L’umiliazione dei licei: secondo il Ministero sono scuole poco impegnative e facili da gestire

di Stefano Stefanel

Una delle prime cose che si insegna a tutti i docenti che vogliono diventare dirigenti scolastici è che ogni provvedimento della Pubblica Amministrazione deve rispondere a canoni di efficienza, efficacia ed economicità.

Se almeno una di queste tre caratteristiche non è soddisfatta allora è meglio lasciar perdere.
Di recente, improvvisamente e a sorpresa, il MIM ha emanato una divisione degli Istituti scolastici in fasce al fine della retribuzione dei dirigenti scolastici.
La retribuzione dei dirigenti scolastici prevede una parte fissa uguale per tutti, eventuali assegni ad personam legati a situazioni del passato transitati nella dirigenza (che residua per non tantissimi casi) e due retribuzioni variabili: una “di posizione” (la complessità della scuola che si dirige) e una “di risultato” (a seguito della valutazione obbligatoria del dirigente scolastico).

Poiché anche i dirigenti scolastici non vogliono farsi valutare a fini stipendiali (come del resto in Italia praticamente tutti ad eccezione degli studenti) e in questo vengono spalleggiati sia dai sindacati generalisti (per intenderci CGIL, CISL, UIL, Snals, ecc.) sia da quelli di categoria (citerei solo ANP) dalla nascita della dirigenza scolastica (1999) nessuno è stato valutato a fini stipendiali.
Praticamente tutti i dirigenti e tutti i sindacati si dicono, a voce alta, favorevoli alla valutazione dei dirigenti (che è prevista per legge), ma poi nei fatti sostengono anche che deve essere “seria” dicendo al contempo che quelle proposte dal Ministero negli anni passati “serie” non lo sono state, determinando di fatto un’assenza di valutazione e che, quindi,  agganciando la retribuzione di risultato a quella di posizione.
Nel passato ci sono state varie tornare di valutazione dei dirigenti, ma nessuna ha avuto ricaduta stipendiale. D’altronde se il valutato può decidere cosa è serio e cosa non lo è nell’ambito della sua valutazione non esiste nessuno così geniale da escogitare qualcosa che venga accettato senza proteste da tutti (tipo il cappone che organizza il cenone di Natale).
In questa situazione, dunque, la retribuzione di posizione/risultato incide sullo stipendio del dirigente e sulla sua situazione pensionistica. Quindi le fasce di livello delle scuole hanno solo un’incidenza sulla categoria dirigenziale e sulle sue retribuzioni. Perciò le fasce di livello interessano solo i dirigenti scolastici e non la scuola e la sua organizzazione. Per circa quindici anni sono rimaste in vigore le vecchie quattro fasce e nessuno parlava dell’argomento, contestava, problematizzava. Dunque di fatto tutti accettavano la situazione così come si era cristallizzata.

Improvvisamente il MIM ha deciso di diminuire i dirigenti (generando degli accorpamenti con modalità bizzarre e ragionieristiche e senza tenere conto di situazioni locali specifiche) e di rivedere le fasce diminuendole da quattro a tre. Il primo provvedimento ha evidenti motivi di economicità (molti meno, direi nessuno, sui versanti dell’efficienza e dell’efficacia), mentre il secondo ha solo creato polemiche perché non rispetta nessuno dei tre requisiti.
Infatti la divisione delle fasce ha mandato, attraverso parametri pensati in modo arcaico e confuso, tutti i Licei non inseriti in un Istituto complesso (gli ISIS) nella fascia più bassa, cioè in quella in cui si prendono meno soldi.
Il messaggio mandato dal MIM è semplice: i Licei danno prestigio, ma sono facili da dirigere, quindi chi vuole più soldi deve andare a dirigere un Istituto comprensivo.
Il messaggio però declassa i Licei che sono, nel bene e spesso nel male, la cartina di tornasole dal sistema scolastico italiano. Il contorto e inefficiente sistema italiano di orientamento (su questo sono intervenute le Linee guida sull’orientamento che finora non hanno molto inciso sul problema, anche perché coniugate con meccanismi attuativi “bizantini” che hanno finanziato l’orientamento verso l’Università, quindi dei trienni delle Scuole superiori, e per niente quello delle Scuole secondarie di primo grado che invitano i bravi a fare i Licei e i meno bravi a fare i Tecnici o i Professionali) produce da anni una concentrazione degli studenti migliori nei Licei e quindi l’efficacia generale dell’Italia in termini di società della conoscenza è ancora delegata soprattutto ai Licei.

Questa è una verità che tutti conoscono, che produce discorsi mediatici prossimi ad un vero e proprio delirio sulla scuola, perché hanno solo i Licei come centro del discorso. Tutta la comunicazione sulla scuola è influenzata dai Licei, visto che gli intellettuali di spicco e che hanno accesso ai grandi canali di comunicazione hanno tutti fatto da giovani il Liceo e, quando parlano della scuola, si riferiscono solo al Liceo in cui hanno studiato (Cacciari, Panebianco, Galli della Loggia, Crepet, Galimberti e via declinando) o in cui hanno insegnato (Mastrocola, Ardone e via enumerando).

Quello che mi permetto di chiedere è: perché si è fatta questa operazione di declassamento? A cosa serve umiliare e declassare il punto alto del sistema scolastico italiano, quello che accoglie gli studenti migliori? Che messaggio viene dato alla categoria dirigenziale? Che idea c’è di scuola?
E – soprattutto – se “chiunque” può dirigere un Liceo, considerato scuola semplice, vuol dire che la professione non deve occuparsi delle sue eccellenze. Perché il problema sta anche qui: cosa si vuole dal dirigente scolastico oggi? Che si occupi degli alunni o dello SPID?
Che abbia a cuore il miglioramento degli apprendimenti o corra dietro alle multe che INPS e INAlL danno a destra e a manca per mancanze tutte loro, ma che nessuno gli contesta?
Che analizzi i percorsi didattici, formativi e di orientamento o consulti graduatorie? Che organizzi percorsi personalizzati per tutti gli studenti in difficoltà o dedichi le sue giornate a compilare piattaforme e graduatorie? Che usi i soldi del PNRR per migliorare il sistema scolastico o per comprare “macchinette” colorate per far salire la spesa del PNRR?  Che si occupi di disabilità, inclusione dispersione o della ricostruzione delle carriere e degli acquisti sotto soglia?

