Inclusione, decadenza degli “intellettuali” e crisi della scuola dei diritti

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Rodolfo Marchisio

Io questo pezzo non lo volevo scrivere, perché penso che rispondere a EGdL (quello della “predella per ristabilire autorità del docente”, confondendo autorità con autorevolezza), che non è un esperto di scuola, sia quello che lui cercava, una provocazione per far parlare di sé. Ma invitato e tirato per i capelli da un paio di considerazioni, cerco di essere breve.

Intellettuale o influencer?

  • Propongo di abolire il termine “intellettuale”, parola ombrello (Guastavigna) che all’epoca di social, talk e improbabili influencer, non vuol dire più niente. Sicuramente non ha più un ruolo di punto di riferimento nella babele di web, talk e fake. Se “la rete dà la parola a tutti” (U. Eco ed è un bene teorico nel campo dei diritti), dà però anche la parola “a legioni di imbecilli” (U. Eco) e se in rete “1 vale 1” si pone il problema del rapporto tra la libertà di espressione e la competenza in merito all’argomento; “la mia ignoranza vale come la tua competenza” (Asimov). EGdL è esperto di scuola, didattica, pedagogia, inclusione? Dai 2 articoli direi di no.
  • Credo dovremmo parlare di studiosi, di ricercatori, competenti in un campo, anche se la conoscenza oggi è svalutata, anche grazie all’abuso della rete, rispetto alla opinione che chiunque può avere lecitamente. (Nichols).
    Lo studioso si caratterizza per il metodo e per la citazione di fonti, ricerche, documentazione e per l’argomentare vs affermare (come fanno i social e la politica) che validino il suo discorso e permettano agli altri di verificare se dice il vero.
    Lo fa anche wikipedia, il dizionario (non enciclopedia) su cui studiano i nostri ragazzi: questa pagina non è attendibile perché non riporta le fonti e non ha sito/bibliografia.
    Se no è uno qualunque che esprime la sua.

  • L’alternativa di moda è l’influencer da web o talk che spara opinioni e punta a emozionare, scandalizzare, provocare, strategie di moda in rete, TV e politica. EGdL è un influencer nel campo della scuola?

I diritti si possono perdere

  • Il secondo motivo per cui mi permetto di esprimere e documentare la mia opinione è che sono in ballo, in questo ribollire di pareri, livori, frustrazioni, diritti fondamentali per cui, come ci insegna N. Bobbio, ci si è battuti a lungo contro contrari e pigri, ma che si possono perdere in tutto o in parte. Sono nella scuola dal 1969 ed ho vissuto resistenze, diffidenze, difficoltà di parte dei docenti che vivevano come un peso l’inserimento di disabili e poi degli stranieri.
    Credo sia stata una faticosa conquista di diritti che non deve regredire e che non abbia fondamento scientifico la sua critica (Morello).
    La “normalità” non esiste, come non esistono molti concetti usati per separare: siamo tutti diversi ed il confine tra salute e malattia, abilità e deficit è legato ad una convenzione sulla quantità e sulle conseguenze.
    Gli alunni “deboli” non hanno solo diritto a migliorare, ma anche ad essere inseriti nella scuola e nella società. La scuola, per legge non deve solo istruire, ma anche formare la persona ed il cittadino. Qualunque cittadino.
    Il vivere tra diversi (ed ogni diverso è diverso da tutti gli altri diversi) è per tutti crescita, progresso, mediazione verso la cittadinanza democratica; mentre il vivere tra eguali è quanto ci impongono i padroni della rete (Rampini) nei social, comfort zone in cui ci autoconfermiamo tra eguali (Pariser, Bauman) e ci identifichiamo odiando un gruppo diverso da noi (donna, omosessuale, straniero, disabile).

Si può migliorare?

Quando facevamo i primi convegni internazionali sull’inserimento dei disabili a scuola, emergeva (progetto europeo Helios 2) che i popoli mediterranei (Italia, Spagna…) erano più avanti nella inclusione, nella socializzazione; avrebbero potuto far di più nel recupero o compensazione di abilità. I paesi del nord (es. Germania) prendevano i disabili, li chiudevano in ville e li addestravano in modo intensivo, migliorando le loro capacità meglio di noi. Ma non li inserivano nella vita, nella società, nella scuola. Occorre fare entrambe le cose, migliorando e non rinnegando. Ma ci vogliono risorse umane ed economiche.

