E’ da un po’ che lo diciamo: le classi speciali stanno tornando!

di Raffaele Iosa

Sto lavorando con alcuni amici allo sviluppo di quella che abbiamo chiamato “cattedra inclusiva”.
Le ragioni pedagogiche nascono dal fatto che l’inclusione scolastica è in crisi sia per l’esplosione di migliaia diagnosi e certificazioni che hanno moltiplicato a dismisura i posti di sostegno, sia per una tendenza patologica a centrare nel solo “insegnante di sostegno”, eventualmente supportato dall’assistente comunale, la scolarità fino al termine “copertura totale” per intendere più che un’inclusione una paradossale “isolazione” di tanti bambini e ragazzi; tanto che più che di comunità di coetanei si dovrebbe parlare di guardiania pedagogica.
Per queste ragioni, tutte dolorose, proponiamo un cambio di rotta con una formazione dedicata e obbligatoria per tutti i docenti curricolari, per coinvolgere tutti nel processo attivo di inclusione.
Ma c’è anche una ragione più grave per cui ci siamo mossi ad allargare la partecipazione di tutti i docenti all’inclusione.
Il fatto é che numerosi segnali ci indicano una tendenza in atto volta a ripristinare “scuole speciali” separate tra i cd “normodotati” e i cd “neurospecifici”. A chi ci ha dato dei “pessimisti catastrofici” segnalo la scoperta di una nuova fantasiosa forma di scolarizzazione detta delle “sezioni di potenziamento”.
Lasciate perdere il termine che parrebbe positivo: si tratta invece di vere e proprie “classi speciali” composte da 4 a 7 alunni con un programma “isolante” e nel quale insegnanti (tutti di sostegno ovviamente), educatori e specialisti lavorano insieme tutti i giorni per tutte le ore di scuola.
Con trucchi amministrativi e una strana idea di autonomia scolastica si producono così “isole separate di fatto” dalla vasta ed eterogenea comunità di bambini e ragazzi.
I primi casi di questa bizzarra pedagogia vengono dal nord, da paesi piccoli (dove forse salverebbero le piccole scuole dalla crisi demografica). E vengono soprattutto nel mondo dell’autismo, sempre più spinto a didattiche unicamente speciali.
Ma la tendenza alla medicalizzazione diffusa in forme sempre più bizzarre, potrebbe favorire la nascita di sezioni di studenti iperdotati (altra moda del momento) oppure ragazzini “nervosi”, oppure ancora a identità di genere complessa.
Ognuno potrebbe avere la sua cura separata, con una scuola come reparto para-clinico, per la gioia dei tanti “nuovi santoni” che praticano terapie le più varie. Tutte centrate sul sintomo e nulla sulla persona.
Come temevo da tempo, la rottura é vicina. E dunque merita alzare il livello dell’attenzione e dello scontro verso tendenze isolazioniste pericolose per tutti i nostri scolari/studenti, verso una società sempre meno comunità e sempre più clinica manicomiale.




Cattedra inclusiva tra utopia e realtà

di Pietro Calascibetta

Sono già intervenuto sull’argomento e non voglio ripetermi. Desidero però fare alcune osservazioni prendendo spunto dalla piega che sta prendendo il dibattito, perché temo che si rischi di perdere di vista il nocciolo del problema per il quale è stata fatta la proposta di legge.
Se si vuole raccogliere dei consensi o dei contributi di riflessione su una proposta e trovare eventualmente le giuste mediazioni, bisogna che sia chiaro il problema che si affronta e l’obiettivo che si vuole raggiungere vedendo ciò che è più funzionale e ciò che lo è meno nella proposta e nelle obiezioni.

In caso contrario qualsiasi discussione prende la piega di un’esternazione di punti di vista in base al proprio umore o peggio dei propri orientamenti ideologici condivisibili o meno facendo naufragare ciò che di positivo è possibile fare utilizzando la suggestione della proposta.

LA “GRANDE MALATTIA”

Il fatto che le “certificazioni” siano aumentate è sicuramente un dato certo come scrive Raffaele Iosa in “Il declino dell’inclusione scolastica. Cambiare radicalmente rotta?”

Io però non sono del tutto d’accordo nel credere che sia il frutto di una generalizzata volontà di medicalizzare le difficoltà di apprendimento.
Le difficoltà di apprendimento esistono indipendentemente che siano o meno certificate così come esistono gli stili di apprendimento e i bisogni più o meno “speciali” e riguardano tutti gli studenti.
L’esplosione della “grande malattia” ha per me un’origine diversa da una generica volontà di medicalizzare i comportamenti degli alunni.
La “grande malattia” non è la causa del problema del “declino dell’inclusione” bensì un effetto.
Andare più a fondo di questo effetto permette di definire meglio il problema e individuare qual è effettivamente l’obiettivo da raggiungere.

Io penso e credo che vi siano stati due approcci diversi che hanno favorito il proliferare delle certificazioni: quello dei genitori e quello dei docenti e non sono due atteggiamenti “culturali”, ma partono da esigenze molto concrete.

Diverse famiglie hanno visto nella certificazione, ovviamente nei casi di disabilità non grave, un mezzo attraverso il quale poter chiedere alla scuola di prendersi cura dell’apprendimento del proprio figlio perché la certificazione impone per legge degli obblighi ai docenti.
In altre parole si tratta della richiesta ai docenti di dichiarare quali sono gli impegni che si prendono perché molte famiglie hanno perso fiducia nel fatto che la scuola si impegni realmente in questo.
Leggere il PTOF, le presentazioni delle attività, i progetti va bene, ma il genitore di uno studente con qualche difficoltà che si sente responsabile del suo futuro vuol sapere cosa fa la scuola nel concreto per metterlo in grado di imparare.
L’insegnante che dice di aver studiato per insegnare la sua disciplina in realtà ha le idee confuse sulla sua professione e nella comunicazione con le famiglie addossa spesso allo studente la responsabilità di non aver ottenuto la sufficienza per non aver studiato, non aver fatto i compiti e altro mentre lui ha fatto quel che doveva “spiegando” la materia e chiedendo alla famiglia di intervenire sul ragazzo per farlo impegnare di più, poco importa ad esempio se metà classe è insufficiente.
Quante volte si sente nelle assemblee di classe qualche docente che si lamenta di non poter svolgere il “programma” perché è rallentato dalla presenza di molti studenti in difficoltà!
Va ricordato a quel docente che far apprendere vuol dire trovare il modo più adatto a “connettere determinati allievi – aventi le loro esperienze, le loro preconoscenze, i loro stili di apprendimento ecc. – con determinati contenuti culturali, ciascuno caratterizzato da una propria struttura logica e metodologica” (da M. Castoldi).
Il “mestiere” del docente quindi non sta solo nel conoscere la disciplina e “spiegarla”, ma nel saper far apprendere la propria disciplina.
L’utilizzo della certificazione da parte dei genitori per chiedere che la scuola faccia il suo lavoro è ancora più vero a mio parere per gli studenti con DSA, le cui vicende ho seguito da vicino negli anni di servizio, studenti presi troppo spesso per svogliati, indolenti, distratti ecc.

Molte delle associazioni, per quanto mi risulta, sono molto determinate nel non volere che tali studenti vengano medicalizzati ribadendo in tutte le sedi che quelli che sono stati definiti ambiguamente “disturbi specifici” sono in un certo senso degli stili di apprendimento e in quanto tali vanno trattati attraverso una didattica realmente inclusiva come per gli altri stili e non con una didattica speciale, le misure compensative non sono tra queste.

La certificazione per i docenti invece ha, a volte, un significato diverso.
Spesso sono i docenti stessi a sollecitare ai genitori la certificazione immaginando così di aiutare lo studente facendosi autorizzare, grazie alla certificazione intesa come medicalizzazione, a trattarlo in modo diverso dai compagni senza considerare la possibilità di trovare invece una modalità adatta a “compensare” queste difficoltà costruendo una lezione per tutti che permetta a questo studente di apprendere come e con gli altri.

Nessuna legge vieta di utilizzare a discrezione misure compensative o dispensative per tutti gli studenti che abbiano difficoltà in alcune operazioni indipendentemente dalla certificazione.
Quindi andando al sodo, dietro la “grande malattia” vi è un “grande equivoco” che coinvolge in pieno il modo della scuola.
Qualsiasi progettazione didattica parte dalla situazione reale della classe e dei suoi studenti e l’individualizzazione e la personalizzazione non avrebbero bisogno di una certificazione per essere perseguiti nel modo più opportuno perché fanno parte del “lavoro” del docente per “far apprendere” e sono espressione della libertà di insegnamento e dell’autonomia didattica. Le certificazioni al massimo sono uno strumento informativo per meglio progettare l’attività didattica della classe. Ne consegue che la scelta dei metodi e delle tecniche di qualunque natura sono funzionali alla situazione della classe, dei singoli studenti e agli obiettivi da raggiungere. Su questo sono d’accordo con Iosa,

Ma non è quello che la stessa normativa generale chiede da sempre di fare?
Perché questo non è avvenuto e non avviene?
Questo è il vero problema.