Quando un provvedimento non è efficiente (i Licei nella fascia più bassa sono il massimo dell’inefficienza organizzativa perché si mettono sullo stesso piano Liceo di 500 studenti e Licei di 1500 studenti), non è efficace (perché si comunica che i Licei sono tutti facili da gestire e gli Istituti comprensivi tutti difficili, il che non è un errore ma proprio una stupidaggine), non è economico ( i soldi sono sempre quelli, qui si parla solo di retribuzione dei dirigenti dentro uno schema contabile rigido) l’unico motivo per cui viene emanato è che è punitivo.
Niente di nuovo sotto il sole: il sistema scolastico italiano pare deciso ad andare nel baratro degli adempimenti e dei bassi risultati.
Con i Licei retrocessi in serie C, ma solo perché la D non è stata attivata.

 




Concorsi scuola: istruzioni per rendere infelici

di Mario Maviglia

L’Italia è un Paese meraviglioso, vitale, ricco di creatività e di trovate genialmente concepite per complicarsi la vita, ma soprattutto per complicarla ai cittadini e a gli operatori dei vari settori. Prendiamo l’esempio del concorso per dirigenti scolastici, la cui prova preselettiva si svolgerà su tutto il territorio nazionale il prossimo 23 maggio.
Il bando (DD 2788 del 18/12/2023) all’art. 3 comma 9, con puntigliosa e leguleia precisione, ricorda che “la vigilanza durante le prove di cui al presente bando è affidata all’USR secondo quanto stabilito dall’articolo 9, comma 5 del DPR 487/1994”.
E che cosa stabilisce questo comma?
Semplice: “Nei casi in cui le prove scritte abbiano luogo in più sedi, in ognuna di esse è costituito un comitato di vigilanza, presieduto da un membro della commissione e composto almeno da due dipendenti di qualifica o categoria non inferiore a quella per la quale il concorso è stato bandito. I membri del comitato sono individuati dall’amministrazione procedente tra il proprio personale in servizio presso la sede di esame o, in caso di comprovate esigenze di servizio, anche tra quello di sedi o amministrazioni diverse.”

Ai più questo riferimento è passato inosservato, ma non a qualche USR che, in ossequio a quanto stabilito da questa norma del 1994, sta procedendo a nominare i comitati di vigilanza utilizzando i dirigenti scolastici in servizio in quanto appartenenti a “qualifica o categoria non inferiore a quella per la quale il concorso è stato bandito” (3 DS per ogni sede d’esame). Attenzione!
Qui si sta parlando del Comitato di vigilanza non della Commissione d’esame, ossia di persone che devono sorvegliare che i candidati non consultino libri, non utilizzino dispositivi elettronici (a parte il computer della sede d’esame per l’espletamento della prova preselettiva), non comunichino tra di loro ecc. Un compito, diciamo così, che non richiede una grande competenza dirigenziale e che qualsiasi addetto, anche di “qualifica inferiore”, opportunamente informato, può agevolmente svolgere. Ma la legge, ça va sans dire, va rispettata.

C’è solo un piccolo particolare da considerare: il concorso viene svolto proprio perché non ci sono dirigenti scolastici in numero adeguato (altrimenti non verrebbe bandito…), e quelli che ci sono, in questo periodo o sono già impegnati in analoghi concorsi (per il reclutamento dei docenti) o sono alle prese con le incombenze di fine anno scolastico. Si procederà, com’è prevedibile, con nomine d’ufficio, con inevitabili malumori tra i dirigenti “prescelti”.

Il Ministro in questo periodo è particolarmente attivo sul piano della comunicazione: ha annunciato la nomina di una Commissione per la revisione delle Indicazioni Nazionali; ha anticipato che sta lavorando per introdurre nuove forme di welfare per il personale della scuola per agevolare l’accesso a mutui per la casa o per prestiti personali o altri servizi bancari. Orizzonte Scuola del 20 maggio 2024 afferma che “a partire da martedì, il ministro Valditara inizierà un tour in tutta Italia per incontrare docenti, studenti e personale amministrativo, tecnico e ausiliario. Il viaggio ha l’obiettivo di promuovere una maggiore consapevolezza sull’importanza degli sforzi congiunti per migliorare il sistema scolastico. Valditara ha sottolineato che “una scuola che mette al centro le persone è fondamentale per la ricostruzione del paese”.

Senza affaticarsi così tanto, al Ministro basterebbe fare un tour per gli uffici del suo dicastero per individuare quegli elementi di disfunzionalità che creano così tante criticità nella vita delle scuole. Una di queste è proprio la norma che abbiamo citato prima sulla composizione dei Comitati di vigilanza. Le leggi possono anche essere cambiate, se si conosce l’impatto che hanno sulle istituzioni. Per la verità, anche l’aver fissato il 23 maggio come data per l’espletamento della prova preselettiva del concorso ordinario per DS denota una scarsa conoscenza dei vari adempimenti che le scuole italiane devono sbrigare in questa fase finale dell’anno scolastico. E considerato che il Ministro dichiara che “una scuola che mette al centro le persone è fondamentale per la ricostruzione del paese”, queste “disattenzioni” dimostrano una chiara disconferma di queste impegnative affermazioni, oppure una implicita insensibilità verso la fatica che le scuole devono gestire durante tutto l’anno ed in particolare nei momenti più ritualizzati come la conclusione dell’anno scolastico.




Il dirigente scolastico oggi

di Stefano Stefanel 

La preparazione del dirigente scolastico, prima di essere assunto come tale tramite concorso ordinario o tramite straordinarietà varie o sentenze giudiziarie, verte su due elementi che si contrappongono:

  1. la conoscenza teorica e manualistica delle norme del sistema scolastico italiano e la loro declinazione in una struttura perfettamente funzionante dove doveri, obblighi, progetti, controlli e poteri organizzativi si armonizzano in un’idea di scuola come comunità educante coesa e ben inserita nel contesto territoriale;
  2. l’esperienza personale fatta come docente quasi sempre impegnato nella gestione della propria scuola, nello sviluppo di progetti, nella organizzazione del microcosmo autonomo che si colloca dentro il proprio istituto.

Appena assunto in ruolo il dirigente scolastico si accorge, invece, di due cose diverse:

  1. la teoria non coincide con la pratica, perché l’autonomia scolastica ha reso il sistema, in quanto tale, illeggibile e dunque ogni scuola ha una sua chiave di lettura;
  2. l’esperienza pregressa si manifesta subito come un elemento negativo, perché le procedure di una scuola difficilmente si adattano ad un’altra scuola, magari di ordine diverso.

Anche le attività formative in atto per la dirigenza non permettono di supportare l’ordinario, perché si riferiscono comunque a modelli coerenti e generali, mentre la coerenza e la generalità di ogni istituzione scolastica vanno verificate sui fatti. E, infatti, il “fatto” è l’elemento che caratterizza la dirigenza scolastica oggi: quando, come, dove, perché e se avviene un dato “fatto” è, però, del tutto imprevedibile.