La scuola è specchio della società e del clima politico e culturale in cui vive

Quelle conquiste sono state frutto di impegno e lotte contro la palude inerziale presente nella scuola allora ed oggi. Non è cambiato molto. La scuola ha sempre avuto una parte più innovativa, più attenta ai diritti ed a temi diversi nelle varie epoche e di contro una minoranza che ci vedeva un problema ed una “palude” talora pigra che si adattava al clima dominante o talora insabbiava.
All’epoca il clima era  teso alla conquista di diritti, oggi alla regressione.
Siamo nella epoca dell’”egocentrismo dei diritti individuali” contro i doveri di solidarietà ed i diritti degli altri (Zagrebelsky). Che sia interesse individuale, diritto di portare armi, diritto di prevaricare, occupazione abusiva del potere, difesa di sé, dei propri soldi e interessi (è sempre più “normale” non pagare tasse e violare le regole comuni a danno degli altri) contro il dovere fondamentale di solidarietà prescritto dalla Costituzione (dall’art 3 in poi).
Viviamo nella “Penisola che non c’è” (Pagnoncelli) che si basa sul percepito e non sui dati reali. Sulla pancia e non sulla ragione.
Inoltre il clima e la società in cui viviamo è quella in cui il 45 % dei cittadini non va a votare, e se una coalizione prende il 40% del 55 % dei votanti, col sistema elettorale attuale, prende il potere esecutivo (che sta “mangiando” gli altri poteri); prende tutto col consenso del 22% della popolazione. La realtà ed il clima in cui vive la scuola è questo. Due studi ci classificavano in serie B con USA e Giappone come “Democrazie con problemi” già anni fa.

L’indagine. Per chi è un problema l’inclusione?

Lasciamo perdere il valore della rilevazione della Tecnica della scuola a livello metodologico, di tipo social. Anche presa per indicativa di una tendenza il 40% dei docenti sarebbe in varie forme favorevole a modificare e qualcuno, oltre a sfogarsi, fa anche proposte sensate. L’altro 60%?
Ma la maggioranza degli allievi invece è contrario, non ci vede un problema. Allora i docenti che vogliono cambiare lo fanno per sé o nell’interesse degli allievi?
Forse i ragazzi sono un po’ più aperti ed i docenti manifestano disagio e problemi nel loro ruolo?
Ottimismo. Che possa essere anche merito della Ed. alla cittadinanza dopo 4 anni (peraltro non attuata in tutte le scuole e che vede diversi docenti, spesso nella secondaria, defilarsi e fare ostruzionismo?)
L’apprendimento è un fatto anche emotivo e sociale (Vigotsky, Goleman) ed avviene riconoscendo la diversità delle intelligenze (Gardner). Non esiste progresso nella omologazione.
Le reazioni di alcuni docenti troll ricupera il livore contro il “68”, il “politicamente corretto”. È odio in rete non argomentazione. Quelli del 68 sono oggi tutti tra i 75 e gli 80 (R. Palermo). Stanno organizzando la contestazione dell’Unitre.

Dice Valditara

“Le conquiste ed i diritti non si toccano” dice il ministro dell’ovvio. Ma va fatto qualcosa. Da chi? Dal Ministro e dalla politica. Che invece continuano a scaricare sulla scuola dopo la EC, la follia del PNRR, i problemi del “merito” (il governo è per la competizione e la competenza– degli altri non sua- non per l’inclusione), l’affettività, l’orientamento, il made in Italy spesso rifiutato dai collegi e tutti i problemi che la politica non sa gestire e risolvere. Se non mettendo una clausola finale. “Con invarianza delle risorse”. Allora è lecito pensare che una parte dei docenti sia stufa di risolvere problemi senza risorse (soldi e ore in più: incentivi estrinseci), ma solo con la motivazione e gli incentivi intrinseci di fare bene e fino in fondo il proprio lavoro?
Parliamo di risorse che sorreggano la motivazione e non di esclusione?

 

 

 

 




A proposito di integrazione, quando il made in Italy è indigesto

di Giovanni Fioravanti

Ecco che Galli Della Loggia risale in cattedra, quella con la predella, per dichiarare che è ora di abbattere gli idoli e i loro miti come l’inclusione di tutti nella scuola di tutti.

È giunto il momento di riporre in soffitta la scuola inclusiva e sottrarre alle ragnatele dell’abbandono, spolverata e lustrata, la scuola meritocratica e competitiva.
Sa di parlare all’orecchio di un governo sensibile alle sue sirene e certamente al repertorio suonato dai pifferai, dalla Mastrocola al Gruppo di Firenze, della scuola oltraggiata.

