Cattedra inclusiva: il vademecum per partecipare alla sperimentazione


Il  documento che alleghiamo è stato predisposto a supporto del progetto di legge intitolato “Introduzione delle cattedra inclusiva nelle scuole di ogni ordine e grado”  e intende offrire uno strumento operativo per i dirigenti scolastici e per i docenti che intendessero, partecipando alla sperimentazione sulla Cattedra inclusiva, avviare esperienze finalizzate ad anticipare l’introduzione formale di questa modalità di attuazione della corresponsabilità educativa tra tutti i docenti dell’organico dell’autonomia.

Il progetto di legge, come noto, prevede azioni e interventi indispensabili per la piena efficacia e per la generalizzazione della “cattedra inclusiva” (formazione iniziale, formazione in sevizio, coordinamento pedagogico dell’istituzione scolastica e territoriale, adeguate risorse umane e finanziarie), ma le esperienze in atto, pur parziali e limitate dai dettami vigenti, rappresentano, già adesso, un miglioramento della qualità educativa, dell’istruzione e della formazione e, al contempo, arricchiscono di concretezza e di pensiero un movimento nella direzione culturale e politica sottesa al progetto di legge.

Per partecipare alla sperimentazione, contattare la prof.ssa Evelina Chiocca all’indirizzo mail: evelina.chiocca@unimol.it




Ancora sulla cattedra inclusiva: quando l’inclusione è reale

di Evelina Chiocca

Corresponsabilità e continuità educativo-didattica: le parole-chiave per scrivere / leggere “inclusione”
Le attività di sostegno, promosse dal docente “con incarico sul sostegno” (docente assegnato alla classe a favore degli alunni con disabilità e del processo inclusivo – che è un processo culturale, e questo aspetto, rilevante, non va sottovalutato), hanno ragion d’essere e possono affermarsi “efficaci” se l’alunno apprende e se impara ad apprendere insieme ai coetanei.
Se invece l’alunno si rapporta unicamente con un docente e non interagisce con gli altri (docenti) o rifiuta di interagire con altri, allora si è creata una “dipendenza” tale da impedire sia l’autonomia personale e sociale, fondamentale per la socializzazione, che la relazione, la comunicazione e l’interazione (in altri termini si preclude quegli aspetti vincolanti per l’attuazione del suo personale Progetto di Vita).
Il docente incaricato su posto di sostegno, allora, deve tradursi in una presenza trasparente, lieve, agendo “sullo sfondo e in primo piano contestualmente”, supportando le azioni, ma lasciando l’alunno quale protagonista e artefice attivo del suo percorso di crescita e di apprendimento.
A questo bisogna tendere.
Diversamente si riprodurrebbe quella condizione tipica degli antichi luoghi di “separazione e di segregazione”, in cui l’operatore, ad ogni azione, annunciava:
“Aspetto. Ci penso io”,
“Aspetta, non ho tempo, vedi he ho da fare?”,
“Aspetta! Abbi pazienza. Finisco qui e arrivo”…
Si chiamava “dipendenza”, si creavano condizioni tali per cui l’alunno era costretto “a dipendere da qualcuno”; e tutto ciò, diciamocelo, con il processo di inclusione non ha proprio nulla a che fare.
L’insegnante che promuove e sostiene un coerente processo di inclusione è un docente “che lavora e che collabora con i colleghi, secondo criteri di corresponsabilità, di collegialità, di cooperazione, di sinergia”; è un docente che interagisce e si interfaccia, che supporta e che, soprattutto, aiuta tutti gli alunni della classe, quindi anche l’alunno con disabilità, a imparare a rapportarsi con la propria unicità e identità e con quella del gruppo dei pari, con tutti i “suoi” docenti, sviluppando autoconsapevolezza e senso di autoefficacia.
In realtà questa impostazione, culturalmente intrisa nella dimensione professionale, non può appartenere o essere appannaggio di “alcuni docenti”, ma deve caratterizzare la figura professionale del docente, in quanto il processo di inclusione non è un percorso “in solitaria”, bensì un percorso ricco di presenze, di persone che orientano lo sguardo verso una stessa direzione (finalità).
Ed è quello che si propone la #cattedrainclusiva
Andare oltre, superare stigmatizzazioni, stereotipi, pregiudizi, preconcetti, atteggiamenti e comportamenti abiliSti, per intraprendere percorsi di autenticità, in cui
– la continuità educativo-didattica sia effettiva,
– le risorse per il sostegno siano interamente garantite,
– la corresponsabilità e la collegialità siano i paradigmi di riferimento dell’agire didattico,
– la collaborazione con i genitori sia imprescindibile e autentica,
– in cui la progettazione chiami in causa ogni nostra piccola azione.

#sipuòfare già da oggi con la #cattedrainclusiva
Si tratta della più autentica utopia realizzabile.
Dipende da noi!
Dipende da te!
Dipende da me!




Fissiamo un tetto alle sgrammaticature di Valditara

di Mario Maviglia

Ha ragione il Ministro Valditara a scagliarsi contro chi ha stigmatizzato i suoi errori linguistici contenuti in un tweet in cui parlava della necessità di costituire classi con la maggioranza di italiani, allineandosi alle posizioni del suo capopartito Salvini, nonché Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture.