E’ vero che i “Bisogni Educativi Speciali” sono spuntati ad un certo punto come un fungo nella normativa, ma a mio avviso, non sono una “trovata” estemporanea del burocrate di turno, ma vanno letti nel senso di una presa d’atto che tutte le indicazioni date a partire dagli anni ‘70 in decreti, circolari, Indicazioni nazionali e note sul compito della scuola di prendersi cura concretamente dei bisogni formativi degli studenti all’interno della propria progettazione attraverso l’individualizzazione e la personalizzazione dei percorsi (il famoso “non uno di meno”) non avevano sortito nulla o poco a livello nazionale al di là delle eccellenze.

Il ricorso all’introduzione di una serie di disposizioni formali e vincolanti di programmazione dell’individualizzazione è stata la risposta “politica”, probabilmente errata, al malumore delle famiglie per una situazione che si era di fatto creata.
Fare il PEI o il PDP però non dà automaticamente la competenza al docente di gestire l’apprendimento in aula di una classe eterogenea. Non è applicando dei protocolli individuali che si crea un contesto favorevole all’apprendimento per tutti, né l’inclusione.
Invece di chiedersi il perché i docenti non riuscivano a fare quello che già la legge prevedeva hanno preferito trovare la scorciatoia dell’obbligo.
Allora ripropongo la domanda, perché tutto questo è avvenuto?

Non tanto per una cattiva volontà dei docenti, ma per una mancata formazione iniziale e in servizio su come fare una didattica inclusiva e su come gestire le difficoltà di apprendimento in una scuola di massa qual è quella voluta dalla Costituzione.
E’ il profilo del docente curricolare che andava cambiato.
Gli insegnanti curricolari, con la scusa dell’autonomia, sono stati lasciati a sbrigarsela da soli a fronte di un contesto profondamente cambiato senza avere gli strumenti per gestire questa complessità. Questo va detto per sostenere la proposta.

IL GRANDE EQUIVOCO DELLA CATTEDRA DI SOSTEGNO

La mancata formazione di tutti i docenti all’inclusione deriva dalla scelta a livello legislativo fatta in occasione dell’abolizione delle classi differenziali di formare solo una parte dei docenti per l’insegnamento agli studenti con disabilità certificata, come se avessero dovuto affiancarli in aula per tutte le ore facendo credere alle famiglie e anche ai docenti curricolari che l’insegnante di sostegno avrebbe risolto tutti i problemi di apprendimento e di inclusione.
La verità è che con l’introduzione del docente di sostegno non si è risolto il problema dell’apprendimento dello studente né dell’inclusione, ma si è messa la solita pezza per nasconderlo.
L’insegnante di sostegno assolve sicuramente ad un ruolo importante, ma non c’è nulla di più eterogeneo della disabilità, ogni alunno ha i suoi bisogni ed è per questo che viene definita una presenza in classe del docente di sostegno diversa da caso a caso, comunque per un numero ridotto di ore rispetto all’orario di lezione completo (aggiungo io, per fortuna), di conseguenza far apprendere gli alunni con disabilità non è un compito esclusivo del docente di sostegno, ma è anche un compito a cui concorre il docente curricolare che non può sottrarsi giacché copre il resto delle ore. Insegnare agli studenti con disabilità fa dunque parte del lavoro del docente curricolare nonostante vi sia una percezione diversa nell’immaginario collettivo.
Questa non è un’opinione, è un dato di realtà da cui partire per trovare una soluzione.

ARRIVIAMO AL PROBLEMA

Un errore strategico questo i cui nodi sono venuti al pettine quando si è cominciato a capire che:

  1. i bisogni speciali non sono solo quelli degli studenti con disabilità elencati nella legge 104, ma anche altri;
  2. i bisogni speciali possono essere anche temporanei e di origine sociale;
  3.  anche la presenza di stili di apprendimento diversi richiede un approccio inclusivo all’apprendimento;
  4.  l’inclusione non riguarda gli alunni in difficoltà, ma tutti gli studenti. L’inclusione è la condizione che fa del gruppo classe un dispositivo per l’apprendimento di tutti perché favorisce proprio quel contesto di relazioni positive che permette al docente di connettere i propri allievi con le conoscenze della propria disciplina.

L’inclusione non è semplicemente un “valore” o un “principio” o una buona azione, ma una condizione perché il docente possa fare il proprio lavoro. Va data dunque una rilevanza professionale alla proposta.

Invece di affrontare il problema causato dalla mancata formazione dei docenti curricolari, come si è detto, si è aggiunta la pezza dei BES, da qui il “declino dell’inclusione” è diventato un problema vero e proprio.
La conseguenza di tutto questo è che la scuola è diventa, come scrive Iosa, non una “comunità aperta e creativa, ma triste luogo di para cura protetti da leggi, commi, documenti manualistici, terapie sintomatologiche”.
Ma cosa ci si poteva aspettare da un Ministero che pensa che la governance del sistema delle autonomie sia solo amministrativa e non anche e soprattutto pedagogica e didattica (vedi la mortificazione del ruolo assegnato oggi agli ispettori nonostante quello che sarebbe dovuto essere il loro inquadramento con le nuove norme e la triste fine degli IRRSAE di cui non è rimasto più neppure il ricordo del loro prezioso ruolo nella formazione in servizio e nell’innovazione negli anni d’oro delle sperimentazioni).
La questione centrale per un discorso sull’inclusione è come far sì che un docente curricolare abbia le competenze per affrontare e gestire in modo unitario l’eterogeneità di un gruppo classe.

Tutti dovrebbero aver consapevolezza che la formazione iniziale del docente curricolare non prevede competenze di gestione né degli studenti disabili, né, voglio aggiungere, degli studenti con bisogni speciali ad esempio quelli con DSA, né di come gestire dal punto di vista dell’apprendimento un gruppo eterogeneo di studenti con problematiche e stili diversi in modo unitario.
Se è questo il problema forse varrebbe la penna di lavorare per risolverlo. La proposta di legge sulla cattedra inclusiva oltre ad essere molto suggestiva in che misura può affrontare realmente il problema in mezzo a tanti pregiudizi e fake presenti nell’opinione pubblica?

UNA CATTEDRA INCLUSIVA O UN DOCENTE INCLUSIVO?

La proposta di far acquisire al docente curricolare una preparazione tale (possiamo chiamarla anche specializzazione) da poter affrontare i bisogni speciali dei suoi allievi e la gestione di una classe eterogenea è a mio avviso una risposta funzionale al problema tenendo presente che la formazione è anche carente sul piano delle competenze relative soprattutto alla relazione educativa e alle dinamiche di gruppo che tanto peso hanno nell’inclusione.
Se si vuole dare forza ad una proposta che riesca ad affrontare il problema è meglio puntare sul docente curricolare inclusivo che a mio avviso coinvolgere in modo più chiaro e diretto gli interessati, cioè i docenti curricolari, le famiglie e gli studenti.

Perché un docente su posto comune dovrebbe aver voglia di impegnarsi in un tale cambiamento? Solo per un ideale o perché il cambiamento può anche migliorare le sue condizioni di lavoro attuali e la sua realizzazione professionale? Io credo che possa essere per questo.
Perché le famiglie dovrebbero appoggiare la proposta? Perché può andare incontro alle aspettative di tutte le famiglie un docente preparato a prendersi cura dei propri figli sia che siano fragili, sia talentuosi e che riesca a portare al successo la propria classe.
Un vantaggio per l’insegnante diventa un vantaggio per gli studenti con BES, le loro famiglie e gli studenti che qualcuno definisce “cosiddetti normali” per una gestione più efficace, serena e cooperativa delle dinamiche del gruppo classe che favorisce l’apprendimento di tutti.

In merito alle riserve avanzate da qualcuno sulla reale possibilità di formare tutti i docenti, credo che non possa essere motivo per cassare una proposta. Chi respinge la proposta solo con questi argomenti fa finta di non vedere il problema.
Abbiamo individuato un problema reale all’origine del “declino dell’inclusione” e una soluzione ragionevole e necessaria sul piano professionale che poi valorizza anche il ruolo del docente e può volendo aprire ad una motivata revisione dello stipendio a fronte di un miglioramento della qualità della prestazione.
Il modo di pensare i contenuti e la modalità della formazione in base alle problematiche di attuazione è una responsabilità che, chi di dovere dovrebbe prendersi.