Ora siamo alla “scuola menzogna” che copre lo scandalo — caso unico al mondo —  scrive il nostro professore, per cui nelle nostre aule convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, ragazze e ragazzi disabili, alunni con bisogni educativi speciali, ragazze e ragazzi stranieri. Il professore tralascia di dire che questo scandalo ci è invidiato da tutto il mondo.

Un made in Italy di quelli che non rendono quattrini e che semmai turba alcune coscienze, comunque un made in Italy che non piace al professore e non è certo quello che intende promuovere questo governo.

Mi sembra che ora il professor Galli Della Loggia faccia la parte dell’asino che si affaccia alla finestra della classe, quell’asino che Andrea Canevaro, fortemente indiziato per la diffusione del mito dell’inclusione, considera una grossa fortuna per un educatore, come meraviglioso strumento didattico. Noi però, contrariamente a Canevaro, sappiamo cosa pensa l’asino di quello che vede.

La cosa che inquieta in questo paese è che non c’è uno, dico uno, intellettuale a Destra o a Sinistra, che sia in grado di usare il verbo “innovare” o il sostantivo “innovazione” a proposito della scuoia e dell’istruzione. Non c’è una visione di prospettiva, una dimensione di processo, un’idea che sia un’idea per innovare, migliorare quello che questa nostra scuola si è conquistata con l’impegno professionale di tanti insegnanti e educatori, come l’inclusione, che certo non è perfetta, ma non ha bisogno di essere cancellata, piuttosto necessita di idee e risorse per progredire.

Invece no, il solone di turno, che nulla sa di scuola perché non la vive quotidianamente, perché l’avversa culturalmente, trova che anziché curare è meglio liberarsi dell’arto infetto..
E allora ci sono quelli che sottoscrivono Manifesti per improbabili Nuove Scuole, quelli che  la scuola non educa più, che, alla faccia del patriarcato, lamentano che leducazione ha smesso di essere la proiezione della funzione del padre, vedi Adolfo Scotto di Luzio.
Altri, come Susanna Tamaro, che incolpano Rousseau di tutti i mali di cui soffre l’educazione e vagheggiano l’uso del kyosaku, il bastone dei maestri Zen, da impiegare sui ragazzi selvaggi del nostro tempo.

Non so se ci rendiamo conto di sprofondare sempre più nella palude dei pregiudizi culturali che si fanno pensiero diffuso nell’anestesia mentale collettiva che insidia questo paese.
Il problema è che questi asini che infilano il muso dalle finestre nelle nostre aule sono talmente sicuri di se stessi che neppure si prendono la briga di studiare, perché tanto una volta sì che si studiava, quando andavano a scuola loro, e tanto a loro è bastato.

Se avessero letto ad esempio documenti come Nell’Educazione un tesoro, quello della Commissione UNESCO presieduta nel 1996 da Jacques Delors, ignorato nell’occasione della sua morte, a partire dal nostro ministro dell’Istruzione e del Merito.
In quel documento, di circa trent’anni fa, vengono indicati i  quattro pilastri su cui dovrebbe poggiare l’educazione del ventunesimo secolo: Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare a vivere insieme, Imparare ad essere.

Ora non dovrei essere io a spiegare al ministro dell’Istruzione e del Merito che se Imparare a vivere insieme e Imparare ad essere fossero praticati nelle nostre scuole, costituissero i pilastri portanti dei curricoli, non ci sarebbe bisogno né di ripristinare un arnese arrugginito come il merito né di inventarsi educazioni alla relazione. Non dovrei essere io neppure a spiegare al professor Galli Della Loggia che considerare l’Inclusione un mito da escludere dalle nostre aule fa palesemente a pugni con i due pilastri appena citati sopra.
E visto che sono sulla strada di utili suggerimenti inviterei a leggere l’ultimo documento dell’UNESCO, giusto per uscire dal campanilismo patriottico. È del 2021 e porta come titolo: Re-immaginare i nostri futuri insieme.

Reimmaginare, cioè immaginare di nuovo, non sognare il passato. Il passato, è ovvio, che non si può immaginare, è il futuro che si immagina, capisco che per il professor Galli Della Loggia e quanti come lui il futuro sia difficile da coniugare.
Però l’UNESCO l’ha coniugato anche per loro: Le scuole dovrebbero essere luoghi educativi protetti per linclusione, lequità e il benessere individuale e collettivo […]. Le scuole devono essere luoghi che riuniscono gruppi diversi di persone e li espongono a sfide e possibilità non disponibili altrove.
Non si può equivocare: “luoghi educativi protetti per l’inclusione”, “luoghi che riuniscono gruppi diversi di persone e li espongono a sfide e possibilità non disponibili altrove”, Nietzsche scriverebbe che le scuole sono i luoghi dei “temerari del sapere”.