Questa vicenda ci fa capire tante cose interessanti:

  • Valditara dice: “Quando si detta un tweet al telefono non si compie un’operazione di rigore linguistico e si è più attenti al contenuto”. Verissimo! Però dall’altra parta del telefono ci si aspetta che chi prende la telefonata (ossia un collaboratore di Valditara, da lui stesso scelto, immaginiamo) abbia almeno la licenza di scuola media…
  • Il Ministro del Merito aggiunge che il processo di assimilazione degli alunni stranieri “avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani, se studieranno in modo potenziato l’italiano…”. Ecco, sarebbe opportuno che anche Valditara e l’ignoto suo collaboratore potenziassero a loro volta il loro italiano. La lingua italiana sarebbe loro grata.
  • Secondo il Valditara-pensiero (preso a prestito dal suo capopartito Salvini) questo processo di assimilazione degli studenti stranieri avverrà “se nelle scuole si insegni approfonditamente la storia, la letteratura, l’arte, la musica italiana…” [Si noti la finezza sintattica di quel “si insegni”, una vera chicca e licenza poetica. Non è ancora licenza media, ma la strada è tracciata. Con il potenziamento di cui sopra ce la possiamo fare…].
    Ma qui il Valditara-pensiero denuncia qualche défaillance (tranquillo, sig. Ministro: vuol dire “debolezza”): infatti i risultati peggiori – almeno stando alle classifiche internazionali come OCSE-PISA – gli allievi delle scuole italiane li conseguono nelle scuole superiori dove la presenza degli alunni stranieri è più bassa. E allora come la mettiamo? Forse questa necessità di “approfondimento” non riguarda solo gli studenti stranieri, ma anche e soprattutto quelli italiani.

  • Senza nascondere una certa stizza, il Ministro (Valditara, lo dobbiamo specificare sempre sennò sembra che si voglia parlare del suo capo, Salvini…) fa notare “ai tanti critici dall’indignazione facile, che in queste ore si stanno scatenando nella caccia all’errore, che così facendo ignorano la questione da me posta…”. Per la verità il Ministro (Valditara) e il suo capo (Salvini) sono i primi ad ignorare che la questione del tetto massimo degli alunni stranieri per classe era stata già oggetto di una circolare all’epoca del IV Governo Berlusconi, Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini.
    Si tratta della CM n. 2 dell’8 gennaio 2010, che fissava appunto al 30% la percentuale di “alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe”. Una circolare emanata quindi da un governo di centro-destra, come quello attuale.
    Ma è comprensibile che quando si hanno tanti tweet da fare o annunci da proclamare alla Nazione non si abbia poi il tempo di documentarsi rispetto al contenuto, quel contenuto che il Ministro (Valditara) dice di aver attenzionato a scapito della forma. Non si vuole essere cavillosi, ma qui, con tutta franchezza, sembra mancare sia la forma che il contenuto. È plausibile che ciò possa succedere al Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture (a proposito: da quando i Ministri di tale Dicastero si interessano in modo così insistente di politica scolastica? Il Ponte sullo Stretto non è già abbastanza impegnativo?), ma che un Ministro dell’Istruzione non sappia cosa ha prodotto il suo Dicastero in materia è abbastanza allarmante.
  • Volutamente abbiamo più volte parlato del Ministro Salvini come il “capo” del Ministro Valditara: non si tratta di una svista o di una nota polemica. Sia a proposito della vicenda della scuola di Pioltello che nel caso della percentuale di alunni stranieri nelle classi il la è stato dato da Salvini a cui si è accodato, come un mansueto cagnolino, o se volete come un coscienzioso corista, il Ministro Valditara.
    Insomma, sembra di capire che il Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture detta la linea della politica scolastica e il Ministro Valditara la mette in atto con sottomessa dedizione.
  • Sempre a proposito di contenuti, è facile prevedere che una norma sulla percentuale massima di alunni stranieri per classe (20 o 30% che sia) non troverà mai attuazione perché richiederebbe una concertazione di azioni tra più soggetti istituzionali, come d’altro canto ben specificava la CM 2/2010 che sottolineava l’importanza di “realizzare le conseguenti intese tra soggetti disponibili sul territorio per una gestione coordinata delle iscrizioni dei minori stranieri fra l’Amministrazione scolastica, le Prefetture, le Province e i Comuni”. Difficile pensare che oggi sia possibile un’azione di tale complessità.
  • D’altro canto, sempre citando la CM 2/2010, “non va dimenticato che a influire sulla presenza più o meno significativa di minori stranieri in un determinato territorio contribuiscono sì le capacità attrattive delle scuole che in esso insistono, ma pure – e in termini non certo irrilevanti – le disponibilità di alloggio e le offerte di lavoro in esso presenti. Il che fa immediatamente emergere il ruolo cruciale che le prassi degli accordi e delle alleanze territoriali possono svolgere per affrontare i problemi suddetti.”

Di questi problemi non vi è traccia negli interventi dei due Ministri dell’Istruzione (Valditara) e del Merito (Salvini). E allora facciamo una facile e cassandrica previsione: qualora questa coppia di Ministri dovesse partorire una norma su questa materia, la responsabilità di accogliere o non accogliere gli alunni stranieri, rispettando la quota percentuale stabilità formalmente, ricadrà interamente sulle istituzioni scolastiche e i dirigenti scolastici resteranno, ancora una volta, col cerino in mano. Parafrasando Brecht, possiamo dire che si siederanno nella parte più disagevole perché gli altri posti saranno occupati.




