La scuola delle disabilità

di Daniele Ferro

Dispensato da leva militare o surrogati, per magnanime virtù anagrafiche, a volte mi chiedo se fosse opportuno progettare un Servizio civile obbligatorio, anche breve ma ad ogni modo in situazioni difficili, da svolgersi entro una certa età (25 anni?).

L’ultima volta me lo sono chiesto grazie al pasticciaccio di Antonello Venditti a un concerto: insulti a una donna con disabilità e scuse ex post.
L’episodio mi ha spinto a ripensare a una settimana di lavoro che svolsi in un soggiorno estivo quando avevo 23 anni, e che per la mia formazione valse più di un anno di scuola almeno. Grazie agli scout, da ragazzino avevo già conosciuto le diversità, ma non avevo mai fatto volontariato con persone con gravi disabilità.

Quell’estate, studente di Cooperazione a Roma, inviai il curriculum a una cooperativa, su consiglio d’un compagno di corso che aveva svolto egli stesso l’esperienza in precedenza.
Insieme a un trentacinquenne, mi presi cura di un ragazzo poco più grande di me.
Era in sedie a rotelle, impossibilitato a muoversi, a parlare o a comunicare a gesti: una notevole disabilità fisica e cognitiva. Quando era contento, però, Antonio lo manifestava benissimo. 
Ed ero contento anch’io, perché prendendomi cura di lui – insieme a un collega più saggio ed esperto di me – stavo imparando a gogò sulla vita.
Soltanto, provavo particolare inquietudine quando, dopo che lo avevamo lavato, Antonio si guardava allo specchio in bagno; mi chiedevo: «Si renderà conto di sé?». Una risposta non l’ho mai trovata.
Ma ne arrivò un’altra ben più preziosa, per una situazione diversa, che mi rendeva molto più inquieto rispetto a quella di Antonio. Emozioni e pensieri che nei primi giorni mi terrificavano l’animo: riguardavano una ragazza malata di grave spasticità. Il fatto che fossimo nati nello stesso anno amplificava il mio sballottamento interiore: lei sarei potuto essere io.

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Inclusione e disabilità: il garbuglio degli educatori

di Raffaele Iosa

Alcune decine di migliaia di educatori scolastici impegnati nell’ inclusione degli alunni e studenti con disabilità ai sensi dell’art. 13 della Legge 104/92, con le diverse denominazioni date dalle diverse regioni, sono alle prese in questi giorni in un’affannosa rincorsa alla loro “legittimazione formale” nel processo di costituzione del c.d. “albo degli educatori” previsto da una recentissima legge che ne istituisce un apposito albo delle diverse professioni socio-educative.

Il tutto in pochissimi giorni, e con poca chiarezza su tutto. Ricapitolo a grandi linee la faccenda, di cui troppo poco si sa.
La Legge 104/92 all’art. 13 prevedeva che a fianco degli insegnanti fossero attivi dei professionisti cosiddetti “assistenti all’autonomia e alla comunicazione”.
Ma non solo: di questi si sarebbe dovuto costruire un “profilo professionale” e ovviamente un curriculum accademico corrispondente. In questi 32 anni (trentadue!) non è accaduto nulla di legislativo che definisse formalmente questa figura professionale nelle scuole. E questo anche per conflitti tra le associazioni che tutelerebbero la disabilità, il disinteresse dei sindacati e l’incertezza dei diversi enti regionali e locali cui è assegnata effettivamente la responsabilità gestionale di questa professione secondo il processo di autonomia regionale nato a fine del secolo (modello Bassanini). Fin qui una storia molto italiana.