Fortunatamente l’inclusione è una realtà radicata e destinata a crescere, perché noi vogliamo vivere  e vogliamo che le generazioni in avvenire vivano in un mondo in cui i bambini che si perdono nel bosco appartengano soltanto al mondo delle favole.




Inclusione scolastica: Galli Della Loggia e le chiacchiere da bar

di Raffaele Iosa

Sono felicemente sorpreso dalla valanga di critiche, a volte persino feroci, che il vecchio guru Ernesto Galli della Loggia (detto da più parti EGDL) si è preso per via di un suo pezzo sull’inclusione scolastica.
In questo assurdo pezzo il vecchio EGDL sostiene con una violenza da bar sport che l’inclusione scolastica è solo un “mito” finto democratico, che non solo non funziona, ma fa del male a chi è disabile, dislessico, straniero, povero, e così via. E, ovviamente, fa del male e rallenta i “normali” costretti a subire un pernicioso caos educativo.
Mi occupo di disabilità da quasi 50 anni, sia come insegnante poi via via da dirigente e ispettore anche con ruoli apicali ministeriali ed internazionali.

Qualcosa so.
Dunque: sono molto sorpreso per le reazioni di centinaia di insegnanti, persone di scuola e cittadini. Per moltissimi di questi le dichiarazioni di EGDL sono offensive, ridicole, false, pur con tutte le difficoltà che l’inclusione scolastica ha ancora in Italia.

Sono felicemente sorpreso perché nei tanti “bar scolastici” che ancora frequento (anche se in pensione) ho più volte incontrato presidi, insegnanti e genitori ostili all’inclusione scolastica con toni e argomentari simili a quelli del nostro EGDL.
Non solo: credo che il caos organizzativo, l’assenza di una seria formazione di tutti gli insegnanti (non solo quelli di sostegno), il mito dell’insegnante di sostegno come “soluzione dell’inclusione” siano oggi troppo diffusi e segno di una crisi che rischia (questa sì) di produrre un calo qualitativo e valoriale dell’inclusione come paradigma educativo necessario per tutti gli alunni e gli studenti, qualsiasi sia la loro condizione.

Per questo motivo, paradossalmente, la levata di scudi contro il poco competente (ma potente) EGDL con la sua sponsorizzazione di un sistema scolastico separato per categorie di “normalità” e di “non normalità”, fa ben sperare al successo di una proposta che un gruppo di noi (di cui mi onoro di far parte) ha preparato in questi mesi, e che presenta una coraggiosa proposta di qualità: quella di una formazione professionale del tutto diversa dall’ attuale e di tutti gli insegnanti attorno al tema del successo formativo e dell’inclusione di tutti. L’abbiamo chiamata “cattedra inclusiva”, cioè una competenza fine e diffusa di tutti i docenti, senza specialismi separativi e medicalizzazioni dannose. L’inclusione tocca ed è di tutti, nessuno escluso. Perché l’inclusione italiana torni ad essere quell’ispirazione pedagogica che l’ha resa la migliore in Europa.
Qualche volta i soloni da bar sport fanno aprire gli occhi anche ai dubbiosi. La nostra risposta dunque è quella di agire con coraggio, non solo quella di polemizzare per battute non solo fuori luogo, ma del tutto dilettantesche e figlia di pregiudizi antichi,




Cattedre miste, un piccolo segno verso una seria comunità educativa?

di Raffaele Iosa

In questi giorni di calda estate 2023, su facebook da diversi autori è riesplosa (dopo anni di silenzio) la questione delle cd. “cattedre miste”, inerenti una diversa organizzazione più cooperativa tra docenti di sostegno e curricolari. Lo scopo, nelle intenzioni pedagogiche migliori, è di arricchire l’esperienza formativa dell’alunno con disabilità riducendo i rischi di una troppo frequente “didattica separativa” spesso racchiusa in rapporti para-privati con il docente di sostegno ed eventuale educatore fino alla diffusa forma della “copertura totale”.
Il termine dice già tutto sul rischio che l’inclusione diventi una strana isolazione.
La discussione è per ora varia, tra chi esprime entusiasmo perché si riaprano azioni di migliore comunità professionale, soprattutto nelle scuole medie e superiori, a chi ne vede le difficoltà applicative, a chi (come sempre accade) sostiene che il problema è “un altro”.
Personalmente delle cattedre miste ne penso un gran bene: la pluralità dei docenti è un valore se si fa cooperazione e integrazione per tutti i ragazzi. Per quelli con una qualche disabilità possono essere una manna cognitiva, un’esperienza di maggiore socialità, un sentirsi comunità che apprende. Molto meglio la cattedra mista che la cattedra di sostegno tout court, che tende inevitabilmente all’isolazione .
In questo mio commento non entro negli aspetti tecnici e organizzativi né giuridici di come si possano sviluppare forme più ricche di corresponsabilità e organizzazione curricolare flessibile. Vi sono da tempo (fin dal Regolamento autonomia del 1999) ampie possibilità operative di flessibilità, come ostacoli o freni dati da aspetti organizzativi, contrattuali, di abitudini. Vi sono anche, naturalmente, riserve radicali su cosa sia il “sostegno”: se un’attività didattica diffusa che tocca tutti (come insegna la Legge 517 del 1977!!) o non invece una “professione specialistica para-terapeutica” di per sé “altra” dall’educativo.

