La scuola è ancora il posto giusto per qualche esercizio di libertà

di Raimondo Giunta

Non credo che le classi dirigenti della nostra società siano molto preoccupate se la scuola non rende migliori le nuove generazioni rispetto a come erano quando hanno incominciato a frequentarla.
A loro interessa solo che escano dalla scuola come quelle che le hanno preceduto e che fuori sgomitano, competono, confliggono, si adattano e si fanno i fatti propri.
Unica preoccupazione delle classi dirigenti è che le nuove generazioni, dopo il lungo tirocinio scolastico, siano in grado di adeguarsi alle condizioni di vita e di lavoro che sono state predisposte.
Significa che amerebbero avere gente che non crea problemi, che si rende utile dove e quando e ogni volta che dovranno svolgere una qualche mansione.
Che siano collaborativi e anche autonomi, ma fin dove è stato stabilito che lo possano essere.

Per un obiettivo di questa portata operano, si impegnano, intrigano, sollecitano con i tanti mezzi a disposizione e con le dovute alleanze per ridurre al minimo il margine di autonomia del sistema di istruzione e di ogni singolo istituto ;solo a questa condizione potranno avere una società a propria immagine e somiglianza.
Per volere le nuove generazioni integrate e fidelizzate ci vuole, infatti, un’educazione apposita, una continua opera di convincimento e di persuasione.
A questo evidente e consapevole impoverimento pedagogico pensano che si possa ovviare magnificando le mille luci della modernizzazione, dei nuovi ambienti di apprendimento, della padronanza delle nuove tecnologie; inneggiando ai miracoli quotidiani del fare nei tanti laboratori ,che manderanno in soffitta le aule e le classi.

Per fortuna quelli che comandano o che hanno voce grossa in capitolo anche nella nostra sgarrupata democrazia, non sono diventati i padroni della scuola o meglio non sono ancora riusciti a diventarlo.

Nonostante i loro mai smessi tentativi di condizionare vita e destino del sistema di istruzione, lo spazio della scuola per la combattività di parte del corpo docente, delle associazioni professionali e dei sindacati di categoria, è ancora il posto giusto per qualche esercizio di libertà di pensiero; è ancora il posto giusto dove è possibile col proprio lavoro e con le proprie idee mantenere viva la speranza o l’illusione di dare un contributo con la formazione dei giovani per una migliore qualità della convivenza.
E’ l’ultima trincea di quelli che non s’arrendono al mondo come è diventato e come lo si vuole fare diventare; l’unica occasione per confliggere con le pressioni a fare dei giovani, persone silenti , disponibili e adattabili a qualsiasi situazione e condizione venga loro imposta.
La scuola, se si vuole, può essere ancora il luogo dove si apprende che la verità di una parola, non è relativa allo statuto di colui che la enuncia (B.Rey)

La libertà della scuola risiede nella capacità di essere fedele ai propri valori e alla propria missione, che è quella di fare amare il sapere e di preparare al mondo del lavoro, alla responsabilità di cittadino e all’autonomia personale le nuove generazioni, senza farsi molte illusioni su quello che poi succederà nella società.
Gli insegnanti e i dirigenti scolastici, se credono che alla scuola tocchi un margine di indipendenza rispetto al sistema socio- economico, devono in ogni singolo istituto garantire che ci sia lo spazio per la riflessione, per la comprensione e per gli interrogativi sul significato della propria esistenza.
Devono ritenere imprescindibile che si lavori per formare e per esercitare i giovani a ragionare correttamente e per fare capire che le pretese di dire la verità devono passare al vaglio della ragione.
Una scuola che si ponga questi obiettivi è una scuola che non ha fretta, che si dà del tempo per arrivarci.
Lo spazio conquistato a scuola per il pensiero, per il confronto e per il dialogo è uno spazio di libertà e per la libertà e bisogna difenderlo da qualsiasi forma di intromissione o di intimidazione.
Per un motivo molto semplice. La scuola che vuole educare nel senso che si è tentato di definire è la scuola che ha come suo insostituibile punto di riferimento i valori della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” (art.9,comma1)
”L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” (art.33,comma1).




