Come il web cambia la nostra lingua

di Rodolfo Marchisio

Come il web cambia la nostra lingua.[1]

La lingua del web ed i linguaggi non verbali. Spunti per una riflessione sull’e-taliano.[2]

Lingua: aggressività e mancanza dei linguaggi non verbali nel web

 “Abbiamo avuto migliaia di anni di evoluzione per prendere confidenza con le interazioni umane in contesti faccia a faccia, ma appena due decenni per il mondo online diffuso su larga scala che ora è il luogo dove si svolge molta dell’interazione umana, con strumenti del tutto diversi.”
Quando si comunica online, la gente non solo sembra più brusca e aggressiva, in realtà lo è davvero.

A volte ci si dimentica che il tono, nelle comunicazioni più tradizionali, è veicolato con i segnali non verbali, le espressioni facciali, ma anche la postura del corpo, il contatto visivo, la voce, per esempio.
In assenza di questi segnali, online è più difficile esprimersi in maniera sottile, quindi le comunicazioni appaiono più brusche e aggressive”. Wallace, psicolinguista

Le comunicazioni online possono essere facilmente fraintese

Online, siamo insomma meno capaci di interpretare le comunicazioni testuali con precisione, anche quando il mittente pensa che il significato dovrebbe essere ovvio.
Questo accade con il sarcasmo, l’ironia, per esempio.
È molto difficile identificare con precisione un commento sarcastico in una e-mail (o in un messaggio scritto online NdA), una mancanza che può generare interpretazioni errate eclatanti.

Linguaggi non verbali in rete

Manca il contatto faccia a faccia, ma c’è anche

  •  la distanza fisica,
  • l’incertezza sul pubblico che ci vede e ci ascolta,
  • la percezione dell’anonimato (e della impunita NdA) Entrambi presunti.
  •  la mancanza di un feedback immediato e gli strumenti di comunicazione che usiamo si basano principalmente su testo e immagini.

” Al tempo stesso Internet è un motore senza precedenti d’innovazione, connessione e sviluppo umano“.

Il tono della voce e il contesto

Proviamo a dire: Ma quanto sei furbocon tre intonazioni diverse: assertivo, ammirativo, ironico.
Le parole sono le stesse, ma il messaggio che arriva è diverso.
1- Sono convinto, 2- ti ammiro per questo, 3- ti sto prendendo in giro.
Se lo scriviamo questo non è chiaro.

 I messaggi e il contesto.

I messaggi dipendono sia dal mezzo o ambiente, che dal contesto.
La professoressa ci ha dato l’ennesima insufficienza.
Come lo racconti
ad un tuo amico (Quella beep della X …),
ad un altro docente (la prof X mi ha dato, ma io mi sto impegnando…),
ai genitori (“Non è colpa mia, ma la X …)
o al Dirigente scolastico?

La comunicazione, oggi avviene soprattutto, non solo per i giovani, nei Social coi loro vantaggi (diffusione), limiti strutturali e coercizioni volute e imposte.

L’informazione dipende dalla rete. Googlare è uno dei neologismi, legato a una delle azioni più frequenti in rete. Anche da parte dei quei ragazzi che non sono consapevoli di essere in rete, perché confondono le 3 stanze che frequentano (di solito un social, un motore di ricerca, la posta elettronica) per il tutto. E non è colpa loro, perché sono indotti a pensarlo. Pariser.  [3]

Nel frattempo i SN sono diventati Social media – veicoli di informazioni, di cui negano la responsabilità – e si frequentano tramite smartphone.

Come funziona il linguaggio nei social? Breve, assertivo, aggressivo, per il poco tempo e per il poco spazio (vedi caratteri Twitter all’inizio 140 massimo poi 280. Non è cambiato granché).

Non è un problema tecnico, è emerso anche dalle ricerche, ma di abitudine e di cultura.

Emozioni ed emoticon

In rete proviamo allora ad usare faccine, emoticon, per integrare la comunicazione ed esprimere emozioni, stati d’animo, reazioni, ma non basta.
Esercizi con le emoticon: raccogliere, riconoscere e tradurle in parole.
Oppure produrre emoticon che imitino un tono o uno stato d’animo diverso.
È l’antico discorso della narrazione con le parole o con le immagini; oppure con immagini semplificate e torniamo ai racconti sulle pareti delle caverne o al linguaggio pittografico.
Dice la Wallace: in rete si litiga di più che in presenza.
Perché, tranne che nelle videoconferenze, mancano sia il tono della voce, che tutti i messaggi che inviamo attraverso il viso, gli occhi, la postura del corpo.
Io posso dirti che m’interessa quello che dici, ma se ho un’aria annoiata o sono girato dall’altra parte capisci che penso il contrario. Questo nei post è difficile da spiegare. Per questo nascono equivoci, discussioni, lunghi post o mail di chiarimenti.
Messaggi inutili e inquinanti.

Le emoticon

  • Le faccine hanno cambiato il nostro mondo? “Quando fu fondato il Consorzio (NdA delle emoticon), nel 1995, erano appena 76, oggi sono 3363, divise in dieci categorie. Dal 2015 esistono anche gli emoji personalizzabili a seconda del colore della pelle o delle abitudini sessuali.
  • “La lingua è lo specchio della società: quella parlata e ancor più quella scritta. Così oggi, se esiste la parola per esprimere un concetto, con ragionevole certezza si può dire che dovrebbe esistere anche l’emoji o gli emoji per farlo.
  • D’altra parte sono anni che grandi classici della letteratura vengono tradotti in pittogrammi: è successo, ad esempio, con Pinocchio o Moby Dick, opportunamente rinominato Emoji Dick.”
  • Potremmo interrogarci sul senso di ricerche e traduzioni come quella di Pinocchio raccontato solo tramite emoticon. Per farlo è stato necessario inventare una grammatica e un lessico appositi.

