Inclusione e dintorni, a 30 anni dalla legge 104

di Cinzia Mion

Il mio caro amico Reginaldo Palermo, direttore di PavoneRisorse, mi ha posto una domanda cruciale e difficile, cui vorrei provare a rispondere. Mi ha chiesto : come mai in Italia con una storia dell’inclusione che arriva da lontano – con la L.118/1971, ma soprattutto nel 1977 con la famosa L.517 eppoi con la L.104/92 e successive ‘manutenzioni’ – oggi la situazione sta peggiorando invece di migliorare?
La domanda mi sollecita ricordi professionali a bizzeffe ma mi trattengo dal dare loro la stura e cerco di soffermarmi sull’essenziale .
Ricordo degli anni 70 il fervore ideale e l’entusiasmo fermentativo intorno alle grandi discussioni, tra cui la dialettica tra il concetto di normalità/diversità che approderà, nel mondo civile, alla famosa Legge 180/1978, chiamata legge Basaglia, che ha destrutturato l’ospedale psichiatrico di Trieste. Riporto, per chi non avesse vissuto quegli anni , le innovazioni scolastiche che cercheranno di realizzare i dettati costituzionali: in primis l’articolo 3 sull’uguaglianza, stella polare per ogni impegno politico/istituzionale ma nel nostro caso per la Scuola.
Riassumo : la scuola media unica (1962), la legge 820/1971, istitutiva del Tempo Pieno contro lo svantaggio socio-culturale, la legge istitutiva della scuola materna statale (L.444/1968).
La pubblicazione di Lettera a una professoressa di don Milani aprì poi la critica sociopolitica alla ‘valutazione scolastica sommativa tradizionale’ e il Movimento studentesco del ’68 fece da cassa di risonanza a tale critica sottolineando che, se la valutazione scolastica emarginava ed escludeva le fasce più deboli (figli dei contadini e degli operai ), fasce per cui la Costituzione aveva creato il Diritto allo Studio, allora era meglio che non valutasse….
Fu la Legge 517/77 che affrontò sia il problema della valutazione, offrendo l’idea rivoluzionaria della Valutazione formativa, (puntualmente sconfessata fino quasi ai giorni nostri, ma questa è un’altra storia!) sia l’attenzione ai più fragili, con il dettato legislativo che parla non più solo di inserimento nelle classi comuni della scuola dell’obbligo – come fa la L.118/1971 che si riferisce ai soggetti con invalidità lieve, invalidi o mutilati civili, senza però accennare alla didattica speciale – ma si parla di vera e propria attività di integrazione degli alunni con forme di handicap (art.2) abolendo nel frattempo le classi differenziali.

Dall’integrazione all’inclusione.

La legge 517, con l’individuazione di modelli didattici flessibili, l’auspicio delle classi aperte e soprattutto l’arruolamento degli insegnanti specializzati, ha permesso l’affacciarsi lentamente di un progressivo cambiamento dal semplice inserimento all’integrazione. A quel tempo l’integrazione dei soggetti portatori di handicap (definiti successivamente ’diversamente abili’, ora ‘persone con disabilità’) ha costituito un miglioramento rispetto a tutti i bambini, per quanto attiene la formazione dei docenti nei confronti degli aspetti psicopedagogici e didattici. Uno di questi è stata l’attenzione agli stadi di sviluppo piagetiani, precedentemente solo incontrati nei libri, utilizzata per decodificare i dati delle diagnosi. Un altro aspetto è stato l’attivazione dell’attività psicomotoria, precedentemente destinata solo ai bambini disabili, estesa invece in alcuni istituti a tutti i bambini. Questo è avvenuto per esempio nelle scuole del secondo circolo di Conegliano, nel cui territorio sorgeva l’Istituto ‘La nostra Famiglia’, circolo di cui dall’anno 1974 all’anno 1994 sono stata direttrice didattica.


L’integrazione è una parola ‘grossa’ ed impegnativa che ha impiegato molto tempo per realizzarsi. Ha ricevuto pieno riconoscimento dalla L.104/1992 la quale ha promosso l’integrazione per tutti e per ogni ciclo, compresa l’Università. E’ stata questa legge a far intravedere la diversità come valore – a dire il vero già i Nuovi Programmi per la scuola elementare del 1985 avevano sottolineato che le ‘diversità andavano valorizzate, a patto che non fossero a rischio di ‘disuguaglianza’- ed inoltre aveva anche fatto la sua comparsa la necessità che ogni soggetto con disabilità diventasse protagonista della propria vita.

L’INCLUSIONE

La grande novità però è avvenuta con le ‘Linee guida’ sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (4/8/2009). Compare qui infatti il termine INCLUSIONE. Si afferma, a proposito del ruolo del dirigente scolastico, che la riorganizzazione del sistema in funzione di tale finalità rappresenti un’occasione di crescita per ‘tutti’. L’inclusione diventa perciò un valore fondativo, un nuovo assunto culturale. Tralasciamo quelle che sono state le sollecitazioni che sono scaturite da tale importante documento (ICF, progetto di vita, coinvolgimento di tutta la scuola non solo dell’’insegnante di sostegno, ecc) da cui sono scaturite a cascata le altre disposizioni legislative successive(L.170, BES, formazione referente BES, attivazione PAI, ecc).
Il senso profondo del processo di ‘inclusione’ ha fatto man mano però fatica ad affermarsi secondo le intenzioni del legislatore.
Affinchè i processi di tale aspetto valoriale diventassero modalità in grado coinvolgere tutta la comunità educativa del contesto, definita da Coleman ‘capitale sociale’ (famiglie, EELL, associazioni culturali del territorio, ecc) dovevano essere presenti alcune condizioni che vedremo un po’ alla volta invece evaporare.
Si pensava infatti che i processi di inclusione autentica, caratterizzati da una didattica considerata terreno fertile, in grado di far crescere uno spazio di vera e propria educazione alle differenze, valorizzazione solidale e incentivo al raggiungimento delle pari opportunità in tutti i sensi, potesse trasformare, attraverso cerchi concentrici, tutti gli altri sistemi sociali a partire dal sistema scuola (Brofenbrenner). [1]
Proprio qui invece il sistema ha dovuto incontrare molte difficoltà.
Non mi soffermo sull’aumento abnorme delle certificazioni e dei posti di sostegno, sulla progressiva medicalizzazione delle difficoltà di apprendimento di cui molti si sono già occupati in modo egregio. Desidero affrontare il problema delle ‘derive sociali’ che hanno cominciato a depotenziare la spinta verso l’inclusione ed anzi hanno dato il via a strategie di stampo furbesco, diseducative e, direi, soprattutto regressive.