DALL’UTOPIA ALLA POSSIBILITA’

Avere una cattedra unica per il posto comune e per il sostegno con dei docenti che possono essere impegnati nell’uno o nell’altro incarico permetterebbe in teoria una reale flessibilità nell’utilizzo della risorsa e potrebbe affrontare le difficoltà che oggi ci sono nel reclutamento dei docenti di sostegno. Fin qui tutto bene.
I problemi cominciano quado si propone che ciascun docente una volta formato utilizzi il monte ore della propria cattedra inclusiva sui due posti, comune e di sostegno, che comunque rimangono distinti.
Ci si domanda come utilizzare tale flessibilità calandola nell’organizzazione della scuola qual è ora perché possono esserci diversi problemi non di poco conto di cui ho già scritto.
Introdurre l’obbligo di destinare a ciascun docente una parte dell’orario di cattedra sul sostegno e l’altra sulla disciplina a livello di istituto, come vorrebbe la proposta, creerebbe, a mio parere, non poche difficoltà nell’assegnazione dei docenti alle classi e conseguentemente nella possibilità di predisporre un orario dignitoso per tutti (studenti e docenti), nel poter assegnare i docenti in base ai bisogni degli studenti e non con criteri burocratici, senza parlare del poter organizzare le riunioni dei consigli di classe e degli scrutini alla presenza di tutti i docenti che lavorano sulla classe. E poi quante ore per l’uno e per l’altro incarico? Chi lo stabilisce, il dirigente?

Forse una soluzione intermedia più fattibile sarebbe avere un docente curricolare su cattedra inclusiva su tutte le ore del posto comune ed uno sempre con tutte le ore su posto di sostegno con possibilità da studiare una modalità di passaggio da un posto all’altro in base a taluni vincoli anche attraverso procedure interne allo stesso istituto seguendo le necessità della progettualità collegiale, valorizzando così l’autonomia (in realtà che autonomia è un’autonomia che impedisce di utilizzare in modo flessibile le risorse umane!)

Cosa diversa sarebbe se si potesse costituire una sorta di organico dell’autonomia per biennio o per sezione in cui ai docenti con cattedra curricolare con più classi vengano assegnate solo quelle della sezione o del biennio in modo da poter essere impegnati nel completamento dell’orario di cattedra in attività di potenziamento o di sostegno, un organico che può essere arricchito con ulteriori docenti prelevati dalla dotazione di potenziamento di istituto.
In questo caso un docente di cattedra inclusiva potrebbe spendere le sue ore su entrambi i posti senza che questo crei complicazioni organizzative.

Si tratta di utilizzare lo stesso principio dell’organico dell’autonomia questa volta non sulla scuola ma su singole unità operative. In questo modo si formerebbe un’équipe di docenti e le ore di copresenza per il sostegno potrebbero essere gestite dai docenti della sezione o del biennio ad esempio in una riunione collegiale iniziale in base alla situazione delle classi e ai bisogni degli studenti alla stregua di come si fa per le compresenze nei progetti o UdA tenendo ovviamente conto dei vincoli nell’assegnazione del monte ore individuale agli studenti con disabilità.
Questa soluzione risolverebbe anche il problema dei docenti curricolari con 6 o 8 classi per i quali sarebbe difficile accedere ad una cattedra inclusiva con doppio incarico.
Una soluzione che valorizzerebbe certo l’autonomia e il ruolo progettuale dei docenti, ma che andrebbe ben studiata anche in relazione ai vari indirizzi di studio e ai cicli.

Limitarsi a potenziare la formazione dei docenti su posto comune come si è scritto sopra facendone dei docenti inclusi sarebbe già un notevole risultato e un cambio di prospettiva anche culturale riportando al centro l’unitarietà dell’insegnamento e chiarendo il ruolo paritario e complementare del docente di sostegno e di quello curricolare nello sviluppo del curricolo disciplinare e trasversale dello studente.

Anche nel caso di non unire le due cattedre e lasciare la cattedra di sostegno come è ora potrebbe però essere possibile comunque fare ancora qualcosa di più per migliorare la qualità dell’inclusione.

Si potrebbe fare anche del docente di sostegno come del docente curricolare, un docente inclusivo con una formazione ancora più arricchita sul piano psicosociale anche valorizzando nelle graduatorie e nell’accesso gli aspiranti provenienti dalle lauree in scienze pedagogiche costretti a prestare servizio nella scuola tramite il lavoro precario nelle cooperative.

Ciò permetterebbe al docente di sostegno non solo di seguire gli studenti con disabilità, ma di avere una competenza più specifica per coordinare in modo professionale l’azione di inclusione dei consigli di classe in cui opera riservando a questo compito anche una parte dell’orario di cattedra per attività di progettazione, tutoring, consulenza ai docenti e alle famiglie.
Sarebbe l’occasione per assegnare loro la qualifica di “docente esperto” (Legge 79/2022) con relativo ritocco dello stipendio provando a dare un utilizzo più accettabile a tale qualifica perché legata ad un compito specifico rispetto al solo insegnamento uguale per tutti e aprendo la strada all’introduzione di vere e proprie figure di sistema.
Potrebbe essere un incentivo per il reclutamento di risorse motivate con la prospettiva di svolgere un’attività più gratificante, utile e con uno sviluppo professionale.

Anche questo potrebbe essere un “cambio di rotta” significativo e un’idea per la discussione nonostante non coincida perfettamente con la proposta di legge.




Il declino dell’inclusione scolastica. Cambiare radicalmente rotta? (a proposito dei dati Istat 2022/23)

di Raffaele Iosa

Come tradizione, a febbraio ISTAT pubblica il suo Rapporto annuale sull’inclusione scolastica degli alunni/studenti con disabilità.  Questo  dell’a.s. 2022/23 è da leggere con attenzione per i segnali di crisi registrati che, visti nell’arco  del primo quarto di questo secolo registrano  un declino (forse) irreversibile  dell’inclusione scolastica à l’italienne.
Un declino che pare interessare  pochi studiosi, visto che il rapporto ISTAT da anni non riesce a sollevare  un serio confronto sulla natura e le cause della crisi, tale da cambiare quasi del tutto l’ispirazione dell’inclusione nata negli anni 70 del secolo scorso. In 50 anni è cambiato quasi tutto, prevalentemente in peggio.
Queste mie note sono un allarme lanciato a tutto mondo della scuola, alla politica e alla società civile, perché ormai il declino non è più davanti a noi. E’ arrivato.

  1. L’esplosione della grande malattia

Partiamo in primis dagli alunni e studenti con disabilità presenti nell’anno scolastico 22/23.
Sono ben 338.000 dalla scuola dell’infanzia alle superiori. Ben il 7% in più in un anno scolastico. Per la prima volta nella storia dell’inclusione superiore al 4% della popolazione scolastica.

Questo aumento appare ancora più grave se si vede la progressione decennio per decennio da inizio secolo ad oggi. Vediamo gli anni “critici” e la loro progressione.
a.s. 2000/2001 alunni/studenti:  126.000 (1.3% della popolazione scolastica)
a.s. 2010/2011  alunni/studenti  208.520  (2.3% popolazione scolastica) + 165%  dei certificati
a.s. 2022/2023  alunni studenti   338.000   (4.1%  popolazione scolastica) + 300% dei certificati.
Dunque un primo dato clamoroso su cui riflettere: alunni e studenti con disabilità triplicati negli ultimi 20 anni. Un dato cui ho prestato attenzione da molto tempo e che ho chiamato in molti miei scritti “l’epoca della grande malattia”, cercando di comprendere le ragioni sociali, cliniche, antropologiche, di questa esplosione.  Un dato in continuo aumento per una perversa e poco studiata medicalizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza. Domina il mito dell’eziologia genetica e (come spesso capita se non si hanno prove certe) dell’epigenetica. Dunque una colpa chimica e biologica, che frammenta l’umano in sintomi circoscritti, perdendone l’unitarietà olistica.

Siamo però oggi ormai oltre.  La “medicalizzazione” si espande oltre la disabilità ex Legge 104/92. Infatti dal 2010 con una Legge iatrogena si introdusse la neo categoria medicale dei D.S.A.  (dislessia, disgrafia, ecc..).
L’intenzione era di “dare aiuto”  ai ragazzini dislessici, che io da buon figlio di Vigotsky mai avrei chiamato “disturbati” ma avrei parlato di “difetti”. Si inventò la categoria quasi metafisica dell’aiuto didattico dispensativo e compensativo con un’esplosione di conflittualità nuove tra scuola e famiglie su cosa volesse dire, con conflitti e cause in tribunale.