Dentro questa incertezza si insinua anche la confusione nata dalla contemporanea presenza nell’organizzazione scolastica di un dirigente scolastico dotato di poteri e responsabilità del servizio e di organi collegiali dotati di competenze. I concetti di “poteri”, “responsabilità” e “competenze” non sono sinonimi e ingenerano tutta una serie di complicazioni nella pratica quotidiana, dove l’equilibrio organizzativo della scuola non passa attraverso uno stato teorico, ma solo attraverso una situazione reale. In alcune scuole l’organo collegiale prevale sulla dirigenza, in altre la dirigenza tende a soffocare l’organo collegiale, in altre ancora l’equilibrio è perfetto: chi ha ragione? Impossibile dirlo, perché bisogna analizzare caso per caso.

C’è poi il rapporto con l’Amministrazione dello Stato, laddove gli Uffici Scolastici Regionali vengono percepiti come uffici locali, quando invece sono uffici ministeriali decentrati: mentre gli Uffici provinciali in alcune parti d’Italia vengono chiamati ancora Provveditorati, in altre Uffici scolastici provinciali, in altre Ambiti Territoriali. Il tutto confonde molti dirigenti scolastici, che sperano in aiuti e consulenze da strutture che invece sono di controllo, e che cercano di ottenere, per le vie brevi, quello che per le vie ordinarie non sono riusciti ad ottenere (per lo più docenti e collaboratori scolastici in organico).

Davanti a questa problematicità, che ha spostato la professione dirigenziale da un’azione collegiale delle scuole in accordo con lo stato alla gestione di “fatti” quotidiani o periodici, le strade, che stanno scegliendo la gran parte dei dirigenti scolastici, sono quelle dell’appartenenza, nella speranza che l’appartenenza possa attutire le problematiche. Dunque, la dirigenza scolastica non pare essere interessata alla costruzione di pratiche condivise, ma semmai a quella di raccordi con chi sembra il più forte, quindi il più in grado di dare aiuto. Il problema è che per i dirigenti scolastici le appartenenze sono plurime: vanno dai sindacati di categoria ai sindacati generalisti, dalle associazioni professionali alle associazioni miste, dalle chat chiuse ai gruppi Facebook, dalle conoscenze personali alle appartenenze ideologiche. Tutto questo fa prevalere lo schieramento alla riflessione e, dunque, la categoria si trova esposta a variazioni che generano incertezza e insicurezza quotidiana, dentro l’oscillazione delle collocazioni dell’appartenenza scelta.

Nella gestione odierna la progettualità delle scuole dovrebbe avere più forza dell’ordinarietà e, infatti, le risorse sono riversate sul PNRR, che è una struttura progettuale che non considera l’ordinario come inamovibile. Invece il tentativo di far entrare il vecchio nel nuovo sta creando malessere nella categoria, che si sente oberata dai progetti dello Stato e non tutelata nell’ordinario. Anche perché un po’ tutte le organizzazioni che agiscono nei confronti delle scuole (sindacati, associazioni, uffici) e l’opinione pubblica danno per scontato che il dirigente scolastico si doti di una governance interna di tipo piramidale, funzionale oggi solo alla gestione di un potere fittizio, perché nella realtà attuale non è più possibile gestire in forma ordinata una scuola attraverso strutture piramidali vicarie.

L’idea che il controllo sulla scuola nasca dalla nomina di due collaboratori del dirigente è un’idea che non sta più in piedi e che costringe quest’ultimo a lunghe riunioni con staff riottosi e spesso non in sintonia con il resto del personale. Inoltre, la distanza per lo più irraggiungibile tra le competenze del Dirigente scolastico e quelle del DSGA ha scavato un solco tra quello che un dirigente vorrebbe fare e quello che il DSGA gli permette di fare, chiavi del “tesoro di famiglia” in mano.

La strada della dirigenza scolastica non può essere l’apparente e allettante scorciatoia dell’appartenenza, perché l’unica strada percorribile è quella della competenza: se i dirigenti scolastici delegassero alcuni momenti di rappresentanza a chi ha più esperienza e competenza forse anche dai soggetti terzi (ministero, enti locali, altre scuole, studenti, famiglie, università) potrebbero venire risposte più sensate. Se invece tutto è demandato all’appartenenza e alla domanda fattuale (“oggi mi è successo questo, cosa faccio?”) vedo una strada futura della dirigenza in grande salita, in cui chi sa prima le cose le usa per fregare gli altri, dove le lamentale prevalgono sulla gestione delle criticità, dove le accuse a agli uffici di segreteria e ai docenti sopravanzano le autocritiche personali. Per delegare a chi ne sa di più bisogna però avere il coraggio di riconoscere che ne sa di più e questo è un passaggio molto difficile per un dirigente scolastico, che si vive troppo spesso come un’enciclopedia senza confini. Davanti ad una realtà che cambia anche la dirigenza deve cambiare, mentre vedo in giro tentativi di far finta che non sia cambiato nulla dall’avvento dell’autonomia scolastica: così diventa tutto una prova di forza, che però non interessa a nessuno (chi ha provato a smuovere l’opinione pubblica a favore della dirigenza scolastica, ad esempio sul tema della sicurezza, ha fatto solo un buco nell’acqua). Una dirigenza scolastica non compresa e non aiutata e che non sa creare le sue strutture di competenza e non di appartenenza viene sommersa da ogni notizia imbarazzante che la riguarda. O si lascia l’appartenenza da parte o il destino sarà quello di una dirigenza scolastica di tipo impiegatizio con un basso stipendio e troppi rischi.

 




Dimensionamento scolastico: non esiste un numero “giusto” di alunni, ma bisogna decidere quale scuola vogliamo

di Mario Maviglia

Quando si parla di dimensionamento e razionalizzazione della rete scolastica si usano di solito parametri meramente ragionieristici finalizzati al risparmio della spesa pubblica.
Naturalmente, di per sé questo non è un male, anche se sarebbe opportuno che i medesimi parametri venissero applicati anche per altri capitoli di spesa del bilancio dello Stato (ad esempio quelle relative alle spese militari o alle spese per il funzionamento degli apparati politici del Parlamento o ancora alle spese per i contributi pubblici ai giornali, per citarne solo alcuni a titolo esemplificativo).
Raramente si fanno ragionamenti riguardanti la funzionalità dell’adozione di questi parametri e gli effetti che producono sul piano organizzativo e sul funzionamento del servizio scolastico. Com’è noto la legge finanziaria 2023 (L. 197 del 29 dicembre 2022) al comma 557 ha innalzato a 900 il numero minimo di studenti per riconoscere l’autonomia alle istituzioni scolastiche (in precedenza il numero minino era di 600), fatta eccezione per le scuole situate nelle zone di montagna o nelle piccole isole o caratterizzate da specificità linguistiche.
Questo significa che alle istituzioni scolastiche che si trovano al di sotto di questi parametri (scuole cosiddette sottodimensionate) non potranno essere assegnati dirigenti scolastici con incarico a tempo indeterminato, ma solo dirigenti con incarico di reggenza. E lo stesso vale per i DSGA. Ovviamente questo meccanismo non riguarda i plessi scolastici in sé, la cui apertura o chiusura o dislocazione è di pertinenza degli enti locali, ma il numero di “presidenze” di titolarità che vengono attivate.