L’individuo senza passioni

Così recita un famoso testo di Elena Pulcini [2] ,la filosofa fiorentina mancata prematuramente, portata via dal Covid. Una delle derive sociali, cui facevo riferimento, è infatti un diffuso individualismo regalatoci inopinatamente da una sbornia di neoliberismo che ci sta affiggendo da quasi trent’anni. Naturalmente questo sfacciato individualismo, accompagnato da altrettanta dilatata indifferenza verso l’altro, non può che portare a ripiegarsi su se stessi, attraverso un autocompiacimento definito narcisismo, come hanno dichiarato recentemente sia Canevaro che Iosa. Per non parlare dell’aumento dell’intolleranza, del razzismo e dell’omofobia. Ce n’è abbastanza per connotare una società di cui tutto possiamo dire tranne che sia benevola, solidale e in grado di stemperare le disuguaglianze, portandoci verso quella che ci stavamo augurando fosse la direzione di una sana inclusione.
Pensavamo che la scuola potesse diffondere all’esterno i suoi valori costituzionali e sta avvenendo invece il contrario. Le derive sociali stanno permeando la scuola che non è più in grado di frapporre una diga, dei filtri, per depennare la responsabilità educativa degli adulti tutti, chiamati in causa senza scusanti . Tutti : genitori e docenti, dirigenti scolastici e tecnici. La responsabilità è di tutti. A partire dai vertici che procedono come se in periferia la situazione corrispondesse alle norme varate. Poi di chi avrebbe il compito ‘istituzionale ed intenzionale’ di educare le giovani generazioni ai valori costituzionali (magari sono gli stessi che in classe predicano l’educazione civica!).
Nessuno può far finta di non sapere che, alla faccia dell’inclusione, sono tornate le classi di serie A e di serie B (per le quali negli anni 60/70 ci siamo battuti tanto!). E non ditemi che non è vero: Dirigenti che si vantano che nei loro Istituti non frequentano né stranieri né disabili! Tutti sanno che la scuola ormai è ritornata una scuola di classe [3] e non solo a partire dall’Orientamento. A partire dall’Inclusione tradita.
Troppo difficile? Certamente. Nessuno ha mai promesso e certificato che fare l’insegnante oggi sia una professione facile. E’ una professione molto difficile ma vivificante. Chi la intraprende deve saperlo. Alcuni tutor universitari, che seguono i docenti per la formazione al sostegno, garantiscono che questi escono preparati a puntino per lavorare per l’Inclusione….Sono gli altri che, contrariamente a quello che ci si aspetta da anni, non hanno ricevuto la formazione iniziale ed in servizio adeguata ad accompagnare questa innovazione .
Che accade infatti? Si afferma che Il sistema si pone come uno schiacciasassi che rimane inesorabilmente impermeabile. Tranne qualche eccezione che per fortuna esiste e che però fatica a poter perseverare ..
Dario Janes, che da sempre si interessa di inclusione, afferma che bisognerebbe rompere gli schemi: del curriculum a tutti i costi, dell’orario, dei ruoli, delle aule…Nemmeno con l’autonomia didattica, approvata nel 2000, calata nella realtà di un sistema scuola con scarsa presenza della cultura progettuale e senza una seria formazione di tutti i docenti, è cambiato molto. L’inclusione dei disabili rimane una cosa separata. Il PAI è accanto al PTOF. La normativa è rimasta solo illusoriamente inclusiva, nei fatti è rimasto un sistema duale, nel quale convivono il modello di scuola per tutti e quello ‘in perenne sperimentazione’ per gli alunni con disabilità. Avere una quantità di risorse dedicate ai disabili, non sempre aiuta l’inclusione, perché, aggiunge Janes, “spesso è proprio l’insegnante di sostegno che si autoesclude dalla classe”. Qualche volta per sopravvivere.

[1] Brofenbrenner U.,(1979)Ecologia dello sviluppo umano, Il Mulino.
[2] Pulcini E., (2001)L’individuo senza passioni. Individualismo moderno
[3] Romito M., (2016)Una scuola di classe. Orientamento e disuguaglianze nelle transizioni scolastiche,Guerini Scientifiche.




La legge 104 ha trent’anni e si vedono tutti

di Flavio Fogarolo

Ho fatto l’insegnante di sostegno negli Anni ’80, quindi prima della 104, e posso assicurare che con questa Legge i passi in avanti sono stati enormi rispetto all’organizzazione, al coinvolgimento delle ASL e dei territori, alla dotazione di risorse e altro. Ma poi tutto è rimasto uguale.
È vero che la 104 è stata spesso aggiornata, ma per quel che riguarda la scuola di fatto è sempre la stessa. Si è intervenuti più sull’università ma rispetto all’inclusione scolastica c’è stato solo il DL 66 del 2017, di fatto mai entrato realmente in vigore.

L’unico decreto attuativo approvato, dei tanti previsti, è stato il DM 182, quello sul nuovo PEI, annullato dal TAR. Varie novità introdotte che hanno modificato la L. 104, come le nuove procedure di certificazione, il Profilo di Funzionamento, i GIT, sono ancora inapplicate e inapplicabili, mentre è formalmente abrogato, creando di fatto un pesante vuoto normativo, l’atto di indirizzo del 1994 (DPR del 24 febbraio) che era alla base di molte procedure della nostra inclusione.
La 104 ha trent’anni e per quel che riguarda la scuola è quindi sempre la stessa, anche se la realtà della nostra inclusione (o “integrazione”, come si diceva allora) è profondamente cambiata.

Cominciamo dai numeri: nel 1992 nelle scuole statali c’erano circa 100.000 alunni con disabilità, 112.000 con le private, che rappresentavano poco più dell’1% della popolazione scolastica complessiva. Adesso sono oltre 300.000 (report ISTAT 2022), quindi triplicati in valore assoluto, ma, considerando che la popolazione scolastica nel frattempo è nettamente diminuita, si arriva ora in percentuale al 3,6%, con un incremento quindi assai più marcato.

Nel 1992 gli insegnanti di sostegno erano circa 50.000, adesso sono 180.000. Anche in questo caso è interessante analizzare il dato percentuale (insegnanti di sostegno sul totale degli insegnanti) e si scopre che, essendo diminuito il corpo docente complessivo, la percentuale di quelli di sostegno è aumentata di oltre 4 volte: erano circa il 6% nel 1992 (50.000 su 800.000) mentre adesso sono il 26% (180.000 su 684.000).

Ma non è solo questione di numeri.

Gli insegnanti di sostegno specializzati di cui parlava la L. 104 nel 1992 erano assai diversi da quelli di adesso. Non si vuole ovviamente colpevolizzare nessuno di loro, ma era evidente che quando il legislatore di allora diceva che “Nelle scuole di ogni ordine e grado […] sono garantite attività di sostegno mediante l’assegnazione di docenti specializzati (art. 13 c. 3)” intendeva che ci dovesse essere qualcuno che sa come si fa a insegnare ad alunni con esigenze diverse, e deve quindi leggere e conoscere il braille se c’è un cieco, comunicare efficacemente con un sordo, rapportarsi in modo adeguato con un alunno con autismo ecc.
Nel 1992 gli insegnanti di sostegno si formavano seguendo sostanzialmente gli stessi percorsi dei docenti delle vecchie scuole speciali, i corsi erano ancora biennali anche se da poco erano diventati “polivalenti”, ossia validi per tutte le minorazioni.
Poi, visto che ciechi e sordi erano pochi e la maggior parte dei docenti specializzati non avrebbe mai insegnato a nessuno di loro, si è pensato bene di eliminare tutti gli insegnamenti specifici rinviando ad altre modalità formative, di fatto mai attivate, le formazioni sulle esigenze particolari.

La 104 del 1992 dava enorme importanza al ruolo delle ASL, chiamate non solo a “certificare” gli alunni con disabilità ma a gestire assieme alla scuola (“congiuntamente” diceva il vecchio comma 5 dell’art 12, abrogato nel 2019) tutto il processo di inclusione, dalla progettazione alla verifica degli esiti.

La reale applicazione negli anni successivi è stata molto diversa, con differenze territoriali enormi per cui in certe regioni d’Italia le ASL, spesso sostituite in toto da soggetti privati in convenzione, nelle scuole non hanno mai messo piede fisicamente e di verifiche neppure a parlarne. Il legislatore nel 2017, con il DL 66 confermato nel 2019, ha pensato bene di adeguarsi a questa situazione eliminando la gestione congiunta, lasciando tutta la responsabilità alle scuole e assegnando all’ASL un generico ruolo di supporto. Di fatto mettendo in crisi il servizio anche nelle regioni dove, nonostante tutto, un supporto effettivo, a base di reali incontri, funzionava ancora.

Le differenze territoriali rappresentano oggi una delle maggiori criticità della nostra inclusione, rivelando quanto sia inattuato l’impegno ad assicurare ovunque i diritti fondamentali. Nei cinque articoli della 104 dedicati all’inclusione scolastica, dal n. 12 al n. 16, il termine “garantito”, o espressioni analoghe, è usato una decina di volte ma la realtà è totalmente diversa: oggi il nostro sistema scolastico non riesce per nulla a “garantire” un servizio adeguato di istruzione e educazione per gli alunni con disabilità, ossia a far sì che in qualsiasi situazione, in ogni scuola l’Italia, il livello delle prestazioni risponda a livelli minimi di erogazione. Ne risulta un quadro molto diversificato, anche nello stesso territorio, con scuole distanti tra loro solo pochi chilometri che possono offrire servizi radicalmente diversi, dall’eccellenza educativa e inclusiva, a forme sistematiche di ghettizzazione dell’alunno disabile e del suo insegnante di sostegno.

Dal 2014 gestisco, con alcuni collaboratori, un gruppo Facebook[1] di consulenza sulla normativa che regola la nostra inclusione scolastica, destinato a insegnanti e genitori, e mi arrivano ogni giorno tante testimonianze allarmanti, con storie di disservizi e di esclusione.