Come la lingua influenza il nostro modo di pensare.

 Ci sono circa 7.000 lingue parlate nel mondo, e ognuna è composta di suoni, parole e strutture diverse. Ma le lingue plasmano il modo in cui pensiamo? Come sono legate a noi ed al mondo in cui viviamo?
La studiosa di scienze cognitive Lera Boroditsky mostra esempi di varie lingue: da una comunità aborigena in Australia che usa i punti cardinali invece della destra o della sinistra, alle diverse parole usate per indicare il “blu” in russo (o alla mancanza di alcuni colori nel linguaggio degli eschimesi, che hanno invece molte tonalità dal bianco al grigio, al nero, a causa dell’ambiente in cui vivono NdA).
Chi non ha un colore o un oggetto non ha bisogno delle parole per dirlo.

Viceversa chi ha una cosa da dire e non possiede le parole per esprimerla ne soffre, oltre ad essere limitato, come le tribù che possono descrivere il dolore fisico, ma non quello psichico, cosa che li fa stare ancora peggio.

Universi linguistici e cognitivi e rapporto con l’ambiente

“La bellezza della diversità linguistica è che ci rivela come possa essere ingegnosa e flessibile la mente umana”, dice Boroditsky.
“La mente umana non ha inventato un unico universo cognitivo, bensì 7.000”.
TED Vera Borodisky  a lato sottotitoli in Italiano.

Linguistica e letteratura del coding

Il coding, il pensiero computazionale, ha inventato ormai più delle 7000 lingue conosciute: sono 8000 i linguaggi di programmazione ed hanno autori, correnti, collegamenti con l’arte e meritano una letteratura ed uno studio linguistico come quello sulla nostra lingua ed i suoi autori. In proposito vedi Il primo festival del codice sorgente  https://codefe.st/  e La prima mostra al mondo del codice sorgente come fenomeno letterario allestita coi ragazzi dell’ IIS Avogadro di Torino da  http://codexpo.org/ che si occupa di questo.  La mostra è visitabile: https://www.codeshow.it/

  1. Questo articolo è stato scritto utilizzando una delle più potenti possibilità che ci offre il web. Quella di una scrittura e quindi di una lettura ipertestuale che diventa ipermediale.

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[1] Queste osservazioni si riferiscono al linguaggio prevalente in rete cioè alla lingua scritta (210 miliardi di mail e 140 milioni di post al giorno solo nei 2 principali Social). Anche perché si presta meglio ad una riflessione sulla lingua italiana. In rete si stanno sviluppando linguaggi prevalentemente fatti di video (Youtube, Tik Tok) o linguaggi multimediali in senso lato. Ma allora il discorso si sposta dalla lingua del nostro paese ai linguaggi misti dove ad esempio l’immagine prevale, talora col linguaggio parlato, anche se non sempre decifrabile in modo evidente.  Anche la DaD ci ha insegnato qualcosa.

[2] Enciclopedia Treccani.

[3] TED di Pariser con testo in Italiano. 8 min. https://www.bing.com/videos/search?q=Pariser+TED&docid=608022015048428796&mid=39FE07E616144EBD5AC639FE07E616144EBD5AC6&view=detail&FORM=VIRE




La lingua italiana ai tempi del web

di Rodolfo Marchisio

“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Wittgenstein

 La lingua cambia continuamente. Ma le modifiche apportate alla lingua che usiamo, con l’avvento del web, sono molte e, come molte cose che passano attraverso quel moltiplicatore e acceleratore che è la rete, hanno conseguenze molto significative anche sulla nostra vita personale e sui nostri diritti di cittadini.
Tanto che la domanda oggi, a partire dalla lingua, non è più “cosa ci faccio col web” ma “cosa il web sta facendo a noi”, al nostro linguaggio e di conseguenza al nostro modo di esprimerci; quindi di ragionare, di sentire, di avere relazioni e fare amicizie, di agire e scegliere, cioè di essere cittadini. (S. Turkle).
“I ragazzi devono saper cosa succede sulla loro pelle in rete” …perché “cambiare è ancora possibile” recitava il Sillabo sulla Educazione civica digitale del MI 2018. In relazione alla attuale fase del web che ha fatto dire a T. B. Lee “Non riconosco più la mia creatura”.

Cominciando dalla lingua, perché di qui comincia il processo che coinvolge informazioni, conoscenze, pensieri; ma anche emozioni, sentimenti, percezioni, relazioni, amicizie e il nostro modo di essere. Persone e cittadini.

Allora è il momento di fare, insieme ai nostri ragazzi, una riflessione linguistica attraverso esempi, ricerche, dati ed autori, su come il nostro linguaggio, in molti modi, sia cambiato con l’avvento del web e su quali siano le conseguenze di questo cambiamento dinamico.

Se ne sta occupando anche la Accademia della Crusca. Ma, fortemente intrecciata con la dimensione lessicale, grammaticale e linguistica, c’è una dimensione culturale e di cittadinanza.

Ad esempio di semplificazione, del linguaggio e del pensiero. Da “Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno…” a “E’ tutta colpa del governo”! Da ipotassi a paratassi.
Un problema che riguarda la grammatica, la linguistica, ma anche la cittadinanza.

Potremmo parlare allora della lingua e del pensiero come gioco di costruzioni.
Del rapporto, ad esempio, tra quantità e qualità di parole conosciute e democrazia (Don Milani, Orwell, Zagrebelsky).
Oppure del rapporto parole-azioni-potere come ci ricordano “Alice nel paese delle meraviglie” o Orwell con la neolingua (1984).
Del rapporto fra semplificazione della lingua e svalutazione della conoscenza e della competenza. Nichols, Asimov.
Della scomparsa di modi e tempi dei verbi nei media e della semplificazione della nostra espressione, specie nel web; anche, ma non solo, per la brevità imposta dagli ambienti social.