In medio (e in media) non stat virtus

di Stefano Stefanel

Ho insegnato per vent’anni nella Scuola media e poi per altri vent’anni ho diretto Scuole medie, sia inserite in Istituti comprensivi, sia aggregate orizzontalmente. Quindi la mia conoscenza dell’argomento è piuttosto professionale e non completamente culturale, probabilmente debole rispetto ai pareri che stanno affollando stampa e social sull’argomento. Purtroppo, tutto quello che so della Scuola media mi influenza molto nelle letture sull’argomento, portandomi ad individuare immediatamente chi scrive (a volte anche con argomenti interessanti) su un argomento che non conosce, rifacendosi spesso alla sola esperienza in suo possesso, che è quella che risale si tempi della sua adolescenza.

  Per analizzare il momento critico e irreversibile del segmento di scuola che si occupa di adolescenti dagli 11 ai 14 anni è importante avere in mente due elementi distintivi:

  1. La Scuola media viene giustamente chiamata Scuola secondaria di 1° grado in quanto il sapere viene insegnato e appreso attraverso la sua secondarizzazione, cioè collegando la divisione dei tempi alla divisione dei saperi in “rigide” discipline autonome l’una dall’altra, aggregate in classi di concorso che fanno ritenere a molti docenti di appartenere al secondo e non al primo ciclo dell’istruzione;
  2. La Scuola media viene giustamente collocata nel primo ciclo dell’istruzione, anche se è una scuola secondarizzata, perché le manca la base strutturare dell’apprendimento superiore: l’elettività degli studenti. Quando entrano secondo ciclo dell’istruzione gli studenti si collocano dentro contenitori rigidi e scelti personalmente (chi va al liceo lo fa insieme ai liceali, chi va negli istituti professionali fa scuola con chi vuole professionalizzarsi, ecc.) e queste affinità elettive (spesso sbagliate e prodromiche di disastrosi percorsi scolastici) non esistono nella Scuola media, dove convivono nella stessa classe gli studenti destinati ai licei e alla laurea con gli studenti condannati alla dispersione, alle bocciature o a percorsi interrotti.

I due elementi sopra riportati sono elementi fortemente critici, vissuti, invece, come naturali da chi insegna nella Scuola media: la propensione dei docenti di Scuola media a prendere sul serio la verticalità curricolare con la Scuola primaria e dell’infanzia è bassissima e l’idea che la divisione dei saperi possa creare una grande confusione mentale a una fetta di studenti non crea alcun allarme. La tendenza della Scuola media è quella di addebitare l’oggettiva crisi a colpe familiari, ad una debolezza crescente dello studente, al digitale, alla mancanza di rispetto per la scuola, ma molto poco al corto circuito di saperi obsoleti trasmessi con metodi arcaici e valutati con metodi artigianali sbagliati.

Un altro elemento sottovalutato dalle scuole, dal ministero e dall’opinione pubblica è il problema della disomogeneità delle classi, ritenuta a priori un valore, ma che attualmente presenta diversificazioni eccessive nelle competenze degli studenti. Quando insegnavo io nella Scuola media diciamo che su base 100 il divario era, di norma, di 20/30 punti tra i vari studenti inseriti nelle classi. Oggi in moltissime classi il divario può oscillare anche di 70-80 punti e la convivenza tra chi tende al massimo delle competenze culturali di un adolescente e quello che sopravvive dentro una cultura retta dall’uso del cellulare è la stessa che c’è tra un semi-analfabeta e un professore universitario: umanamente non ci sono problemi, didatticamente ci sono solo problemi perché i bisogni sono troppo lontani tra loro. Dentro l’estrema disomogeneità delle classi bisognerebbe prendere sul serio quello che dice l’ONU nell’Agenda 2030, laddove  si parla di “fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”  e non ritenere che l’egualitarismo (stessi contenuti, stessi, metodi, stessi compiti, stesse interrogazioni, stessi obiettivi, ecc.) porti da qualche parte, perché – come diceva inascoltato allora come oggi don Milani – “non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diversi.
L’attuale didattica dell’uguaglianza produce soltanto dispersione scolastica, magari non situata nella Scuola media, ma pronta ad esplodere nel biennio delle superiori. I fautori delle bocciature e della selezione (praticamente tutti gli intellettuali che hanno accesso ai grandi mezzi di comunicazione di massa) paiono non comprendere come la convivenza di 16-17enni con ragazzini di 13-14 anni porti soltanto al degrado della convivenza dentro crescite che vanno accompagnate e non sfidate.

