Archivi categoria: INCLUSIONE

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Inclusione e dintorni, a 30 anni dalla legge 104

di Cinzia Mion

Il mio caro amico Reginaldo Palermo, direttore di PavoneRisorse, mi ha posto una domanda cruciale e difficile, cui vorrei provare a rispondere. Mi ha chiesto : come mai in Italia con una storia dell’inclusione che arriva da lontano – con la L.118/1971, ma soprattutto nel 1977 con la famosa L.517 eppoi con la L.104/92 e successive ‘manutenzioni’ – oggi la situazione sta peggiorando invece di migliorare?
La domanda mi sollecita ricordi professionali a bizzeffe ma mi trattengo dal dare loro la stura e cerco di soffermarmi sull’essenziale .
Ricordo degli anni 70 il fervore ideale e l’entusiasmo fermentativo intorno alle grandi discussioni, tra cui la dialettica tra il concetto di normalità/diversità che approderà, nel mondo civile, alla famosa Legge 180/1978, chiamata legge Basaglia, che ha destrutturato l’ospedale psichiatrico di Trieste. Riporto, per chi non avesse vissuto quegli anni , le innovazioni scolastiche che cercheranno di realizzare i dettati costituzionali: in primis l’articolo 3 sull’uguaglianza, stella polare per ogni impegno politico/istituzionale ma nel nostro caso per la Scuola.
Riassumo : la scuola media unica (1962), la legge 820/1971, istitutiva del Tempo Pieno contro lo svantaggio socio-culturale, la legge istitutiva della scuola materna statale (L.444/1968).
La pubblicazione di Lettera a una professoressa di don Milani aprì poi la critica sociopolitica alla ‘valutazione scolastica sommativa tradizionale’ e il Movimento studentesco del ’68 fece da cassa di risonanza a tale critica sottolineando che, se la valutazione scolastica emarginava ed escludeva le fasce più deboli (figli dei contadini e degli operai ), fasce per cui la Costituzione aveva creato il Diritto allo Studio, allora era meglio che non valutasse….
Fu la Legge 517/77 che affrontò sia il problema della valutazione, offrendo l’idea rivoluzionaria della Valutazione formativa, (puntualmente sconfessata fino quasi ai giorni nostri, ma questa è un’altra storia!) sia l’attenzione ai più fragili, con il dettato legislativo che parla non più solo di inserimento nelle classi comuni della scuola dell’obbligo – come fa la L.118/1971 che si riferisce ai soggetti con invalidità lieve, invalidi o mutilati civili, senza però accennare alla didattica speciale – ma si parla di vera e propria attività di integrazione degli alunni con forme di handicap (art.2) abolendo nel frattempo le classi differenziali.

Dall’integrazione all’inclusione.

La legge 517, con l’individuazione di modelli didattici flessibili, l’auspicio delle classi aperte e soprattutto l’arruolamento degli insegnanti specializzati, ha permesso l’affacciarsi lentamente di un progressivo cambiamento dal semplice inserimento all’integrazione. A quel tempo l’integrazione dei soggetti portatori di handicap (definiti successivamente ’diversamente abili’, ora ‘persone con disabilità’) ha costituito un miglioramento rispetto a tutti i bambini, per quanto attiene la formazione dei docenti nei confronti degli aspetti psicopedagogici e didattici. Uno di questi è stata l’attenzione agli stadi di sviluppo piagetiani, precedentemente solo incontrati nei libri, utilizzata per decodificare i dati delle diagnosi. Un altro aspetto è stato l’attivazione dell’attività psicomotoria, precedentemente destinata solo ai bambini disabili, estesa invece in alcuni istituti a tutti i bambini. Questo è avvenuto per esempio nelle scuole del secondo circolo di Conegliano, nel cui territorio sorgeva l’Istituto ‘La nostra Famiglia’, circolo di cui dall’anno 1974 all’anno 1994 sono stata direttrice didattica.