Il disastro della finta inclusione: bambini cattivi e note disciplinari

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Raffaele Iosa

 Riprendo e copio qui  queste due lettere di aiuto su brutte esperienza scolastiche di alunni e studenti con disabilità, riprese da un sito FB molto frequentato da insegnanti e genitori.
Sui siti specializzati in consulenza sull’inclusione scolastica ne arrivano di questo tipo continuamente.

 

Lettera 1
“….. Vorrei chiedervi se è normale che l’insegnante di sostegno di mio  figlio gli faccia  ogni giorno  note disciplinari, piuttosto che seguire la tecnica  di gestione dei comportamenti-problema.   Mio figlio è art. 3 comma 3 Legge 104, ADHD+ DOP + disregolazione emotiva, situazione familiare difficile.  Esiste una normativa in merito?”

Lettera 2
“ Buon giorno, sono una docente di sostegno, il mio collega curricolare mette diverse note disciplinari al mio alunno ADHD e DOP. Io lo trovo controproducente in quanto dopo ogni nota lui smette di lavorare. Cosa devo fare?”

A proposito di questo mio breve commento sull’argomento ADHD e DOP,  i quotidiani di oggi raccontano di una sospensione di ben 15 giorni a Ladispoli  per un ragazzino con queste disabilità,  che è stata soppressa dal TAR Lazio e con una scuola che riceverà da Roma “una visita ispettiva”. Servirà a qualcosa? Mah.

Dunque. Nel forte aumento  certificativo in corso da 20 anni, in cui gli studenti con disabilità sono triplicati, tre disabilità sono esplose nel panorama clinico: l’autismo (un terzo dei certificati 104), l’ ADHD (disturbo dell’attenzione e iperattività , e il DOP (disturbo oppositivo provocatorio).
Si tratta di sindromi certo complesse e molto discusse  (anche criticamente) sul piano scientifico,  emerse con forza negli ultimi anni, e a volte compresenti nella stessa persona. Tutte con una caratteristica  precipua: la presenza di diffusi “comportamenti problema” cui spesso si lega la “querelle disciplinare”, intesa non come materia scolastica, ovviamente, ma come modi umani dell’agire “anomali, spesso aggressivi e fortemente reattivi”. Che creano nelle classi situazioni sofferenti anche per gli altri alunni e studenti.

L’esplosione ha seguito la diffusione del DSM V, il classico manuale statunitense di psichiatria del 2012  che viene seguito dalle pratiche diagnostiche dei paesi europei.
Autismo, ADHD, DOP sono da questo manuale particolarmente “medicalizzati”, ed hanno ottenuto un gradimento diagnostico prima del tutto assente.

Meriterebbe, prima di analizzare le due lettere qui presentate, chiedersi  se questa esplosione segnali una “epidemia inedita prima”,  oppure una diversa attenzione e lettura dei comportamenti dei bambini e dei ragazzi a scuola, oppure una nuova epidemia psichiatrica a largo spettro. Oppure una qualche “crisi ideale e sociale”  che tocca l’educazione e la  terapeutica.
Ho chiamato quest’epoca  della “medicalizzazione” e  una specie di “grande malattia” sta pervadendo le nostre scuole e mette in crisi l’esperienza inclusiva italiana.

Il fatto è che anche le basi scientifiche di queste diagnosi sono  discusse. Non esiste una certezza genetica, ad esempio, se non alcune tracce e alcune spinte epigenetiche. Non esistono “cure” farmacologiche particolarmente condivise,  i farmaci  psichiatrici  sono ancora  osteggiati per il rischio di “intontimento”. Piuttosto è curioso che nella letteratura clinica  di queste tre disabilità manchino del tutto alcune parole classiche della psicologia quali “carattere, personalità, relazione”.
Siamo invece oggi nell’epoca del comportamentismo spinto, prevalentemente di base skinneriana, ed  è esplosa parallelamente una neo-clinica (con molte strutture private agguerrite nel mercato della cura) con “tecnici terapeutiche” e “tecniche comportamentiste” che hanno una discreta efficacia nei comportamenti problemi, ma anche queste oggetto di discussione. E soprattutto un costo pesante per le famiglie.

E’ soprattutto su queste tre disabilità che si sta giocando, in Italia come in Europa, la possibilità di proseguire e qualificare l’inclusione nella normalità come noi abbiamo fatto fin dagli anni 70. Il rischio è invece la tendenza ad “isolare” questi bambini e ragazzi anche perché “pericolosi” per i compagni di classe. Si tenga conto che per loro in genere domina la cd “copertura totale” (docente di sostegno + educatore comunale) in modo che mai siano lasciati “soli”  in mezzo alla classe e ai docenti (diciamo così) “normali”. Siamo cioè già verso un declino separativo, in cui si diffondono aule ha e spazi separati.
Ma il dibattito scientifico e pedagogico è scarso, e quando si prova a farlo spesso accadono scontri.

E qui veniamo alle due lettere pubblicate all’inizio. In entrambe è in discussione se la “nota disciplinare” per un qualche comportamento non “corretto” sia utile o se, invece, non peggiori il quadro comportamentale del nostro studente con disabilità ADH, DOP o autistico. D’altra parte le “note disciplinari” possono avere in gran parte lo stesso effetto anche nei ragazzi diciamo così non disabili: e cioè piuttosto che “aiutare a comprendere” il sé alunno/studente ed essere stimolato  per  comportamenti virtuosi, produrre uno stigma che aumenta le crisi e con questo più difficile l’inclusione personale. Disgraziatamente per una pedagogia del merito di destra strisciante che entra dalle fessure delle nostre aule “punire non è mai curare”.