Col tempo il termine più utilizzato nel definire queste figure è diventato “educatori professionali”, e da una ventina d’anni esiste una laurea universitaria apposita , la L 19, che ha un curricolo molto pertinente dedicato a questa professione inclusiva.
Ma in questi 30 anni sono entrati come assistenti (o educatori che dir si voglia) anche professionisti con le più varie formazioni, persino con il solo diploma di scuola secondaria superiore. Dimostrando la confusione culturale di quale professione sia, in primis se di tipo “assistenzialistico” o pedagogico in senso stretto.
Col tempo per la definizione di “educatore” una Legge del 2017 comunque meglio preciserebbe la pertinenza tra l’inclusione scolastica e la formazione universitaria di questi educatori. E da qui il busillis di chi debba appartenere o no all’albo di cui sopra.
Ma la “confusione” ormai patologica sul ruolo di questi professionisti è esplosa con clamore ormai a causa del fatto che il loro numero in venti anni è letteralmente esploso, da poche migliaia alla fine degli anni 90 ai quasi 100.000 di questi ultimi anni.
E l’esplosione è figlia dell’enorme aumento di certificazioni di disabilità, quadruplicate in 30 anni e il diffondersi di nuove “disabilità” tra cui lo spettro autistico in primis. Dunque è toccato agli enti locali e alle regioni prendersi il carico di assumere questo personale, con una tattica amministrativa quanto mai velenosa e che sta inquinando molto delle politiche sociali locali: quella degli “appalti” alle cooperative del terzo settore.

Ma ormai la radicata presenza degli educatori come indispensabili per una dignitosa inclusione renderebbe necessario pensare ad una loro collocazione professionale dentro l’amministrazione dello Stato, come si è prospettato da alcuni disegni di legge ancora in discussione che sono però anch’essi rallentati da molte divergenze politiche. Eppure 30 anni fa lo Stato aveva assunto tutti i bidelli comunali in una sola volta! Senza voler fare classifiche, anche un educatore per lavorar bene dovrebbe avere un salario dignitoso e una funzione professionale “di squadra” con tutti i professionisti educativi. Ma c’è di peggio: in questa caotica fase di incertezza sul destino gestionale, i costi per gli enti locali, ormai le difficoltà a trovare professionisti con una formazione adeguata sta diventando un’emergenza.

In questa emergenza l’invenzione dell’albo senza una riflessione più compiuta sulla funzione di questi educatori pare quasi una presa in giro.
Ma c’è di più e più grave: questi educatori sono oggi in buona parte laureati, sono spesso più stabili degli insegnanti di sostegno, il loro salario supera di poco i 1.000 euro al mese (se va bene), il trattamento non è simile a quello dei docenti, per cui durante l’estate questi educatori o sono utilizzati nei diversi CRE estivi in cui vi siano disabili o perdono parte del salario, anche se titolari di contratti a tempo indeterminato.
Devo ammettere che ho molta simpatia per questi ragazzi e ragazze professionisti dell’inclusione, impegnati ogni giorno vicino ai nostro bambini e ragazzi con disabilità, spesso più competenti e più affidabili di molti insegnanti di sostegno senza titolo. Una professione peraltro a modo suo bellissima: l’educatore non dà voti, non dà compiti per casa, è vicino agli insegnanti e simile a loro per quanto riguarda i curricoli accademici, ma è in primis “dalla parte dei ragazzi con disabilità”.

In questa estate torrida dove ci sarebbe ben altro da fare per l’inclusione scolastica, e dove si “inventano” sgangherati corsi di formazione per nuove migliaia di posti di sostegno, perfino per quelli con corsi svolti all’estero, l’attenzione invece per queste figure degli educatori è bassa, e grande è la confusione tra difficoltà e incertezze, con poca cura per una migliore visione educativa dell’inclusione che abbia uno spirito di “squadra” di tutti gli operatori dell’educazione. Tutto questo mentre fioriscono molti interessi corporativi per illudere questi ragazzi e ragazze di buona volontà. Si pensi a questo proposito alle decine di “scuole di specializzazione private” fiorite a seguito della medicalizzazione ideologica degli ultimi anni con titoli bizzarri di vaga valenza accademica. E che non si sa se un giorno avranno mai valore legale per avere un lavoro riconosciuto. Che tristezza.