Ne riporto solo una, di pochi giorni fa:

Mio figlio rientra nello spettro autistico, asperger alto funzionamento. Doveva avere 5 ore e mezza di sostegno ma per tutta una serie di circostanze il maestro è stato presente solo il primo mese, poi sospeso ufficialmente a gennaio.
Le maestre non hanno mai seguito le indicazioni della terapista, rendendo il clima pesante… Il bambino è in continuo sovraccarico e si sono manifestati diversi comportamenti “problema” che hanno gestito con note disciplinari.
Di fronte all’ennesima giornata no, ieri all’uscita mi è stato chiesto dalle insegnanti di tenerlo a casa, in quanto la sua presenza a scuola richiede solo una sorveglianza, visto che non vuol più lavorare.
Premetto che a casa o a terapia, a parte la tensione che deriva da questo vissuto scolastico traumatico, è un bambino assolutamente diverso.
È giusta questa richiesta delle insegnanti, di non farlo frequentare? Se non lo vogliono a scuola posso chiedere almeno la DAD?

In sintesi: ci sono genitori che raccontano di un figlio con disabilità, lasciato senza sostegno ma allontanato da scuola perché nessuno lo sa tenere, che chiedono se è possibile avere almeno la DAD.
Cosa è cambiato dal 1992? Vuoi mettere: adesso abbiamo la DAD!

[1] “Normativa inclusione” https://www.facebook.com/groups/1500673850185239




A trent’anni dalla legge 104. Il contributo della mia generazione

di Paolo Fasce

La legge 104 del 5 febbraio 1992 è una pietra miliare nell’ambito della tutela dei diritti delle persone con disabilità e il giorno in cui scrivo questo contributo intellettuale, sociale e civile della generazione che ha preceduto la mia nelle responsabilità operative del paese compie trent’anni.
Quando è stata emanata, Giulio Andreotti era presidente del Consiglio dei Ministri, la maggioranza parlamentare era quella del quadripartito (DC-PSI-PSDI-PLI) e il presidente della Repubblica era, nel suo declinare, Francesco Cossiga.
Il 17 febbraio di quell’anno, Antonio Di Pietro chiedeva l’arresto di Mario Chiesa e quello che si era appena avviato quale anno del centenario della fondazione del Partito Socialista Italiano, si sarebbe sostanzialmente rivelato essere l’ultimo di quella gloriosa esperienza.

Il 5 febbraio 1992 lo scrivente non aveva ancora compiuto 25 anni, non immaginava che sarebbe diventato insegnante e poi dirigente scolastico, progettava il proprio Programma Erasmus e assisteva alla trasformazione della propria città in polo turistico grazie all’esposizione universale delle colombiadi che regalavano il Porto Antico al mondo attraverso le celebrazioni del cinquecentenario della scoperta dell’America.
Scoperta da parte del mondo occidentale, beninteso.
Questa lunga premessa al semplice fine di inquadrare il contesto storico che mostra chiaramente come questo paese abbia viaggiato su due binari.

Quello del malaffare emerso con Tangentopoli, e dal quale stimo non siamo mai usciti, e quello delle questioni alte, affrontate alla luce del dettato costituzionale e sulla spinta della società civile e che ha sostenuto le evoluzioni emerse in seno al pensiero scientifico, in particolare quello pedagogico, accolto e sviluppato dal mondo politico nelle commissioni parlamentari. Un paese di contraddizioni quotidiane, quindi.
Da allora sono passati trent’anni. Il panorama politico della mia gioventù è stato travolto e sostituito da altri pensieri politici e altre modalità di aggregazione che sono intervenute in tutto il mondo non solo a causa dell’avvento della tecnologia, ma anche per evoluzioni socio culturali che la realtà ci costringe ad affrontare. Spesso, lo stile è di tipo oppositivo, accondisceso e accolto da forze politiche ciniche a caccia di facile consenso, e l’uscita da logiche reattive non è facile sia per limiti personali che per l’insieme di relazioni entro le quali ciascuno di noi è inserito.
Trent’anni non sono passati invano, almeno nel mondo scolastico, e la lettura della Legge 104 effettuata oggi è significativa e istruttiva. Se da un lato è un approdo alto della “prima Repubblica”, figlio di evoluzioni che partono con la Costituzione, attraversano la scuola media unica (1962) e la chiusura delle classi differenziali (1971-1977), d’altro canto il suo lessico è oggi irritante perché quanto oggi conosciamo grazie all’ICF sembra tanto distante da quel vocabolo tante volte utilizzato: handicappati. Oggi parliamo di persone con disabilità che apprezziamo in molti campi, come ad esempio quello delle paralimpiadi, ma che continuiamo a celare per difficoltà che spesso non riusciamo a superare nel campo della disabilità mentale e comportamentale.
Nel contesto dei contributi che le generazioni successive a quelle della “prima Repubblica”, non possiamo tralasciare le linee guida sull’inclusione scolastica del 2009, né la Legge 170 sui DSA e le circolari successive che hanno introdotto il tema dei bisogni educativi speciali e non possiamo che essere orgogliosi del comma 961 della Legge 178/2020 che istituisce la formazione finalmente obbligatoria, per davvero, per tutti gli/le insegnanti con studenti o studentesse disabili, in questo caso orientata all’inclusione scolastica: “Il fondo …, è incrementato di 10 milioni di euro per l’anno 2021 destinati alla realizzazione di interventi di formazione obbligatoria del personale docente impegnato nelle classi con alunni con disabilità. Tale formazione è finalizzata all’inclusione scolastica dell’alunno con disabilità e a garantire il principio di contitolarità nella presa in carico dell’alunno stesso”.
Dico “finalmente obbligatoria” giacché il comma 124 della Legge 107 che istituiva la formazione “obbligatoria, permanente e strutturale” è svuotato di senso per il fatto che la delibera in merito alla sua attuazione è demandata al generalmente riottoso Collegio dei Docenti che, con grave danno per il credito sociale dei docenti e per la crescita professionale possibile in trenta/quarant’anni di carriera sui temi didattici e pedagogici alla portata di qualunque “ingenuo volenteroso”, si pensa più come Assemblea Sindacale che come consesso di professionisti.
Vediamo quindi quali sono i contributi che la mia generazione è chiamata a dare per restare nella tradizione alta della “pedagogia ministeriale e normativa” incarnata dalla legislazione oggi vigente, con un occhio sulla scuola e uno sulla 104.
Per quel che riguarda la prima, stante l’evidente indisponibilità sindacale a convergere verso una scuola pedagogica, giacché i contratti che questi sono disponibili a firmare sono mediazioni al ribasso centrate sulle esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori, a detrimento delle necessità dell’utenza, scaricando le contraddizioni evidenti, sui poveri dirigenti scolastici che dovrebbero essere selezionati unicamente sulle loro capacità di moral suasion, giacché raramente hanno a disposizione altri strumenti.
La soluzione di questo grave problema è chiara ed è tutta politica: occorre riscrivere il testo unico figlio dei “decreti delegati” e che nella versione vigente compirà 30 anni a breve (ma ne ha di fatto cinquanta). Tale soluzione ci è indicata proprio dalla Legge 178 che ha reso diffusamente possibile quella formazione necessaria ed elusa per molti lustri da chi non volesse esserne coinvolto.
Per quel che riguarda gli aggiornamenti della Legge 104, mi sento di indicare solo alcuni ritocchi estetici (una riscrittura in linguaggio moderno e non lesivo delle persone) e pochi sostanziali. In particolare quelli che affrontino il grave problemi degli abusi in merito ai permessi che sono tanto doverosi nei casi realmente aventi diritto, quanto osceni negli abusi che è troppo difficile fare emergere.
Fatto questo, la mia generazione potrà passare serenamente il testimone alle donne e agli uomini del nuovo millennio.




Inclusione: forse per i dirigenti amministrativi ci vorrebbero 24 CFU

di Mario Maviglia

 Due interessanti e puntuali articoli scritti dall’amico e collega Raffaele Iosa e pubblicati su queste pagine (Nuovo PEI annullato: azzeccagarbugli e scuole in difficoltà, 16/09/2021; Il tempo della scuola; il tempo della disabilità, 20/09/2021), mi offrono lo spunto per analizzare un aspetto implicitamente presente nei due contributi (soprattutto nel secondo), che merita di essere ulteriormente approfondito e disvelato. Mi riferisco all’equilibrio che vi deve essere, nelle norme riguardanti l’inclusione scolastica, tra gli aspetti amministrativi e quelli pedagogici.
Raffaele Iosa fa un’analisi molto calzante sul significato del tempo all’interno della disabilità, un tempo segnato da attese, da terapie spesso coincidenti con il tempo delle lezioni, dalle tante angosce per un tempo che scappa via e che proietta il disabile in un’età adulta (vero banco di prova per i processi inclusivi in una società matura) carica di incognite e di preoccupazioni, soprattutto per i genitori.