Vorrei invece qui inserire il tema cattedre miste in un quadro più ricco di questioni sul “contesto socio-pedagogico” complesso e deludente della scuola italiana nei suoi processi di inclusione a vasto spettro, da quella degli studenti con disabilità, alle diverse forme di cd. “BES” sino alla più vasta questione della dispersione scolastica. Questo perché la questione “cattedre miste” non va vista come una questione tecnica in sé, ma uno dei tanti aspetti da curare per superare la crisi di senso ed efficacia della scuola, per la quale da tempo (nei testi giuridici come in quelli contrattuali) si fa riferimento fino all’adulazione al termine “comunità educante” per accentuare la corresponsabilità e la partecipazione di tutti. Il termine comunità rischia di restare però una retorica grida manzoniana, che può voler dire varie cose come il suo contrario. Ebbene: la questione cattedre miste è di per sé un tipico oggetto da comunità educante nel suo farsi concreto. Se la scuola nel suo insieme sarà capace di leggersi e costruirsi come comunità professionale aperta e solidale, con il sano ma anche ottimistico realismo delle cose possibili.

Tre questioni d’insieme , l’intreccio del rischio de-scolarizzazione
Dunque vorrei qui collegare, in breve, la questione cattedre miste con tre grandi snodi del presente sui quali ho in questi anni scritto molto, per vedere la questione cattedre nel quadro di una scuola che va messa in movimento qualitativo per evitare possibili fallimenti fino alla de-scolarizzazione di fatto. Cioè scuole sempre più inutili e meno leve di sviluppo di tutta la società, e il destino di tutti i nostri giovani.

1. L’esplosione iatrogena
Il numero di certificazioni di disabilità è raddoppiato in meno di 20 anni, aumentano di queste la condizione di gravità (il famoso art. 3 comma 3 della Legge 104/92). Non c’è è nel nostro paese un dibattito scientifico e sociale sulle ragioni di questo strano evento di grande complessità. Le più diverse testi cercano spiegazioni a volte fantasiose. Non c’è comunque alcun dubbio che è cambiata la percezione di “difficoltà” e “malattia” sia nelle famiglie che nel mondo educativo sia in quello sanitario. Forse non è un caso che l’aumento delle certificazioni sia inversamente proporzionale al calo demografico: meno bambini che si desiderano troppo “perfetti”?. E’ comunque un tema sul quale l’assenza di ricerca e dibattito scientifico rischia di creare nelle scuole grandi incertezze e confusioni.
Ha accompagnato l’esplosione iatrogena della disabilità l’invenzione clinica dei DSA, giunti in poco più di un decennio quasi allo stesso numero dei compagni di classe 104. E anche in questo caso con una discussione spesso estremizzata da tesi opposte sulla bontà o meno di queste sindromi.
E, infine, dal 2013 la dizione BES come contenitore di diverse condizioni esistenziali, cognitive, sociali cui offrire un trattamento educativo di cura. Non facile da comprendere se BES così diventi uno strumento di aiuto o invece (come temo) uno stigma che nel tempo separa, rassegna e riduce le attese educative.
Dunque, in meno di 20 anni è mutato profondamente il panorama interpretativo e gestionale di tutti i nostri studenti con una qualche difficoltà comunque diagnosticata. Da qui norme, indicazioni, e spesso dolorose forme conflittuali tra scuole e famiglie. Da qui la nascita di “nuovi servizi” (spesso privati) con proposte “riabilitative” quasi chiavi i in mano. Siamo alla centralità del sintomo che sostituisce la persona.
Il nuovo cospicuo blocco di normative sulla disabilità, ad esempio, ha prodotto un monstrum giuridico, tra GLO di cui non è chiara la funzione e il reale potere, un ICF diventato un contatore di ore di sostegno piuttosto che un lettore olistico della persona, e infine il progetto di vita diventato cosa da servizi sociali comunali piuttosto che il quadro di riferimento di sviluppo di ogni persona.
C’è dunque molto da fare, studiare e discutere sulla qualità attuale dell’inclusione nelle nostre scuole. C’è il rischio che l’inclusione si separi dai processi di normalità del processo educativo, che si tenda cioè a forme “speciali” di scolarizzazione, cioè nel tempo a nuove forme di scuole speciali. Non solo per gli studenti con disabilità. E dunque, come non vedere la questione cattedre miste come un antidoto interessante da sviluppare per cambiare la tendenza alla separazione e all’isolazione?