Le avvisaglie della grande crisi della Scuola media c’erano anche quando insegnavo io, ma il riordino dei cicli pensato da Luigi Berlinguer fu osteggiato da tutti e la sua cassazione dal dibattito e dalla norma, operata da Letizia Moratti, fu accolta da tutti con grande sollievo. Ripartire da lì oggi sarebbe un grave errore e creerebbe solo ulteriore caos. In realtà il punto da cui partire è evidente da oltre vent’anni: la costruzione di una vera verticalità nel primo ciclo, facendo comprendere a tutti gli insegnanti della Scuola media che sono la parte conclusiva del ciclo primario e non la parte introduttiva del ciclo secondario. Questo vuol dire lavorare sui saperi e non sulle materie, redigere veri curricoli e non scimmiottare i programmi pensati da Giovanni Gentile. Su questa strada ci sono due avversari formidabili: le case editrici che coi libri di testo sedimentano strutture rigide e trasmissive di saperi disciplinari; i sindacati che difendono le classi di concorso e la loro rigidità applicata all’occupazione, senza tenere in minimo conto esigenze curricolari specifiche collegate a possibili variazioni necessarie, che dovrebbero portare, oltre a modificare il sapere di chi insegna, anche a modificare le materie da insegnare sia nella qualità che nella quantità. Tutto questo porta a mantenere intatta l’idea gentiliana che siano italiano-matematica e inglese a dover reggere il gioco, non comprendendo come, invece, musica, arte e tecnologia avrebbero, dentro strutture didattiche multidisciplinari e trasversali, la possibilità di sviluppare competenze non semplicemente trasmissibili.

Un altro elemento che supporta l’attuale crisi delle Scuola media è la convinzione di gran parte della classe docente di quel segmento di scuola che la valutazione debba essere realizzata sempre con strumenti misurativi (compiti e interrogazioni) anche per quei saperi dove l’attenta osservazione è molto più utile. Inoltre, il numero di ore di ogni materia viene confuso con il quantum di apprendimento possibile: il mantra delle poche ore a disposizione non fa venire a molti il dubbio che più ore si fanno e più la dispersione aumenta per gli studenti deboli e che le ore aggiuntive devono essere fatte per quelli bravi, non per quelli che arrancano nell’ordinario. Invece si attivano recuperi che portano studenti stanchi a stancarsi ancora di più, lasciando quelli capaci in tempi scuola per loro troppo limitati. La Scuola media scambia l’aumento del tempo scuola con il miglioramento degli esiti, mentre il miglioramento degli esiti comincerà quando verranno abbandonate le metodologie didattiche che hanno portato alla situazione attuale. Per battere la dispersione nella Scuola media bisogna attivare risorse e progetti che ricadano sulla didattica ordinaria, non che ne siano avulsi e che non abbiano peso nella valutazione (come accade oggi).

Danni notevolissimi alla Scuola media la stanno facendo anche gli Istituti superiori ed Eduscopio, diventata la bussola più gettonata per l’orientamento. Eduscopio con le sue classifiche devasta il sistema percettivo delle famiglie italiane, che nella Scuola media pianificano il futuro cercando di agganciare il figlio alla “scuola migliore” e non alla “scuola elettiva”. Così avviene che la classifica pensata da una Fondazione privata su parametri autodecisi diventi l’elemento che orienta verso errori pacchiani, alimentando una dispersione che inizia quando non si guardano più agli esisti del presente dello studente nella Scuola media (che cosa sa realmente fare), ma lo si proietta già verso un futuro che spesso sarà collocato dentro la dispersione. In tutto questo il ruolo delle Scuole superiori è molto negativo in quanto puntano ad aumentare il numero degli iscritti in una sorta di “favola di Cappuccetto Rosso dark”: “caro studente di scuola media vieni da me anche se questa non è la scuola che fa per te, così io posso bocciarti meglio”. Mi sfugge perché il Ministero permetta che molte scuole superiori accolgano le iscrizioni di tanti studenti nelle classi prime pur avendo un altissimo tasso di bocciature. A dire il vero Eduscopio ha anche una classifica (avulsa) dove si vede il tasso di bocciatura delle scuole superiori, ma è una classifica che non interessa a nessuno, anzi se quel tasso è troppo basso i genitori e l’opinione pubblica pensano che lì le cose non si fanno seriamente.