Cattedra inclusiva: il vademecum per partecipare alla sperimentazione


Il  documento che alleghiamo è stato predisposto a supporto del progetto di legge intitolato “Introduzione delle cattedra inclusiva nelle scuole di ogni ordine e grado”  e intende offrire uno strumento operativo per i dirigenti scolastici e per i docenti che intendessero, partecipando alla sperimentazione sulla Cattedra inclusiva, avviare esperienze finalizzate ad anticipare l’introduzione formale di questa modalità di attuazione della corresponsabilità educativa tra tutti i docenti dell’organico dell’autonomia.

Il progetto di legge, come noto, prevede azioni e interventi indispensabili per la piena efficacia e per la generalizzazione della “cattedra inclusiva” (formazione iniziale, formazione in sevizio, coordinamento pedagogico dell’istituzione scolastica e territoriale, adeguate risorse umane e finanziarie), ma le esperienze in atto, pur parziali e limitate dai dettami vigenti, rappresentano, già adesso, un miglioramento della qualità educativa, dell’istruzione e della formazione e, al contempo, arricchiscono di concretezza e di pensiero un movimento nella direzione culturale e politica sottesa al progetto di legge.

Per partecipare alla sperimentazione, contattare la prof.ssa Evelina Chiocca all’indirizzo mail: evelina.chiocca@unimol.it




Ancora sulla cattedra inclusiva: quando l’inclusione è reale

di Evelina Chiocca

Corresponsabilità e continuità educativo-didattica: le parole-chiave per scrivere / leggere “inclusione”
Le attività di sostegno, promosse dal docente “con incarico sul sostegno” (docente assegnato alla classe a favore degli alunni con disabilità e del processo inclusivo – che è un processo culturale, e questo aspetto, rilevante, non va sottovalutato), hanno ragion d’essere e possono affermarsi “efficaci” se l’alunno apprende e se impara ad apprendere insieme ai coetanei.
Se invece l’alunno si rapporta unicamente con un docente e non interagisce con gli altri (docenti) o rifiuta di interagire con altri, allora si è creata una “dipendenza” tale da impedire sia l’autonomia personale e sociale, fondamentale per la socializzazione, che la relazione, la comunicazione e l’interazione (in altri termini si preclude quegli aspetti vincolanti per l’attuazione del suo personale Progetto di Vita).
Il docente incaricato su posto di sostegno, allora, deve tradursi in una presenza trasparente, lieve, agendo “sullo sfondo e in primo piano contestualmente”, supportando le azioni, ma lasciando l’alunno quale protagonista e artefice attivo del suo percorso di crescita e di apprendimento.
A questo bisogna tendere.
Diversamente si riprodurrebbe quella condizione tipica degli antichi luoghi di “separazione e di segregazione”, in cui l’operatore, ad ogni azione, annunciava:
“Aspetto. Ci penso io”,
“Aspetta, non ho tempo, vedi he ho da fare?”,
“Aspetta! Abbi pazienza. Finisco qui e arrivo”…
Si chiamava “dipendenza”, si creavano condizioni tali per cui l’alunno era costretto “a dipendere da qualcuno”; e tutto ciò, diciamocelo, con il processo di inclusione non ha proprio nulla a che fare.
L’insegnante che promuove e sostiene un coerente processo di inclusione è un docente “che lavora e che collabora con i colleghi, secondo criteri di corresponsabilità, di collegialità, di cooperazione, di sinergia”; è un docente che interagisce e si interfaccia, che supporta e che, soprattutto, aiuta tutti gli alunni della classe, quindi anche l’alunno con disabilità, a imparare a rapportarsi con la propria unicità e identità e con quella del gruppo dei pari, con tutti i “suoi” docenti, sviluppando autoconsapevolezza e senso di autoefficacia.
In realtà questa impostazione, culturalmente intrisa nella dimensione professionale, non può appartenere o essere appannaggio di “alcuni docenti”, ma deve caratterizzare la figura professionale del docente, in quanto il processo di inclusione non è un percorso “in solitaria”, bensì un percorso ricco di presenze, di persone che orientano lo sguardo verso una stessa direzione (finalità).
Ed è quello che si propone la #cattedrainclusiva
Andare oltre, superare stigmatizzazioni, stereotipi, pregiudizi, preconcetti, atteggiamenti e comportamenti abiliSti, per intraprendere percorsi di autenticità, in cui
– la continuità educativo-didattica sia effettiva,
– le risorse per il sostegno siano interamente garantite,
– la corresponsabilità e la collegialità siano i paradigmi di riferimento dell’agire didattico,
– la collaborazione con i genitori sia imprescindibile e autentica,
– in cui la progettazione chiami in causa ogni nostra piccola azione.