Ebbene: queste due lettere riguardano i comportamenti “punitivi” che adottano sia docenti di cattedra che docenti di sostegno, che dovrebbero secondo il dire comune avere invece “competenze” ben diverse.
Dunque  un tema centrale per l’epoca presente: la necessità di sviluppare competenze più raffinate e serie di capacità inclusive per tutti i docenti coinvolti, sia per quelli di sostegno che per i curricolari.
Non per nulla, come già anticipato in altri mei scritti, sto lavorando  con amici e colleghi sensibili  al tema a proporre quella che abbiamo chiamato “cattedra inclusiva”, che nasce dalla necessità di formare intensamente tutti i docenti italiani anche e soprattutto a fronte dalle nuove sfide che la profonda mutazione socio-culturale e scientifica delle disabilità sta producendo nelle nostre scuole. La questione delle “note disciplinari” è un piccolo cattivo esempio prodotto sia da docenti curricolari che di sostegno.
Non c’è alternativa: è necessario un cambio di passo con competenze diffuse ben diverse da quelle di oggi. Altrimenti meglio le scuole speciali: quelle non imbrogliano nelle finalità.

 




Alunni stranieri: come “integrarli” nelle nostre scuole? In classi separate (come sembra proporre il ministro Valditara) o nelle classi di tutti?

Questa è una presentazione della video-intervista con Raffaele Iosa.
Il testo è stato prodotto con uno strumento di IA.

L’integrazione degli alunni stranieri nelle scuole italiane: una prospettiva critica

In un contesto educativo sempre più diversificato, l’integrazione degli alunni stranieri rappresenta una sfida fondamentale per il sistema scolastico italiano. Tuttavia, recenti proposte del Ministero dell’Istruzione hanno suscitato dibattiti e controversie riguardo al modo migliore per accogliere e supportare questi studenti. In questo articolo, esamineremo da vicino la questione, analizzando le opinioni espresse da Raffaele Iosa, un esperto nel campo dell’istruzione e dell’integrazione.

Riflessioni sull’accoglienza degli alunni stranieri

Raffaele Iosa critica aspramente l’approccio proposto dal Ministero, che suggerisce la creazione di classi separate o differenziali per gli alunni stranieri al fine di facilitare l’apprendimento della lingua italiana. Secondo Iosa, questa proposta riflette una visione superficiale e ideologica, trascurando l’importanza della socialità e della naturale interazione tra coetanei per lo sviluppo linguistico e sociale degli studenti stranieri.

Esperienze personali e riflessioni teoriche

Basandosi sulla propria esperienza e sulla teoria dell’apprendimento, Iosa evidenzia l’importanza del contesto sociale e dell’interazione tra i bambini per l’acquisizione linguistica. Utilizzando esempi tratti dalla propria vita e dalla pratica pedagogica, sottolinea come la diversità all’interno delle classi possa essere una risorsa preziosa per l’apprendimento reciproco e la formazione di relazioni significative.

Critiche alle proposte ministeriali

Iosa respinge l’idea di classi separate o speciali, suggerendo invece un approccio flessibile e inclusivo che valorizzi la diversità culturale e linguistica all’interno delle scuole. Sottolinea l’importanza dell’autonomia scolastica e della flessibilità organizzativa per rispondere in modo efficace alle esigenze degli alunni stranieri.

Ruolo dell’autonomia scolastica

Infine, Iosa richiama l’attenzione sull’importanza dell’autonomia scolastica nel gestire l’integrazione degli alunni stranieri. Sottolinea come le normative vigenti offrano già strumenti e margini di manovra per promuovere un’educazione inclusiva e rispettosa della diversità culturale.

Conclusioni

In conclusione, l’integrazione degli alunni stranieri richiede un approccio sensibile, flessibile e centrato sulle esigenze individuali degli studenti. Le proposte ministeriali di creare classi separate o differenziali sono state criticate come superficiali e ideologiche, mentre è stato enfatizzato il valore della diversità e dell’inclusione all’interno delle scuole. In definitiva, per garantire un’educazione equa e di qualità per tutti gli studenti, è necessario promuovere un clima scolastico accogliente, rispettoso e inclusivo.




E’ da un po’ che lo diciamo: le classi speciali stanno tornando!