2. La dispersione scolastica, disavventura italiana
Come non bastasse, i dati sugli esiti scolastici dei nostri studenti sono infelici, e le differenze regionali tra nord e sud gridano vendetta ad una società più equa e dinamica. L’Italia ha la più elevata percentuale di NEEDS in Europa. E la povertà è tema conflittuale del dibattito politico con t4ensioni e disparità tra zone del paese intollerabili. Comunque il tema dispersione avrebbe molti interventi, riceve numerosi finanziamenti di cui il recente PNRR ha il massimo sviluppo. Eppure anche questo tema rischia di diventare questione separata dalla scuola nel suo insieme. Si può comprendere, ad esempio, la necessità di professioni più elettivamente capaci di aiuto, ma c’è anche alto il rischio di nuovi “tutor-interventi speciali” o l’utilizzo esagerato del terzo settore come salvatori e delegati, capaci però di produrre loro malgrado (paradossalmente) forme “isolanti” piuttosto che “comunità educanti” in cui tutti, docenti studenti e famiglie, si fanno comunità reale, bella nella sua eterogeneità . Soprattutto non delegando ad altri “esperti” i problemi, e continuando la gran massa a vivere con la propria spicciola “normalità”.

3. Verso il deserto demografico

Quest’anno nasceranno meno di 380.000 bambini. Il calo demografico è ormai clamoroso. Sappiamo già che nei prossimi 10 anni dovremo fare i conti con lo sviluppo territoriale dei singoli istituti, dalle scuole dell’infanzia alle superiori, con il rischio di conflitti per visioni localistiche senza una visione realistica della condizione infantile e della crescita. Penso si debba avere il coraggio di un ripensamento collettivo della geografia scolastica che unisca il numero degli alunni con il territorio nel suo insieme (es. servizi sociali, opportunità, relazioni tra servizi). Meno bambini avremo in un territorio più si dovrà stare attenti ad offrire più opportunità integrate possibili perché il calo demografico non diventi un deserto, in cui bambini soli crescerebbero con poche opportunità intorno a sè. Anche in questo caso, quindi, serve una visione da comunità educativa, in questo caso con la responsabilità di tutti, dagli enti locali alla società civile, all’economia del territorio. Sarà dura. Ma altrettanto sarà realistico comprendere che avere pochi bambini rende necessario perderne il meno possibile. Da qui i tre punti di questo breve testo si sommano nel dovere di una visione integrata e unitaria che abbia a cuore la comunità civica nel suo insieme.
Per queste ragioni io penso che tutte le azioni in cui si costruiscono nei territorio forme di comunità attiva saranno sempre più necessarie, e perfino convenienti. Non solo per i nostri giovani, ma per un patto tra le diverse età della vita che nel prossimo futuro sarà più complesso che ai tempi dell’alta natalità.
Lo scambio tra generazioni sarà più delicatamente complicato, sarà necessario evitare “sprechi” umani e sociali, sarà quindi indispensabile e perfino conveniente fare il più possibile comunità.
Ecco perché, partendo da un aspetto particolare dell’inclusione scolastica qual è la “cattedra mista” , si comprende come ogni più piccolo gesto di partecipazione, corresponsabilità, creatività sarà utili al nostro non lontano futuro.




COME COMPILARE IL PEI A FINE ANNO

Nel canale Youtube di Gessetti Colorati è disponibile la registrazione dell’incontro svoltosi il 9 giugno 203 con Evelina Chiocca sul tema
COME COMPILARE IL PEI A FINE ANNO
anche alla luce delle ultime precisazioni del Ministero dell’Istruzione




Ius scholae, un dibattito quasi lunare

di Aluisi Tosolini

Si dibatte (anche molto aspramente) in questi giorni della proposta di legge definita jus scholae che interviene sul tema della cittadinanza.