È plausibile immaginare che le istituzioni scolastiche sottodimensionate, e dunque senza un DS e un DSGA titolare, ma affidate in reggenza, siano condannate a una progettualità più precaria e a una continuità più frammentata nella gestione della scuola.
Ma, più in generale, il problema di fondo è quello di definire quale è il numero ottimale di studenti di una istituzione scolastica che consenta di garantirne una gestione efficace ed efficiente del servizio scolastico, tenendo conto che all’aumento del numero degli studenti corrisponde un correlativo aumento delle unità di personale scolastico occorrente per far funzionare la scuola.
Probabilmente non esiste una risposta univoca a tale quesito, ma è significativo che esso non venga mai posto nel dibattito riguardante questo problema e nelle decisioni che vengono assunte. D’altro canto finché la politica scolastica in Italia verrà definita dal MEF è difficile aspettarsi ragionamenti orientati in questa direzione.

Sappiamo d’altronde che mentre si è particolarmente attenti ad evitare che le istituzioni scolastiche funzionino con un numero di studenti inferiore alla soglia minima stabilita (salvo le eccezioni riportate sopra), non altrettanta solerzia viene dimostrata nei confronti di quegli istituti che nel tempo hanno assunto dimensioni così ampie per numero di studenti iscritti da diventare dei veri e propri monstre.
Ma anche in questo caso occorre chiarire il senso di questa affermazione. In teoria un istituto con 3500 studenti potrebbe non essere in sé un’aberrazione (ne ho visitato personalmente uno in pieno centro a Pechino che contava questa popolazione studentesca), ma si tratta di chiarire che tipo di scuola si vuole perseguire e il ruolo che è chiamato a svolge il dirigente scolastico all’interno di istituti così concepiti.
Infatti, se si opta per un ruolo essenzialmente gestionale e manageriale del DS, probabilmente il numero di studenti può essere molto elevato in quanto il dirigente si occupa essenzialmente di problemi macro; se invece si punta ad un ruolo più caratterizzato nel senso della leadership educativa, allora una dimensione più ridotta dell’istituto può favorire meglio lo svolgimento dei compiti connessi.
La tendenza che si è diffusa nel tempo in Italia è stata quella di puntare su un identikit di figura dirigenziale di tipo manageriale (almeno sulla carta e per i compiti che vengono richiesti) e dunque in grado di dirigere istituti anche di grandi dimensioni, tendenza che, guarda caso, meglio si sposa con le politiche di contenimento della spesa pubblica.

Tutto il ragionamento fatto fin qui può essere confutato con l’osservazione che la buona scuola in fondo la fanno i buoni insegnanti e questo a prescindere dalle dimensioni dell’istituzione scolastica. Infatti, si può obiettare che è all’interno del rapporto d’aula che si esprime una buona didattica con il correlativo conseguimento di risultati scolastici significativi e positivi.
Questa osservazione, non banale, trascura però che le “prestazioni” dei docenti risentono anche del clima complessivo che si crea all’interno della scuola e dei rapporti che si stabiliscono con la dirigenza.
Non a caso A. Paletta rimarca che “la leadership è una qualità distintiva tanto più di valore quanto più è strettamente connessa alla qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, ovvero quanto più valorizza studenti e docenti nella cui interazione si sostanzia lo sviluppo della persona umana.”[1]
Ma c’è da chiedersi in quali tempi e con quali energie un dirigente di un istituto di grandi dimensioni può garantire la tenuta complessiva del sistema e una interazione non episodica con i docenti (quando questi superano abbondantemente il numero di cento), atteso che proprio gli insegnanti costituiscono la principale risorsa professionale su cui si gioca la qualità della didattica e della relazione educativa.

L’aspetto interessante da sottolineare, a riprova del paradigma esclusivamente ragionieristico che ha caratterizzato le scelte di politica scolastica, è che all’aumento del numero degli studenti per istituto, che comporta una maggiore complessificazione nella gestione della scuola, non corrisponde, sul piano formale, una ridefinizione di alcuni istituti contrattuali come ad esempio il riconoscimento giuridico ed economico delle figure intermedie incaricate di garantire, insieme al DS, la tenuta del sistema.
Una maggiore complessità del sistema (e il numero degli addetti di un’organizzazione è un fattore che crea di per sé maggiore complessità) richiede forme più complesse e articolate di gestione. E invece, almeno formalmente, un istituto con 2000 studenti (situazione non così infrequente) si trova equiparato ad un istituto con 900 studenti. D’altro canto questo è quanto succede anche nell’attività d’aula in riferimento ai docenti: non vi è alcuna differenza, sul piano formale, tra il lavorare in classi con 18 alunni o con 30, anche se i carichi di lavoro e i potenziali fattori stressogeni sono di peso diverso.

Per tornare al quesito posto prima (quale sia il numero ideale di studenti per ogni istituto), la questione in realtà è mal posta in quanto probabilmente non esiste un numero ideale; semmai il problema è un altro: che idea di scuola traspare dalle scelte di politica scolastica che vengono portate avanti rispetto al dimensionamento? E correlativamente: che idea di dirigente scolastico viene veicolata? La mia ipotesi è che la tendenza ad ampliare i parametri quantitativi delle istituzioni scolastiche, a parte l’onnipresente mantra della razionalizzazione (leggasi: risparmi di spesa, ma con le contraddizioni segnalate in apertura), nasconda un’idea essenzialmente burocratico-gestionale della scuola, con una certa indifferenza verso i processi che sottostanno all’impresa educativa. È la scuola del merito (il merito dei migliori, quelli provenienti dai ceti sociali più abbienti), più che della cooperazione, della competitività più che della solidarietà. In sostanza, è la scuola del profitto, fatta a immagine e somiglianza del neocapitalismo. A questa scuola non serve un dirigente che curi le relazioni umane, o che garantisca che lo sviluppo dei processi di apprendimento costituisca un diritto per tutti gli studenti; a questa scuola serve un manager che si occupi essenzialmente degli aspetti burocratico-gestionali. Il libero mercato completerà l’opera intrapresa da questa scuola, selezionando diligentemente i Gianni dai Pierini.

[1] A. Paletta, Dirigenza scolastica e middle management, Bononia University Press, Bologna, 2020, vol I, p. 9.




Ispettori e autonomia scolastica: quando diventeranno davvero una risorsa per il sistema?