Verso la assertività: l’indicativo è il modo dei semplici e dei prepotenti.

Della lingua del web, spesso breve, aggressiva, equivocabile per mancanza di linguaggi non verbali (viso, gesti, tono). Wallace.
Del linguaggio dell’odio in rete (del rapporto odio/linguaggio), di odiatori seriali e di chi sono, della industria delle Fake news che, ormai regolarmente, “inquinano” il nostro stanco diritto/dovere di votare.
Della frammentazione e dell’eccesso di informazioni in rete, spesso inutili e inquinanti.
Di parole “ombrello” come digitaleGuastavigna – o di parole suicide.
Dei vantaggi e dei rischi (anche ecologici) legati alla disintermediazione nel campo della espressione; di post verità e delle sue conseguenze.
Dal punto di vista del vocabolario in ingresso. Dei neologismi, delle parole straniere entrate a far parte del nostro lessico, di sigle o abbreviazioni, del “gergo” dei social che fanno ormai parte anche della lingua parlata/scritta nella vita di tutti i giorni.

Dovremmo riflettere sul rapporto emozioni/emoticon: anche semplicemente giocando con le emoticon (oggi oltre 3600 divise in dieci categorie) o col tono della voce.
Ma anche lavorando su abbreviazioni e modifiche della grafia, sms, lapidi e placiti Cassinesi.
O ancora sul senso di esperienze di libri riscritti con le emoticon, come Pinocchio.
Soprattutto di riflettere su quanti e quali diritti queste modifiche, talora implicite, talora volute e pagate, parte di un sistema economico di controllo del cittadino e del consumatore, stiano limitando o violando.

In sintesi.

Occorrono nuove consapevolezze (e competenze) sulla lingua che partano da una riflessione su:

  1. come cambia la lingua del web,
  2. ma anche la nostra lingua col web,
  3. come il web condizioni la lingua che parliamo,
  4. quali siano le conseguenze relazionali, sociali e di cittadinanza on e off line

Essendo consapevoli:

a- del fatto che oggi i giovani ci propongono, attraverso il web, un modo nuovo di comunicare multimediale cui prestare attenzione,
b- che il loro linguaggio (ma solo il “loro”?) sta utilizzando sempre meno parole (800 secondo il MI Inglese, poche decine negli sms). Il vocabolario di base di De Mauro, partiva da meno di 2000 parole per arrivare a un massimo di 7000 di più largo uso.
c- ma anche delle potenzialità dei linguaggi ipertestuali (e ipermediali) a più livelli che ci offre la espressione online.

L’insegnamento deve adeguarsi al cambiamento dei linguaggi e dei comportamenti cognitivi, imparando ad animare gli spazi di un immaginario che si compone anche dentro e attraverso la Rete. C. Scognamiglio.




Agenda 2030: come giocarsi la credibilità dell’Educazione civica nelle nostre scuole

C’è una sostanziale inscindibilità tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, e l’istruzione permanente, vale a dire un apprendimento che accompagna l’intero arco della vita delle persone.

Non so se di questo fossero consapevoli gli estensori della legge con la quale si è reintrodotto l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole di ogni ordine e grado del nostro paese.Tra i temi che durante l’anno scolastico le nostre ragazze e i nostri ragazzi dovranno studiare c’è appunto questo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.Nutro il sospetto che il legislatore avesse un’approfondita consapevolezza dei contenuti di questa Agenda, forse più affascinato dagli obiettivi della sostenibilità che interessato a conoscere effettivamente le pratiche richieste per la loro realizzazione dai diversi soggetti promotori dell’Agenda, dall’Onu all’ Unesco.
Questo potrebbe diventare un terreno molto sdrucciolevole per la credibilità e l’efficacia formativa dell’ Educazione civica come materia, dico subito perché e vedrò di spiegarlo meglio di seguito.L’Agenda 2030 avendo un obiettivo proiettato nel tempo costituisce un lavoro in progress, per questo studio e riflessione dei suoi contenuti richiederebbero di ritrovare poi una corrispondenza in quanto si va costruendo nell’ambiente sociale in cui le nostre ragazze e i nostri ragazzi sono immersi e la scuola opera.
L’Agenda 2030, come sappiamo, si propone di assicurare ambienti di vita sostenibili per le generazioni presenti e per quelle future, ha come obiettivi, tra gli altri, di assicurare un’istruzione di qualità, promuovendo opportunità di apprendimento permanente a partire dal governo delle città.Nel nostro paese di Città che Apprendono, di Città della Conoscenza non se ne parla, fatta eccezione per rari casi che si contano sulle dita di una mano. E già qui si pone il problema della coerenza tra ciò che pretendiamo che i nostri ragazzi studino e i luoghi che abitano.
Del ruolo delle città, in particolare delle città che apprendono, le “learning cities”, nel perseguire gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile se ne è parlato in conferenze internazionali con la partecipazione di sindaci, amministratori di città di tutto il mondo, dirigenti scolastici, esperti di apprendimento, rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite, di settori privati, di organizzazioni regionali, internazionali e della società civile, a cui dubito che l’Italia abbia mai partecipato: Pechino nel 2013, Città del Messico nel 2015, Cork, in Irlanda, nel 2017, Medellín, in Colombia, nel 2019.Conferenze che si sono sempre concluse con Dichiarazioni nelle quali viene ribadito il ruolo centrale dell’apprendimento permanente come motore della sostenibilità ambientale, sociale, culturale ed economica.
Le città che apprendono sono per l’Onu e l’Unesco lo strumento principe per la realizzazione concreta degli obiettivi posti da qui al 2030 dall’Agenda, ora anche oggetto di studio nelle nostre scuole.
Ma la prima incongruenza nasce dal constatare che nessuno dei nostri governi nazionali, fino ad oggi, ha fornito le condizioni fondamentali e le risorse sufficienti per costruire città che apprendono capaci di promuovere inclusione e crescita.
L’idea di educazione permanente praticata nel nostro paese è a dir poco obsoleta, modellata com’è su una concezione dell’istruzione ancorata a categorie del secolo scorso.Non solo oggi è necessario che l’istruzione permanente pervada tutta la vita delle persone, ma anche l’intero impianto del sistema formativo del paese.
Ora è il governo della città a costituire il fattore chiave per sbloccare tutto il potenziale della comunità urbana, attraverso l’importanza dell’apprendimento permanente, per assicurare ambienti di vita sostenibili alle generazioni presenti e future.
Ma anche qui parliamo il linguaggio della luna. Se le nostre città non provvedono a divenire città che apprendono sarà proprio lo studio dell’Agenda 2030, nell’ambito dell’educazione civica, a far scoppiare le contraddizioni, che già le giovani generazioni con Greta denunciano.Eppure si potrebbe fare se solo attori pubblici e privati, settori delle città e delle comunità, compresi istituti di istruzione superiore e di formazione, nonché i rappresentanti dei giovani si riunissero in partenariato per promuovere l’apprendimento permanente a livello locale al fine di garantire che tutte le generazioni siano coinvolte nel processo di crescita della città che apprende.Gli strumenti non mancano, dalla rete Unesco delle città che apprendono alla Dichiarazione di Città del Messico del 2015 che fornisce una lista di controllo completa dei punti di azione per migliorare e misurare il progresso delle città che apprendono.
La cosa stravagante del nostro paese è che tante sono le nostre città riconosciute come patrimonio dell’Unesco, ma nessuna di loro aderisce alle Rete delle “Learning cities” dell’Unesco, né, tanto meno, è  impegnata a perseguirne gli obiettivi, a partire dalla città in cui vivo secondo l’adagio latino: nemo propheta in patria.È probabile che dovremo attendere la generazione degli amministratori istruiti alla scuola della nuova Educazione civica, sempre che decolli, ma temo che entro il 2030 non ce la faremo