Io penso che la Scuola media debba riprendere ad agganciare gli adolescenti nel loro momento di crescita e che debba organizzarsi per azioni collegiali e non per singole materie. In tutto questo un ruolo molto forte (in senso negativo) lo ha la docimologia applicata da chi non la conosce e non l’ha studiata (all’Università si studiano i contenuti disciplinari non le metodologie didattiche o i sistemi di verifica-valutazione-misurazione-certificazione). Diciamo che nella scuola italiana avviene lo strano fenomeno per cui si pratica qualcosa che non si è studiato: quando vado dal dentista voglio essere certo che il dentista abbia studiato e si sia specializzato in quel settore della medicina, non che sia un generico “dottore”. A scuola invece valutano professionisti specializzati culturalmente, ma senza alcuna competenza valutativa. In questa sacca si insinua la dispersione in quanto gli studenti sono spinti alla realizzazione di prodotti valutabili docimologicamente e non verso competenze spendibili e certificabili. Infatti, la certificazione delle competenze alla fine del ciclo primario non interessa a nessuno, mentre i “voti” vengono vissuti come una certificazione di livello. Questi meccanismi valutativi sono tutti sbagliarti e producono negli studenti, troppo spesso, uno studio teso verso la perfromance valutativa e non verso l’apprendimento duraturo.

Esiste poi il problema della formazione in ingresso dei docenti, che molto spesso vivono la Scuola media come un semplice momento di passaggio prima di approdare alle Scuola superiori. Quando fu il momento io scelsi la Scuola media e benché abilitato e vincitore di concorso nelle Scuola superiori decisi comunque di rimanere ad insegnare nella Scuola media perché mi ha sempre appassionato la costruzione delle competenze e del sapere in quei tre anni di crescita convulsa. Anche da Dirigente quando sono passato al Liceo nel 2012 ho sempre chiesto e ottenuto una (e un paio di volte me ne hanno date due) reggenza nel primo ciclo, perché ritengo che la professione si debba sviluppare nella gestione di studenti dai 3 ai 19 anni per vedere come cresce il sapere. Questi motivi personali-professionali alimentano la mia diffidenza verso chi parla senza conoscere l’argomento di cui parla, facendo ricadere sugli studenti colpe che non hanno.

La strada per uscire è oggi quella di venti o trenta anni fa: lavorare per obiettivi e non per materie, costruire competenze e non percorsi per superare prove di verifica obsolete (compiti in classe e interrogazioni), verticalizzare i curricoli per cementarie i saperi e le metodologie, comprendersi come “scuola di mezzo” che chiude un ciclo senza essere attratta da quello successivo. Ragionando in questo modo alcuni nodi vengono subito a pettine: la verticalità dell’inglese richiede competenze diverse nella scuola primaria e un presidio di chi insegna inglese nella Scuola media su tutto l’istituto comprensivo; l’insegnamento della matematica affidato a non matematici (quasi tutti gli insegnanti di matematica della Scuola media non sono laureati in matematica) richiede competenze didattiche forti e non trasmissioni di meta-spiegazioni che spesso sono più complicate dei teoremi e delle operazioni che cercano di spiegare; la lingua italiana deve essere presidiata da tutto il sistema e diventare una vera competenza alfabetica funzionale e quindi padroneggiare libri, articoli, informazioni, istruzioni, social, web ecc. e non chiudersi dentro l’umanesimo del tema; quelle che una volta erano chiamate educazioni (arte, musica, educazione fisica, tecnologia) devono verificare per osservazione e non per prodotti, senza alcuna docimologia per definirsi dentro obiettivi di apprendimento e non contenuti disciplinari; le materie di studio devono affinare metodi di apprendimento non affastellare contenuti.