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La legge 104 ha trent’anni e si vedono tutti

di Flavio Fogarolo

Ho fatto l’insegnante di sostegno negli Anni ’80, quindi prima della 104, e posso assicurare che con questa Legge i passi in avanti sono stati enormi rispetto all’organizzazione, al coinvolgimento delle ASL e dei territori, alla dotazione di risorse e altro. Ma poi tutto è rimasto uguale.
È vero che la 104 è stata spesso aggiornata, ma per quel che riguarda la scuola di fatto è sempre la stessa. Si è intervenuti più sull’università ma rispetto all’inclusione scolastica c’è stato solo il DL 66 del 2017, di fatto mai entrato realmente in vigore.

L’unico decreto attuativo approvato, dei tanti previsti, è stato il DM 182, quello sul nuovo PEI, annullato dal TAR. Varie novità introdotte che hanno modificato la L. 104, come le nuove procedure di certificazione, il Profilo di Funzionamento, i GIT, sono ancora inapplicate e inapplicabili, mentre è formalmente abrogato, creando di fatto un pesante vuoto normativo, l’atto di indirizzo del 1994 (DPR del 24 febbraio) che era alla base di molte procedure della nostra inclusione.
La 104 ha trent’anni e per quel che riguarda la scuola è quindi sempre la stessa, anche se la realtà della nostra inclusione (o “integrazione”, come si diceva allora) è profondamente cambiata.

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A trent’anni dalla legge 104. Il contributo della mia generazione

di Paolo Fasce

La legge 104 del 5 febbraio 1992 è una pietra miliare nell’ambito della tutela dei diritti delle persone con disabilità e il giorno in cui scrivo questo contributo intellettuale, sociale e civile della generazione che ha preceduto la mia nelle responsabilità operative del paese compie trent’anni.
Quando è stata emanata, Giulio Andreotti era presidente del Consiglio dei Ministri, la maggioranza parlamentare era quella del quadripartito (DC-PSI-PSDI-PLI) e il presidente della Repubblica era, nel suo declinare, Francesco Cossiga.
Il 17 febbraio di quell’anno, Antonio Di Pietro chiedeva l’arresto di Mario Chiesa e quello che si era appena avviato quale anno del centenario della fondazione del Partito Socialista Italiano, si sarebbe sostanzialmente rivelato essere l’ultimo di quella gloriosa esperienza.

Il 5 febbraio 1992 lo scrivente non aveva ancora compiuto 25 anni, non immaginava che sarebbe diventato insegnante e poi dirigente scolastico, progettava il proprio Programma Erasmus e assisteva alla trasformazione della propria città in polo turistico grazie all’esposizione universale delle colombiadi che regalavano il Porto Antico al mondo attraverso le celebrazioni del cinquecentenario della scoperta dell’America.
Scoperta da parte del mondo occidentale, beninteso.
Questa lunga premessa al semplice fine di inquadrare il contesto storico che mostra chiaramente come questo paese abbia viaggiato su due binari.

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Inclusione: forse per i dirigenti amministrativi ci vorrebbero 24 CFU

di Mario Maviglia

 Due interessanti e puntuali articoli scritti dall’amico e collega Raffaele Iosa e pubblicati su queste pagine (Nuovo PEI annullato: azzeccagarbugli e scuole in difficoltà, 16/09/2021; Il tempo della scuola; il tempo della disabilità, 20/09/2021), mi offrono lo spunto per analizzare un aspetto implicitamente presente nei due contributi (soprattutto nel secondo), che merita di essere ulteriormente approfondito e disvelato. Mi riferisco all’equilibrio che vi deve essere, nelle norme riguardanti l’inclusione scolastica, tra gli aspetti amministrativi e quelli pedagogici.
Raffaele Iosa fa un’analisi molto calzante sul significato del tempo all’interno della disabilità, un tempo segnato da attese, da terapie spesso coincidenti con il tempo delle lezioni, dalle tante angosce per un tempo che scappa via e che proietta il disabile in un’età adulta (vero banco di prova per i processi inclusivi in una società matura) carica di incognite e di preoccupazioni, soprattutto per i genitori.