Crocifisso sì, crocifisso no. La soluzione: non togliere, ma aggiungere

di Aluisi Tosolini

Pochi giorni fa la sentenza della Cassazione a sezioni unite (la numero 24414) ha posto fine ad una diatriba giudiziaria iniziata nel 2009 ma soprattutto ad una questione culturale che da decenni attraversa la società italiana.

Il nodo del contendere è il crocifisso  nelle aule scolastiche: imposizione che confligge con la laicità della scuola di uno stato laico in cui non può esistere una religione di stato oppure espressione di un sentire comune radicato nel nostro Paese e simbolo di una tradizione culturale millenaria?

La sentenza della corte suprema scrive: «L’aula può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso cercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi».

Aggiungere, non togliere

Anni fa, quando curavo la rubrica di educazione interculturale per il sito Pavonerisorse avevo dato conto dell’evoluzione dei punti di vista su questo tema segnalando come sia i primi documenti ministeriali sull’educazione interculturale prodotti dalla Commissione Ministeriale (si veda http://www.educational.rai.it/corsiformazione/intercultura/ ) che il documento del 2007 dell’Osservatorio (La vita italiana le la scuola https://archivio.pubblica.istruzione.it/news/2007/allegati/pubblicazione_intercultura.pdf) affrontano con chiarezza e stile innovativo il tema della compresenza di religioni diverse nella società e quindi nelle classi delle scuole italiane.
La proposta di cui mi fece portatore allora si riassume nella frase: “aggiungere, non togliere” che è la sintesi anche della posizione espressa dalla consulta.

In tema di religione e di identità religiosa non esiste infatti una possibile sintesi tra diverse esperienze ognuna delle quali si presenta come “verità”. Neppure è possibile ridurre l’esperienza religiosa al privato di una singola persona: la religione non è, infatti, soltanto un’esperienza interiore, ma ha anche una dimensione più ampia, sociale, culturale, materiale che coinvolge l’intera società.

Dove sta dunque la soluzione? Nell’impegno al rispetto dei credo altrui e nell’impegno comune a costruire una società che luogo della convivialità delle differenze dove tutti e ognuno si sentono a casa.
I bambini e le bambine nelle classi multiculturali della scuola italiana stanno imparando a vivere e a costruire assieme una società in cui tutti possano sentirsi a casa anche se con differenti culture e con differenti religioni. Per questo è fondamentale conoscere le diverse esperienze religiose dei propri compagni: solo così sarà possibile comprendersi e rispettarsi vicendevolmente. La scuola è il luogo della alfabetizzazione, ovvero il luogo dove si impara a scrivere, leggere e far di conto, ma anche a vivere assieme impegnandosi per il bene comune. La mancata conoscenza delle diverse religioni e dei vissuti che le stesse richiamano è una forma di analfabetismo che ha conseguenze negative sul presente e sul futuro del- le nostre società glo-cali fondate su doveri e diritti condivisi.

La dichiarazione universale dei diritti umani

La stessa posizione espresse anche uno dei massimi studiosi di diritti umani e fondatore del centro dei Diritti umani dell’università di Padova, Antonio Papisca.
Commentando l’articolo18 della dichiarazione universale dei diritti umani (Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti) Papisca scrive che ci troviamo di fronte al triangolo sacra della dichiarazione.
Per Papisca l’articolo 18 va letto insieme con l’articolo 1 ( “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”) perchè i due articoli contengono la parte per così dire sacrale dell’intera Dichiarazione universale. I soggetti di riferimento sono, ovviamente, tutte le persone umane, quindi ‘credenti’, ‘non credenti’, ‘atei’, ‘agnostici’. Pensiero, coscienza, religione: è il triangolo valoriale di più denso spessore etico, che qualifica la soggettività giuridica originaria della persona umana la cui retta coscienza (foro interno) è vero tribunale di ultima istanza dei diritti.