di Raffaele Iosa

Sto lavorando con alcuni amici allo sviluppo di quella che abbiamo chiamato “cattedra inclusiva”.
Le ragioni pedagogiche nascono dal fatto che l’inclusione scolastica è in crisi sia per l’esplosione di migliaia diagnosi e certificazioni che hanno moltiplicato a dismisura i posti di sostegno, sia per una tendenza patologica a centrare nel solo “insegnante di sostegno”, eventualmente supportato dall’assistente comunale, la scolarità fino al termine “copertura totale” per intendere più che un’inclusione una paradossale “isolazione” di tanti bambini e ragazzi; tanto che più che di comunità di coetanei si dovrebbe parlare di guardiania pedagogica.
Per queste ragioni, tutte dolorose, proponiamo un cambio di rotta con una formazione dedicata e obbligatoria per tutti i docenti curricolari, per coinvolgere tutti nel processo attivo di inclusione.
Ma c’è anche una ragione più grave per cui ci siamo mossi ad allargare la partecipazione di tutti i docenti all’inclusione.
Il fatto é che numerosi segnali ci indicano una tendenza in atto volta a ripristinare “scuole speciali” separate tra i cd “normodotati” e i cd “neurospecifici”. A chi ci ha dato dei “pessimisti catastrofici” segnalo la scoperta di una nuova fantasiosa forma di scolarizzazione detta delle “sezioni di potenziamento”.
Lasciate perdere il termine che parrebbe positivo: si tratta invece di vere e proprie “classi speciali” composte da 4 a 7 alunni con un programma “isolante” e nel quale insegnanti (tutti di sostegno ovviamente), educatori e specialisti lavorano insieme tutti i giorni per tutte le ore di scuola.
Con trucchi amministrativi e una strana idea di autonomia scolastica si producono così “isole separate di fatto” dalla vasta ed eterogenea comunità di bambini e ragazzi.
I primi casi di questa bizzarra pedagogia vengono dal nord, da paesi piccoli (dove forse salverebbero le piccole scuole dalla crisi demografica). E vengono soprattutto nel mondo dell’autismo, sempre più spinto a didattiche unicamente speciali.
Ma la tendenza alla medicalizzazione diffusa in forme sempre più bizzarre, potrebbe favorire la nascita di sezioni di studenti iperdotati (altra moda del momento) oppure ragazzini “nervosi”, oppure ancora a identità di genere complessa.
Ognuno potrebbe avere la sua cura separata, con una scuola come reparto para-clinico, per la gioia dei tanti “nuovi santoni” che praticano terapie le più varie. Tutte centrate sul sintomo e nulla sulla persona.
Come temevo da tempo, la rottura é vicina. E dunque merita alzare il livello dell’attenzione e dello scontro verso tendenze isolazioniste pericolose per tutti i nostri scolari/studenti, verso una società sempre meno comunità e sempre più clinica manicomiale.




Cattedra inclusiva tra utopia e realtà

di Pietro Calascibetta

Sono già intervenuto sull’argomento e non voglio ripetermi. Desidero però fare alcune osservazioni prendendo spunto dalla piega che sta prendendo il dibattito, perché temo che si rischi di perdere di vista il nocciolo del problema per il quale è stata fatta la proposta di legge.
Se si vuole raccogliere dei consensi o dei contributi di riflessione su una proposta e trovare eventualmente le giuste mediazioni, bisogna che sia chiaro il problema che si affronta e l’obiettivo che si vuole raggiungere vedendo ciò che è più funzionale e ciò che lo è meno nella proposta e nelle obiezioni.

In caso contrario qualsiasi discussione prende la piega di un’esternazione di punti di vista in base al proprio umore o peggio dei propri orientamenti ideologici condivisibili o meno facendo naufragare ciò che di positivo è possibile fare utilizzando la suggestione della proposta.

LA “GRANDE MALATTIA”

Il fatto che le “certificazioni” siano aumentate è sicuramente un dato certo come scrive Raffaele Iosa in “Il declino dell’inclusione scolastica. Cambiare radicalmente rotta?”

Io però non sono del tutto d’accordo nel credere che sia il frutto di una generalizzata volontà di medicalizzare le difficoltà di apprendimento.
Le difficoltà di apprendimento esistono indipendentemente che siano o meno certificate così come esistono gli stili di apprendimento e i bisogni più o meno “speciali” e riguardano tutti gli studenti.
L’esplosione della “grande malattia” ha per me un’origine diversa da una generica volontà di medicalizzare i comportamenti degli alunni.
La “grande malattia” non è la causa del problema del “declino dell’inclusione” bensì un effetto.
Andare più a fondo di questo effetto permette di definire meglio il problema e individuare qual è effettivamente l’obiettivo da raggiungere.

Io penso e credo che vi siano stati due approcci diversi che hanno favorito il proliferare delle certificazioni: quello dei genitori e quello dei docenti e non sono due atteggiamenti “culturali”, ma partono da esigenze molto concrete.

Diverse famiglie hanno visto nella certificazione, ovviamente nei casi di disabilità non grave, un mezzo attraverso il quale poter chiedere alla scuola di prendersi cura dell’apprendimento del proprio figlio perché la certificazione impone per legge degli obblighi ai docenti.
In altre parole si tratta della richiesta ai docenti di dichiarare quali sono gli impegni che si prendono perché molte famiglie hanno perso fiducia nel fatto che la scuola si impegni realmente in questo.
Leggere il PTOF, le presentazioni delle attività, i progetti va bene, ma il genitore di uno studente con qualche difficoltà che si sente responsabile del suo futuro vuol sapere cosa fa la scuola nel concreto per metterlo in grado di imparare.
L’insegnante che dice di aver studiato per insegnare la sua disciplina in realtà ha le idee confuse sulla sua professione e nella comunicazione con le famiglie addossa spesso allo studente la responsabilità di non aver ottenuto la sufficienza per non aver studiato, non aver fatto i compiti e altro mentre lui ha fatto quel che doveva “spiegando” la materia e chiedendo alla famiglia di intervenire sul ragazzo per farlo impegnare di più, poco importa ad esempio se metà classe è insufficiente.
Quante volte si sente nelle assemblee di classe qualche docente che si lamenta di non poter svolgere il “programma” perché è rallentato dalla presenza di molti studenti in difficoltà!
Va ricordato a quel docente che far apprendere vuol dire trovare il modo più adatto a “connettere determinati allievi – aventi le loro esperienze, le loro preconoscenze, i loro stili di apprendimento ecc. – con determinati contenuti culturali, ciascuno caratterizzato da una propria struttura logica e metodologica” (da M. Castoldi).
Il “mestiere” del docente quindi non sta solo nel conoscere la disciplina e “spiegarla”, ma nel saper far apprendere la propria disciplina.
L’utilizzo della certificazione da parte dei genitori per chiedere che la scuola faccia il suo lavoro è ancora più vero a mio parere per gli studenti con DSA, le cui vicende ho seguito da vicino negli anni di servizio, studenti presi troppo spesso per svogliati, indolenti, distratti ecc.