Se non si tengono presenti questi aspetti di carattere pedagogico e sociale, il tempo diventa una qualsiasi nozione burocratica, sganciata dalla specifica realtà delle persone disabili (persone, prim’ancora che disabili) ed allora si entra nei meandri asfittici ed impersonali del diritto amministrativo, che tutto omogeneizza e rende opaco. In parte è quanto avviene con la CM 2044 del 17/09/2021 che fornisce indicazioni operative alle scuole dopo la sentenza del TAR Lazio del 13/09/2021 che annulla il nuovo PEI introdotto con DI 182 del 29/12/2020.

Ci vogliono competenze giuridiche adeguate per condurre un’esegesi dell’intera vicenda; ma qui vogliamo fare un discorso più generale riguardante lo stretto intreccio che dovrebbe esserci tra la dimensione giuridico-amministrativa e quella psicopedagogica, soprattutto in un campo come quello dell’inclusione dei disabili a scuola. E allora, mentre possiamo immaginare che il management ministeriale abbia una certa preparazione a districarsi all’interno della materia giuridico-amministrativa (anche se la vicenda della sentenza del TAR citata sopra fa nascere qualche dubbio in proposito), c’è da chiedersi che tipo di competenze abbia per interpretare in modo adeguato i fenomeni pedagogici. E d’altro canto, se non si hanno competenze anche in questo campo si rischia di trattare la materia dell’inclusione alla stessa stregua dell’adozione dei libri di testo o delle tasse scolastiche.

Ed ecco perché, provocatoriamente (ma non tanto), bisognerebbe prevedere che la direzione di uffici così delicati per la vita di tante persone con problematiche di questa rilevanza, venisse affidata a dirigenti amministrativi che abbiano acquisito almeno 24 CFU nel campo della pedagogia e della psicopedagogia. D’altro canto, all’insegnante di sostegno viene richiesta la conoscenza degli aspetti giuridico-amministrativi dell’inclusione, oltre che specifiche competenze in campo psicopedagogico; perché questo non dovrebbe avvenire anche nei confronti di chi ha responsabilità dirigenziali in questo campo?

L’intreccio tra queste due dimensioni oggi appare molto labile se non inesistente e i risultati (negativi) si vedono. Se proprio non si vuole accogliere questa misura così “rivoluzionaria”, si tenti almeno di attenuare gli eventuali effetti perversi delle norme adottando due concomitanti interventi: a) prima dell’emanazione di una norma fare sempre un esame dell’impatto che questa avrà sulla popolazione di riferimento, una sorta di VIA (Valutazione Impatto Ambientale), per prevedere gli effetti sul piano organizzativo, relazionale e curricolare della norma e la sua sostenibilità per la popolazione e le istituzioni di riferimento (ovviamente ciò presuppone una grande capacità di decentramento da parte del decisore di turno che, forse, non è contemplata dai manuali di diritto amministrativo…); b) sempre nella fase istruttoria ed elaborativa della norma, e comunque prima della sua emanazione, richiedere una consulenza con esperti del settore (i dirigenti tecnici servono ancora a qualcosa?) per un riscontro sul piano psicopedagogico delle misure contenute nel provvedimento e la loro coerenza con il senso profondo dell’inclusione, e non solo il mero rispetto formale della norma. In altre parole, ci vorrebbe un maggior rispetto verso le istituzioni scolastiche e i suoi protagonisti, e soprattutto verso gli attori principali dell’azione educativa, ossia gli allievi, in modo particolare quando questi sono allievi che seguono percorsi di crescita non omologabili. Il principio inclusivo dell’accomodamento ragionevole di cui parla la Dichiarazione ONU 2006 dovrebbe ispirare anche l’attività amministrativa in materia, lontana quindi da quelle pastoie da leguleio che spesso la caratterizzano.




Il tempo della scuola, il tempo della disabilità

di Raffaele Iosa

Mi sento obbligato a riprendere l’analisi delle querelle nate dalla recente sentenza del TAR Lazio del 13 settembre che annulla il DM 182, detto del Nuovo Pei.

In un recente articolo del 15 settembre (Azzeccagarbugli e nuovo PEI) ho già dato una valutazione complessiva delle Sentenza, del Decreto annullato e gli effetti nel presente e nel prossimo futuro.

Ho lì scritto sulla dura lezione prodotta dalla Sentenza sul modo di produrre normazione secondaria da parte del Ministero, su un Decreto troppo militarizzato e bulimico di ordini, sulla “crisi” dell’ICF che come un’araba fenice c’è e non c’è. Sento tensione, e accese incomprensioni se non litigi tra  diversi esperte di inclusione, che determinano sconcerto negli insegnanti e nelle famiglie.  C’è confusione, che non fa bene al futuro del tema PEI e dintorni, né ad una  serena e più sobria ricomposizione della questione, con il rischio che il tutto slitti alle calende greche.

C’è però una ragione per cui mi sento in dovere di riprendere il discorso e riguarda  la CM n. 2044 del 17.09.2021 a firma del dg. Ponticello che invia  prime indicazioni  di comportamento alle scuole per via degli effetti della sentenza del TAR Lazio.
Una circolare necessaria, ovviamente, ma che a mio avviso contiene un travisamento della Sentenza e un irrigidimento non richiesto sul tema (delicatissimo) del tempo di frequenza da scuola degli alunni con disabilità.

La frase che mi pare discutibile è la seguente:

Non può essere previsto un orario ridotto di frequenza alle lezioni dovuto a terapie e/o prestazioni di natura sanitaria – con conseguente contrasto con le disposizioni di carattere generale sull’obbligo di frequenza – in assenza di possibilità di recuperare le ore perdute”.

Temo che anche in questo caso, per contrasto degli opposti col prima,  il Ministero esageri.

  1. Il tempo della disabilità

Prima di precisare  cosa a mio avviso la Sentenza del Tar Lazio dica su questo tema, è utile un approfondimento pedagogico, altrimenti non comprendiamo la complessità di questo argomento.

  • Il tempo per una persona con disabilità è questione importante, delicata e complessa.

Si pensi alle attese per i dolorosi e lunghi tempi di attesa per visite, terapie; o il tanto tempo a cercare, da parte delle famiglie, aiuto, comprensione, proposte, attenzione.
Si pensi all’angoscia di sapere che se non si fa bene tutto quando i figli con disabilità sono piccoli  (educazione, terapie, riabilitazione, ecc..) si rischia che la vita adulta (quella sì oscura e lunga)  sia più drammatica. Si pensi alle tante notti in bianco sul destino del loro figlio.

1.2 Non esiste un tempo uguale per tutti i disabili perché nessun disabile è uguale all’altro. La disabilità è parola astratta, esistono persone, ognuna nella propria condizione, diversa anche se afflitta da un medesimo stigma diagnostico. Esistono diverse fasi della vita, diverse opportunità secondo tante variabili, dal reddito familiare, la zona di residenza, e così via.

1.3 Il rapporto tra tempo della scuola e di vita di una persona con disabilità è per natura variabile secondo la condizione hic et nunc di ognuno.  Intanto: i bambini e ragazzi con disabilità che incrociano insieme scuola e terapie non sono tanti come si crede,  in prevalenza negli anni della scuola dell’infanzia (lì il tempo è volatile per tutti, tra malattie frequenti e regressioni di attaccamento) e nel primo ciclo. Riguardano condizioni esistenziali, fisiologiche, neurologiche, di coscienza e di comportamento in genere  gravi se non gravissimi. cioè proprio i  casi in cui  il tempo è determinante, drammatico e pieno di attese. Per ognuno esistono percorsi clinici ed educativi individualizzati, non a caso anche a scuola c’è la necessità di un PEI!

La variabilità scuola/terapia è immensa, nella mia lunga esperienza ne ho viste di tutte i tipi.