L’articolo 18 pone in relazione fra loro tre libertà, che sono sia “da” (interferenze e limitazioni) sia “per” (la realizzazione di percorsi di vita con assunzione di responsabilità personale e sociale). E’ il caso di sottolineare che queste tre libertà si riferiscono all’essere umano integrale – fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia – e sono pertanto interdipendenti e indivisibili rispetto a tutti gli altri diritti fondamentali. Però con una caratteristica peculiare. Gli altri diritti possono essere distrutti dall’esterno: si pensi al diritto all’alimentazione o al diritto all’assistenza pubblica in caso di necessità o al diritto al lavoro. Non è così per i tre diritti dell’articolo 18, essi hanno una intrinseca forza di resistenza, possono essere combattuti, contrastati, ma sopravvivono comunque: più forti della morte. Mi possono mettere in carcere, possono combattere la mia religione, ma le mie idee, la mia fede, la mia coscienza rimangono intatte. Al dittatore, al carnefice si può sempre gridare: dov’è la tua vittoria?

Rimandando al testo originale di Papisca per le altre considerazioni (https://unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/Articolo-18-Libere-coscienze/22 ) basti qui rileggere quanto scrive a proposito dei simboli religiosi:  C’è anche dibattito sui simboli religiosi a scuola e in altri luoghi pubblici. C’è chi vuole togliere il Crocifisso dalle pareti motivando che nella scuola pubblica aumenta il numero di studenti di religione diversa dalla cristiana. La mia personale risposta è: non togliere, ma aggiungere. Non estirpiamo radici di grandi culture, al contrario motiplichiamole: la condizione della loro compatibilità è che tutte siano compatibili con il codice universale dei diritti umani, a cominciare dall’articolo 1 della Dichiarazione universale. Laicità non significa “togliere” valori, fare tabula rasa. Laicità significa pluralismo e rispetto reciproco. La laicità dello Stato si misura con gli indicatori che si riassumono in “tutti i diritti umani per tutti”, e tra questi, c’è appunto il diritto alla libertà religiosa”.

Per una scuola delle differenze

Spero che la soluzione proposta dalla Cassazione venga accolta da ogni singola scuola: far sì che nel rispetto di tutte le diverse posizioni (credenti, non credenti, atei, agnostici) a scuola ogni studente possa ritrovare il riferimento simbolico anche alla propria fede. Solo così può sentirsi a casa e solo così ognuno può impegnarsi per la costruzione di una casa comune delle differenze dove tutti si sentano a casa lavorando nel contempo per il bene comune.
Personalmente credo anche utilissimo creare, all’interno di ogni scuola (così come di ogni spazio pubblico), l’equivalente della stanza che  nel 1957 il segretario dell’ONU Dag Hammarskjöld volle al palazzo di vetro. Una stanza del silenzio e della meditazione come luogo di raccoglimento per tutte le fedi (https://www.un.org/depts/dhl/dag/meditationroom.htm).

Un segno che la scuola è capace di anticipare e costruire la società di domani dove tutti possano vivere la propria esperienza religiosa rispettando le altre posizioni in merito di religione apportando nel contempo il proprio contributo alla costruzione della convivialità.
Dove non si toglie, ma si aggiunge.




Diritti, conflitti, responsabilità e regole durante la crisi: la Costituzione

Stefaneldi Rodolfo Marchisio

Come noto Bobbio divide i diritti sanciti dalla Costituzione in 4 categorie ognuna corrispondente ad un secolo. Il secolo in cui un gruppo sociale ha lottato per strapparle ad un altro gruppo o potere sociale. Temporaneamente. N. Bobbio L’età dei diritti

Siamo di fronte con la crisi del Covid 19-> Delta (per ora) e le polemiche già citate ad un conflitto tra le liberta di 1° generazione individuali, illuministiche, borghesi (pensiero, parola, espressione, manifestazione) conquistate dai liberali e dagli illuministi nel 700 e i diritti sociali (Salute, Istruzione, Assistenza, Lavoro) conquiste del movimento operaio, sindacale e contadino nell’ 800.
Libertà individuale, di espressione ed azione vs diritto alla salute art 32 (anche pubblica) alla istruzione art. 34, alla assistenza, al lavoro art 35 e seguenti.
La Costituzione è impegnativa per lo Stato, negli articoli che sanciscono i diritti sociali (Salute, Istruzione, Assistenza, Lavoro) “lo Stato deve rimuovere ogni ostacolo…”; ad es all’accesso al diritto alla salute o alla istruzione da parte di tutti cittadini.

Ma ricorda anche Art 2, 3 e 4 che ognuno di noi deve dare il suo contributo attivo al miglioramento e al progresso sociale. Cioè fare al meglio la nostra parte nell’interesse di tutti.

Art 2. …e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale.
Art 4. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la
propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società
. Responsabilità. Solidarietà, Partecipazione.

In altre parole siamo responsabili a livello sociale anche degli altri.

A maggior ragione se siamo pubblici ufficiali (art 28) e formatori di cittadini che educhiamo col nostro esempio (legge 92/19 Ed Civica). Non colle nostre lezioni.

Questo è un argomento ostico in una epoca in cui la ipertrofia del diritto individuale (ad es: alla espressione) diventa, in rete e nei media, diritto all’insulto, alla incitazione alla violenza, alla negazione di fatti a danno del diritto degli altri. Zagrebelsky.
In una epoca in cui si mette in crisi la competenza e pretendiamo, per avere letto e non validato una informazione trovata in rete che conferma la nostra opinione, che questa valga più delle competenze degli esperti e di chi ha studiato.  T. Nichols La conoscenza e i suoi nemici.