#sipuòfare già da oggi con la #cattedrainclusiva
Si tratta della più autentica utopia realizzabile.
Dipende da noi!
Dipende da te!
Dipende da me!




Fissiamo un tetto alle sgrammaticature di Valditara

di Mario Maviglia

Ha ragione il Ministro Valditara a scagliarsi contro chi ha stigmatizzato i suoi errori linguistici contenuti in un tweet in cui parlava della necessità di costituire classi con la maggioranza di italiani, allineandosi alle posizioni del suo capopartito Salvini, nonché Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture.

Questa vicenda ci fa capire tante cose interessanti:

  • Valditara dice: “Quando si detta un tweet al telefono non si compie un’operazione di rigore linguistico e si è più attenti al contenuto”. Verissimo! Però dall’altra parta del telefono ci si aspetta che chi prende la telefonata (ossia un collaboratore di Valditara, da lui stesso scelto, immaginiamo) abbia almeno la licenza di scuola media…
  • Il Ministro del Merito aggiunge che il processo di assimilazione degli alunni stranieri “avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani, se studieranno in modo potenziato l’italiano…”. Ecco, sarebbe opportuno che anche Valditara e l’ignoto suo collaboratore potenziassero a loro volta il loro italiano. La lingua italiana sarebbe loro grata.
  • Secondo il Valditara-pensiero (preso a prestito dal suo capopartito Salvini) questo processo di assimilazione degli studenti stranieri avverrà “se nelle scuole si insegni approfonditamente la storia, la letteratura, l’arte, la musica italiana…” [Si noti la finezza sintattica di quel “si insegni”, una vera chicca e licenza poetica. Non è ancora licenza media, ma la strada è tracciata. Con il potenziamento di cui sopra ce la possiamo fare…].
    Ma qui il Valditara-pensiero denuncia qualche défaillance (tranquillo, sig. Ministro: vuol dire “debolezza”): infatti i risultati peggiori – almeno stando alle classifiche internazionali come OCSE-PISA – gli allievi delle scuole italiane li conseguono nelle scuole superiori dove la presenza degli alunni stranieri è più bassa. E allora come la mettiamo? Forse questa necessità di “approfondimento” non riguarda solo gli studenti stranieri, ma anche e soprattutto quelli italiani.