C’è il bambino gravissimo che, in carrozzina e in condizione di semiveglia riesce a stare a scuola due ore al giorno, ma la scuola e la famiglia sono felici di offrire spicchi di umanità e  comunità. Cosa volete che importi a babbo e mamma se si farà “matematica” o che voto prenderà? Volete che si preoccupino del tormentone giuridico del cd. “esonero”? Ma via.
C’è il bambino che fa terapia al mattino perché ci sono pochi terapeuti (si sa, no?). E il problema dov’è: nell’eterea e agnostica “norma” della frequenza o non invece di come si correla  il tratto “educativo” e quello “terapeutico”, cioè se i due si parlano, agiscono o no in parallelo, se l’uno supporta l’altro e viceversa? E’ questione “formale” del tempo scuola o non invece questione sostanziale della governance professionale che ci chiede la Legge 328/2000, troppo scordata, e se il PEI e il Progetto di vita sono due facce della stessa medaglia e non invece –come spessissimo accade- due atti che non si incontrano?

E’ nella governance locale che si deve trovare quell’accomodamento ragionevole che ci chiede la dichiarazione ONU del 2006. Cioè fare in modo che i diversi tempi si armonizzino e rispettino i tempi della persona con disabilità, non  quelli dei diversi professionisti, per evitare il più possibile che il bambino perda scuola e il più possibile faccia terapia in tempi necessari.
Ed è proprio questo, come si vedrà avanti, che per la verità suggerisce la Sentenza del Tar!

Ci sono infine quelli che io chiamo (con estrema empatia) i “bambini cattivi”,  con stigmi clinici a sigle forti tipo ADHD o DOP, ecc.. Bambini che creano trambusto, con le famiglie (degli altri) che ne chiedono o sospensione o  trasferimento, e che a volte (per sfinimento) si tengono a casa alcuni giorni per “decongestionare” la crisi  che non è mai di uno ma di tutti.

Insomma il tempo della scuola e il tempo della disabilità sono in natura  un’armonia complessa, a volte drammatica,  e non riesce a stare dentro alcun comma algido valido per tutti.
Dunque, come si fa a trattare un tema così’ delicato con soluzioni radicali e formalistiche?
Posso capire la querelle sulle ore di sostegno date alla scuola se non siano troppe rispetto al tempo reale di frequenza, ma in questo caso sta alla scuola non imbrogliare la richiesta. Come se poi questo tema fosse così vasto e così accanitamente da misurare!

  1. Cosa dice al proposito la Sentenza del Tar

Veniamo ora ad una riflessione attenta alla Sentenza. Ho già detto che a mio avviso la CM Ponticello ha travisato su questo punto.
Ho letto attentamente la Sentenza, ma anche il ricorso del ricorrenti e mi pare di poter dire serenamente quanto segue.
La Sentenza del TAR, tra le varie previsioni presenti nel Decreto annullato in quanto “esorbitanti dalla delega ricevuta” e addirittura “in contrasto con le norme internazionali in materia di tutela della disabilità” , cita la “facoltà di predisposizione di un orario ridotto di frequenza alle lezioni”.
Nel citare questa previsione, al punto 7.2. del documento, utilizza un’espressione che vuol porsi evidentemente quale sintesi del contenuto del ricorso avanzato. Infatti le parole esatte utilizzate per introdurre la questione sono: “Per quanto riguarda gli innovativi istituti contemplati dal decreto impugnato… devono trovare accoglimento le doglianze contenute nella sesta, nella settima e nell’ottava censura del gravame, con particolare riferimento alle previsioni contenute nel decreto impugnato, e nei suoi allegati, relative a:”.
Poi prosegue infatti, sempre allo stesso punto 7.2, elencando le varie questioni, e sintetizzando l’essenza dell’esposto che il Tribunale ha ricevuto registrando le parole dei ricorrenti, tra cui esattamente quelle inerenti la frequenza scolastica.
L’espressione positiva giurisprudenziale è però contenuta nel successivo punto 7.2.1, dove la Corte invita a “garantire la piena inclusione degli studenti disabili, cui la personalizzazione delle misure di sostegno rappresenta lo strumento cardine” nel rispetto delle “norme internazionali di rango pattizio, quali la Convenzione O.N.U. per i diritti delle persone disabili, ratificata dal nostro Paese con la legge n. 18/2009”, che impongono “l’adozione degli adattamenti necessari per assicurare alle persone affette da disabilità il godimento e l’esercizio, in condizione di uguaglianza con gli altri consociati, dei diritti umani e delle libertà fondamentali, in ossequio al principio dell’accomodamento ragionevole”.

In base a tale principio, il TAR esorta al rispetto della ratio in essa contenuto ovvero “che debba essere il contesto, inteso come ambiente, procedure, strumenti educativi ed ausili, a doversi adattare agli specifici bisogni delle persone disabili, e non viceversa.”.
Questa parte della Sentenza è sorprendentemente chiara e di grande spessore propositivo. In sostanza chiede “accomodamenti ragionevoli” non di autorizzare qualsiasi uscita da scuola,  nè  la naja obbligatoria di tutte le ore obbligate a scuola, né chissà quali recuperi di ore.
Ma c’è di più, anche in senso lato erga omnes. Le assenze per terapie e/o prestazioni di natura sanitaria sono sempre ammesse e valgono per tutti gli alunni della scuola italiana; tali regole, sulla base di quanto stabilito dai Collegi docenti, incaricati di “definire i criteri generali e le fattispecie che legittimano la deroga al limite minimo di presenza”, a fronte di “casi eccezionali, certi e documentati” (fra questi sono annoverati: “gravi motivi di salute adeguatamente documentati o terapie e/o cure programmate” (CM 20/2011), non sono quantificate neppure per il raggiungimento del tetto minimo di frequenza finalizzato a rendere valido l’anno scolastico. Tetto che, peraltro, non è previsto nella scuola dell’infanzia e neppure nella scuola primaria.

Anche la questione relativa alla “possibilità di recuperare le ore perdute” è legata a un’espressione ripresa, dal TAR, dall’esposto dei ricorrenti, ma è risolta, nella stessa sentenza, con l’esortazione ad applicare il principio dell’accomodamento ragionevole e non con una ragionieristica e solo quantitativa contabilità. Ove vi siano molte assenze, l’unico discrimine presente in normativa è quello che prevede che il consiglio di classe possa disporre di sufficienti elementi di valutazione ai fini di decidere l’ammissione all’anno scolastico successivo. Altro non c’è.

Davvero non si arriva a capire perché seminare preoccupazioni tra i genitori degli alunni con disabilità quando le assenze per terapie e prestazioni sanitarie sono di fatto consentite e, ove ciò sia necessario, non saranno conteggiate ai fini della validità dell’anno scolastico, coerentemente con quanto stabilito dalla  normativa vigente in materia (DPR 122/2009, Nota Prot. n. 7736, 27 ottobre 2010, CM 20/2011).

Altra questione, invece, è sostenere, com’è giusto, che si dovrebbe evitare, ogni volta che ciò è possibile, di collocare le terapie in orario scolastico. Inoltre deve essere chiaro che quello che il TAR ha bocciato non è la possibilità di assentarsi giustificatamente per i motivi anzidetti ma le “decisioni arbitrarie” di ridurre l’orario scolastico sulla base di motivazioni che possono spaziare dalla necessità di terapie fino alla non programmabile presenza del docente specializzato o altre ancora non indicate e “non indicabili” E aggiungerei a volte indicibili…, comunque connesse alla condizione dell’alunno con disabilità e, quindi, discriminanti. Non è quindi stata proibita neppure la progettazione, da sempre utilizzata nelle migliori pratiche, di percorsi graduali per gestire in flessibilità le particolari situazioni che si devono affrontare, anche dal punto di vista dei tempi, per realizzare il diritto, senza operare però “lesioni a monte” dello stesso. Si deve trattare appunto di progettazione e non di predeterminazione!

Questo è il mio punto di vista, detto serenamente e con onestà intellettuale.




“Nuovo PEI” annullato: azzeccagarbugli e scuole in difficoltà

Disegno di alunna del primo anno della primaria di Vistrorio (TO)

di Raffaele Iosa

Il TAR Lazio il 14 settembre scorso ha letteralmente annullato il Decreto interministeriale n. 182 del 29.12.2020 e le linee guida allegate,  chiamato in gergo del ”Nuovo PEI” per gli studenti con disabilità. Un testo molto atteso e su cui molti hanno lavorato in questi mesi.

A chi conosce poco le tecniche giuridiche di normazione secondaria (cioè quelle delle amministrazioni in applicazione di una legge) o non è esperto di disabilità può sfuggire la gravità di un evento di questo tipo, che è a modo suo eccezionale ed irrituale.