Molte delle associazioni, per quanto mi risulta, sono molto determinate nel non volere che tali studenti vengano medicalizzati ribadendo in tutte le sedi che quelli che sono stati definiti ambiguamente “disturbi specifici” sono in un certo senso degli stili di apprendimento e in quanto tali vanno trattati attraverso una didattica realmente inclusiva come per gli altri stili e non con una didattica speciale, le misure compensative non sono tra queste.

La certificazione per i docenti invece ha, a volte, un significato diverso.
Spesso sono i docenti stessi a sollecitare ai genitori la certificazione immaginando così di aiutare lo studente facendosi autorizzare, grazie alla certificazione intesa come medicalizzazione, a trattarlo in modo diverso dai compagni senza considerare la possibilità di trovare invece una modalità adatta a “compensare” queste difficoltà costruendo una lezione per tutti che permetta a questo studente di apprendere come e con gli altri.

Nessuna legge vieta di utilizzare a discrezione misure compensative o dispensative per tutti gli studenti che abbiano difficoltà in alcune operazioni indipendentemente dalla certificazione.
Quindi andando al sodo, dietro la “grande malattia” vi è un “grande equivoco” che coinvolge in pieno il modo della scuola.
Qualsiasi progettazione didattica parte dalla situazione reale della classe e dei suoi studenti e l’individualizzazione e la personalizzazione non avrebbero bisogno di una certificazione per essere perseguiti nel modo più opportuno perché fanno parte del “lavoro” del docente per “far apprendere” e sono espressione della libertà di insegnamento e dell’autonomia didattica. Le certificazioni al massimo sono uno strumento informativo per meglio progettare l’attività didattica della classe. Ne consegue che la scelta dei metodi e delle tecniche di qualunque natura sono funzionali alla situazione della classe, dei singoli studenti e agli obiettivi da raggiungere. Su questo sono d’accordo con Iosa,

Ma non è quello che la stessa normativa generale chiede da sempre di fare?
Perché questo non è avvenuto e non avviene?
Questo è il vero problema.

E’ vero che i “Bisogni Educativi Speciali” sono spuntati ad un certo punto come un fungo nella normativa, ma a mio avviso, non sono una “trovata” estemporanea del burocrate di turno, ma vanno letti nel senso di una presa d’atto che tutte le indicazioni date a partire dagli anni ‘70 in decreti, circolari, Indicazioni nazionali e note sul compito della scuola di prendersi cura concretamente dei bisogni formativi degli studenti all’interno della propria progettazione attraverso l’individualizzazione e la personalizzazione dei percorsi (il famoso “non uno di meno”) non avevano sortito nulla o poco a livello nazionale al di là delle eccellenze.

Il ricorso all’introduzione di una serie di disposizioni formali e vincolanti di programmazione dell’individualizzazione è stata la risposta “politica”, probabilmente errata, al malumore delle famiglie per una situazione che si era di fatto creata.
Fare il PEI o il PDP però non dà automaticamente la competenza al docente di gestire l’apprendimento in aula di una classe eterogenea. Non è applicando dei protocolli individuali che si crea un contesto favorevole all’apprendimento per tutti, né l’inclusione.
Invece di chiedersi il perché i docenti non riuscivano a fare quello che già la legge prevedeva hanno preferito trovare la scorciatoia dell’obbligo.
Allora ripropongo la domanda, perché tutto questo è avvenuto?

Non tanto per una cattiva volontà dei docenti, ma per una mancata formazione iniziale e in servizio su come fare una didattica inclusiva e su come gestire le difficoltà di apprendimento in una scuola di massa qual è quella voluta dalla Costituzione.
E’ il profilo del docente curricolare che andava cambiato.
Gli insegnanti curricolari, con la scusa dell’autonomia, sono stati lasciati a sbrigarsela da soli a fronte di un contesto profondamente cambiato senza avere gli strumenti per gestire questa complessità. Questo va detto per sostenere la proposta.

IL GRANDE EQUIVOCO DELLA CATTEDRA DI SOSTEGNO

La mancata formazione di tutti i docenti all’inclusione deriva dalla scelta a livello legislativo fatta in occasione dell’abolizione delle classi differenziali di formare solo una parte dei docenti per l’insegnamento agli studenti con disabilità certificata, come se avessero dovuto affiancarli in aula per tutte le ore facendo credere alle famiglie e anche ai docenti curricolari che l’insegnante di sostegno avrebbe risolto tutti i problemi di apprendimento e di inclusione.
La verità è che con l’introduzione del docente di sostegno non si è risolto il problema dell’apprendimento dello studente né dell’inclusione, ma si è messa la solita pezza per nasconderlo.
L’insegnante di sostegno assolve sicuramente ad un ruolo importante, ma non c’è nulla di più eterogeneo della disabilità, ogni alunno ha i suoi bisogni ed è per questo che viene definita una presenza in classe del docente di sostegno diversa da caso a caso, comunque per un numero ridotto di ore rispetto all’orario di lezione completo (aggiungo io, per fortuna), di conseguenza far apprendere gli alunni con disabilità non è un compito esclusivo del docente di sostegno, ma è anche un compito a cui concorre il docente curricolare che non può sottrarsi giacché copre il resto delle ore. Insegnare agli studenti con disabilità fa dunque parte del lavoro del docente curricolare nonostante vi sia una percezione diversa nell’immaginario collettivo.
Questa non è un’opinione, è un dato di realtà da cui partire per trovare una soluzione.