Senza tener conto che una informazione non validata non è conoscenza, non vale nulla e che non possiamo improvvisarci medici, esperti della qualunque solo perché lo dice il web o la TV.

Una situazione che Asimov ha sintetizzato nella frase “la mia ignoranza vale come la tua competenza” e che Eco aveva riassunto a distanza di anni in 2 osservazioni (entrambe vere):

  • La rete dà la parola a tutti. È un passo verso la democrazia. Vero!
  • La rete dà la parola a legioni di imbecilli che prima non facevano danni, se ne stavano al bar dicevano la loro e risolvevano i problemi del mondo, ma tanto c‘erano 3 o 4 persone a sentirli… Vero! Ma adesso chi posta su FB arriva a 2,5 miliardi di possibili “vittime”.

Con l’aggravante che il meccanismo della personalizzazione della rete, ci fa vivere in una gabbia, in una bolla – Parisier, Bauman – dove l’algoritmo è programmato per farci conoscere amici che la pensano già come noi rafforzando l’idea che abbiamo ragione. Lo dice anche lui/lei…
Non è colpa della rete, Bauman, che non danna e non salva – Rodotà-, ma dell’uso che ne fanno i “padroni della rete” – Rampini- Usando Google non per darci quello che ci serve, ma quello che ci piace. E dell’uso sprovveduto che ne facciamo noi utenti consapevoli o “utonti”.

Rete a parte, la democrazia è un conflitto non solo tra gruppi sociali (la conquista di un diritto è temporanea e conflittuale e toglie qualcosa ad altri: l’abolizione della schiavitù comporta la abolizione del diritto di possedere degli schiavi N. Bobbio), ma anche nel rapporto, che sta alla base della democrazia, tra quante persone esercitano un diritto (ad es. di espressione pubblica) e la loro competenza nel merito.

La democrazia comunque vive sul fatto di garantire il diritto a tutti. Ma stiamo, per ipertrofia dell’individualismo, in cui ci rifugiamo di fronte alla difficile realtà, a danno degli altri, perdendo l’equilibrio tra diritti e competenza e tra diritti individuali e doveri sociali. Zagrebelsky.

Ovviamente noi siamo per diritti a tutti, a differenza di Platone che in Contro la democrazia diceva che dovevano governare i migliori. Cioè i filosofi (o i tecnici o altre élite). Per diversi studiosi comunque la democrazia è soprattutto la possibilità di cambiare governo, sostituendo una élite delegata con un’altra. Mentre per Bobbio si riduce a 2 condizioni base.
Infine l’idea di una democrazia diretta salvata dalla rete è già implosa su sé stessa.
Il web permette di ampliare diritti, non di salvare una democrazia malata.
Un popolo che vuole governarsi da sé deve armarsi del potere che dà la conoscenza. Madison

Sappiamo ormai che questo equilibrio in casi di crisi e se non poniamo un freno a “so tutto io” può creare problemi, perché informarsi correttamente e ragionare su fatti e dati è più faticoso e difficile che parlare e quindi la rete abbonda di tuttologi saccenti e rabbiosi.

La Costituzione

a- È fatta di diritti (tanti, di 4 generazioni). 1° generazione; liberta di (parlare, esprimersi, riunirsi, associarsi…). Libertà da: dal bisogno, dalla malattia, dalla ignoranza …quindi diritto al lavoro, alla salute, alla istruzione) diritti di 2° generazione (‘800) che si lotta per mantenere anche in questo momento. Poi i diritti delle categorie di persone (anziano, bambino, disabile…) delle carte internazionali, ‘900. E i diritti in rete, quelli del “villaggio globale”. N. Bobbio
Ci sono anche 2 diritti/doveri e 3 doveri. Tra questi doveri quello della partecipazione e dalla solidarietà.
Il contrario di “voglio essere padrone a casa mia” “voglio essere libero di fare quello che voglio” (anche di sparare, non solo cavolate, ma anche proiettili e di uccidere per futili motivi). Oggi viviamo, come segno della nostra insicurezza, la crescita abnorme della pretesa ai diritti individuali vs il dovere dei diritti di tutti. Zagrebelky

b- La Carta ammette già l’obbligo vaccinale per tutte le malattie che ci hanno minacciato recentemente, e che un tempo uccidevano.

c- Richiede il contributo di tutti al miglioramento della situazione, specie in momenti di crisi.
Noi over ci siamo vaccinati con Astra Zeneca non solo per proteggerci da situazioni gravi che riempivano gli ospedali, ma per proteggere la nostra famiglia e gli altri. Compresi i no vax che adesso sfuggono ad ogni controllo per andare in vacanza o piazza. Responsabilità sociale.

d- La Corte Costituzionale ha già chiarito che:
1- l’obbligo vaccinale c’è già e non è incostituzionale, ma anche
2- i limiti di questa situazione, in cui il governo prende decisioni di limitazione di libertà/diritti individuali, per interesse collettivo, in emergenza, ma che devono essere “ben motivate, delimitate nel tempo per poi passare la parola al Parlamento organo legislativo”.

Non c’è altro da discutere. Ricordiamoci dei cortei di bare in Lombardia mentre corriamo in discoteca o minacciamo altri in modo violento.

Analogamente si sono espressi per l’obbligo vaccinale 2 presidenti emeriti (Zagrebelsky e Onida) e S. Cassese, già membro della Consulta. Il green pass oggi è come la patente per guidare.