Ripartire da dove? Direi proprio da tutto: lo si doveva fare vent’anni fa, lo si deve fare ora. Ma ora è troppo tardi? Rispondo come fece Nereo Rocco, quando allenava il Padova, a cui dissero prima di Milan-Padova: “Vinca il migliore”, e lui rispose: “Ciò, speremo de no”.

 




Pedagogia dell’infosfera, tra Ucraina e Italia

di Raffaele Iosa

17 marzo 2022 mattina.
Sono online con Reggio Emilia ad un incontro con i dirigenti scolastici e la Provincia sul tema dell’accoglienza dei bambini e ragazzi ucraini profughi. Buone idee, molto impegno. Dico le solite cose che scrivo in questi giorni: sobrietà, empatia, poche feste e tv all’arrivo (le faremo quando torneranno a casa), no a compassione svenevole, no a domande pettegole, ma molto ascolto e comprensione, serenità e amicizia vera senza fronzoli. Prima di tutto dare continuità e connessione alla loro esperienza scolastica in patria e adesso da noi. Non devono perdere l’anno. Ma soprattutto prepararli per il ritorno, che tutti vogliono. Hanno il padre che combatte in Ucraina, l’ ansia quotidiana è la telefonata da laggiù. Qualcuno potrebbe restare orfano. A loro va quindi offerta una pedagogia del ritorno, non un’accoglienza qualsiasi.
Una preside, tra gli interventi, racconta una cosa sorprendente: due studenti ucraini da poco arrivati chiedono un orario che permetta loro di collegarsi con l’insegnante ucraina che li aspetta…per una Dad. Funziona così: un quarto d’ora prima un sms per dire che l’insegnante è pronta e poi…. Non ne sapevo nulla e mi commuovo: stupefacente, solo dopo tre settimane di guerra.
Ma c’è di più: altri sei presidi confermano che anche da loro succede così. Sta dunque accadendo qualcosa?

Riflettete, colleghi italiani: immaginate Svetlana, Olga, Katiuscia, Natasha, Irina, Pavel nascondersi nella metro o in cantina, mandare sms e poi accendere il computer. Immaginate che nell’infosfera da lì a qui passano tabelline, poesie, racconti, geografia. Soprattutto passano facce e sguardi, sorrisi e tristezze.
Si parlano, si salutano con “priviet” (ciao) e si lasciano con “dasvidanie”. Arrivederci, appunto.
Verifico, finito il webinar, e trovo conferma in altre scuole della regione. Un quotidiano racconta che a Bari succede così. Chiamo amici laggiù e confermano: molte insegnanti ucraine cominciano a collegarsi, lo fanno come possono, lo fanno spontaneamente in attesa di un accordo bilaterale.

Come non pensare che nell’ anima dei nostri colleghi ucraini stia accadendo, in forme più tragiche delle nostre, quello che è accaduto tra noi a marzo 2020, nel durissimo e lungo primo lockdown legato al COVID, in un periodo oscuro con centinaia di morti al giorno. E’ accaduto da noi e adesso da loro un evento di contatto in tutti modi con i loro ragazzi lontani: una generosità educativa che non ha atteso gli ordini. Come da noi, quindi, non didattica a distanza, ma quella che ho chiamato didattica della vicinanza, quella possibile online.

Perché di questo emotivamente e cognitivamente si tratta: ricostruire la relazione, far loro sentire che siamo vicini. Poi, nel tipico bla bla italico, nel tempo la cosa si è fatta ideologismo. Ma per quattro mesi la relazione docenti/ragazzi è stata un incanto. E ha messo in discussione i modi di insegnare.
Accade oggi lo stesso a colleghe e colleghi ucraini: in attesa che i governi si coordinino, tessono i contatti con i loro bambini e ragazzi. Lo fanno da luoghi più scomodi di noi, sotto il rumore delle bombe, senza acqua per lavarsi, col rischio di morire. Pura didattica della vicinanza.