Stefaneldi Pietro Calascibetta

Si fa un gran parlare del fatto che la bozza del regolamento che dovrebbe disciplinare il concorso per dirigente tecnico con funzione ispettiva sia una svolta per adeguare tale figura alla scuola dell’autonomia.
I posti non saranno più suddivisi tra settori e sottosettori perché si opterà per una figura “generalista” come è stato per il dirigente scolastico.
Si tratta sicuramente di una novità positiva che giunge in ritardo, ma a mio avviso non rappresenta la vera svolta nell’utilizzo di questa figura come risorsa realmente fruibile dalle scuole come risorsa.
Ho recuperato a proposito il contributo di Mario Maviglia in questo sito 
perché mette ben in evidenza due elementi che ostacolano un vero cambiamento nell’utilizzo degli ispettori: il numero esiguo a livello nazionale, direi ridicolo, rispetto al numero degli istituti scolastici e il loro impiego prevalente nella funzione di controllo che li rende più una risorsa del Ministero per attività amministrative e per le emergenze che una risorsa che le scuole possono realmente utilizzare in modo diretto e continuativo.
Apparentemente parlare di ispettori potrebbe sembrare un argomento per addetti ai lavori, invece riguarda tutti, per questo vorrei aggiungere qualche ulteriore considerazione sul ruolo che gli Ispettori possono svolgere proprio per rilanciare l’autonomia scolastica.
Io credo che gli Ispettori possano costituire uno di quei tasselli mancanti per l’attuazione dell’autonomia a patto di poterli (ripeto, poterli) utilizzare realmente come una risorsa di sistema per le scuole piuttosto che come longa manus del Ministero o come tappabuchi negli organici degli Uffici territoriali per coprire i posti dei dirigenti amministrativi man mano che vanno in pensione come è stato negli ultimi anni.
La prendo da lontano perché altrimenti è difficile capire la valenza che il corpo ispettivo può avere per il rilancio dell’ autonomia.
L’autonomia, come tutti sappiamo, non è stata varata per importare il liberismo nella scuola, né per favorire le scuole private, ma per dare la possibilità ai collegi di ciascuna scuola pubblica di costruire i percorsi più adatti e su misura ai bisogni formativi dei propri studenti e per rendere così effettivo il diritto allo studio superando la scuola come catena di montaggio con un programma uguale per tutti e con la pretesa che ogni alunno, svolto il programma, possa uscire anno dopo anno formato automaticamente. La conseguenza è che chi non ce la fa finisce come lo sfrido della catena di montaggio nel novero di quella che oggi si chiama eufemisticamente dispersione, come se il diritto allo studio sia solo il diritto alla frequenza di una scuola.
La novità dell’autonomia non sta “nell’autonomia” stessa perché esisteva ed esiste la libertà di insegnamento, ma nell’articolo 6 del Regolamento (275/99) considerato dai più un optional, ma che finalizza l’autonomia didattica e organizzativa non alla libera concorrenza, ma alla “ ricerca, sperimentazione e sviluppo” di percorsi su misura che tengono “conto delle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali ”.
Per poter adeguare l’azione didattica e formativa ai bisogni degli studenti è necessario quindi che ciascun collegio faccia non un semplice menù di offerte chiamato PTOF, ma un progetto vero e proprio con un’ipotesi pedagogica, didattica e organizzativa per adeguare il servizio scolastico ai propri utenti e si domandi periodicamente se le scelte che ha compiuto siano state efficaci, dove hanno funzionato, dove vanno migliorate e come vanno cambiate in base anche al turnover degli studenti che ovviamente non sono sempre gli stessi.

Questa perenne ricerca, sperimentazione e miglioramento/adeguamento al mutamento del contesto richiesto dall’applicazione dell’autonomia ha nella autovalutazione di istituto il vero motore. Non c’è autonomia senza autovalutazione e riprogettazione.
Vi è un altro aspetto importante. Contrariamente a quanto vorrebbe qualcuno, i singoli istituti non sono monadi vaganti in libertà, ma costituiscono un sistema vero e proprio e interdipendente.
L’attuazione del dettato costituzionale a livello di Paese, in altre parole l’efficacia della riforma, dipende dall’efficacia del processo sopra descritto in ciascun istituto e dalla capacità del sistema stesso di migliorare tale processo a livello nazionale.
E’ quindi importante che vi sia una governance di questo processo non tanto e non solo che controlli l’applicazione delle norme, ma che aiuti le scuole a migliore la qualità dei propri processi di autovalutazione e di riprogettazione perché è lì che si attua l’autonomia, non nel numero di corsi extrascolastici o dei progetti che offre o nel pedissequo rispetto formale delle norme.
Il sostegno alle scuole, l’aiuto nell’attuazione dell’autonomia sono attività che hanno un peso significativo nello sviluppo di un sistema scolastico nazionale.

E qui arriviamo al ruolo degli Ispettori.
Il Sistema Nazionale di Valutazione ( DPR 80) che avrebbe dovuto costituire l’intelaiatura portante di una governance nazionale è venuto finalmente alla luce solo nel 2013 (il che la dice lunga sul sospetto di un sistematico boicottaggio dell’attuazione dell’autonomia).
Il SNV istituisce i Nuclei di Valutazione esterni ciascuno dei quali composto da un Ispettore e due esperti con il compito di supportare gli istituti individuati dall’INVALSI con un’attività di vero e proprio tutoraggio non solo perché realizzino piani di miglioramento più efficaci di quelli utilizzati, ma anche per aiutarli ad acquisire il know-how per farlo in modo efficiente.
Il SNV attraverso gli Ispettori avrebbe dovuto svolgere un ruolo centrale nel miglioramento della qualità dei processi di autovalutazione di istituto e di formazione in situazione dei docenti. Questo è avvenuto su larga scala o si sono tappate solo le falle nei casi più gravi, visto il numero esiguo di ispettori? Conoscere questi dati sarebbe interessante visto il fatto che molte scuole invece di cercare nella propria riprogettazione le soluzioni per migliorare la situazione hanno dovuto ricorrere abbondantemente ad attività di recupero extrascolastico in collaborazione con Associazioni del terzo settore con i fondi destinati alla dispersione. .

Ciò che è importante sottolineare è che la creazione dei Nuclei in sé introduce comunque il principio di un tutoring istituzionale di sistema per le scuole dell’autonomia riconoscendo in questo processo il cuore dell’autonomia stessa.
Se non funziona bene il sostegno all’autovalutazione, non funziona la riforma.
I dati che ci fornisce Maviglia sull’attuale organico ispettivo lasciano “basiti”, come direbbe qualcuno.