La scienza

Dicevamo che la scienza non è certezza, ma ragionevolezza, probabilità, suffragata da dati, ricerche, prove.
Allora dato per assodato che la scienza non è né certa né pura, che spesso è legata a interessi di parte, che ha però organismi di controllo a livello mondiale, europeo, Usa e Italia o pensiamo che tutti gli scienziati e gli Enti preposti di tutto il mondo siano incompetenti, corrotti e d’accordo in un complotto mondiale servo degli oligopoli oppure, cosa più probabile, quando molti studi puntano in una direzione e i risultati, ma anche le conseguenze, i dati si confermano tra loro, la probabilità che quella strada sia utile e ragionevole, fino a prova contraria, è alta.
Senza aspettarci che se ne esca in fretta, né che sia semplice, né soprattutto che si ritorni ad una normalità pregressa che non vedremo mai più. Supereremo questa crisi come altre più gravi (AIDS, colera etc..) vaccinarsi diventerà obbligatorio e normale e sconfiggeremo questa situazione  (ai miei tempi i bambini rischiavano poliomielite, tetano, difterite e tante altre malattie, oggi no)
Ma non torneremo a prima, ad una “normalità” utopica, improbabile.
Non auguriamocelo, perché la “normalità” scrivevano sui muri di Madrid è parte del problema
La crisi sanitaria ha solo scoperchiato i punti critici di sanità pubblica, scuola e lavoro nel nostro sistema occidentale.
Speriamo di non tornare indietro, ma di costruire un sistema sociale migliore. Anche per i no vax.
“C’erano tante di quelle cose (difficili) da capire a quei tempi che io ero contento quando parlavamo d’altro” H. Hemingway, Festa mobile




6 agosto 1945, Hiroshima – 9 agosto 1945, Nagasaki

di Aluisi Tosolini

Cade oggi il 76° anniversario del primo bombardamento atomico della storia che pose fine alla seconda guerra mondiale costringendo il Giappone alla resa incondizionata.
Le due città furono distrutte in un lampo. I morti diretti, per lo più civili, furono circa 200.000 cui seguirono negli anni moltissime migliaia di morti per radiazioni e conseguenze del bombardamento atomico.

Il mondo entra in una nuova dimensione: la distruzione di massa è possibile

76 anni fa il mondo entrava in una nuova dimensione, quella della guerra atomica dove una nuova arma di distruzione di massa fece irruzione segnando per la prima volta la possibilità concreta e non solo teorica della totale distruzione dell’umanità. Un’arma concretamente ontologica.
Un’arma che manda in pensione l’idea della guerra giusta, come ha ben segnalato qualche anno dopo il Concilio Vaticano II che nella Gaudium et spes dichiarando che la guerra totale (ovvero in primis la guerra atomica prima e nucleare poi) alienum est a ratione (GS, 80). È fuori da ogni razionalità.
E la stessa legittima difesa, scrive la Gaudium et Spes, nella situazione attuale deve fare i conti con limiti oggettivi determinati dai rischi di distruttività totale, anche se agli stati non può essere negata: «fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà una autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa» (GS, 79). Nello stesso tempo, visto che la pace non è la semplice assenza di guerra (GS, 78), va ricordato che «l’edificazione della pace esige prima di tutto che, a cominciare dalle ingiustizie, si eliminino le cause di discordia che fomentano le guerre» (GS, 83).

Negli anni successivi il mondo per decenni è stato ostaggio di un bipolarismo che si è caratterizzato soprattutto come corsa agli armamenti ed in particolare come corsa a dotarsi delle più distruttive armi nucleari possibili.

Oggi siamo usciti dalla guerra fredda ma non dalla corsa alle spese per armi nucleari. Basti pensare che nel 2020, secondo il rapporto dell’ICAN (Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari, premio Nobel nel 2017, https://www.icanw.org/ ), nonostante l’epidemia da corona virus, le nove potenze mondiali dotate di armi nucleari hanno aumentato di 1,4 miliardi di dollari i loro investimenti per la produzione di bombe atomiche.

L’ammontare delle spese a livello mondiale ha raggiunto la stratosferica cifra di 72,6 miliardi  di dollari.
Nel dettaglio gli Usa Stati Uniti hanno speso nel nucleare militare 37,4 miliardi di dollari, la Cina 10,1 miliardi,  la Russia 8 miliardi, il Regno Unito 6,2 miliardi, la Francia 5,7 miliardi. Seguono India, Israele e Pakistan con una spesa ciascuno di oltre un miliardo di dollari per i loro arsenali nucleari, mentre la Corea del Nord ha speso, secondo l’ICAN, 667 milioni di dollari (a fronte di una crisi alimentare terribile)

A livello generale la spesa militare mondiale nel 2019 è ammontata, secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute ) a 1.917 miliardi di dollari, pari al 2,2% del prodotto interno lordo (PIL) globale o a 249 dollari pro capite. La spesa complessiva del 2019 è aumentata del 3,6% rispetto al 2018 e del 7,2% rispetto al 2010. La spesa militare globale nel 2019 è quindi cresciuta per il quinto anno consecutivo, con l’aumento più consistente dell’ultimo decennio (2010–19), superando quello del 2,6% del 2018. La spesa militare è aumentata in almeno quattro delle cinque regioni globali: del 5,0% in Europa, del 4,8% in Asia e Oceania, del 4,7% nelle Americhe e dell’1,5% in Africa. Per il quinto anno consecutivo il SIPRI non è in grado di fornire una stima della spesa militare totale in Medio Oriente (dati ripresi dal rapporto SIPRI 2020)

Per la spesa militare italiana, che è stata nel 2020 pari a 28,9 miliardi di dollari, si veda il sito della Rete Pace e Disarmo).

I numeri non ingannino: vanno riletti con attenzione. Nel 2020 il SIPRI di Stoccolma ha registrato un aumento del 2,6% della spesa militare che ha raggiunto la cifra record di 1.981 miliardi di dollari, cioè oltre 5,4 miliardi dollari al giorno. Ripeto: 5,4 miliardi di dollari al giorno.
Il tutto senza che vi sia stato alcun aumento della sicurezza a livello mondiale e con evidente e significativo sperpero di risorse che se usate in altro modo in pochissimi anni permetterebbero di raggiungere tutti i 17 obiettivi del dell’Agenda Onu 2030 (su cui continuiamo a fare chiacchiere e poco altro in convegni internazionali e progetti di educazione civica).
E non sto qui a paragonare le spese militari (o anche solo nucleari) con le spese per debellare a livello mondiale la pandemia Covid 19.