  • Senza nascondere una certa stizza, il Ministro (Valditara, lo dobbiamo specificare sempre sennò sembra che si voglia parlare del suo capo, Salvini…) fa notare “ai tanti critici dall’indignazione facile, che in queste ore si stanno scatenando nella caccia all’errore, che così facendo ignorano la questione da me posta…”. Per la verità il Ministro (Valditara) e il suo capo (Salvini) sono i primi ad ignorare che la questione del tetto massimo degli alunni stranieri per classe era stata già oggetto di una circolare all’epoca del IV Governo Berlusconi, Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini.
    Si tratta della CM n. 2 dell’8 gennaio 2010, che fissava appunto al 30% la percentuale di “alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe”. Una circolare emanata quindi da un governo di centro-destra, come quello attuale.
    Ma è comprensibile che quando si hanno tanti tweet da fare o annunci da proclamare alla Nazione non si abbia poi il tempo di documentarsi rispetto al contenuto, quel contenuto che il Ministro (Valditara) dice di aver attenzionato a scapito della forma. Non si vuole essere cavillosi, ma qui, con tutta franchezza, sembra mancare sia la forma che il contenuto. È plausibile che ciò possa succedere al Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture (a proposito: da quando i Ministri di tale Dicastero si interessano in modo così insistente di politica scolastica? Il Ponte sullo Stretto non è già abbastanza impegnativo?), ma che un Ministro dell’Istruzione non sappia cosa ha prodotto il suo Dicastero in materia è abbastanza allarmante.
  • Volutamente abbiamo più volte parlato del Ministro Salvini come il “capo” del Ministro Valditara: non si tratta di una svista o di una nota polemica. Sia a proposito della vicenda della scuola di Pioltello che nel caso della percentuale di alunni stranieri nelle classi il la è stato dato da Salvini a cui si è accodato, come un mansueto cagnolino, o se volete come un coscienzioso corista, il Ministro Valditara.
    Insomma, sembra di capire che il Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture detta la linea della politica scolastica e il Ministro Valditara la mette in atto con sottomessa dedizione.
  • Sempre a proposito di contenuti, è facile prevedere che una norma sulla percentuale massima di alunni stranieri per classe (20 o 30% che sia) non troverà mai attuazione perché richiederebbe una concertazione di azioni tra più soggetti istituzionali, come d’altro canto ben specificava la CM 2/2010 che sottolineava l’importanza di “realizzare le conseguenti intese tra soggetti disponibili sul territorio per una gestione coordinata delle iscrizioni dei minori stranieri fra l’Amministrazione scolastica, le Prefetture, le Province e i Comuni”. Difficile pensare che oggi sia possibile un’azione di tale complessità.
  • D’altro canto, sempre citando la CM 2/2010, “non va dimenticato che a influire sulla presenza più o meno significativa di minori stranieri in un determinato territorio contribuiscono sì le capacità attrattive delle scuole che in esso insistono, ma pure – e in termini non certo irrilevanti – le disponibilità di alloggio e le offerte di lavoro in esso presenti. Il che fa immediatamente emergere il ruolo cruciale che le prassi degli accordi e delle alleanze territoriali possono svolgere per affrontare i problemi suddetti.”

Di questi problemi non vi è traccia negli interventi dei due Ministri dell’Istruzione (Valditara) e del Merito (Salvini). E allora facciamo una facile e cassandrica previsione: qualora questa coppia di Ministri dovesse partorire una norma su questa materia, la responsabilità di accogliere o non accogliere gli alunni stranieri, rispettando la quota percentuale stabilità formalmente, ricadrà interamente sulle istituzioni scolastiche e i dirigenti scolastici resteranno, ancora una volta, col cerino in mano. Parafrasando Brecht, possiamo dire che si siederanno nella parte più disagevole perché gli altri posti saranno occupati.




Il disastro della finta inclusione: bambini cattivi e note disciplinari

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Raffaele Iosa

 Riprendo e copio qui  queste due lettere di aiuto su brutte esperienza scolastiche di alunni e studenti con disabilità, riprese da un sito FB molto frequentato da insegnanti e genitori.
Sui siti specializzati in consulenza sull’inclusione scolastica ne arrivano di questo tipo continuamente.

 

Lettera 1
“….. Vorrei chiedervi se è normale che l’insegnante di sostegno di mio  figlio gli faccia  ogni giorno  note disciplinari, piuttosto che seguire la tecnica  di gestione dei comportamenti-problema.   Mio figlio è art. 3 comma 3 Legge 104, ADHD+ DOP + disregolazione emotiva, situazione familiare difficile.  Esiste una normativa in merito?”

Lettera 2
“ Buon giorno, sono una docente di sostegno, il mio collega curricolare mette diverse note disciplinari al mio alunno ADHD e DOP. Io lo trovo controproducente in quanto dopo ogni nota lui smette di lavorare. Cosa devo fare?”

A proposito di questo mio breve commento sull’argomento ADHD e DOP,  i quotidiani di oggi raccontano di una sospensione di ben 15 giorni a Ladispoli  per un ragazzino con queste disabilità,  che è stata soppressa dal TAR Lazio e con una scuola che riceverà da Roma “una visita ispettiva”. Servirà a qualcosa? Mah.

