisognerebbe prevedere che la direzione di uffici così delicati per la vita di tante persone con problematiche di questa rilevanza, venisse affidata a dirigenti amministrativi che abbiano acquisito almeno 24 CFU nel campo della pedagogia e della psicopedagogia. D’altro canto, all’insegnante di sostegno viene richiesta la conoscenza degli aspetti giuridico-amministrativi dell’inclusione, oltre che specifiche competenze in campo psicopedagogico; perché questo non dovrebbe avvenire anche nei confronti di chi ha responsabilità dirigenziali in questo campo?

L’intreccio tra queste due dimensioni oggi appare molto labile se non inesistente e i risultati (negativi) si vedono. Se proprio non si vuole accogliere questa misura così “rivoluzionaria”, si tenti almeno di attenuare gli eventuali effetti perversi delle norme adottando due concomitanti interventi: a) prima dell’emanazione di una norma fare sempre un esame dell’impatto che questa avrà sulla popolazione di riferimento, una sorta di VIA (Valutazione Impatto Ambientale), per prevedere gli effetti sul piano organizzativo, relazionale e curricolare della norma e la sua sostenibilità per la popolazione e le istituzioni di riferimento (ovviamente ciò presuppone una grande capacità di decentramento da parte del decisore di turno che, forse, non è contemplata dai manuali di diritto amministrativo…); b) sempre nella fase istruttoria ed elaborativa della norma, e comunque prima della sua emanazione, richiedere una consulenza con esperti del settore (i dirigenti tecnici servono ancora a qualcosa?) per un riscontro sul piano psicopedagogico delle misure contenute nel provvedimento e la loro coerenza con il senso profondo dell’inclusione, e non solo il mero rispetto formale della norma. In altre parole, ci vorrebbe un maggior rispetto verso le istituzioni scolastiche e i suoi protagonisti, e soprattutto verso gli attori principali dell’azione educativa, ossia gli allievi, in modo particolare quando questi sono allievi che seguono percorsi di crescita non omologabili. Il principio inclusivo dell’accomodamento ragionevole di cui parla la Dichiarazione ONU 2006 dovrebbe ispirare anche l’attività amministrativa in materia, lontana quindi da quelle pastoie da leguleio che spesso la caratterizzano.




Il tempo della scuola, il tempo della disabilità

di Raffaele Iosa

Mi sento obbligato a riprendere l’analisi delle querelle nate dalla recente sentenza del TAR Lazio del 13 settembre che annulla il DM 182, detto del Nuovo Pei.

In un recente articolo del 15 settembre (Azzeccagarbugli e nuovo PEI) ho già dato una valutazione complessiva delle Sentenza, del Decreto annullato e gli effetti nel presente e nel prossimo futuro.

Ho lì scritto sulla dura lezione prodotta dalla Sentenza sul modo di produrre normazione secondaria da parte del Ministero, su un Decreto troppo militarizzato e bulimico di ordini, sulla “crisi” dell’ICF che come un’araba fenice c’è e non c’è. Sento tensione, e accese incomprensioni se non litigi tra  diversi esperte di inclusione, che determinano sconcerto negli insegnanti e nelle famiglie.  C’è confusione, che non fa bene al futuro del tema PEI e dintorni, né ad una  serena e più sobria ricomposizione della questione, con il rischio che il tutto slitti alle calende greche.

C’è però una ragione per cui mi sento in dovere di riprendere il discorso e riguarda  la CM n. 2044 del 17.09.2021 a firma del dg. Ponticello che invia  prime indicazioni  di comportamento alle scuole per via degli effetti della sentenza del TAR Lazio.
Una circolare necessaria, ovviamente, ma che a mio avviso contiene un travisamento della Sentenza e un irrigidimento non richiesto sul tema (delicatissimo) del tempo di frequenza da scuola degli alunni con disabilità.

La frase che mi pare discutibile è la seguente:

Non può essere previsto un orario ridotto di frequenza alle lezioni dovuto a terapie e/o prestazioni di natura sanitaria – con conseguente contrasto con le disposizioni di carattere generale sull’obbligo di frequenza – in assenza di possibilità di recuperare le ore perdute”.

Temo che anche in questo caso, per contrasto degli opposti col prima,  il Ministero esageri.

  1. Il tempo della disabilità

Prima di precisare  cosa a mio avviso la Sentenza del Tar Lazio dica su questo tema, è utile un approfondimento pedagogico, altrimenti non comprendiamo la complessità di questo argomento.

  • Il tempo per una persona con disabilità è questione importante, delicata e complessa.

Si pensi alle attese per i dolorosi e lunghi tempi di attesa per visite, terapie; o il tanto tempo a cercare, da parte delle famiglie, aiuto, comprensione, proposte, attenzione.
Si pensi all’angoscia di sapere che se non si fa bene tutto quando i figli con disabilità sono piccoli  (educazione, terapie, riabilitazione, ecc..) si rischia che la vita adulta (quella sì oscura e lunga)  sia più drammatica. Si pensi alle tante notti in bianco sul destino del loro figlio.