La Legge sui DSA voleva anche contenere l’uso della Legge 104 sulla disabilità spesso utilizzata per classificare questi soi disant “disturbi”. Terra terra voleva dire: ragazzini certificati con diagnosi clinica ma  “senza bisogno dell’insegnante di sostegno”. Oggi questi ragazzini DSA sono ormai superiori ai 320.000 certificati (a.s. 2021/22), il 5,4% degli studenti dalla 3.a primaria alle superiori. Ma non basta: per una scelta tutta ministeriale e non politica nel 2012 si inventò la categoria dei cd. BES, contenente studenti con  “disturbi” i più vari non catalogabili dalla clinica, ma a  cui concedere il dispensativo e compensativo. Su questa parte di neo-disturbati si diede alle scuole la possibilità di individuarli internamente.
E per tutti i BES si impose il  PDP, parodia del PEI.

L’ultimo utilizzo (quanto mai strano) della categoria BES  è avvenuto nel 2022, in risposta all’arrivo dei bambini e ragazzi ucraini profughi dalla guerra cui si concesse di fare scuola un po’ alla buona, dispensando e compensando, e dimenticandoci di collegarsi invece con la fortissima pratica della didattica online che la scuola ucraina offriva ogni giorno nonostante la guerra!

Tenendo conto che la categoria “Bes” non ha dati precisi raccolti, si può comunque sostenere che in Italia ci sono oggi circa 1.000.000 di bambini e ragazzi considerati “speciali” da coprire con una certificazione e una didattica “speciale” o forse meglio verrebbe da dire “non-normale”.

Perché questo è il dramma di questi numeri: un processo di separazione-isolazione dei giovani umani secondo categorie cliniche sempre più invadenti, centrate sul “sintomo”, con lo sviluppo di una neo-burocrazia pedagogica,  fatta di carte, riunioni, programmazioni separate. Una normativa barocca e ovviamente nuove cause giudiziarie su quanto dispensare e compensare.
Ha accompagnato  questa esplosione diagnostica, stravolgendo anche il sistema sanitario, una pesantissima normazione ministeriale delle regole amministrative e scolastiche, tra GLO militarizzati e la raccolta informatica di tutti i PEI visti come “moduli da compilare”, e all’ICF usato come “contatore para-clinico per le ore di sostegno/per caso h” piuttosto che nuovo strumento pedagogico interpretativo della persona in una più aperta dimensione bio-psico-sociale.
L’esplosione numerica della casistica clinica, para-clinica,  para-sociale dei nostri alunni/studenti  ha fatto esplodere una forte sofferenza e confusione nelle scuole e un aumento di conflittualità e incomprensioni con le famiglie e i servizi territoriali.

Ha accompagnato questa esplosione di confusione nelle scuole  un parallelo e abnorme sviluppo di strutture cliniche e paracliniche, enti e associazioni specialistiche con operatori  privati che offrono servizi “tecnici” con “esperti” di incerta validazione accademica.  A volte con l’apertura di nuove para-scuole speciali che giungono all’isolazione definitiva. Un sistema clinico  parallelo al pubblico servizio tradizionale  mai effettivamente regolato,  eppure molto assertivo.

Ma non basta. I nostri lettori più attenti rileveranno facilmente come negli stessi anni di questa esplosione di disabilità e di vari disturbi si è sviluppata una vasta letteratura sul “grande dolore” di essere piccoli e giovani, che ha avuto al tempo del COVID la sua apologia. Superfluo qui descrivere i numerosi casi di ricerche drammatizzanti, i fantasmi su nuove malattie della crescita, la predicazione di nuovi santoni in tanti  convegni dolenti. Insomma, si è diffuso negli adulti italiani un pessimismo fatale circa l’idea che essere piccoli e giovani oggi è  più di sempre nella storia  “una grande malattia”.
Può essere anche questo, tra le varie cause,  motivo del calo demografico? Avere un figlio appare sempre di più un rischio da evitare, piuttosto  che un sogno?

Con il nuovo Governo di destra la questione pare prendere una doppia piega. Una prima piega piagnona sui “disturbi esistenziali” (per es. l’educazione all’affettività con ore di lezione-predica), e una seconda piega, la  piega cattiva verso i ragazzi che disturbano,  o che menano, o che marinano la scuola: da qui  la terapia della minaccia (dal voto in condotta ai genitori in galera).
Insomma, pietismo e  castigo, abbandonando una visione olistica di ogni nostro singolo alunno/studente e una pratica attiva comunitaria e sociale dell’esperienza educativa. Ad ognuno la sua terapia. La scuola non come comunità aperta e creativa, ma triste luogo di para cura protetti da leggi, commi, documenti manualistici, terapie sintomatologiche. Mai un pensiero pedagogico  attivo e ottimistico  verso i nostri piccoli.

  1. Insegnare nell’isolazione

Naturalmente all’esplosione iatrogena si è accompagnata un’esplosione di posti di lavoro nell’area educativa, svolta con un apparato professionale e amministrativo confuso e arruffato,  con corsi di corsa (si scusi il bisticcio)  per dare a piene mani  migliaia di posti di sostegno. Ma il dramma vero e la nuova isolazione nella “copertura” del sostegno  è accaduta perchè oltre alla triplicazione dei posti di sostegno, nulla si è fatto per far crescere nell’intero sistema docente la consapevolezza comunitaria dell’inclusione.
Anzi, c’è di peggio: si è ormai consolidata l’idea che è l’insegnante di sostegno sia l’unica soluzione all’inclusione dei disabili, che tocca a lui/lei sapere e insieme saper fare,   accompagnati da circa 70.000 educatori (laureati triennali in pedagogia) dipendenti da cooperative sociali pagati ben sotto i 9 euro/ora. Insomma l’inclusione attuale ha un altro nome mitico e affannosamente richiesto dalle famiglie: la cosiddetta copertura. Se non c’è la copertura di tutte le ore di frequenza scolastica la scuola rischia il tribunale, e soprattutto: se non c’è la copertura come fa il docente disciplinare a insegnare?

Sta dilagando nelle nostre scuole un modello duale di scolarità: si entra tutti dallo stesso portone, ma dove e con chi si fa scuola dipende dai certificati  e dalle diagnosi,  dalle aule h, dalle teorie dei tanti “tecnici” con soluzioni spicce  se un bambino mena i compagni o si fa la cacca addosso.
Come non vedere in questo mito della copertura l’inizio di un nuovo modello di “scolarità speciale”?
Una regressione triste  dall’esperienza di inclusione così aperta e coraggiosa nata negli anni 70. D’altra parte se tutti i bambini e ragazzi sono ormai  un problema a sé, non è più comodo dividere gli insegnanti ancora di più per problema?
Infatti c’è di peggio. Anche nell’area della cd “dispersione”, nell’area dei cd NEET, nei diversi progetti del PNRR per migliorare la qualità degli esiti scolastici per tutti riducendo i fallimenti scolastici, emerge sempre di più un’idea separativa delle professioni: dai diversi tipi di tutor, ai progetti col volontariato sociale, ai santoni offerenti la ricetta salvifica.

  1. Cambiare rotta per un’inclusione comunitaria

Sta emergendo insomma sempre più un sistema educativo binario, composto da un sistema doppio di operatori educativi: quelli detti del “curricolare”  che si occupano dei normali, e quello degli “esperti coperti” che si occupano di sfigati, disabili, poveri, stranieri, e così via. Carriere separate e funzioni separate.
Dunque, è doveroso da parte di chi crede come me che la scuola è  inclusiva se tiene tutti insieme traendo da tutte le diversità un valore, spetta a noi “inclusivi integrali” ribellarci da questa deriva. L’art. 3 della Costituzione ci chiede di “rimuovere gli ostacoli” e l’accomodamento ragionevole dell’ONU ci chiede appunto la ragionevolezza del fare comunità. La deriva che sta prendendo la scuola è invece dolorosamente sempre più isolante, di anno.  E’ necessaria una svolta radicale.
Per questo motivo, assieme ad un gruppo di amici senza alcun potere politico né professionale, brava gente che si è occupata di inclusione dagli anni 70, ho partecipato con gioia alla costruzione di un progetto radicale di ricostruzione della professionalità docente inclusiva che ha come struttura fondante una semplice ed essenziale regola:  tutti gli insegnanti si occupano di tutti i loro alunni/studenti.

Perché la crisi dell’inclusione di cui qui scrivo  e la diffusa isolazione con le coperture  è conseguenza del totale abbandono dei docenti in genere alla formazione intensa e obbligatoria di una loro effettiva competenza inclusiva. Gran parte dei docenti italiani non ha alcuna competenza sostanziale sulle pratiche inclusive, sia che riguardino studenti con disabilità, sia tutte le altre categorie umane e sociali che rischiano la dispersione e l’abbandono.  L’abbiamo chiamata “cattedra inclusiva”, cioè capace di superare la dicotomia disciplinare versus sostegno, cioè una competenza strutturale necessaria per tutti e da diffondere oggi ben oltre la disabilità.