Naturalmente la sentenza ha fatto clamore per ora solo in quei pochi che o per mestiere o per destino si occupano di disabilità.
Ma c’è di più: sia le associazioni di disabili ricorrenti (ovviamente contente) sia quelle che avevano in un qualche modo condiviso il Decreto (ovviamente preoccupate) stanno in queste ore gettando acqua sul fuoco, sostenendo che in fondo non cambierà molto, che ci sono già gli strumenti per continuare nella migliore prassi possibile finora attuata.
E’ nelle cose che il Ministero ricorrerà al Consiglio di Stato per una diversa sentenza o comunque un atto di “emergenza” per salvare il salvabile. In attesa delle prossime puntate, però, una riflessione senza veli è necessaria, perché è mia opinione che per quanta acqua si butti su questo incidente, la vicenda invece butta molta benzina sul fuoco in una fase di gestione dell’inclusione scolastica sempre più turbolenta, litigiosa e confusa non solo sul piano amministrativo ma anche (e soprattutto) pedagogico, che ha già avuto negli anni Covid tante dolorose difficoltà. Quanto meno accentua l’incertezza, delude chi si aspetta soluzioni di qualità. Dopo centinaia di webinar, conferenze, libri e articoli prevalentemente apologetici, chi si fiderà più di quale norma, regola o articolo seguire nella prassi inclusiva?

Una sentenza del TAR erga omnes, una rarità

 Una breve spiegazione è utile per comprendere la gravità della sentenza. Per prassi il TAR interviene sugli atti amministrativi accettando o respingendo i ricorsi dei singoli soggetti che ritengano leso un qualche diritto/interesse per presunti errori o inadempienze. Dunque una sentenza è in genere valida per il singolo caso/soggetto trattato.
Questa volta invece il TAR Lazio, con una lunga premessa giuridica (provate a leggerla, è quasi arabo, ma fidatevi) sostiene una tesi suffragata da pronunciamenti del Consiglio di Stato e della Suprema Corte, per cui si attribuisce la piena titolarità di annullare erga omnes e subito per tutti un intero Decreto Ministeriale!
Nella mia lunga esperienza di ispettore e responsabile anche di uffici inerenti l’inclusione non ricordo un evento simile. Dunque è una cosa seria, molto seria.

Perché l’annullamento del Decreto

Vediamo le due principali motivazioni della sentenza di annullamento.

1.La prima motivazione è che il Decreto 182 l’ha fatta fuori dal vaso, ha cioè normato e prescritto regole che non avevano la delega da parte della Legge 107/15 in quei commi  (c. 180 e segg..) in cui si definivano atti delegati e amministrativi su importanti questioni per la qualificazione dell’inclusione scolastica.  Dunque cosette tipo “abuso di potere”. Beh, niente male!

2. La seconda motivazione, più delicata e tecnica, è di aver introdotto il Nuovo PEI senza che fosse completato un altro decreto delegato richiesto dalla Legge 107 inerente il Profilo di funzionamento secondo l’ICF (classificazione internazionale della funzionalità), che nella logica dei processi di inclusione precede obbligatoriamente la produzione del PEI.
Come noto ai più, il PEI si basava prima sulla diagnosi funzionale e sul profilo dinamico funzionale, strumenti clinici di carattere multiassiale, indispensabili prima di costruire un buon piano educativo.

Al posto della diagnosi funzionale e del PDF la Legge 107 prevede appunto l’ICF e il conseguente “profilo di funzionamento”, una delle novità più significative a livello internazionale per una conoscenza più evoluta della persona con disabilità in chiave bio-psico-sociale,  non solo meramente clinica.
Ma c’è di più. Il Decreto 182 nell’ammettere l’assenza ancora degli atti inerenti l’utilizzo dell’ICF per colpa (come altro chiamarla dopo sei anni dalla Legge?) del Ministero Sanità, indicava l’utilizzo “nelle more” ancora delle vecchie diagnosi funzionali e PDF. Ma c’è di più ancora: nella parte inerente la richiesta di ore di sostegno da parte della scuola (o meglio dal cd. GLO) si inserivano categorie interpretative desunte (solo desunte) dall’ICF chiamate “dimensioni di funzionamento” (sono tre nell’ICF, ma poi nel Decreto diventano…quattro) per ognuna delle quali per ogni alunno con disabilità la scuola propone un “range” di ore di sostegno necessarie.
La somma minima o massima dei quattro range presentati componeva il totale di ore di sostegno settimanali richieste, entro cui l’amministrazione decide l’assegnazione.

Il tutto senza che dalla Sanità arrivassero gli atti di gestione dell’ICF nelle strutture sanitarie deputate. Il complicato metodo di calcolo delle ore di sostegno, peraltro, cercherebbe di razionalizzare il rapporto tra domanda della scuola e offerta dell’amministrazione di ore di sostegno, e si augurava così di superare la iattura delle tante cause presentate dai genitori (soprattutto quelli art. 3 comma 3 –gravi- della Legge 104/92) che in genere grossolanamente impongono all’amministrazione (senza tanti discorsi pedagogici) il rapporto 1:1. Che come noto non è mai un 1:1 sul tempo di scuola dell’alunno ma una cattedra di 25, 22,18 ore settimanali di sostegno secondo gli ordini di scuola.
Un metodo contraddittorio e alla lunga (e paradossalmente) fonte di iniquità distributiva.

Ma proprio questa parte del Decreto, così delicata ed innovativa, non aveva alcun supporto giuridico e soprattutto tecnico-scientifico in assenza della normazione sul Profilo di funzionamento ICF da parte del Ministero Sanità. Dunque il Ministero istruzione l’ha fatta davvero fuori dal vaso.

Tra le righe, ho letto in anteprima l’unica bozza di decreto preparato finora dal Ministero Sanità, un testo sconcertante, confuso e del tutto fuori tema, che è già stato oggetto di conflitto tra i due Ministeri.
Dunque siamo per l’ICF ancora in pieno alto mare, perfino burrascoso.

Dunque poteva il Ministero Istruzione decidere come fare il PEI prima di questo (nella logica procedurale) precedente atto per la certificazione di disabilità e l’inclusione scolastica?

Se qualcuno fa fatica a seguire lo capisco.  Si tratta di questioni di lana caprina o di merito vero? Insomma roba da azzeccagarbugli o temi strategici?  Purtroppo c’è materia per soffrire.

La sentenza poi si sofferma su altre questioni critiche più specifiche, tra cui il termine “esonero” presente nelle linee guida, che aveva prodotto vive discussioni tra le associazioni e gli insegnanti.
Un normale lettore si chiederà cosa c’è sotto questo clamoroso svarione.
C’è, purtroppo, una crisi della politica che non dà stabilità ai Governi (tre ministri in questa legislatura), c’è un’amministrazione che lavora a vista, c’è un’iper-produzione di testi amministrativi super regolatori che dimenticano l’autonomia delle scuole nella didattica e nell’organizzazione, c’è ormai nella disabilità (come in altri luoghi delle rappresentanze) una litigiosità e una continua richiesta di regolazioni rigide per la sfiducia su un sistema scolastico in affanno.
Io ad esempio ho subito interpretato il Decreto come una “militarizzazione” dell’inclusione, con una serie di minuzie regolativa esagerate che rispondono ad un’idea di “giuridizzazione” dell’inclusione, cioè che basti il comma e l’articolo perché tutto vada bene.
Tutte frutto di “trattative” in tempi di forte conflittualità.

Per lunga esperienza, so invece che le norme debbono dire lo stretto necessario e dare fiducia alla pedagogia e all’autonomia delle scuole. Così le tante pressioni delle associazioni, il disinteresse dei sindacati (se non toccano l’orario degli insegnanti…), e forse anche (mi si dice) il desiderio della ministra Azzolina (già insegnante di sostegno) di mettere il sigillo su questo importante atto, hanno prodotto un testo sovrabbondante, che non fa mai riferimento all’autonomia delle scuole (DPR 275/99 remember), ma produce l’ingessatura di procedimenti pesanti e complicati. Posso persino pensare alla buona fede o alla voglia di produrre, ma al livello di un Ministero ciò che conta è la competenza raffinata nel produrre norme evitando errori, la saggezza di saper fare correttamente tutti i passi necessari senza ricerca per forza del consenso ma del buon senso, per un ministro l’equilibrio di governo con azioni in cui si opera armonicamente tra diversi dicasteri. Insomma di evitare pasticci come questo.