Dunque. Nel forte aumento  certificativo in corso da 20 anni, in cui gli studenti con disabilità sono triplicati, tre disabilità sono esplose nel panorama clinico: l’autismo (un terzo dei certificati 104), l’ ADHD (disturbo dell’attenzione e iperattività , e il DOP (disturbo oppositivo provocatorio).
Si tratta di sindromi certo complesse e molto discusse  (anche criticamente) sul piano scientifico,  emerse con forza negli ultimi anni, e a volte compresenti nella stessa persona. Tutte con una caratteristica  precipua: la presenza di diffusi “comportamenti problema” cui spesso si lega la “querelle disciplinare”, intesa non come materia scolastica, ovviamente, ma come modi umani dell’agire “anomali, spesso aggressivi e fortemente reattivi”. Che creano nelle classi situazioni sofferenti anche per gli altri alunni e studenti.

L’esplosione ha seguito la diffusione del DSM V, il classico manuale statunitense di psichiatria del 2012  che viene seguito dalle pratiche diagnostiche dei paesi europei.
Autismo, ADHD, DOP sono da questo manuale particolarmente “medicalizzati”, ed hanno ottenuto un gradimento diagnostico prima del tutto assente.

Meriterebbe, prima di analizzare le due lettere qui presentate, chiedersi  se questa esplosione segnali una “epidemia inedita prima”,  oppure una diversa attenzione e lettura dei comportamenti dei bambini e dei ragazzi a scuola, oppure una nuova epidemia psichiatrica a largo spettro. Oppure una qualche “crisi ideale e sociale”  che tocca l’educazione e la  terapeutica.
Ho chiamato quest’epoca  della “medicalizzazione” e  una specie di “grande malattia” sta pervadendo le nostre scuole e mette in crisi l’esperienza inclusiva italiana.

Il fatto è che anche le basi scientifiche di queste diagnosi sono  discusse. Non esiste una certezza genetica, ad esempio, se non alcune tracce e alcune spinte epigenetiche. Non esistono “cure” farmacologiche particolarmente condivise,  i farmaci  psichiatrici  sono ancora  osteggiati per il rischio di “intontimento”. Piuttosto è curioso che nella letteratura clinica  di queste tre disabilità manchino del tutto alcune parole classiche della psicologia quali “carattere, personalità, relazione”.
Siamo invece oggi nell’epoca del comportamentismo spinto, prevalentemente di base skinneriana, ed  è esplosa parallelamente una neo-clinica (con molte strutture private agguerrite nel mercato della cura) con “tecnici terapeutiche” e “tecniche comportamentiste” che hanno una discreta efficacia nei comportamenti problemi, ma anche queste oggetto di discussione. E soprattutto un costo pesante per le famiglie.

E’ soprattutto su queste tre disabilità che si sta giocando, in Italia come in Europa, la possibilità di proseguire e qualificare l’inclusione nella normalità come noi abbiamo fatto fin dagli anni 70. Il rischio è invece la tendenza ad “isolare” questi bambini e ragazzi anche perché “pericolosi” per i compagni di classe. Si tenga conto che per loro in genere domina la cd “copertura totale” (docente di sostegno + educatore comunale) in modo che mai siano lasciati “soli”  in mezzo alla classe e ai docenti (diciamo così) “normali”. Siamo cioè già verso un declino separativo, in cui si diffondono aule ha e spazi separati.
Ma il dibattito scientifico e pedagogico è scarso, e quando si prova a farlo spesso accadono scontri.

E qui veniamo alle due lettere pubblicate all’inizio. In entrambe è in discussione se la “nota disciplinare” per un qualche comportamento non “corretto” sia utile o se, invece, non peggiori il quadro comportamentale del nostro studente con disabilità ADH, DOP o autistico. D’altra parte le “note disciplinari” possono avere in gran parte lo stesso effetto anche nei ragazzi diciamo così non disabili: e cioè piuttosto che “aiutare a comprendere” il sé alunno/studente ed essere stimolato  per  comportamenti virtuosi, produrre uno stigma che aumenta le crisi e con questo più difficile l’inclusione personale. Disgraziatamente per una pedagogia del merito di destra strisciante che entra dalle fessure delle nostre aule “punire non è mai curare”.