ARRIVIAMO AL PROBLEMA

Un errore strategico questo i cui nodi sono venuti al pettine quando si è cominciato a capire che:

  1. i bisogni speciali non sono solo quelli degli studenti con disabilità elencati nella legge 104, ma anche altri;
  2. i bisogni speciali possono essere anche temporanei e di origine sociale;
  3.  anche la presenza di stili di apprendimento diversi richiede un approccio inclusivo all’apprendimento;
  4.  l’inclusione non riguarda gli alunni in difficoltà, ma tutti gli studenti. L’inclusione è la condizione che fa del gruppo classe un dispositivo per l’apprendimento di tutti perché favorisce proprio quel contesto di relazioni positive che permette al docente di connettere i propri allievi con le conoscenze della propria disciplina.

L’inclusione non è semplicemente un “valore” o un “principio” o una buona azione, ma una condizione perché il docente possa fare il proprio lavoro. Va data dunque una rilevanza professionale alla proposta.

Invece di affrontare il problema causato dalla mancata formazione dei docenti curricolari, come si è detto, si è aggiunta la pezza dei BES, da qui il “declino dell’inclusione” è diventato un problema vero e proprio.
La conseguenza di tutto questo è che la scuola è diventa, come scrive Iosa, non una “comunità aperta e creativa, ma triste luogo di para cura protetti da leggi, commi, documenti manualistici, terapie sintomatologiche”.
Ma cosa ci si poteva aspettare da un Ministero che pensa che la governance del sistema delle autonomie sia solo amministrativa e non anche e soprattutto pedagogica e didattica (vedi la mortificazione del ruolo assegnato oggi agli ispettori nonostante quello che sarebbe dovuto essere il loro inquadramento con le nuove norme e la triste fine degli IRRSAE di cui non è rimasto più neppure il ricordo del loro prezioso ruolo nella formazione in servizio e nell’innovazione negli anni d’oro delle sperimentazioni).
La questione centrale per un discorso sull’inclusione è come far sì che un docente curricolare abbia le competenze per affrontare e gestire in modo unitario l’eterogeneità di un gruppo classe.

Tutti dovrebbero aver consapevolezza che la formazione iniziale del docente curricolare non prevede competenze di gestione né degli studenti disabili, né, voglio aggiungere, degli studenti con bisogni speciali ad esempio quelli con DSA, né di come gestire dal punto di vista dell’apprendimento un gruppo eterogeneo di studenti con problematiche e stili diversi in modo unitario.
Se è questo il problema forse varrebbe la penna di lavorare per risolverlo. La proposta di legge sulla cattedra inclusiva oltre ad essere molto suggestiva in che misura può affrontare realmente il problema in mezzo a tanti pregiudizi e fake presenti nell’opinione pubblica?

UNA CATTEDRA INCLUSIVA O UN DOCENTE INCLUSIVO?

La proposta di far acquisire al docente curricolare una preparazione tale (possiamo chiamarla anche specializzazione) da poter affrontare i bisogni speciali dei suoi allievi e la gestione di una classe eterogenea è a mio avviso una risposta funzionale al problema tenendo presente che la formazione è anche carente sul piano delle competenze relative soprattutto alla relazione educativa e alle dinamiche di gruppo che tanto peso hanno nell’inclusione.
Se si vuole dare forza ad una proposta che riesca ad affrontare il problema è meglio puntare sul docente curricolare inclusivo che a mio avviso coinvolgere in modo più chiaro e diretto gli interessati, cioè i docenti curricolari, le famiglie e gli studenti.

Perché un docente su posto comune dovrebbe aver voglia di impegnarsi in un tale cambiamento? Solo per un ideale o perché il cambiamento può anche migliorare le sue condizioni di lavoro attuali e la sua realizzazione professionale? Io credo che possa essere per questo.
Perché le famiglie dovrebbero appoggiare la proposta? Perché può andare incontro alle aspettative di tutte le famiglie un docente preparato a prendersi cura dei propri figli sia che siano fragili, sia talentuosi e che riesca a portare al successo la propria classe.
Un vantaggio per l’insegnante diventa un vantaggio per gli studenti con BES, le loro famiglie e gli studenti che qualcuno definisce “cosiddetti normali” per una gestione più efficace, serena e cooperativa delle dinamiche del gruppo classe che favorisce l’apprendimento di tutti.

In merito alle riserve avanzate da qualcuno sulla reale possibilità di formare tutti i docenti, credo che non possa essere motivo per cassare una proposta. Chi respinge la proposta solo con questi argomenti fa finta di non vedere il problema.
Abbiamo individuato un problema reale all’origine del “declino dell’inclusione” e una soluzione ragionevole e necessaria sul piano professionale che poi valorizza anche il ruolo del docente e può volendo aprire ad una motivata revisione dello stipendio a fronte di un miglioramento della qualità della prestazione.
Il modo di pensare i contenuti e la modalità della formazione in base alle problematiche di attuazione è una responsabilità che, chi di dovere dovrebbe prendersi.