18 Marzo 2022.
Nel sito del Ministero istruzione ucraino  trovo un settore specifico da leggere: “UA, education in wartime: international support”.
Materiali didattici via via in costruzione. In un’ ADN Kronos, ripresa su facebook da Tecnica della scuola, c’è un’intervista al ministro Istruzione Serhiv Schkarlet, che precisa la possibile collaborazione con i paesi europei per aiutare i ragazzi a non perdere la scuola, a mantenere il più possibile il loro curricolo, a preparare il ritorno.
Esattamente la continuità di cui parlo e scrivo da una decina di giorni.
Il ministro Bianchi in un comunicato racconta che il 16 marzo in una riunione del Consiglio d’Europa dei ministri istruzione assieme al collega ucraino Skharlet si è concordata una collaborazione intensa per la scolarizzazione dei ragazzi, con tutte le modalità possibili a partire da quelle online, e l’aiuto sociale e psicologico necessario. Dunque, si stanno muovendo molte cose.
E non rivelo nulla di segreto a pensare che la prossima nota del Ministero sull’ accoglienza dei ragazzi ucraini ne parlerà.
E’ per noi, quindi, il momento di darci alcuni sfondi pedagogici di riferimento per una buona accoglienza.

Penso ad una originale scuola binaria, di cui cerco di tracciare qui i principali sfondi su cui riflettere:

1. Il più possibile, fin che è possibile
Naturalmente, per quanto si possa fare, non sarà possibile offrire sempre a tutti i ragazzi ucraini accolti nelle nostre scuole ore online con le loro insegnanti in Ucraina. Dipende dalle loro condizioni di guerra, perfino dalla loro sopravvivenza. Da quello che capisco sarà più facile fare didattica della vicinanza dalla classe 5.a in poi. Ma tutte le ore online che si realizzeranno dovranno essere valorizzate, senza paturnie burocratiche su assenza/presenza dell’alunno a scuola. Nel momento online sono a scuola, eccome! Piuttosto sarebbe opportuno connettere a questo impegno il nostro parallelo impegno didattico (il binario) sul quale scorrere vicine le nostre attività. Sarà un’impresa molto interessante, anche se frastagliata.
Importante sarà comunque conoscere i curricoli e l’organizzazione della scuola ucraina, cercando le molte analogie con noi e le differenze. Forse anche imparare reciprocamente dalle differenze, bambini italiani e ucraini che si imparano vicendevolmente. Importante far notare che la presenza online delle colleghe ucraine allevia anche la questione dei mediatori linguistici se si debbano o meno utilizzare come insegnanti. Meglio forse utilizzare le madri rifugiate con i figli in Italia, se di professione e studi insegnanti.

2. Curricolo del doppio binario
Dunque, sulla base dell’online che sarà possibile realizzare, e dei materiali virtuali che i ragazzi ucraini troveranno nei siti a loro dedicati, sarà possibile costruire un curricolo breve in forma di binario. Suggerisco di pensare solo ai prossimi tre mesi, fino a giugno, inutile per adesso andare oltre. Dunque la parte italiana delle attività potrebbe essere di diversi tipi: complementari, di approfondimento, sostitutive, alternative. Banale è l’esempio dell’educazione fisica, che online non è possibile, ma anche delle discipline artistiche e creative. Importante è approfondire la lingua straniera, che può essere utile come veicolo comunicativo universale. Ovviamente il curricolo dovrà essere personalizzato secondo le diverse condizioni di ogni bambino e ragazzo.

3. Sbirciarsi dallo schermo e condividere tutto il possibile
Eppure c’è una questione relazionale e pedagogica che sarebbe utile realizzare. Mi piacerebbe pensare che in un incontro online con il suo ragazzo ucraino, la loro Svetlana e la nostra Maria potessero almeno sbirciarsi e salutarsi. Mi piace pensare che se Maria e Svetlana non hanno una lingua da condividere, la prima faccia dei gesti per far capire alla collega che verso quel bambino noi siamo qui ad aiutarlo e che non lo molleremo mai alla tristezza o alla solitudine. Siamo loro sostituti, ci crediamo. Ma se le due potessero capirsi (es. inglese, ma molte ucraine sanno un po’ di italiano) potrebbe crearsi quel binario pedagogico di scambio e collaborazione con effetti pratici molto interessanti. Una pedagogia dello scambio mutualistico, pieno di umanità.