Ne è uscito perfino un disegno di legge. Sappiamo già che sarà  molto difficile. Ma vogliamo seminare un pensiero radicale nuovo, partendo da quegli insegnanti e scuole che non si sono arrese alla delega ai sostegni solitari e agli esperti vari. In fondo la questione non riguarda la qualità educativa per una parte debole, ma tocca tutti i nostri bambini e ragazzi. Insomma non lo facciamo per bontà,  ma per una questione di democrazia pedagogica reale. In una scuola in cui tutti siano utili agli altri. In cui crescendo insieme si diventa cittadini. Crescendo separati si diventa invece semplicemente e solo egoisti.  E’ dunque una questione pedagogica e insieme politica. Radicale, appunto, come fu negli anni 70 ai nostri giovanili inizi.




La cattedra inclusiva, una proposta impossibile? Le utopie servono per cambiare

di Antonio Giacobbi

 

Ho trovato molto interessante il documento, presentato nella forma di progetto di legge, che mira ad introdurre nelle scuole di ogni ordine e grado la “cattedra inclusiva” .

È firmato da esperti da sempre impegnati per l’inclusione degli alunni con disabilità, tra i quali Dario Ianes del Centro Erikson e Raffaele Iosa, già dirigente tecnico e componente il Comitato Tecnico Scientifico di Proteo Fare Sapere.
Di cosa si tratta?
Per dirla con Ianes da una intervista su Orizzonte Scuola: “Una scuola inclusiva, una scuola dove non ci sia più la separazione netta e perversa tra insegnanti curriculari normali, cosiddetti, insegnanti di sostegno dedicati a chi ha una specialità, una disabilità. Ecco, questa non è una scuola inclusiva” e ancora “Il curricolare fa il sostegno, il sostegno fa il curricolare, si è abilitato, per cui abbiamo questo intreccio di competenze per una scuola più inclusiva per tutti e per tutte.”
Detto così può sembrare complicato da un lato e riduttivo da un altro, e probabilmente produrre una prima reazione: “impossibile”. In realtà il testo articola tempi, procedure, formazione, finanziamenti.

Intanto ha sicuramente il merito di riaprire il dibattito sull’inclusione che sembrava chiuso dopo il D.Lgs 66 del 2017 emanato in applicazione della delega prevista dalla legge 107/2015. È vero che il testo della legge parlava (ancora!) di “docente di sostegno”, ma sarebbe stato possibile, pur confermando la figura, andare verso una scuola inclusiva in cui tutti i docenti fossero formati a lavorare con gli alunni disabili, mantenendo la specializzazione sul “sostegno” per una piccola quota di insegnanti, per disabilità particolarmente gravi e per coordinare e sostenere, con competenza, le attività di tutti i docenti dell’Istituto.
Non andò così, occasione sprecata. Negli anni sono poi cresciuti gli alunni certificati e i docenti per il sostegno. Sul punto rinvio alle considerazioni svolte da Raffaele Iosa (Iosa, la grande malattia). È possibile riprendere la discussione e formulare altre ipotesi? Sì, ci dice la proposta di legge, e indica una direzione.
La proposta sembra incontrare più di una difficoltà. Appare maggiormente praticabile nella scuola dell’infanzia e primaria. Le competenze che i docenti acquisiscono nei corsi di scienze della formazione primaria aprono a questa possibilità. Sarà necessario probabilmente rivedere il percorso di studi o aggiungere qualche esame. Sarebbe interessante sapere se in qualche scuola già si applica.
Nella scuola secondaria è oggettivamente più complicato soprattutto per via della formazione esclusivamente discliplinarista dei docenti. Il progetto di legge propone un percorso graduale. Si tratta infatti di assicurare sia la specializzazione sul sostegno sia l’abilitazione sulla disciplina, senza che si dia luogo né a minor competenza didattica nell’insegnamento della disciplina né ad una minor qualità dell’inclusione. Si può fare? Penso di sì. È necessario approfondire ma il testo mette già in campo proposte importanti a partire da un piano di formazione in servizio e di quella iniziale che dovrebbe assicurare che almeno un terzo dei CFU/CFA previsti dal DM 4 agosto 2023 siano dedicati ad aspetti metodologico-didattici per l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità.
Da sottolineare la proposta del coordinamento pedagogico di istituto e territoriale che trovo necessari. In quello territoriale confluiscono centri già presenti con lo scopo, credo, di qualificare e semplificare gli interventi e le relazioni con i diversi attori coinvolti nell’inclusione. Il coordinamento interno all’istituto scolastico che “sostiene la qualità dell’insegnamento attraverso supervisioni, supporto formativo e attività inclusive” è formato da docenti formati che sono distaccati dall’insegnamento per metà dell’orario.
Perché no, visto il decremento della popolazione scolastica? Sulla proposta ho letto perplessità, chiusure (alcune inaccettabili: “io ho studiato per insegnare una disciplina, non per fare il sostegno”: ai docenti che lo pensano suggerisco, oggi che sono buono, di rileggere la Costituzione e Don Milani), interesse, qualche condivisione, ma anche notevoli aperture… Da parte mia ringrazio gli autori e penso che vale la pena di discuterne.




Cattedra inclusiva: il profilo del docente specializzato ha mezzo secolo di vita

di Simonetta Fasoli

Lo scorso 25 gennaio è stato presentato, a cura dei suoi estensori (gli esperti Evelina Chiocca, Paolo Fasce, Fernanda Fazio, Dario Ianes, Raffaele Iosa, Massimo Nutini, Nicola Striano) un “Progetto di legge per l’introduzione della cattedra inclusiva nelle scuole di ogni ordine e grado”. Si tratta di un’iniziativa destinata ad avere, già nel suo primo impatto, una notevole risonanza per la natura e la rilevanza delle questioni di cui esplicitamente si occupa.

Io stessa, nel commentare un articolato e interessante intervento pubblicato su Facebook dal collega Pietro Calascibetta, auspicavo che fosse occasione per un approfondimento e un confronto aperto, per sviluppare quella cultura dell’inclusione di cui più che mai si sente il bisogno.
In quest’ottica si pone il contributo che oggi e qui intendo dare.

Ho letto con la dovuta attenzione il Progetto di legge, strutturato nella forma come una proposta destinata al dibattito parlamentare. Connotato che sottolineo per almeno due ragioni.
La prima è che un tema così rilevante deve sottrarsi a qualsiasi rischio di velleitarismo, e alla fin troppo abusata tendenza a “gettare un sasso nello stagno” per “vedere l’effetto che fa”, inevitabilmente esposta al fuoco di fila degli schieramenti opposti, che fanno aggio sui buoni argomenti.
La seconda è che la sede parlamentare, nei modi previsti, è il luogo istituzionale idoneo a dare forma a temi che riguardano i diritti e la loro esigibilità.

Il progetto di legge è anzitutto un’occasione preziosa, da non perdere, per riflettere e confrontarsi sul tema della disabilità nel sistema di istruzione ed educazione, e sulla cultura dell’inclusione che è più di una cornice: è lo sfondo che dà senso ad ogni intervento. Grazie davvero, dunque, a questo gruppo di colleghi che, venendo da diversi contesti e biografie professionali, si sono fatti carico di dare forma e sostanza ad una tappa importante del percorso verso una “compiuta inclusione”: con coraggio, onestà intellettuale, competenza e, non ultimo, passione attraversata dal vaglio dell’esperienza.
Fatte queste premesse, vorrei procedere con alcune considerazioni, possibilmente con la ragionevole sintesi che il luogo e il mezzo suggeriscono.

Parto, come uso fare in contesti anche di riflessione professionale, dalle fonti, che sono norme ma anche significati culturali che le animano. Vorrei soffermarmi sulla figura e la funzione del docente di sostegno, assumendo che il Progetto in parola non ne propugni la scomparsa (come qualcuno già sta paventando…) ma la rivisitazione.
Se è questo, come mi sembra plausibile, l’intento, bisogna prenderlo sul serio. Suggerisco a questo proposito di andarsi a rileggere il D.P.R. n. 970 del 31.10.1975, che individua i tratti essenziali del profilo dell’insegnante di sostegno, assegnato, dice la norma, “a scuole normali per interventi individualizzati di natura integrativa in favore della generalità degli alunni e in particolare di quelli che presentano specifiche difficoltà di apprendimento.”
E’ mio il grassetto, con cui evidenzio passaggi a mio avviso rilevanti e pertinenti al tema. E’ appena il caso di sottolineare che la norma precede di circa due anni la L. 517 del 4 agosto 1977, che porta al livello ordinamentale il processo di integrazione nella Scuola di Base, superando le classi differenziali e le scuole speciali e introducendo appunto la figura dell’insegnante di sostegno all’integrazione.
Il criterio ispiratore delle due norme appena ricordate è in definitiva il superamento di ogni SEPARATEZZA come “trattamento educativo” della diversità e delle differenze. La prima “separatezza” da oltrepassare è (come spesso osservo negli incontri di formazione con i docenti) quella che si pone tra docenti comuni e docente di sostegno, emblema del trattamento separato destinato agli alunni disabili.
Superfluo, per gli interlocutori di questo mio intervento, sottolineare la variegata casistica delle pratiche invalse nelle scuole di ogni ordine e grado a conferma di questa tendenza. Diverso è, ovviamente, il diritto ad una didattica differenziata che è espressione del diritto all’istruzione e alla formazione di ogni alunn*. Ma qui il discrimine è sottile quanto decisivo: si differenzia PER integrare, nella prospettiva dell’inclusione. Per questo il docente di sostegno è, a tutti gli effetti, il docente della classe e nella classe.