Ebbene: queste due lettere riguardano i comportamenti “punitivi” che adottano sia docenti di cattedra che docenti di sostegno, che dovrebbero secondo il dire comune avere invece “competenze” ben diverse.
Dunque  un tema centrale per l’epoca presente: la necessità di sviluppare competenze più raffinate e serie di capacità inclusive per tutti i docenti coinvolti, sia per quelli di sostegno che per i curricolari.
Non per nulla, come già anticipato in altri mei scritti, sto lavorando  con amici e colleghi sensibili  al tema a proporre quella che abbiamo chiamato “cattedra inclusiva”, che nasce dalla necessità di formare intensamente tutti i docenti italiani anche e soprattutto a fronte dalle nuove sfide che la profonda mutazione socio-culturale e scientifica delle disabilità sta producendo nelle nostre scuole. La questione delle “note disciplinari” è un piccolo cattivo esempio prodotto sia da docenti curricolari che di sostegno.
Non c’è alternativa: è necessario un cambio di passo con competenze diffuse ben diverse da quelle di oggi. Altrimenti meglio le scuole speciali: quelle non imbrogliano nelle finalità.

 




Alunni stranieri: come “integrarli” nelle nostre scuole? In classi separate (come sembra proporre il ministro Valditara) o nelle classi di tutti?

Questa è una presentazione della video-intervista con Raffaele Iosa.
Il testo è stato prodotto con uno strumento di IA.

L’integrazione degli alunni stranieri nelle scuole italiane: una prospettiva critica

In un contesto educativo sempre più diversificato, l’integrazione degli alunni stranieri rappresenta una sfida fondamentale per il sistema scolastico italiano. Tuttavia, recenti proposte del Ministero dell’Istruzione hanno suscitato dibattiti e controversie riguardo al modo migliore per accogliere e supportare questi studenti. In questo articolo, esamineremo da vicino la questione, analizzando le opinioni espresse da Raffaele Iosa, un esperto nel campo dell’istruzione e dell’integrazione.

https://youtu.be/kI2b2fV1NoI

Riflessioni sull’accoglienza degli alunni stranieri

Raffaele Iosa critica aspramente l’approccio proposto dal Ministero, che suggerisce la creazione di classi separate o differenziali per gli alunni stranieri al fine di facilitare l’apprendimento della lingua italiana. Secondo Iosa, questa proposta riflette una visione superficiale e ideologica, trascurando l’importanza della socialità e della naturale interazione tra coetanei per lo sviluppo linguistico e sociale degli studenti stranieri.

Esperienze personali e riflessioni teoriche

Basandosi sulla propria esperienza e sulla teoria dell’apprendimento, Iosa evidenzia l’importanza del contesto sociale e dell’interazione tra i bambini per l’acquisizione linguistica. Utilizzando esempi tratti dalla propria vita e dalla pratica pedagogica, sottolinea come la diversità all’interno delle classi possa essere una risorsa preziosa per l’apprendimento reciproco e la formazione di relazioni significative.

Critiche alle proposte ministeriali

Iosa respinge l’idea di classi separate o speciali, suggerendo invece un approccio flessibile e inclusivo che valorizzi la diversità culturale e linguistica all’interno delle scuole. Sottolinea l’importanza dell’autonomia scolastica e della flessibilità organizzativa per rispondere in modo efficace alle esigenze degli alunni stranieri.

Ruolo dell’autonomia scolastica

Infine, Iosa richiama l’attenzione sull’importanza dell’autonomia scolastica nel gestire l’integrazione degli alunni stranieri. Sottolinea come le normative vigenti offrano già strumenti e margini di manovra per promuovere un’educazione inclusiva e rispettosa della diversità culturale.

Conclusioni

In conclusione, l’integrazione degli alunni stranieri richiede un approccio sensibile, flessibile e centrato sulle esigenze individuali degli studenti. Le proposte ministeriali di creare classi separate o differenziali sono state criticate come superficiali e ideologiche, mentre è stato enfatizzato il valore della diversità e dell’inclusione all’interno delle scuole. In definitiva, per garantire un’educazione equa e di qualità per tutti gli studenti, è necessario promuovere un clima scolastico accogliente, rispettoso e inclusivo.