DALL’UTOPIA ALLA POSSIBILITA’

Avere una cattedra unica per il posto comune e per il sostegno con dei docenti che possono essere impegnati nell’uno o nell’altro incarico permetterebbe in teoria una reale flessibilità nell’utilizzo della risorsa e potrebbe affrontare le difficoltà che oggi ci sono nel reclutamento dei docenti di sostegno. Fin qui tutto bene.
I problemi cominciano quado si propone che ciascun docente una volta formato utilizzi il monte ore della propria cattedra inclusiva sui due posti, comune e di sostegno, che comunque rimangono distinti.
Ci si domanda come utilizzare tale flessibilità calandola nell’organizzazione della scuola qual è ora perché possono esserci diversi problemi non di poco conto di cui ho già scritto.
Introdurre l’obbligo di destinare a ciascun docente una parte dell’orario di cattedra sul sostegno e l’altra sulla disciplina a livello di istituto, come vorrebbe la proposta, creerebbe, a mio parere, non poche difficoltà nell’assegnazione dei docenti alle classi e conseguentemente nella possibilità di predisporre un orario dignitoso per tutti (studenti e docenti), nel poter assegnare i docenti in base ai bisogni degli studenti e non con criteri burocratici, senza parlare del poter organizzare le riunioni dei consigli di classe e degli scrutini alla presenza di tutti i docenti che lavorano sulla classe. E poi quante ore per l’uno e per l’altro incarico? Chi lo stabilisce, il dirigente?

Forse una soluzione intermedia più fattibile sarebbe avere un docente curricolare su cattedra inclusiva su tutte le ore del posto comune ed uno sempre con tutte le ore su posto di sostegno con possibilità da studiare una modalità di passaggio da un posto all’altro in base a taluni vincoli anche attraverso procedure interne allo stesso istituto seguendo le necessità della progettualità collegiale, valorizzando così l’autonomia (in realtà che autonomia è un’autonomia che impedisce di utilizzare in modo flessibile le risorse umane!)

Cosa diversa sarebbe se si potesse costituire una sorta di organico dell’autonomia per biennio o per sezione in cui ai docenti con cattedra curricolare con più classi vengano assegnate solo quelle della sezione o del biennio in modo da poter essere impegnati nel completamento dell’orario di cattedra in attività di potenziamento o di sostegno, un organico che può essere arricchito con ulteriori docenti prelevati dalla dotazione di potenziamento di istituto.
In questo caso un docente di cattedra inclusiva potrebbe spendere le sue ore su entrambi i posti senza che questo crei complicazioni organizzative.

Si tratta di utilizzare lo stesso principio dell’organico dell’autonomia questa volta non sulla scuola ma su singole unità operative. In questo modo si formerebbe un’équipe di docenti e le ore di copresenza per il sostegno potrebbero essere gestite dai docenti della sezione o del biennio ad esempio in una riunione collegiale iniziale in base alla situazione delle classi e ai bisogni degli studenti alla stregua di come si fa per le compresenze nei progetti o UdA tenendo ovviamente conto dei vincoli nell’assegnazione del monte ore individuale agli studenti con disabilità.
Questa soluzione risolverebbe anche il problema dei docenti curricolari con 6 o 8 classi per i quali sarebbe difficile accedere ad una cattedra inclusiva con doppio incarico.
Una soluzione che valorizzerebbe certo l’autonomia e il ruolo progettuale dei docenti, ma che andrebbe ben studiata anche in relazione ai vari indirizzi di studio e ai cicli.

Limitarsi a potenziare la formazione dei docenti su posto comune come si è scritto sopra facendone dei docenti inclusi sarebbe già un notevole risultato e un cambio di prospettiva anche culturale riportando al centro l’unitarietà dell’insegnamento e chiarendo il ruolo paritario e complementare del docente di sostegno e di quello curricolare nello sviluppo del curricolo disciplinare e trasversale dello studente.

Anche nel caso di non unire le due cattedre e lasciare la cattedra di sostegno come è ora potrebbe però essere possibile comunque fare ancora qualcosa di più per migliorare la qualità dell’inclusione.

Si potrebbe fare anche del docente di sostegno come del docente curricolare, un docente inclusivo con una formazione ancora più arricchita sul piano psicosociale anche valorizzando nelle graduatorie e nell’accesso gli aspiranti provenienti dalle lauree in scienze pedagogiche costretti a prestare servizio nella scuola tramite il lavoro precario nelle cooperative.

Ciò permetterebbe al docente di sostegno non solo di seguire gli studenti con disabilità, ma di avere una competenza più specifica per coordinare in modo professionale l’azione di inclusione dei consigli di classe in cui opera riservando a questo compito anche una parte dell’orario di cattedra per attività di progettazione, tutoring, consulenza ai docenti e alle famiglie.
Sarebbe l’occasione per assegnare loro la qualifica di “docente esperto” (Legge 79/2022) con relativo ritocco dello stipendio provando a dare un utilizzo più accettabile a tale qualifica perché legata ad un compito specifico rispetto al solo insegnamento uguale per tutti e aprendo la strada all’introduzione di vere e proprie figure di sistema.
Potrebbe essere un incentivo per il reclutamento di risorse motivate con la prospettiva di svolgere un’attività più gratificante, utile e con uno sviluppo professionale.

Anche questo potrebbe essere un “cambio di rotta” significativo e un’idea per la discussione nonostante non coincida perfettamente con la proposta di legge.