Di qui, l’altro principio-cardine che caratterizza, fin dall’origine, l’esercizio della funzione del docente di sostegno: la CONTITOLARITA’ nel contesto del team dei docenti della classe.
E’ così sostanziale questo principio che dopo ben diciassette anni dalla L.517/77, le Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità” (Nota Miur del 4/08/2009) lo richiamano, affermando tra l’altro:
“[…] il contenuto della Legge 517/77 che a differenza della L. 118/71, limitata all’affermazione del principio dell’inserimento, stabilisce con chiarezza presupposti e condizioni, strumenti e finalità per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, da attuarsi mediante la presa in carico del progetto di integrazione da parte dell’intero consiglio di classe e attraverso l’introduzione dell’insegnante specializzato per le attività di sostegno“.
Anche in questo caso, il grassetto è una mia scelta grafica, per sottolineare un passaggio rilevante ai fini di questa disamina.

La cultura dell’inclusione è un processo aperto, che rifugge ugualmente dalle cristallizzazioni pregiudiziali e dalle “fughe in avanti”: per questo, avviandomi a una (molto provvisoria) conclusione di questa mia riflessione, mi sembra pertinente al tema e ai motivi ispiratori del Progetto di legge in parola richiamare brevemente l’idea di “sostegno diffuso”, da più parti sollevata, soprattutto a partire dall’inizio degli anni 2000. Anche qui, non mancano le insidie di interpretazioni fuorvianti e di atteggiamenti liquidatori. Per questo, mi sembra utile riportare un passo del testo “Il piano educativo individualizzato. Progetto di vita” a cura di D.Ianes e S. Cramerotti, ed. Erikson, 2007:

“Le attività dell’insegnante di sostegno dovrebbero estendersi e integrarsi in una più globale funzione di sostegno, attivata dalla comunità scolastica nel suo insieme, nei confronti delle tante e diverse situazioni di disagio e difficoltà che si manifestano. In questo caso sarà l’insieme della comunità-scuola, composta di insegnanti, personale tecnico, alunni e altre persone significative, che mobiliterà tutte le risorse disponibili, formali e informali, per soddisfare i bisogni formativi ed educativi speciali degli alunni, in relazione al tipo e al grado di difficoltà”.

E’ opportuno chiarire che una corretta interpretazione di queste affermazioni non deve significare, a mio avviso, il superamento (nel senso di soppressione) della figura e della funzione dell’insegnante di sostegno, quanto piuttosto sottolineare che la sua azione POSTULA come necessaria condizione la funzione inclusiva del CONTESTO.

Mi auguro che questa mia ricognizione sia un utile contributo al dibattito culturale, professionale, politico-istituzionale attorno ad un’iniziativa come quella del Progetto di legge appena annunciato.  A me sembra, dagli elementi di riflessione proposti, che la prospettiva abbia dalla sua parte solide motivazioni, anche se non manca di nodi di criticità. Ne indico un paio che possono essere oggetto di discussione sia negli ambienti che si muovono attorno alla scuola e ai temi dell’educazione in chiave inclusiva, sia (non meno) in sede di un dibattito parlamentare che auspico possa essere l’approdo dell’iniziativa.

Il primo riguarda la modalità di attuazione del percorso e le procedure che vi sono collegate, alcune esplicitamente. Mentre considero un fatto positivo la previsione dell’attuazione graduale dell’innovazione (segno di saggio realismo) ho qualche perplessità sui modi prefigurati. Detto in termini espliciti, preferirei che gli incarichi orario (su posto di sostegno e, reciprocamente, su posto comune) ovviamente conferiti dal dirigente scolastico, nell’ambito delle prerogative attribuitegli dalle norme, siano formalizzati dopo una procedura che preveda il passaggio negli Organi Collegiali preposti alla programmazione educativo-didattica.

Non si tratta di un astratto omaggio al formalismo delle procedure, ma di una concreta cura della qualità democratica dell’istituzione scolastica. In questo caso specifico, mi sembra per di più che possa ben rappresentare a livello istituzionale quel principio di corresponsabilità educativa su cui mi sono soffermata suffragandolo con il riferimento alle norme.

Secondo rilievo: riguardo alle modalità, ho delle forti perplessità sulla previsione “a regime” dell’innovazione; qui i miei dubbi riguardano la sostanziale obbligatorietà dell’assunzione di incarico sulla cattedra “mista” (o “inclusiva”). Così vincolante che l’articolato prevede puntualmente i casi di deroga (legandoli in sostanza a fattori anagrafici). Capisco le esigenze di natura gestionale ed organizzativa che possono aver ispirato questo criterio. Ma mi domando, proprio perché si innesti un processo di tipo culturale e professionale, attento alla qualità dei percorsi oltre che alla efficienza dei risultati, se non sia preferibile evitare una “coscrizione obbligatoria”, nella prospettiva di coinvolgere la totalità della platea dei docenti. Non voglio entrare nei dettagli di eventuali dispositivi emendativi, in sede di discussione parlamentare, a questo riguardo, ma suggerirei di prevedere una prima fase di sperimentazione (ad esempio, triennale) che coinvolga i docenti come protagonisti attivi e consenzienti, e non come destinatari passivi: l’esperienza passata ci dice che questo può compromettere la buona riuscita della più illuminata delle riforme. Sarebbe un’occasione persa.

Mi fermo qui. Spero che il percorso attivato da questi colleghi (alcuni dei quali conosco personalmente, considerandoli preziosi interlocutori dell’educazione che ci sta a cuore) prosegua: con lungimiranza, come è nato, con il coraggio delle idee di cui c’è più che mai bisogno. Lo dobbiamo ai ragazzi e alle ragazze, non perché lo “meritino” ma perché ne hanno il diritto.




Cattedra inclusiva, una proposta su cui discutere

di Pietro Calascibetta

Il 25 gennaio 2024 è stata presentata a Roma la proposta di legge sull’ “introduzione della cattedra inclusiva nelle scuole di ogni ordine e grado”  [clicca qui per leggere il testo]
E’ un’iniziativa importante perché è una proposta concreta che tocca aspetti strutturali del sistema scolastico ed è stata elaborata, come si suole dire dal basso, da esperti di tematiche relative all’inclusione che lavorano nel mondo della scuola e della formazione ( Evelina Chiocca, Paolo Fasce, Fernanda Fazio, Dario Ianes, Raffaele Iosa, Massimo Nutini, Nicola Striano).

La proposta di legge si pone l’obiettivo dichiarato di dare “alle studentesse e agli studenti con disabilità maggiori opportunità formative e un’effettiva inclusione scolastica e sociale.”
La proposta si fonda sulla convinzione che non possa esserci inclusione senza che tutti i docenti del consiglio di classe siano parte attiva di questo processo con piena corresponsabilità e senza deleghe ad altri, in particolare al docente di sostegno per gli studenti con disabilità.
Un presupposto su cui non si può che essere d’accordo.
Il merito della proposta è di aver posto la questione in termini strutturali perché per incidere realmente e perché funzioni effettivamente una proposta innovativa è necessario individuare la struttura organizzativa che è in grado di renderla praticabile.
Qui la soluzione individuata è quella di creare una cattedra “polivalente” in modo che, dopo un’apposita formazione iniziale e/o in servizio, nell’arco di un quinquennio “tutti i docenti incaricati sui posti comuni effettuano una parte del loro orario con incarico su posto di sostegno, mentre tutti i docenti con incarico su posto di sostegno effettuano, anche nell’ambito dell’ampliamento dell’offerta formativa dell’istituto, una parte del loro orario su posto comune”.
In altre parole verrebbe eliminata la cattedra di sostegno per una nuova cattedra “inclusiva”.
Per la rilevanza della proposta e per il fatto che tratta anche di questioni strutturali penso che possa esserci lo spazio per alcune considerazioni e domande che possono offrire un contributo alla discussione che certo si aprirà e per una riflessione ed eventualmente per un’integrazione della proposta.