La mia personalissima impressione – dal punto di osservazione in cui mi trovo – è che il dibattito in realtà abbia qualcosa di lunare, marziano, sia fuori dal mondo.

Sto facendo in questi giorni il presidente di commissione degli esami di stato in un grande e notissimo centro della provincia di Parma dove la percentuale dei cittadini stranieri residenti (quindi sia comunitari che extra comunitari) è pari al 21,2% (una persona su 5).
Nella provincia di Parma i cittadini stranieri sono il 14,7%, mentre a livello regionale la percentuale è pari al 12,6%  della popolazione contro l’8,4 di media nazionale (e l’Emilia Romagna è la prima regione in Italia per incidenza di stranieri residenti).

Gli studenti delle classi che stanno facendo gli esami rispecchiano la composizione sociale della popolazione della zona. Con diversi candidati abbiamo discusso anche della proposta di legge sulla cittadinanza che si sta dibattendo in parlamento.
Trovarsi davanti candidati 19enni, nati in Italia e che conoscono benissimo la lingua italiana, ben inseriti nel tessuto sociale, molti con un contratto di lavoro già in tasca presso le aziende del distretto che senza lavoratori stranieri sarebbero costrette a chiudere, fa impressione.
Sono italianissimi (certo più italiani di molti discendenti di antichi emigrati in sud America che per lo jus sanguinis potrebbero ottenere la cittadinanza italiana senza fatica) ma non sono cittadini.
A loro manca un diritto fondamentale, quello della partecipazione alla vita sociale e politica da soggetti attivi, votanti. Manca il sentirsi davvero a casa, il non essere e il non percepirsi come ospiti, cittadini di serie B.
Hanno frequentato le scuole in Italia, molti dalla scuola dell’infanzia in avanti e quindi ben più dei 5 anni richiesti dalla legge e che Fratelli d’Italia anni fa chiedeva fossero 8. Prenderanno il diploma, diversi si iscriveranno all’università.
Perché non dovrebbero avere la pienezza della cittadinanza italiana se lo chiedono e lo desiderano?

Una questione di coesione sociale

Personalmente credo che riconoscere queste persone come cittadini italiani sia non solo doveroso dal punto di vista etico e politico ma anche necessario dal punto di vista socio-economico. Sono questi i cittadini che terranno in piedi l’economia italiana nei prossimi anni. Sono loro che con il loro lavoro che finanzieranno l’INPS. Sono loro la linfa vitale della nostra società futura. Chi sostiene, surrettiziamente e ricorrendo alla solita tecnica del benaltrismo, che i problemi dell’Italia d’oggi sono altri, e nello specifico la crisi economica, i salari, l’inflazione il costo della vita, non si accorge che proprio a motivo di questi problemi economici sarebbe interesse dell’Italia riconoscere la cittadinanza a chi vive da anni in Italia.

La loro posizione pecca di iper-culturalismo ovvero l’opposto di quanto dicono. Appartengono a quanti farneticano attorno alle teorie della sostituzione etnica senza accorgersi che il declino della società italiana è già in atto e vede come responsabili primi proprio gli italiani stessi.
Da qui la necessità di riconoscere come nuovi italiani quanti hanno fatto un percorso scolastico in Italia: è una questione di coesione sociale. Infatti solo chi è pienamente cittadino fa parte compiutamente della società e può essere chiamato ad operare per il suo miglioramento, la sua crescita, il suo sviluppo ma anche il suo cambiamento, la rinegoziazione delle norme e delle regole del convivere sociale. Chi non è cittadino è ospite e come ospite non è tenuto a connettersi compiutamente alla rete sociale secondo logiche solidaristiche.

La centralità della scuola

La legge proposta, sin dal titolo, riconosce la centralità della scuola nella formazione di una persona e di un cittadino. Si tratta di una valorizzazione della cultura nel processo di acculturazione che conduce a condividere la lingua, le regole della convivenza, i valori di fondo che tengono assieme il tessuto sociale.
E’ il riconoscimento che la scuola forma in primo luogo cittadini e a questo scopo utilizza i saperi, le conoscenze e le competenze organizzandole dentro percorsi significativi di crescita umana, sociale, politica.
La proposta di legge riconosce alla scuola un compito e un valore spesso nascosti o negati dall’opinione pubblica che della scuola ha spesso una concezione distorta e decisamente parziale come il dibattitto di questi mesi ha più volte evidenziato con la richiesta di ritornare alla scuola di un tempo, quella che dava vere e solide conoscenze, quella che bocciava, che usava i voti come mannaia, quella che creava dispersione e abbandono Una scuola di classe tesa a sorvegliare e punire piuttosto che a formare cittadini critici e partecipi.