Tutta questa enfasi sulla novità del concorso nasconde la messa a bando di un numero di posti ridicolo che rende questa un’operazione di facciata che non farà che costringere, per ragioni di cose, un utilizzo degli ispettori in mansioni amministrative o ispettive piuttosto che di sviluppo ricerca e sostegno ai processi di cui all’art. 6 . Non trovo altra spiegazione ad una scelta così miope.

Invece di incrementare l’organico degli Ispettori per l’attuazione del SNV dal 2013 si è lasciato che il loro numero si riducesse ai 191 attuali da cui dobbiamo togliere gli Ispettori assegnati a ruoli amministrativi d’ufficio, i prossimi pensionamenti e aggiungere ora la straordinaria cifra di 146 unità costituita dai posti che dovrebbero essere messi a bando.
E’ un bel dire che finalmente si copre per intero l’organico del corpo ispettivo, ma l’organico del corpo ispettivo è adeguato al compito?
In altre parole si è fatta la scelta ieri e si è confermata oggi indipendentemente dai governi di lasciare le scuole a cavarsela da sole interpretando ancora una volta l’autonomia come un liberi tutti e non un dispositivo didattico-strutturale per permettere ai singoli istituti di individualizzare e personalizzare i percorsi dentro un sistema nazionale unitario e solidaristico che si prende cura dei propri istituti non con la pretesa di dirigerli, ma di incentivare e sviluppare quel empowerment professionale diffuso a cui mirava l’autonomia proprio con l’art. 6, da coltivare come risorsa di sistema.

La retorica di una difesa formale dell’autonomia degli istituti, la convinzione che un istituto vale un altro e che ciascun collegio è libero e nessuno può mettere il naso in quello che fa, stride con il fatto che l’autonomia delle singole scuole è tale all’interno di un sistema nazionale.
Se leggiamo il recente decreto n. 41/2022 sulla ridefinizione della “funzione tecnico-ispettiva da parte del corpo ispettivo ministeriale” che tenta timidamente di porre le premesse di un cambiamento, ci accorgiamo che l’Ispettore è sì definito come una “risorsa professionale del Ministero dell’istruzione” (sarebbe stato meglio definirlo una risorsa del sistema delle autonomie di cui anche il Ministero fa parte , “bontà sua”), ma che il compito assegnato è di “ sostiene le scuole nel miglioramento della qualità dei processi e nel perseguimento dei traguardi”. Come?

Leggiamo che gli Ispettori offrono o dovrebbero offrire, se fossero in numero adeguato aggiungo io, “supporto, assistenza e consulenza; formulano proposte e pareri sui temi dello sviluppo dei curricoli, della progettazione didattica, delle metodologie di insegnamento, della valutazione degli apprendimenti”

Dovrebbero poi occuparsi delle “ scuole presenti in aree a rischio educativo e di marginalizzazione sociale, cui andrà indirizzato particolare sostegno”.
Dietro questo sottovalutare l’importanza degli Ispettori e il loro ruolo da parte del governo destinando risorse residuali in un compito così importante , dietro un diffuso disinteresse da parte del personale scolastico per la sorte degli ispettori, vi è troppo spesso una visione culturalmente distorta del ruolo e della figura dell’ispettore nella scuola di oggi che non è più quella deamicisiana.

Accanto alla funzione di controllo, di cui non si discute la necessità, sia con il SNV che con il decreto 41, si fa strada una funzione ben diversa di sostegno e di consulenza esperta alle scuole e ai suoi dirigenti.
Come ex preside non disdegno affatto una tale collaborazione perché non interferisce con le prerogative del dirigente né dei collegi, ma è molto utile se impostata come collaborazione professionale tra soggetti con competenze diverse per evitare il rischio sempre presente di autoreferenzialità, per facilitare le relazioni di rete con le altre scuole e per mantenere un rapporto non burocratico con il Ministero, avendo gli Ispettori una visione di insieme dei territori in cui operano.
Giancarlo Cerini non era forse un Ispettore? Probabilmente sono state più le occasioni in cui è entrato in una scuola come esperto e formatore chiamato dai collegi piuttosto delle volte in cui è entrato mandato dal Ministero per qualche incombenza burocratica. Lo stesso può dirsi per tanti altri Ispettori.
Già questo può far riflettere.

Non si capisce perché l’attività di tutoring svolta dai docenti sia considerata così essenziale nel supportare gli studenti a raggiungere i loro obiettivi e a sviluppare le loro competenze e la stesso approccio tutoriale non possa essere preso in considerazione per supportare i collegi dei docenti e/o i consigli di classe o i dipartimenti disciplinari per raggiungere i loro obiettivi di miglioramento . Per gli studenti questa si chiama valutazione formativa.
Sarebbe una svolta epocale liberarsi una volta per tutte dallo stereotipo dell’Ispettore visto solo come il controllore, come scrive Maviglia, che vidima i registri, spulcia tra le carte o che viene chiamato per dirimere controversie tra genitori, docenti e dirigenti. Oddio, arriva l’ispettore!

Poter tradurre in pratica quanto recita il decreto 41 permetterebbe di distinguere la tradizionale funzione ispettiva di controllo da quella di “ tutor” o consulente di cui l’autonomia ha bisogno come ho scritto.
Sarebbe un primo passo per farne uno degli snodi operativi di sistema in grado di contribuire a migliorare i processi di miglioramento non solo nelle scuole in difficoltà come prevede il SNV, ma più in generale nelle scuole di un dato territorio assegnando ad esempio ad un ispettore o, meglio, al Nucleo stesso di valutazione il ruolo di consulente per un numero ristretto di istituti scelti secondo criteri funzionali a permettere di svolgere adeguatamente questo ruolo, penso alle aree di povertà educativa ad esempio.

Basterebbe agire sui criteri che l’INVALSI deve adottare per individuare gli istituti da seguire trovando una modalità che possa permettere ad un numero più ampio di istituti di utilizzare il Comitato di valutazione come risorsa.
D’altronde si sottolinea nel decreto 41 che “la funzione di studio, di ricerca e consulenza tecnica costituisce asse strutturale della funzione tecnico-ispettiva”.