PERCHE’ PARLARE DI INCLUSIONE SOLO PER GLI STUDENTI DISABILI?

Condivido pienamente la necessità di una proposta di legge sull’inclusione perché è arrivato il momento di fare qualcosa non solo per migliorare l’esistente, ma anche per “reagire a percepibili resistenze e di una cultura dell’esclusione e dell’abilismo difficili da estirpare” , come scrivono nel comunicato stampa i promotori della proposta.
Sono inquietanti i segnali di un atteggiamento che, come recenti polemiche sui social hanno evidenziato, alimenta le strumentalizzazioni qualunquistiche che rischiano di mettere in dubbio lo stresso principio dell’inclusione.
Proprio partendo da questa preoccupazione noto che la proposta riguarda solo gli studenti con disabilità quando, a mio avviso, la questione dell’inclusione ha oggi dimensioni più ampie. Questo rappresenta un limite di non poco conto se si vuole affrontare anche l’aspetto culturale e tagliare le gambe al malessere comunque presente..
Oggi la normativa usa il termine “ inclusione” non solo per gli studenti con disabilità, ma per tutti gli studenti con Bisogni Educativi Speciali di cui fanno parte anche gli studenti con disabilità certificata.
L’acronimo BES però non lo ritrovo nella proposta. Questa mi sembra una debolezza.
Non si tratta di una questione formale, ma sostanziale che, a mio parere, non modifica il presupposto di partenza, cioè la necessità di un coinvolgimento diretto di tutti i docenti della classe, ma in parte potrebbe modificare la soluzione strutturale che propone.
Se si vuole puntare l’attenzione sull’inclusione come problema complessivo e non di un solo gruppo di alunni, come credo sia opportuno oggi, sarebbe necessario che la proposta indicasse nella finalizzazione espressamente gli studenti con BES e non solo gli studenti con disabilità.

L’INCLUSIONE NON E’ PIU’ UNA QUESTIONE CHE RIGUARDA SOLO GLI STUDENTI CON DISABILITA’

Perché è necessario superare l’inclusione come un problema esclusivo degli studenti con disabilità?
Le perplessità sulle modalità con cui si attua l’inclusione oggi, che sono presenti sia tra i docenti sia tra le famiglie non solo degli studenti in difficoltà in particolare quelli con DSA, ma anche dei “cosiddetti normali” come direbbe qualcuno, nasce a mio avviso proprio dalle dimensioni del fenomeno dell’inclusione che sono cambiate rispetto a 46 anni fa quando furono abolite le classi differenziali.
Dopo una fase iniziale di coinvolgimento di tutti i docenti, si è sempre più diffusa la convinzione che l’inclusione degli studenti con disabilità passasse attraverso l’intervento dell’insegnante di sostegno, da qui l’affermarsi dell’abitudine a delegare loro lo sviluppo del curricolo di questi studenti e da qui la richiesta di ore e ore di sostegno al di là dell’effettiva gravità della disabilità e la successiva contrattazione tra i docenti della classe per contendersi la presenza in aula del docente di sostegno nelle proprie ore di lezione.
Le difficoltà di una effettiva inclusione nascevano da questo rapporto disfunzionale tra ruolo del docente di sostegno e ruolo del docente curricolare, come i promotori della proposta giustamente rilevano.
Se l’inclusione riguardasse però solo gli studenti con disabilità la proposta di rimescolare le carte tra posti di sostegno e posti comuni e individuare un’unica figura con entrambe le competenze sarebbe sufficiente a superare il problema, ma con l’introduzione della normativa sui BES l’inclusione, come si è detto, si è allargata ad una platea di studenti più ampia con bisogni speciali diversi senza che per loro sia prevista la presenza dedicata e in copresenza di un docente di sostegno.

Questo ha spiazzato molti docenti perché la gestione di questo nuovo gruppo di alunni della classe non poteva essere delegata come si era finito di fare per gli studenti con disabilità.
Il problema dell’inclusione oggi, a mio parere, va oltre il rapporto tra docente di sostegno e docente curricolare, almeno per gli studenti non con gravi disabilità che richiedono una copresenza del docente di sostegno per la gran parte delle ore.
Per questo motivo per perseguire una reale inclusione si pone la necessità di una modalità diversa di gestire la complessità dei bisogni formativi della classe nel suo insieme perché l’inclusione degli studenti con disabilità non gravi, che rappresentano la maggioranza, è diventato solo parte di un problema più ampio e articolato.

Le associazioni e le famiglie degli studenti con Disturbi Specifici di Apprendimento da sempre incalzano i docenti curricolari perché tali studenti non siano affiancati da un docente di sostegno, anche se è comunque un docente del consiglio di classe a tutti gli effetti, che non è previsto per loro neppure dalla normativa perché il disturbo non rientra nelle tipologie dalla Legge 104, rifiutando una medicalizzazione di tale disturbo e pretendendo che sia il docente curricolare stesso ad utilizzare le misure compensative e dispensative nell’ambito del repertorio di metodi e tecniche che ormai dovrebbero utilizzare tutti i docenti per una gestione efficace della molteplicità degli stili di apprendimento degli studenti in una classe.
Insomma l‘inclusione viene vissuta dalle famiglie sempre più come un compito del consiglio di classe e viceversa dai docenti come un compito complesso per il numero di studenti coinvolti e troppo oneroso per la pressione a cui sono sottoposti dalle famiglie e a cui non si sentono adeguatamente preparati .

IL DOCENTE INCLUSIVO SU POSTO COMUNE

Se il problema è quello di fare in modo che i docenti su posti comuni abbiano tutti competenze per una didattica e una relazione educativa inclusiva con anche delle competenze più specialistiche non solo per gli studenti con disabilità, ma per tutti gli studenti con BES e in particolare con DSA, basterebbe curvare la formazione iniziale e in servizio esplicitamente su tali tematiche ed è quanto prevede l’art. 3 della proposta di legge “ Il percorso universitario di formazione iniziale e di abilitazione all’insegnamento dei docenti di posto comune delle scuole di ogni ordine e grado comprende la formazione volta a sviluppare e accertare, nei docenti abilitati, le competenze culturali, pedagogiche, psicopedagogiche, didattiche e metodologiche, necessarie a promuovere l’inclusione scolastica ed in particolare l’inclusione degli alunni con disabilità.”

E’ vero che leggendo il testo dell’articolo si può intuire che tale preparazione possa servire per affrontare la situazione di tutti gli studenti, ma per la particolarità del nuovo contesto in cui si attua l’inclusione disegnato dalla normativa sugli studenti con BES a cui accennavo, andrebbe precisato a chiare lettere nella proposta di formazione che le competenze metodologiche da acquisire dovrebbero essere anche finalizzate alla gestione unitaria della molteplicità dei bisogni educativi speciali presenti in un gruppo classe e degli stili di apprendimento individuali di tutti gli studenti.

Si tratta a mio avviso di una ulteriore specifica competenza che va oltre la specializzazione del docente di sostegno orientata ad un intervento in genere individuale in compresenza.
Il nodo critico dell’inclusione in questo scenario è proprio la competenza a gestire nell’attività didattica in modo unitario e olistico la complessità dei bisogni degli studenti con BES.
Non è raro nella scuola sentire docenti che si lamentano di avere una classe non tanto con uno, due studenti con disabilità, ma “in aggiunta” , fanno presente “disperati”, di avere 8 studenti con DSA, 5 stranieri, 3 con situazioni familiari particolari e via discorrendo.

E’ da qui che nasce il desiderio di avere classi con solo “cosiddetti normali” !
La questione dell’inclusione come ho cercato di tratteggiare ha assunto ora la dimensione di un problema di gestione della classe in presenza di una molteplicità di nuovi bisogni speciali che sono come per gli studenti con disabilità tutelati formalmente e giuridicamente da una serie di adempimenti che la normativa richiede al consiglio di classe e al singolo docente.
Con la proposta di legge così modificata, la figura professionale del docente inclusivo durante le ore curricolari si arricchirebbe effettivamente delle competenze necessarie a gestire l’inclusione scolastica per tutti gli studenti con BES e quindi anche per gli studenti con disabilità in presenza e soprattutto in assenza del collega di sostegno .