Se non si tengono presenti questi aspetti di carattere pedagogico e sociale, il tempo diventa una qualsiasi nozione burocratica, sganciata dalla specifica realtà delle persone disabili (persone, prim’ancora che disabili) ed allora si entra nei meandri asfittici ed impersonali del diritto amministrativo, che tutto omogeneizza e rende opaco. In parte è quanto avviene con la CM 2044 del 17/09/2021 che fornisce indicazioni operative alle scuole dopo la sentenza del TAR Lazio del 13/09/2021 che annulla il nuovo PEI introdotto con DI 182 del 29/12/2020.

Ci vogliono competenze giuridiche adeguate per condurre un’esegesi dell’intera vicenda; ma qui vogliamo fare un discorso più generale riguardante lo stretto intreccio che dovrebbe esserci tra la dimensione giuridico-amministrativa e quella psicopedagogica, soprattutto in un campo come quello dell’inclusione dei disabili a scuola. E allora, mentre possiamo immaginare che il management ministeriale abbia una certa preparazione a districarsi all’interno della materia giuridico-amministrativa (anche se la vicenda della sentenza del TAR citata sopra fa nascere qualche dubbio in proposito), c’è da chiedersi che tipo di competenze abbia per interpretare in modo adeguato i fenomeni pedagogici. E d’altro canto, se non si hanno competenze anche in questo campo si rischia di trattare la materia dell’inclusione alla stessa stregua dell’adozione dei libri di testo o delle tasse scolastiche.

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Il tempo della scuola, il tempo della disabilità

di Raffaele Iosa

Mi sento obbligato a riprendere l’analisi delle querelle nate dalla recente sentenza del TAR Lazio del 13 settembre che annulla il DM 182, detto del Nuovo Pei.

In un recente articolo del 15 settembre (Azzeccagarbugli e nuovo PEI) ho già dato una valutazione complessiva delle Sentenza, del Decreto annullato e gli effetti nel presente e nel prossimo futuro.

Ho lì scritto sulla dura lezione prodotta dalla Sentenza sul modo di produrre normazione secondaria da parte del Ministero, su un Decreto troppo militarizzato e bulimico di ordini, sulla “crisi” dell’ICF che come un’araba fenice c’è e non c’è. Sento tensione, e accese incomprensioni se non litigi tra  diversi esperte di inclusione, che determinano sconcerto negli insegnanti e nelle famiglie.  C’è confusione, che non fa bene al futuro del tema PEI e dintorni, né ad una  serena e più sobria ricomposizione della questione, con il rischio che il tutto slitti alle calende greche.

C’è però una ragione per cui mi sento in dovere di riprendere il discorso e riguarda  la CM n. 2044 del 17.09.2021 a firma del dg. Ponticello che invia  prime indicazioni  di comportamento alle scuole per via degli effetti della sentenza del TAR Lazio.
Una circolare necessaria, ovviamente, ma che a mio avviso contiene un travisamento della Sentenza e un irrigidimento non richiesto sul tema (delicatissimo) del tempo di frequenza da scuola degli alunni con disabilità.

La frase che mi pare discutibile è la seguente:

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“Nuovo PEI” annullato: azzeccagarbugli e scuole in difficoltà

Disegno di alunna del primo anno della primaria di Vistrorio (TO)

di Raffaele Iosa

Il TAR Lazio il 14 settembre scorso ha letteralmente annullato il Decreto interministeriale n. 182 del 29.12.2020 e le linee guida allegate,  chiamato in gergo del ”Nuovo PEI” per gli studenti con disabilità. Un testo molto atteso e su cui molti hanno lavorato in questi mesi.