Ma chi pagherà questo guaio? Tutti innocenti?

A proposito dell’esonero

La sentenza del TAR si sofferma su un tema che mi sta a cuore, e su cui in conclusione evidenzio la mia critica verso un Decreto sovrabbondante e militarizzato, poco pedagogico molto legalistico.
Il TAR considera grave che nel Decreto si chieda in tutti i PEI le discipline in cui un alunno con disabilità sia esonerato per i più svariati motivi. Il termine, ammettiamo è sgradevole, ma è anche fuori luogo.
I presentatori del ricorso l’hanno chiamato discriminatorio e a rischio di legittimare questi esoneri. Eppure questo aspetto, certamente sgradevole, e che sembra messo più per calcolare le ore di sostegno che per elementi pedagogici, nasconde un vulnus che riflette su quanta confusione vi sia oggi nelle scuole circa l’idea di curricolo. E quanto si siano scordarti gli articoli dal 4 all’8 del Regolamento autonomia DPR 275/99.
L’esonero messo nel testo rivela la mancanza di conoscenza (e promozione) di un’idea di curricolo non spezzettato in discipline separate l’una dall’altra. Ricordo, in più, che dalla scuola dell’infanzia alla terza media non esistono le discipline in senso separato ma le “indicazioni nazionali” entro cui ogni curricolo di scuola può avere mescolamenti, integrazioni, interdisciplinarietà, specificità le più ricche e diverse.
Ricordo in più che ogni alunno con disabilità ha il “suo curricolo” nel PEI e che su questo verrà valutato non sulle discipline in senso stretto. E’ proprio questa la qualità dell’autonomia, perché garantisce flessibilità a tutti gli alunni, non solo a quelli con disabilità.  Dunque l’esonero non esiste, se non nei docenti vecchio stampo della lezione frontale, del manuale e dell’interrogazione. Per questo la parola “esonero” mal posta nel Decreto dimostra anche un’ignoranza e una speranza sul valore profondo dell’autonomia didattica, che ricordo è norma di rango costituzionale.
L’esonero non esiste, esistono le attività che l’alunno realizza nella flessibilità didattica auspicata e prevista dall’autonomia. Dunque una richiesta sbagliata dal punto di vista pedagogico ma che riflette un’idea tradizionalista di scuola pre-autonomia. Diverso, ma solo in parte, è il tema nel secondo ciclo, ma qui l’inclusione è nata per sbaglio (una sentenza della Suprema Corte) e mai compresa fino in fondo in rapporto all’autonomia.

Errori di questo tipo sono frequenti nella normazione sia di legge che ministeriale.  Cito al proposito la grave dizione di “dispensativo” e “compensativo” presente nella Legge 170/2010 quella degli alunni DSA dove la legge “obbliga per diritto” ad avere azioni didattiche “speciali” che speciali non sono ma sarebbero già previste (per tutti) già dalla flessibilità didattica del DPR 275/99.
Ma questa flessibilità è gesto pedagogico di consapevolezza, mentre la dizione della Legge 170 produce una “contrattazione” continua tra famiglia e scuola su “quanta dispensa” e “come compensa” perché fondata su un diritto astratto. Invece dispensa e compensa sono opportunità pedagogiche che è necessario pensare per tutti gli alunni, qualora serva, ma con la coscienza e la deontologia didattica dell’insegnante caso per caso, non sotto la mannaia di avvocati e cause.




Ripensare lo Stato sociale dalle fondamenta: dalle leggi di fine anni ’70 al Terzo settore.

di Paola Di Michele

 

C’è un quadro bellissimo, arcinoto, di Pellizza Da Volpedo che rappresenta il Terzo Stato in marcia. Fatto di gente povera, vestita male ma con lo sguardo dignitoso e deciso proteso al futuro di chi cerca di conquistare il proprio pezzetto di dignità. E c’è un movimento nascente di lavoratori, operatori del sociale, che comincia adesso a prendere coscienza di condizioni lavorative diventate ormai al limite della sopportazione.
Per capirci, mi riferisco alle Cooperative Sociali di tipo A, cui l’ISTAT assegna un totale di lavoratori di circa 380.000 unità, per un indotto di più di 8 miliardi di euro, e che si suddivide in servizi scolastici educativi, servizi domiciliari socioassistenziali, socioeducativi, sociosanitari, centri diurni, centri di accoglienza, case-famiglia, nidi, e altro. Fondi che lo Stato stanzia alle Cooperative Sociali e che per meno della metà giungono nelle mani dei lavoratori.

Facciamo un piccolo passo indietro. Quando nasce questa situazione? Alla fine degli Anni Settanta, in un lasso di tempo brevissimo, appena un biennio, si può collocare la nascita del moderno Stato Sociale in Italia.
A fare da spartiacque sono una serie di leggi: la Legge 517/77, che abolisce le classi differenziali nelle scuole italiane e introduce le figure dell’insegnante di sostegno e dell’assistente all’autonomia e la comunicazione; la Legge 833/78, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, introducendo un modello universale di tutela della salute, intesa come stato di «completo benessere psico-fisico», perseguendo gli obiettivi di equità, partecipazione democratica, globalità degli interventi, coordinamento tra le Istituzioni, attraverso la territorializzazione dei servizi di assistenza sanitaria (oggi ASL); la Legge 180/78, cosiddetta “Legge Basaglia”, che abolisce le strutture manicomiali, e rimane riforma a metà anche a causa della morte dello stesso Basaglia che la voleva più compiuta, con le strutture territoriali di accoglienza che avrebbero sostituito l’istituzione totale manicomiale.

Si tratta di norme giuste, necessarie, avanzatissime sotto un profilo giuridico, etico e morale. Tuttavia, a “pentole bellissime”, lo Stato Italiano dimenticò i “coperchi”. Tutto questo splendore, infatti, richiedeva strutture, personale, fondi. Che lo Stato Italiano non aveva, o non aveva predisposto. O forse si era solo distratto, chissà. Forse pensava bastasse annunciare la “Rivoluzione dei Diritti”, per vederla realizzata come d’incanto.
Quello che successe fu che lo “spontaneismo” dettato dalla voglia di impegno, politico, sociale e culturale dei tempi, portò alla nascita del Terzo Settore. Persone, amici che si associarono per creare dal nulla quei servizi, condividendo un’idea di impegno civile e solidaristico che avrebbe portato alla nascita delle prime Cooperative Sociali, Associazioni Non Profit in cui i lavoratori erano anche soci e condividevano tutto, oneri e onori, decidendo insieme. Lo Stato fu ben lieto di delegare e ringraziò. Tutti facevano una magnifica figura.

Ma cosa ne è stato di quel movimento, a più di quarant’anni di distanza? Tanto per cominciare, la Legge che regola le caratteristiche delle Cooperative Sociali è stata promulgata solo nel 1991 (Legge 381/91), introducendo il concetto di volontariato (discorso su cui, volontariamente, preferisco non soffermarmi); è stata poi integrata dalla Legge 142/01 che definisce le Cooperative Sociali come Enti senza scopo di lucro e rispondenti ai dettami del diritto privato, sottolineandone la natura determinata dal «rapporto mutualistico [che] abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio». Inoltre, «i soci lavoratori di cooperativa: a) concorrono alla gestione dell’impresa partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell’impresa; b) partecipano alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi dell’azienda».
Democrazia interna e partecipazione dei soci-lavoratori, dunque. Ebbene, una magnifica utopia! Una tale visione rimanda all’idea di un circolo di amici che discute del benessere proprio e altrui.  Ma è proprio così?
C’è ad esempio una Cooperativa lombarda che ha decine di migliaia di lavoratori e opera, oltre che in Lombardia, in Liguria, Toscana, Abruzzo, Lazio, Puglia e Sardegna.
Senza fini di lucro e con la partecipazione mutualistica di quasi 20.000 soci (non è dato sapere quanti non siano soci, per altro…)? Almeno bisognerebbe porsi il dubbio se si tratta di non profit o di un’azienda vera e propria.