IL DOCENTE INCLUSIVO SU POSTO DI SOSTEGNO

La situazione, a mio avviso, presenta invece delle criticità quando vediamo il docente inclusivo sul posto di sostegno per svolgere di fatto la funzione dell’ insegnante specialista “per le attività di sostegno didattico” richieste dalla progettazione in compresenza con il docente inclusivo curricolare per le ore previste in base alla gravità e alla tipologia della disabilità .
In altre parole farebbe ciò che oggi fa il docente di sostegno,. E’ vero che sarebbe anche abilitato nella disciplina curricolare , ma anche il docente di sostegno oggi è comunque un docente disciplinare abilitato o meno.
Premesso che il monte ore complessivo di sostegno di una scuola è determinato in base ai casi presenti e che in base alla proposta di legge andrebbe distribuito in quota parte a ciascuno dei docenti inclusivi, ne consegue che nell’attuale ordinamento si porrebbero diversi problemi nell’organizzare l’ orario di lavoro di ciascun docente e di conseguenza ciò limiterebbe quella flessibilità nell’assegnazione delle ore ai singoli studenti in base alle effettive necessità di ciascuno di loro e in base alla progettazione che è l’aspetto più qualificante dell’utilizzo di tali ore perché non siano solo di assistenza o di “sollievo” per i docenti curricolari.

Un altro problema di non poco conto è legato a come ripartire la cattedra di un docenti con 8 o 6 classi su entrambi i posti . Escludendo tali docenti da questa possibilità di accedere alla cattedra inclusiva si riprodurrebbe una diversità tra i docenti questa volta sulla base del numero di classi, soprattutto nella secondaria di secondo grado dove ad avere più classi sono proprio i docenti delle materie di indirizzo.
Organizzare poi un orario settimanale di un docente in cui si incrocino ore curricolari di cattedra e ore di sostegno è molto complesso e il ricorso ad algoritmi di alcune piattaforme in commercio non è certo garanzia per un utilizzo individualizzato di tali ore sugli studenti con disabilità che ne hanno diritto in base alla Legge 104 ( l’IA potrà forse aiutaci?).
Un altro problema sarebbero le supplenze temporanee dei docenti inclusivi nella fase di transizione.

Già oggi vi sono numerosi casi in cui un docente con uno spezzone curricolare ha un completamento nel sostegno con non pochi problemi di “incastri” di orario e anche sul piano logistico ad esempio se su più plessi o ordini di scuola.
A questo punto sorge la domanda se effettivamente abbia una reale utilità assegnare al docente inclusivo ore sul posto di sostegno e non puntare invece solo ad arricchire la formazione del docente curricolare attribuendogli il ruolo di docente “inclusivo” .mantenendo comunque la separazione nell’assegnazione dei posti con il vantaggio comunque che un docente potrebbe passare da una tipologia all’altra dando la propria disponibilità nell’ambito delle scelte progettuali della stessa scuola o del consiglio di classe in relazione alle problematiche specifiche..

I COORDINAMENTI

La proposta di un COORDINAMENTO PEDAGOGICO DI ISTITUTO mi trova non solo d’accordo, ma entusiasta essendo stato uno degli organismi centrali nell’organigramma della sperimentazione a cui ho lavorato e un cavallo di battaglia nel proporre l’esperienza alle altre scuole.
Se, come mi sembra di aver compreso, dovrebbe essere un organismo che non si occupa esclusivamente di inclusione, in altre parole non sostituisce il GLI, ma “ persegue il raggiungimento degli obiettivi del piano dell’offerta formativa e sostiene la qualità dell’insegnamento” con una visione di insieme attraverso le “ supervisioni” e il “ supporto formativo” , lo trovo assolutamente necessario e può essere uno strumento molto potente di rilancio dell’autonomia scolastica se ha una funzione s di sintesi..
Naturalmente per questo motivo il suo funzionamento, anche se non finalizzato all’inclusione, avrà una significativa ricaduta su di essa e non solo per gli studenti con disabilità, ma anche per gli i studenti con BES e in generale per tutti gli alunni.
Per questo motivo trovo pertinente il suo inserimento nella proposta di legge anche se si occupa di inclusione.

Sarebbe però il caso di chiarire meglio nel testo della proposta questa funzione non settoriale per evitare fraintendimenti visto che si individua nell’articolo successivo un organismo di coordinamento territoriale espressamente dedicato all’inclusione. .
Un Coordinamento didattico, diventa all’interno delle scuole una risorsa strutturale che potrebbe diventare il motore di quell’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo (art.6) che dovrebbe fare del PTOF non un semplice menù di attività come di fatto il più delle volte è finito per diventare nonostante la buona volontà dei docenti., ma una vera e propria ipotesi didattico-pedagogica-organizzativa elaborata professionalmente dai docenti con la collaborazione delle altre componenti scolastiche per raggiungere i traguardi previsti a livello nazionale tenendo conto dei bisogni speciali o no degli studenti nello specifico contesto territoriale.
Un organismo che potrebbe lavorare in tandem con chi si occupa dell’autovalutazione di istituto e la rendicontazione sociale per lo stretto legame dell’azione di coordinamento con i processi di miglioramento.
Per la verità vi sono diversi istituti che hanno nell’ambito dell’autonomia organizzativa introdotto organismi simili, ma il passo avanti sarebbe avere un organismo di sistema normato per legge in tutti gli istituti con delle figure anch’esse di sistema e soprattutto, questo è l’aspetto qualificante e determinante per fare la differenza, con un distacco “dall’insegnamento per metà orario del servizio prestato” o comunque per un monte ore che possa permettere di poter effettivamente essere una risorsa per i consigli di classe alle prese con le problematiche legate all’applicazione del PTOF nel proprio contesto operativo.
Per quanto riguarda la composizione mi domando perché non possa essere questa una delle collocazioni dei “docenti esperti” dando ad essi un ruolo di sistema che attualmente la normativa non assegna loro contribuendo a fare in modo che queste novità introdotte per i più svariati motivi convergano finalmente in un’ottica organizzativa invece di essere scollegati gli uni dagli altri.

In un tale organismo, che dovrebbe essere il cuore dell’azione formativa, dovrebbe essere presente sicuramente la figura del dirigente scolastico proprio in virtù del suo ruolo di garante dell’unitarietà dell’azione formativa e forse un ispettore (anche se su più scuole) con quel profilo di consulente così come delineato dal recente decreto n. 41/2022 che ne potrebbe fare una risorsa del sistema delle autonomie e non solo un funzionario dell’apparato ministeriale.
Per quanto riguarda invece la gestione solo degli aspetti più specifici dell’inclusione ritengo che sia utile il mantenimento del GLI come organismo a questo deputato con i compiti attualmente assegnati di cui la proposta non parla..

Mi trova concorde poi la proposta di un “COORDINAMENTO TERRITORIALE PER L’INCLUSIONE (CPTI)” per come è stato concepito con l’obiettivo di semplificare sul territorio la gestione degli interventi specifici sull’inclusione ed evitare l’attuale frammentazione..
Frazionare gli organismi e i compiti sul territorio mi sembra che non favorisca la sinergia tra le varie istanze.




Stare insieme. Difendiamo la scuola inclusiva

di Daniele Ferro

Ogni giorno, per mettersi tutte in fila e andare ai servizi, Shifa si avvicina al banco di Melissa, le porge la mano, e splendente di gioia in viso la sostiene fino alla porta del bagno.
Anche Melissa s’illumina di gioia. È ipovedente. Io le osservo, queste bambine di otto anni, ma a volte devo distogliere lo sguardo: non avrei parole per spiegare la commozione dinanzi a tale meraviglia.

«Maestro, posso sedermi vicino a Waqas per aiutarlo?».
«Alessio, non me lo devi chiedere…vai!».

I bambini stanno lavorando a gruppi, in un progetto di scrittura cooperativa. Siamo al terzo incontro. Mi chiedo se Azzedine – che tra le altre ha una grande difficoltà nel tollerare la frustrazione – oggi riuscirà a non abbandonare il suo gruppo, piangendo arrabbiato.
Seguo la discussione, mentre i bambini si confrontano per inventare una favola.
A un certo punto Azzedine esclama: «Io avevo un’altra idea, ma visto che voi siete d’accordo, accetto la vostra». Scatta l’applauso dei compagni.

I nomi dei bambini sono di fantasia. I fatti sono reali, avvenuti in anni e istituti diversi. Questa è la scuola italiana, piaccia o no, e la legge stabilisce che i bambini, di qualsiasi colore e capacità fisica o intellettuale siano, per crescere debbano stare insieme.
Le norme si possono criticare e ad essere si può anche disobbedire, se si è disposti a pagarne le conseguenze (come fece Alberto Manzi, che si rifiutò di vergare giudizi sui suoi allievi).
Tuttavia la criticaanche quando è discriminatoria, va basata sulla conoscenza. Sui fatti. Se ve ne sono.

La pedagogia è una scienza, ed Ernesto Galli della Loggia, con il suo articolo sul Corriere «La falsa inclusività della scuola», ha dimostrato ancora una volta – dopo l’ideona anni fa del ritorno alla predella – di non essere un pedagogista; di non conoscere – o di ignorare volutamente – gli insegnamenti che ci hanno trasmesso i più grandi scienziati della pedagogia, da Quintiliano a John Dewey a Mario Lodi.

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