A chi conosce poco le tecniche giuridiche di normazione secondaria (cioè quelle delle amministrazioni in applicazione di una legge) o non è esperto di disabilità può sfuggire la gravità di un evento di questo tipo, che è a modo suo eccezionale ed irrituale.

Naturalmente la sentenza ha fatto clamore per ora solo in quei pochi che o per mestiere o per destino si occupano di disabilità.
Ma c’è di più: sia le associazioni di disabili ricorrenti (ovviamente contente) sia quelle che avevano in un qualche modo condiviso il Decreto (ovviamente preoccupate) stanno in queste ore gettando acqua sul fuoco, sostenendo che in fondo non cambierà molto, che ci sono già gli strumenti per continuare nella migliore prassi possibile finora attuata.
E’ nelle cose che il Ministero ricorrerà al Consiglio di Stato per una diversa sentenza o comunque un atto di “emergenza” per salvare il salvabile. In attesa delle prossime puntate, però, una riflessione senza veli è necessaria, perché è mia opinione che per quanta acqua si butti su questo incidente, la vicenda invece butta molta benzina sul fuoco in una fase di gestione dell’inclusione scolastica sempre più turbolenta, litigiosa e confusa non solo sul piano amministrativo ma anche (e soprattutto) pedagogico, che ha già avuto negli anni Covid tante dolorose difficoltà. Quanto meno accentua l’incertezza, delude chi si aspetta soluzioni di qualità. Dopo centinaia di webinar, conferenze, libri e articoli prevalentemente apologetici, chi si fiderà più di quale norma, regola o articolo seguire nella prassi inclusiva?

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Ripensare lo Stato sociale dalle fondamenta: dalle leggi di fine anni ’70 al Terzo settore.

di Paola Di Michele

 

C’è un quadro bellissimo, arcinoto, di Pellizza Da Volpedo che rappresenta il Terzo Stato in marcia. Fatto di gente povera, vestita male ma con lo sguardo dignitoso e deciso proteso al futuro di chi cerca di conquistare il proprio pezzetto di dignità. E c’è un movimento nascente di lavoratori, operatori del sociale, che comincia adesso a prendere coscienza di condizioni lavorative diventate ormai al limite della sopportazione.
Per capirci, mi riferisco alle Cooperative Sociali di tipo A, cui l’ISTAT assegna un totale di lavoratori di circa 380.000 unità, per un indotto di più di 8 miliardi di euro, e che si suddivide in servizi scolastici educativi, servizi domiciliari socioassistenziali, socioeducativi, sociosanitari, centri diurni, centri di accoglienza, case-famiglia, nidi, e altro. Fondi che lo Stato stanzia alle Cooperative Sociali e che per meno della metà giungono nelle mani dei lavoratori.

Facciamo un piccolo passo indietro. Quando nasce questa situazione? Alla fine degli Anni Settanta, in un lasso di tempo brevissimo, appena un biennio, si può collocare la nascita del moderno Stato Sociale in Italia.
A fare da spartiacque sono una serie di leggi: la Legge 517/77, che abolisce le classi differenziali nelle scuole italiane e introduce le figure dell’insegnante di sostegno e dell’assistente all’autonomia e la comunicazione; la Legge 833/78, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, introducendo un modello universale di tutela della salute, intesa come stato di «completo benessere psico-fisico», perseguendo gli obiettivi di equità, partecipazione democratica, globalità degli interventi, coordinamento tra le Istituzioni, attraverso la territorializzazione dei servizi di assistenza sanitaria (oggi ASL); la Legge 180/78, cosiddetta “Legge Basaglia”, che abolisce le strutture manicomiali, e rimane riforma a metà anche a causa della morte dello stesso Basaglia che la voleva più compiuta, con le strutture territoriali di accoglienza che avrebbero sostituito l’istituzione totale manicomiale.
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