Ma chi sono i lavoratori del Terzo Settore? È necessario precisare che, sin dagli albori, queste professioni erano prive di normativa, percorsi di formazione nazionale e di riconoscimento, e tali restano in moltissimi casi, come accade per gli assistenti specialistici per l’autonomia e la comunicazione che operano nelle scuole e che attendono, invano, un Profilo Nazionale dal 2017.
Si tratta di una variegata umanità composta da laureati delle discipline di aiuto (psicologi, pedagogisti, educatori, assistenti sociali) o studenti delle stesse che fanno, spesso, questo lavoro “per farsi le ossa” in attesa ( o meglio, nella speranza) di fare di meglio, nonché di operatori di “vecchia data” che hanno iniziato con titoli svariati e, nel tempo, hanno seguito una quantità assolutamente stupefacente di corsi, come ad esempio i corsi OSS [Operatori Socio Sanitari, N.d.R.], che, inizialmente erogati da Enti Pubblici, hanno finito per essere “privatizzati”, arrivando a costi proibitivi. C’è poi una parte di lavoratori, per lo più stranieri, cui spesso vengono delegati (e questo non dovrebbe stupire…) i servizi più faticosi o poco specializzati, come, ad esempio, il Servizio SAISH a Roma (Servizio per l’Autonomia e l’Integrazione della Persona Disabile).
Ciò che accomuna la maggior parte di questi lavoratori è un’attitudine agli altri, una volontà precisa di occuparsi di chi è più in difficoltà, di portare aiuto dove serve. Con tutto il carico di responsabilità, impegno morale, ma anche senso di colpa e impotenza, di fronte a situazioni dinnanzi alle quali si comprende di poter portare solo piccolo sollievo. Ciò determina quello che notoriamente viene definito come burnout, ossia una condizione di “esaurimento affettivo”, demotivazione e afflizione da cui raramente si torna indietro, con stati di prostrazione anche importanti.
Si aggiunga a questo stipendi che sono la metà esatta di quelli di un dipendente pubblico (800/900 euro retribuite “a ore”), con tutele bassissime, periodi di interruzione lavorativa “involontaria” (part-time ciclici verticali utilizzati diffusamente per i lavoratori delle scuole), che non prevedono alcun tipo di ammortizzatore sociale, una disciplina contributiva che determina pensioni ridicole, corsi di formazione e riqualificazione onerosi e frequenti e, infine, una condizione di precarietà lavorativa strutturale, determinata dai bandi pubblici a ripetizione, spesso con il solo criterio dell’offerta economica più vantaggiosa, con operatori sociali che fanno il giro delle Cooperative come turisti sperduti senza mappa né itinerario.

In un Libro Bianco sulla condizione degli assistenti educativi scolastici, ricerca che condussi a Roma nel 2019, il 64% dei colleghi dichiarava di avere cambiato Cooperativa negli ultimi tre anni (“turisti senza mappa”, appunto). Dato ancora più impressionante, solo il 29% dichiarava di essere socio-lavoratore (dunque, dipendente privato a tutti gli effetti e non mutualisticamente coinvolto nella Cooperativa). A livello nazionale, la situazione è di poco migliore, come emerge dalla ricerca nazionale effettuata dalla sottoscritta durante la pandemia, con un dato del 40% di soci-lavoratori. Dunque, che ne è del lavoratore che concorre democraticamente alla gestione della Cooperativa?

Farò un esempio che spero dirimente. Annualmente, l’Assemblea dei Soci (quei pochi che ci sono) si riunisce per approvare il bilancio, dividere eventuali utili (sic), decidere i piani programmatici e rivedere il regolamento interno, che deve rispettare alcune normative fisse dalle quali non si può derogare.
Negli ultimi anni ho lavorato in una Cooperativa di cui ero socia (nell’ultimo cambio appalto, cambiando Cooperativa, non lo sono più, in attesa che la Presidenza decida «se ne sono degna», parole testuali). Le Assemblee si facevano in estate inoltrata, mai visto un bilancio, e si svolgevano in orario lavorativo, che non consentiva ai più di partecipare. Morale della favola: vi si presentavano venti/trenta persone di cui una metà con decine e decine di deleghe di altri lavoratori. Qualunque cosa la Presidenza proponesse veniva così approvata, anche in spregio ai diritti minimi (ad esempio: abolizione degli scatti di anzianità o malattia pagata solo al 50%).
Sia chiaro, è la mia esperienza, ma da ciò che mi è dato sapere parlando con moltissimi colleghi del Bel Paese, si tratta di esperienza piuttosto comune.

È cosa nota come, specie nel settore dei servizi sociali, che le Pubbliche Amministrazioni e gli Enti Locali abbiano perseguito, negli ultimi vent’anni, una politica indiscriminata di esternalizzazione dei servizi essenziali affidati, a seconda dei casi, ad aziende private o a enti del Terzo Settore. Quali controlli le stazioni appaltanti abbiano messo in atto è sotto gli occhi di tutti, con evidenti ripercussioni specialmente nel settore sanitario, socioassistenziale ed educativo, come la pandemia in corso ha messo impietosamente a nudo in questo ultimo anno. In sintesi:
° ospedali privi di personale (molte Cooperative appaltano anche servizi infermieristici);
° utenti del domiciliare sia sanitario che sociale abbandonati a se stessi (e operatori privi di sistemi di protezione individuale e degli aggiornamenti del documento di valutazione del rischio lavorativo);
° centri diurni chiusi;
° alunni e alunne con disabilità privati dell’assistenza educativa scolastica cui avevano diritto.

Il sistema, così com’è concepito, determina:
° bandi pubblici legati al criterio del massimo ribasso, con conseguente decadimento del servizio e nocumento della continuità assistenziale ed educativa per la continua mobilità degli operatori;
° contratti Collettivi Nazionali di Lavoro discriminanti rispetto a quelli del settore pubblico per diritti e retribuzioni;
° spesa pubblica lievitata fra costi per le procedure di indizione, verifica e aggiudicazione dei bandi, con un’ampia parte dei finanziamenti utilizzata per la gestione delle strutture amministrative degli enti aggiudicatari, tale per cui la spesa reale destinata all’utente finale del servizio (e a chi di fatto lo attua, ossia l’operatore sociale) si assottiglia fino all’estremo;
° mancata applicazione della Legge 328/00 (i Progetti Individuali, questi sconosciuti…) e scarsità cronica di personale pubblico, ciò che determina un collegamento assai difficoltoso fra le strutture territoriali di coordinamento (ASL e Comuni) e gli operatori che, di fatto, “sono sul campo” spesso senza strumenti reali per incidere significativamente sulle situazioni di disagio;
° meccanismi di controllo degli enti appaltanti assolutamente deficitari e inconsistenti, spesso chiamati in causa solo dalle parti danneggiate da gestioni perlomeno dubbie (la punta dell’iceberg emersa  con il caso “Mafia Capitale”).

Caso mai tutto questo non fosse sufficiente a mostrare un sistema che, così concepito, non tutela né gli utenti, né gli operatori, la questione andrebbe posta su un piano anche normativo.
Lo Stato, esternalizzando i servizi sociali ed educativi essenziali, ha sostanzialmente delegato al Terzo Settore la gestione, progettazione, messa in atto e verifica del cosiddetto Stato Sociale.
Soffermiamoci sull’etimologia della parola delega, ossia “mandare con un incarico”. Potrebbe leggersi anche come il leggendario “armiamoci e partite”. Sinonimo di “delegare”, poi, è affidare o anche demandare. Cosa significa, dunque, demandare? Che lo Stato, e per mano sua gli Enti Locali, da oltre vent’anni ha assegnato compiti e funzioni che gli erano propri per mandato costituzionale, ad altri soggetti privati, delegando la propria oggettiva responsabilità riguardo al benessere dei propri cittadini, e in particolar modo di quei cittadini che necessitano di particolare cura e protezione.
Se lo Stato delega e demanda, determinando spreco di risorse, situazioni professionali nebulose, carenza in qualità e quantità dei servizi, e producendo un vero e proprio “esercito” di lavoratori, operatori sociali di tutti i tipi (psicologi, educatori, assistenti specialistici scolastici, assistenti domiciliari, educatori domiciliari e così via) che di fatto portano sulle proprie fragili spalle la realizzazione del welfare in Italia, forse un sistema siffatto non risponde più a criteri non solo di efficacia e di efficienza dei servizi (oltre che di costituzionalità, mi verrebbe da dire), ma anche semplicemente di giustizia sociale.  Un sistema che così com’è, significa, sinteticamente, “mettere i Penultimi ad occuparsi degli Ultimi”. Bisognerebbe, forse, ripensare lo Stato Sociale. Pubblico, come lo voleva Basaglia.

(*) Paola Di Michele è psicologa clinica, formatrice, assistente specialistica all’autonomia e alla comunicazione