1.2 Non esiste un tempo uguale per tutti i disabili perché nessun disabile è uguale all’altro. La disabilità è parola astratta, esistono persone, ognuna nella propria condizione, diversa anche se afflitta da un medesimo stigma diagnostico. Esistono diverse fasi della vita, diverse opportunità secondo tante variabili, dal reddito familiare, la zona di residenza, e così via.

1.3 Il rapporto tra tempo della scuola e di vita di una persona con disabilità è per natura variabile secondo la condizione hic et nunc di ognuno.  Intanto: i bambini e ragazzi con disabilità che incrociano insieme scuola e terapie non sono tanti come si crede,  in prevalenza negli anni della scuola dell’infanzia (lì il tempo è volatile per tutti, tra malattie frequenti e regressioni di attaccamento) e nel primo ciclo. Riguardano condizioni esistenziali, fisiologiche, neurologiche, di coscienza e di comportamento in genere  gravi se non gravissimi. cioè proprio i  casi in cui  il tempo è determinante, drammatico e pieno di attese. Per ognuno esistono percorsi clinici ed educativi individualizzati, non a caso anche a scuola c’è la necessità di un PEI!

La variabilità scuola/terapia è immensa, nella mia lunga esperienza ne ho viste di tutte i tipi.

C’è il bambino gravissimo che, in carrozzina e in condizione di semiveglia riesce a stare a scuola due ore al giorno, ma la scuola e la famiglia sono felici di offrire spicchi di umanità e  comunità. Cosa volete che importi a babbo e mamma se si farà “matematica” o che voto prenderà? Volete che si preoccupino del tormentone giuridico del cd. “esonero”? Ma via.
C’è il bambino che fa terapia al mattino perché ci sono pochi terapeuti (si sa, no?). E il problema dov’è: nell’eterea e agnostica “norma” della frequenza o non invece di come si correla  il tratto “educativo” e quello “terapeutico”, cioè se i due si parlano, agiscono o no in parallelo, se l’uno supporta l’altro e viceversa? E’ questione “formale” del tempo scuola o non invece questione sostanziale della governance professionale che ci chiede la Legge 328/2000, troppo scordata, e se il PEI e il Progetto di vita sono due facce della stessa medaglia e non invece –come spessissimo accade- due atti che non si incontrano?

E’ nella governance locale che si deve trovare quell’accomodamento ragionevole che ci chiede la dichiarazione ONU del 2006. Cioè fare in modo che i diversi tempi si armonizzino e rispettino i tempi della persona con disabilità, non  quelli dei diversi professionisti, per evitare il più possibile che il bambino perda scuola e il più possibile faccia terapia in tempi necessari.
Ed è proprio questo, come si vedrà avanti, che per la verità suggerisce la Sentenza del Tar!

Ci sono infine quelli che io chiamo (con estrema empatia) i “bambini cattivi”,  con stigmi clinici a sigle forti tipo ADHD o DOP, ecc.. Bambini che creano trambusto, con le famiglie (degli altri) che ne chiedono o sospensione o  trasferimento, e che a volte (per sfinimento) si tengono a casa alcuni giorni per “decongestionare” la crisi  che non è mai di uno ma di tutti.

Insomma il tempo della scuola e il tempo della disabilità sono in natura  un’armonia complessa, a volte drammatica,  e non riesce a stare dentro alcun comma algido valido per tutti.
Dunque, come si fa a trattare un tema così’ delicato con soluzioni radicali e formalistiche?
Posso capire la querelle sulle ore di sostegno date alla scuola se non siano troppe rispetto al tempo reale di frequenza, ma in questo caso sta alla scuola non imbrogliare la richiesta. Come se poi questo tema fosse così vasto e così accanitamente da misurare!