Un cambiamento di prospettiva nell’utilizzo degli Ispettori non può non prevedere dunque un aumento significativo nell’organico del corpo ispettivo e non un ridicolo incremento come quello che pare sia previsto dal Ministero nostrano, a fronte, come ci ricorda Maviglia, di ben 3.789 Ispettori in Francia.
Affinché il decreto 41 non sia carta straccia non basta abolire la settorializzazione della figura dell’ispettore, ci vuole ben altro con un ritocco coordinato della normativa perché gli ispettori possano svolgere quella funzione auspicata.
Come si fa ad attuare il profilo previsto con un organico siffatto. Il solito argomento dei tagli e delle difficoltà di bilancio è fin troppo abusato quando si tratta di investimenti per qualcosa di determinante per il futuro.
Vi è poi un altro elemento che trovo interessante per stabilire un rapporto più organico degli ispettori con l’autonomia.
Perché non cogliere l’occasione per cominciare a parlare di carriera dei docenti in servizio offrendo loro uno sbocco nel corpo ispettivo trasformando in crediti il curricolo di ricerca?
Ci si è dimenticati della famosa figura del “docente esperto” uscita dal cappello del PNRR senza prospettive di avanzamento neppure in funzioni di middle management all’interno del proprio istituto.
Con una revisione dei percorsi formativi speciali previsti dalla Legge 79/2022 potrebbe ben confluire almeno come esperto nel Nucleo di Valutazione.
Forse è chiedere troppo ai Ministri di avere una visione di insieme del sistema e di cercare di creare sinergie tra le risorse già presenti invece di vedere i vari segmenti come parti a sé? . Sarebbe un “merito” riuscire a vedere finalmente la scuola come un sistema e utilizzare strategie di sistema per governarla.

La proposta di Treelle, a cui fa rifermento Maviglia nel suo contributo, potrebbe costituire un’interessante base per dare a questa figura una vero e proprio ruolo strutturale e organico come proponevo nell’aiutare le scuole ad ’utilizzare in modo efficace ed efficiente la loro autonomia .
Questa proposta potrebbe essere una possibile alternativa in grado di compensare la prematura scomparsa dell’ANSAS nata allora per prendere il posto degli IRRSAE in questo compito.
Senza ANSAS e senza gli IRRSAE che un sostegno alle scuole del territorio lo stavano dando da anni soprattutto nell’innovazione, le scuole sono state lasciate sole proprio nel momento in cui sono diventate autonome e si è chiesto di basare la loro flessibilità sulla ricerca e l’innovazione.
E’ stato anche questo un caso ?




E portò via anche l’origano…

di Raimondo Giunta

Non ci sono parole per esprimere il disgusto per quello di cui è stata accusata la dirigente dell’ICS GIOVANNI FALCONE, situato nel quartiere Zen a Palermo.
Il danno arrecato alla scuola e al principio di legalità in terra di mafia è incalcolabile e non sarà per nulla facile riedificare ciò che è stato distrutto, soprattutto se si considera quanti vengono colti in questioni di malaffare ,regolarmente coperte da quotidiane esternazioni contro la mafia.
Questa orribile vicenda mi spinge a fare qualche riflessione sul ruolo del dirigente in regime di autonomia scolastica,perché credo che ci siano tanti modi e tante ragioni per evitare che possano ripetersi fatti come quelli verificatisi allo Zen di Palermo.
In una scuola che vuole essere una comunità educativa l’autorità del dirigente scolastico si dovrebbe fondare sulla capacità di fare della propria scuola un modello di convivenza collegiale e culturale e non sull’esercizio arbitrario dei poteri che gli affida la legge.
Non sono pochi, purtroppo, i dirigenti scolastici che ritengono di non potere fare bene il proprio mestiere ,perché sarebbero molestati dagli insegnanti che sollevano obiezioni e perplessità sul loro operato, e perché devono tenere conto di quello che ancora si decide nei collegi degli insegnanti e nei consigli di istituto.
Ricordo ancora la dichiarazione pubblica “LASCIATECI LAVORARE”, sottoscritta da alcuni dirigenti scolastici, in piena pandemia, come se il lavoro a scuola consista nell’esecuzione dei loro ordini di servizio.


Il prestigio di un dirigente non deriva dall’esercizio incontrastato dei suoi poteri, ma dalla capacità di spiegare e giustificare le proprie decisioni in termini pedagogici, professionali e anche morali e dalla capacità di interpretare e affermare i principi costitutivi di una istituzione che è e deve restare democratica nel suo assetto e nelle sue procedure.
Si parla di management delle risorse umane, scimmiottando il mondo aziendale, mentre invece si dovrebbe capire che a scuola il problema più serio è oggi e sarà domani il management dei significati.
Il problema vero è sempre quello di impegnarsi in favore di valori educativi da condividere con tutto il personale, con gli alunni, con le famiglie, con la comunità di riferimento, per trovare il senso delle cose che si fanno e dello stare insieme, per trovare passione, entusiasmo, motivazioni profonde nel lavoro a scuola, soprattutto nelle scuole collocate nelle cosiddette zone a rischio.
Il problema quotidiano che si deve affrontare è quello di trovare ragioni e significato dell’educare e dell’essere educati.
Chi conosce la fatica del fare istruzione ed educazione sa che non c’è alcun bisogno di padroni a scuola , ma di professionisti riflessivi ,dotati di scienza , di esperienza e di intuizione creativa.
C’è bisogno, proprio in regime di autonomia, di professionisti che sappiano integrare valori e culture, non semplici risorse umane; che abbiano strategie motivazionali e che rifuggano da qualsiasi forma di prevaricazione.
L’autonomia ha un senso se viene pensata e gestita per dare diritto di parola, per consentire la partecipazione a tutte le scelte; per valorizzare tutte le professionalità esistenti in ogni singolo istituto. L’autonomia scolastica funziona efficacemente e dà buoni frutti solo se c’è cooperazione, dialogo tra le componenti professionali .Senza un reale potere sul proprio lavoro, senza autonomia intellettuale non c’è professionalità e senza professionalità dei docenti non c’è autonomia.
I dirigenti che vogliono comandare e solo comandare devono ricordare che scuole che funzionano, senza gli insegnanti che vi lavorano con il loro sapere, con la loro cultura, con la loro professionalità, con il loro spirito di sacrificio e con la loro dedizione non ne esistono.Solo
all’interno di istituzioni autoritarie o che pretendono di diventarlo se ne fanno e se ne vogliono fare dei docili esecutori delle direttive dell’amministrazione.Il lavoro dell’insegnante appartiene alla categoria delle attività intellettuali,alle quali togliere libertà e autonomia è togliere l’aria che serve per vivere .
Non credo che la dirigente della scuola GIOVANNI FALCONE dello Zen a Palermo si sia attenuta a qualcuna di queste regole di buonsenso.Non è un caso che tutta l’inchiesta sia partita dalla denuncia di un’insegnante che vi lavorava .