E’ di noi che qui si parla….

Così la discussione sulla legge è in realtà la discussione su noi stessi. Su chi siamo e su chi vogliamo essere. Sul presente e sul futuro della nostra società e della nostra scuola.
E, stando alle posizioni viste in questi giorni, l’orizzonte è abbastanza depressivo

https://www.giuseppebrescia.it/ius-scholae-ecco-il-testo-per-una-nuova-legge-sulla-cittadinanza/

 

 




La scuola di tutti è ancora un’incompiuta

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

 Erewhon è una parola che non c’è. È una parola che non si riconosce, che gli altri non sanno comprendere, perché è una parola diversa. Erewhon è una parola rovesciata, il suo dritto è Nowhere: In nessun posto.
Nel 1872 l’inglese Samuel Butler scrive un romanzo fantastico e satirico sul mondo di Erewhon dove i malati vengono messi in prigione e processati, le vittime sono considerate immorali, nelle scuole si insegna l’Irragionevolezza.

Un mondo solo apparentemente immaginario se riflettiamo bene, se pensiamo da dove siamo partiti per giungere all’inclusione di “tutti” nella scuola di tutti.
Dovremmo essere sempre inquieti, mai soddisfatti dei nostri risultati, perché noi che lavoriamo nella scuola entriamo in relazione con quanto vi è di più delicato e di più complesso nella storia di ogni persona. L’infanzia, l’adolescenza, essere bambina o bambino, ragazzo o ragazza e nessuno può scegliere quello che è, né il luogo della sua nascita né la famiglia, nessuno può scegliere la sua sorte, perché di sorte si tratta.
Abbiamo fatto molta strada per giungere a costruire la scuola di tutti, ma sono di quelle strade che non sono mai compiute, che a volte non trovi più sotto i piedi e ti tocca tornare a ripercorrerle da capo.

Le conquiste legislative non bastano se poi da strumento di progresso civile e di tutela delle persone più fragili diventano ostaggio di prassi burocratiche, dei ministri di turno e delle loro circolari.
Se guardiamo agli esiti che ci saremmo attesi dall’applicazione di leggi come la 517 e la 104 non possiamo sentirci soddisfatti. L’integrazione e l’inclusione degli alunni portatori di handicap ha costituito sempre un terreno di battaglia, per conquistare più ore di sostegno, più personale, educatori, spazi, la riduzione del numero degli alunni per classe, fino ad impedire che dentro alla scuola di tutti si riproducessero i ghetti delle classi speciali.
Le leggi coglievano i punti di arrivo della pedagogia speciale, ma le scuole e gli insegnanti rimanevano sempre identici a se stessi, salvo le eccezioni ovviamente, eccezioni che ormai non sappiamo se siano un vizio o una virtù delle nostre scuole.

La resistenza al cambiamento culturale e professionale ha prodotto la “clinicizzazione” della diversità, facendo della diversità una disabilità.
La scuola è di tutti perché tutti diversi. Invece no. Si sono pretese le certificazione cliniche per dispensare, per avere diritto ad una didattica individualizzata, fino a fare dell’essere straniero, dell’essere immigrato, del possedere una lingua madre non riconosciuta uno svantaggio da certificare. La scuola monolite. Gli insegnati monoliti.
La scuola di tutti necessitava dell’autonomia e del territorio, aspirava ad un sistema formativo integrato e nel momento in cui ne avremmo avuto bisogno non l’abbiamo trovato. In questi anni di pandemia ne abbiamo pagato la mancanza, abbiamo toccato con mano come un sistema formativo scuola-centrico abbia fallito, non sia stato in grado di essere la scuola di tutti e a pagare sono stati i bambini e le bambine, gli adolescenti che si sono persi nel bosco.
Mentre c’è chi pensa di salvare il futuro della scuola avvolto nelle nebbie dei propri pensieri come hanno dimostrato Paola Mastrocola, Luca Ricolfi e Luciano Canfora intervistati da Raffaella De Santis per la Repubblica, il PNRR procede con la Componente 1 della Mission 4: Rivedere l’organizzazione e innovare il sistema di istruzione.

La politica ha fallito, ma ha fallito soprattutto la scuola in tutte le sue componenti e a riformare il nostro sistema formativo provvederà l’Europa.
Intanto i miliardi del PNRR su disabilità e inclusione tacciono di un silenzio che non sa di distrazione.