La guerra è sempre possibile ed è già una terribile realtà per molti

A 76 anni da Hiroshima e Nagasaki dobbiamo infatti riconoscere che nessun deterrente “armato” ha mai funzionato nel debellare la guerra ed anzi la guerra è sempre possibile e ancora oggi abita il nostro mondo, anche se a noi pare lontana ed improbabile.
Eppure già le spese militari sono una guerra combattuta tutti i giorni che provoca milioni di morti ogni anno per fame, malattie, povertà.

Per una nuova politica ed una nuova cultura della pace

Per la giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2021 papa Francesco così ha titolato il suo messaggio: «La cultura della cura come percorso di pace». È a partire dalla parola pace, e del suo risuonare dentro la logica della cura, che è possibile anche una rilettura dell’enciclica Fratelli tutti  pubblicata da Papa Francesco il 3 ottobre 2020 . Enciclica direttamente ispirata alla figura di san Francesco, che «dappertutto seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi, e seppe far cader le frontiere anche nella sua visita al Sultano Malik-al-Kamil affrontato col medesimo atteggiamento che esigeva dai suoi discepoli: che, senza negare la propria identità, trovandosi “tra i saraceni o altri infedeli […], non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio”» (FT, 3).

Oggi, secondo papa Francesco, siamo chiamati ad incamminarci lungo le strade di un nuovo incontro: «percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite. C’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia» (FT, 225).

I tratti di questi percorsi sono esplicitati chiaramente:

a) i conflitti non possono essere né negati né dimenticati;
b) occorre ricominciare dalla verità, anche storica: «la verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia» (FT, 227);
c) il percorso di costruzione della pace non è un percorso di omogeneizzazione: la pluralità di progetti di società è ricchezza;
d) il cammino verso una migliore convivenza chiede sempre di riconoscere la possibilità che l’altro apporti una prospettiva legittima – almeno in parte –, qualcosa che si possa rivalutare, anche quando possa essersi sbagliato o aver agito male (FT, 228);
e) un’autentica pace si può ottenere solo quando lottiamo per la giustizia attraverso il dialogo, perseguendo la riconciliazione e lo sviluppo reciproco (FT, 229);
f) la sfida è superare ciò che ci divide senza perdere la nostra identità (FT, 230);
g) non basta una architettura di pace ma occorrono anche artigiani di pace (FT, 231): l’architettura è costituita dalle istituzioni e dai passi istituzionali che tuttavia richiedono il concreto, fattivo, caldo impegno di ognuno chiamato a svolgere «un ruolo fondamentale, in un unico progetto creativo, per scrivere una nuova pagina di storia, una pagina piena di speranza, piena di pace, piena di riconciliazione».
h) il percorso non ha mai termine: il cammino della costruzione della pace, nella costruzione dell’unità di una società, non è mai dato una volta per sempre. Occorre continuamente lottare per favorire la cultura dell’incontro, che esige di porre al centro di ogni azione politica, sociale ed economica la persona umana, la sua altissima dignità, e il rispetto del bene comune (FT, 232)

Artigiani di pace: il ruolo dell’educazione e della scuola

Hiroshima e Nagasaki sono stati e continuano ad essere una sfida terribile all’educazione e alla scuola. Le parole della Fratelli tutti ci ricordano un elemento essenziale e ben condiviso dai filosofi e saggi di questi anni (da Gunther Anders a Edgar Morin, da Gregory Bateson ad Hans Jonas, solo per citarne pochissimi), ovvero che siamo tutti sulla stessa barca, che il mondo è uno, che nessuno potrà salvarsi dalla distruzione del pianeta, avvenga essa per guerre nucleari o per creisi ambientale ed ecologica.
Siamo tutti fratelli, abbiamo tutti lo stesso destino sulla terra matria.
Da qui la sfida di una scuola e di una educazione chiamata a formare cittadini capaci di trasformare il mondo e la società.
La sfida, in sostanza, a connettere cultura e politica.  Saperi e trasformazione della realtà.

E’ la sfida che sta al centro, ad esempio, della Marcia Perugia-Assisi di cui questo anno si celebrano i 60 anni e che si svolgerà il 10 ottobre 2021 vedendo ancora una volta la scuola come uno dei soggetti chiave del camminare verso Assisi

Perché Hiroshima e Nagasaki restino solo un monito ed un ricordo ed Assisi ed il messaggio di Francesco l’orizzonte cui tendere.

 




Aldo Moro moriva 43 anni fa. Si deve a lui la prima legge sull’insegnamento dell’educazione civica

Il 9 maggio del 1978, dopo 55 giorni trascorsi in una “prigione del popolo”,  veniva ucciso Aldo Moro.
Il presidente della Democrazia Cristiana era stato sequestrato il 16 marzo da un nucleo armato delle Brigate Rosse con un’operazione “militare” nel corso della quale vennero uccisi tutti gli uomini della scorta (2 che viaggiavano nell’auto con Moro e 3 in una seconda auto).
L’evento  tenne con il fiato sospeso l’intero Paese anche perché l’esito della “trattativa” fra lo Stato e le Brigate e Rosse non era per nulla scontato.
Cogliamo l’occasione di questa drammatica circostanza per ricordare una delle iniziative più importanti di Aldo Moro, quella che risale al 1958, 20 anni prima della sua morte, quando – nella sua veste di ministro dell’Istruzione – fece approvare la legge sull’insegnamento dell’educazione civica.
L’evento viene raccontato nel corso di una intervista al pedagogista Luciano Corradini.