C’era una volta il direttore didattico

di Nicola Puttilli

In una dichiarazione rilasciata qualche tempo fa al Corriere delle Sera sul previsto ulteriore taglio di autonomie scolastiche disposto dall’ultima legge di bilancio, il presidente di ANP Antonello Giannelli sottolinea il rischio di ingestibilità amministrativa degli istituti sovradimensionati. Giannelli ha ragione da vendere, anche in considerazione della condizione di perenne emergenza in cui da troppo tempo versano gli uffici amministrativi delle scuole fra carenze, precarietà e inadeguata formazione del personale. Mi ha tuttavia colpito l’assenza di argomentazioni circa la “gestibilità” didattica di tali strutture peraltro comprendenti, come nel caso degli istituti comprensivi, diversi ordini di scuole. Sarà che ho trascorso poco più di una decina di anni nel ruolo di dirigente scolastico mentre una ventina circa in quello di direttore didattico, ma sempre mi ha guidato la convinzione che una buona amministrazione e organizzazione non avessero altra finalità se non l’innalzamento della qualità del progetto formativo e della didattica.

ll passaggio alla dirigenza scolastica è stata una logica conseguenza dell’attribuzione dell’autonomia. Non che prima ci fossero sostanziali differenze fra il ruolo di preside e di direttore didattico, entrambi inquadrati nel IX livello del contratto di lavoro dividevano analoghe condizioni retributive e di stato giuridico, mentre diverse erano, di fatto, le modalità di reclutamento: sempre attraverso regolare concorso, molto selettivo, nel caso dei direttori didattici, spesso con concorso riservato, decisamente più abbordabile, nel caso dei presidi. Diversa, inoltre, la formazione di provenienza: quasi sempre laurea di natura disciplinare per i presidi, non sempre, ma molto spesso, laurea in pedagogia per i direttori didattici, provenienti dall’istituto magistrale, dove un po’ di pedagogia e di psicologia l’avevano pur masticata, e dalla facoltà di magistero.

A Torino, dove ho sempre lavorato, c’era una grande tradizione associativa dei direttori didattici attiva già dal dopoguerra, raccoglieva una massiccia partecipazione e nei primi anni ’80 diede vita alla “Conferenza dei direttori didattici”, riconosciuta con atto formale e autorizzata a riunirsi in orario di servizio dall’allora provveditore agli studi. Nulla di simile esisteva per i presidi.

L’attenzione per i temi pedagogici e didattici era molto alta tra i direttori didattici e nel confronto interno alla  loro associazione (successivamente e quasi per intero confluita nell’ANDIS), ampiamente prevalenti rispetto a quelli più propriamente gestionali e amministrativi.

L’avvento dell’autonomia e della dirigenza, nonchè la formazione comune di 300 ore tra direttori didattici e presidi che l’hanno accompagnata, ha comportato, com’era logico che fosse, un radicale cambiamento di prospettiva. Per quanto il nuovo assetto normativo non prevedesse in alcun modo una diminuzione delle competenze e delle responsabilità del nuovo dirigente scolastico in campo pedagogico e didattico, l’enfasi si è di fatto spostata, quasi inconsapevolmente,  sugli aspetti gestionali e organizzativi con preciso riferimento, rispetto alla specificità del ruolo, alle teorie sul management allora prevalenti. Non è un caso, del resto, se in Piemonte, rispetto alle 300 ore di formazione, la scelta era limitata a due agenzie formative: ISVOR, che faceva capo alla FIAT ed ELEA agenzia formativa di Olivetti. Le teorie di riferimento erano ovviamente quelle più recenti di derivazione anglosassone che, rispetto al settore pubblico, istruzione compresa, si ispiravano prevalentemente al modello allora definito del “quasi privato”.

Certo esigenze di svecchiamento non erano più rinviabili. Come ci spiegava Enrico Autieri, direttore di ISVOR, si trattava di passare da un modello burocratico-artigianale, da sempre imperante nella nostra pubblica amministrazione, a un modello a gestione professionale, di chiara derivazione aziendale, fondato su variabili di progetto: pianificazione, problem solving, misurazione, rendicontazione.

La strada era segnata ma forse sarebbe stato necessario modularla fin da subito secondo le esigenze prioritarie della nostra scuola: innalzamento qualitativo dei processi di insegnamento/apprendimento, superamento delle ineguaglianze e della dispersione scolastica, inclusione e benessere psicofisico degli studenti. Da subito doveva essere chiarito il nesso fra qualità dell’organizzazione e fini istituzionali, da questo e per questo era nata fondamentalmente l’autonomia scolastica. L’enfasi sugli aspetti organizzativi e “manageriali” ha fatto invece premio, nella percezione del ruolo del dirigente scolastico in particolare, su quelli più strettamente pedagogici e didattici. Credo che anche a tale distorsione si debba il sovradimensionamento, nelle regioni del nord principalmente, di molte istituzioni scolastiche che arrivano a contare più di 2000 studenti senza, peraltro, che siano state create le condizioni normative e organizzative per gestire situazioni di tale complessità (middle management, leadership diffusa, ecc.).

Ricordo ancora le difficoltà che incontrai, da parte delle insegnanti della scuola dell’infanzia, quando decisi di unificare il loro collegio dei docenti con quello della scuola elementare. Nei collegi della scuola dell’infanzia si ponevano in discussione tutti gli aspetti della vita scolastica, compresi quelli apparentemente più irrilevanti: cosa fare con i bambini che non volevano dormire al pomeriggio, le problematiche presentate dalla mensa o dai momenti di gioco, le dinamiche relazionali tra i bambini ecc., tutti quegli elementi di attenzione e di cura così cari, mi  piace citarla, all’amica Cinzia Mion.  Avevano ragione le maestre della scuola dell’infanzia, nel collegio unificato di queste cose non si è più parlato, né si sono trovati altri spazi per poterlo fare, figurarsi in istituti comprensivi con 1800 alunni e tre ordini di scuola.

E’ ovvio che non si sta auspicando un ritorno agli anni ’90, ma ad oltre vent’anni dall’istituzione dell’autonomia e della dirigenza scolastica sarebbero maturi i tempi per una rinnovata riflessione. Anche la ricerca di una giusta dimensione per le istituzioni scolastiche (da 700 a non oltre, tassativamente, 1200 alunni?) e una struttura organizzativa (middle management adeguatamente riconosciuto e formato?) idonea a presidiare gli spazi non solo amministrativi e gestionali ma anche più propriamente psicopedagogici e relazionali, potrebbero aiutare non poco a far ritrovare senso ed equilibrio ad organizzazioni fin troppo complesse e a un ruolo ormai reso indistinto e pletorico come quello del dirigente scolastico.

Anche nel linguaggio comune non si sente più parlare di direttore didattico, poco usata anche la corretta definizione di dirigente scolastico, evidentemente troppo fredda e burocratica, è rimasto il preside a rappresentare tutti. In una delle sue ultime riflessioni un altro caro amico, Giancarlo Cerini, così si esprimeva, con la consueta lucidità: “Si ha spesso l’impressione che la nuova generazione di dirigenti scolastici sia troppo preoccupata delle correttezza delle procedure formali e molto meno della guida di una comunità educativa”. Cinzia e Giancarlo, non a caso due direttori didattici.