  1. Cosa dice al proposito la Sentenza del Tar

Veniamo ora ad una riflessione attenta alla Sentenza. Ho già detto che a mio avviso la CM Ponticello ha travisato su questo punto.
Ho letto attentamente la Sentenza, ma anche il ricorso del ricorrenti e mi pare di poter dire serenamente quanto segue.
La Sentenza del TAR, tra le varie previsioni presenti nel Decreto annullato in quanto “esorbitanti dalla delega ricevuta” e addirittura “in contrasto con le norme internazionali in materia di tutela della disabilità” , cita la “facoltà di predisposizione di un orario ridotto di frequenza alle lezioni”.
Nel citare questa previsione, al punto 7.2. del documento, utilizza un’espressione che vuol porsi evidentemente quale sintesi del contenuto del ricorso avanzato. Infatti le parole esatte utilizzate per introdurre la questione sono: “Per quanto riguarda gli innovativi istituti contemplati dal decreto impugnato… devono trovare accoglimento le doglianze contenute nella sesta, nella settima e nell’ottava censura del gravame, con particolare riferimento alle previsioni contenute nel decreto impugnato, e nei suoi allegati, relative a:”.
Poi prosegue infatti, sempre allo stesso punto 7.2, elencando le varie questioni, e sintetizzando l’essenza dell’esposto che il Tribunale ha ricevuto registrando le parole dei ricorrenti, tra cui esattamente quelle inerenti la frequenza scolastica.
L’espressione positiva giurisprudenziale è però contenuta nel successivo punto 7.2.1, dove la Corte invita a “garantire la piena inclusione degli studenti disabili, cui la personalizzazione delle misure di sostegno rappresenta lo strumento cardine” nel rispetto delle “norme internazionali di rango pattizio, quali la Convenzione O.N.U. per i diritti delle persone disabili, ratificata dal nostro Paese con la legge n. 18/2009”, che impongono “l’adozione degli adattamenti necessari per assicurare alle persone affette da disabilità il godimento e l’esercizio, in condizione di uguaglianza con gli altri consociati, dei diritti umani e delle libertà fondamentali, in ossequio al principio dell’accomodamento ragionevole”.

In base a tale principio, il TAR esorta al rispetto della ratio in essa contenuto ovvero “che debba essere il contesto, inteso come ambiente, procedure, strumenti educativi ed ausili, a doversi adattare agli specifici bisogni delle persone disabili, e non viceversa.”.
Questa parte della Sentenza è sorprendentemente chiara e di grande spessore propositivo. In sostanza chiede “accomodamenti ragionevoli” non di autorizzare qualsiasi uscita da scuola,  nè  la naja obbligatoria di tutte le ore obbligate a scuola, né chissà quali recuperi di ore.
Ma c’è di più, anche in senso lato erga omnes. Le assenze per terapie e/o prestazioni di natura sanitaria sono sempre ammesse e valgono per tutti gli alunni della scuola italiana; tali regole, sulla base di quanto stabilito dai Collegi docenti, incaricati di “definire i criteri generali e le fattispecie che legittimano la deroga al limite minimo di presenza”, a fronte di “casi eccezionali, certi e documentati” (fra questi sono annoverati: “gravi motivi di salute adeguatamente documentati o terapie e/o cure programmate” (CM 20/2011), non sono quantificate neppure per il raggiungimento del tetto minimo di frequenza finalizzato a rendere valido l’anno scolastico. Tetto che, peraltro, non è previsto nella scuola dell’infanzia e neppure nella scuola primaria.

Anche la questione relativa alla “possibilità di recuperare le ore perdute” è legata a un’espressione ripresa, dal TAR, dall’esposto dei ricorrenti, ma è risolta, nella stessa sentenza, con l’esortazione ad applicare il principio dell’accomodamento ragionevole e non con una ragionieristica e solo quantitativa contabilità. Ove vi siano molte assenze, l’unico discrimine presente in normativa è quello che prevede che il consiglio di classe possa disporre di sufficienti elementi di valutazione ai fini di decidere l’ammissione all’anno scolastico successivo. Altro non c’è.

Davvero non si arriva a capire perché seminare preoccupazioni tra i genitori degli alunni con disabilità quando le assenze per terapie e prestazioni sanitarie sono di fatto consentite e, ove ciò sia necessario, non saranno conteggiate ai fini della validità dell’anno scolastico, coerentemente con quanto stabilito dalla  normativa vigente in materia (DPR 122/2009, Nota Prot. n. 7736, 27 ottobre 2010, CM 20/2011).

Altra questione, invece, è sostenere, com’è giusto, che si dovrebbe evitare, ogni volta che ciò è possibile, di collocare le terapie in orario scolastico. Inoltre deve essere chiaro che quello che il TAR ha bocciato non è la possibilità di assentarsi giustificatamente per i motivi anzidetti ma le “decisioni arbitrarie” di ridurre l’orario scolastico sulla base di motivazioni che possono spaziare dalla necessità di terapie fino alla non programmabile presenza del docente specializzato o altre ancora non indicate e “non indicabili” E aggiungerei a volte indicibili…, comunque connesse alla condizione dell’alunno con disabilità e, quindi, discriminanti. Non è quindi stata proibita neppure la progettazione, da sempre utilizzata nelle migliori pratiche, di percorsi graduali per gestire in flessibilità le particolari situazioni che si devono affrontare, anche dal punto di vista dei tempi, per realizzare il diritto, senza operare però “lesioni a monte” dello stesso. Si deve trattare appunto di progettazione e non di predeterminazione!

Questo è il mio punto di vista, detto serenamente e con onestà intellettuale.