4. Il binario per i più piccoli
Per i bambini più piccoli, quelli della scuola infanzia e forse anche dei quattro anni di primaria, è possibile che siano meno le occasioni di connessione online. In questo caso sarà importante avere un buon rapporto con le madri per capire i loro figli e conoscere il meglio possibile i curricoli ucraini per realizzare un binario armonico e coerente anche se basato su una sola lingua. In questo caso, importante ancora di più sarà la relazione con i compagni coetanei italiani.

5. Cominciare a pensare l’estate
E poi, forse bisogna pensare presto a come organizzare la loro estate. I ”patti territoriali di comunità” con gli enti locali e le molte esperienze estive presenti nelle nostre città sono esperienze che vanno favorite e sviluppate a partire dalla scuola. Giugno arriva tra poco. Guai a lasciarli soli.
Suggerirei, infine, a non pensare per ora all’ anno scolastico prossimo. Conviene un intervento caldo e positivo per questi mesi, i più difficili. Ma meglio non anticipare troppo decisioni che potrebbero, anche involontariamente, essere premature. Si rischia altrimenti, in buona fede, di relegarli alla psicologia dell’esilio.




A scuola si va come si deve e non come ci pare

di Raimondo Giunta

A scuola, nei rapporti quotidiani, capita che sul modo in cui debbano vestirsi e parlare gli alunni ci possa scappare l’incidente.
Per evitare umilianti controversie e penose campagne di stampa, considerando come si è diventati, credo che debbano essere dettate delle norme precise al riguardo.
Una volta francamente non ce n’era bisogno.
Però bisogna dirlo. A tanti sembra indebito che la scuola stabilisca un minimo di regole sul modo di comportarsi e anche sul modo di vestirsi.
Per alcuni e forse per molti è importante solo che i giovani a scuola ci vadano e ci restino.
Sinite parvulos venire ad me…
E’ un’idea senz’altro accattivante, ma non credo che sia seria.
La scuola è altro rispetto alla vita e lo deve essere proprio per preparare alla vita; una realtà che deve avere le proprie regole: quelle che sembrano essere le più efficaci per mantenere le promesse che fa a chiunque entri dal suo portone d’ingresso.
Si dice in chiesa con i santi e in taverna con i briganti.
Si potrebbe citare Machiavelli che cambiava abito, quando si metteva a leggere e a scrivere.
Questa condiscendenza, ai limiti dell’irresponsabilità, non aiuta i giovani.


Credo che se a scuola trovassero insegnanti capaci di fargli assaggiare giorno per giorno il sapore del sapere, i ragazzi a scuola ci andrebbero volentieri anche con giacca e cravatta.
L’alterità delle regole della scuola rispetto a quelle della famiglia e del gruppo dei pari è condizione per collocarsi nel migliore dei modi rispetto alla responsabilità individuale di crescere e di imparare.
Quand’ero in servizio, ma erano altri tempi, non dettavo regole sull’abbigliamento, anche perché pensavo e credevo che i genitori ci tenessero a insegnare le buone maniere ai propri figlioli e che li osservassero bene e come si deve prima di vederli uscire da casa per andare a scuola.
Esercitavo, però, l’ironia su qualche eccesso degli alunni e anche degli/delle insegnanti.
Si toglievano subito il piacere di stupire con le stranezze piuttosto che con l’impegno e con i risultati.
Non so se oggi funzionerebbe e quando succedono fatti come quelli del liceo romano, ringrazio il Padreterno di essere in pensione.
A distanza di tempo incontro spesso gli alunni che diventati, ormai, genitori mi ringraziano per le scelte che allora facevo da preside.
Perché, prima o poi, anche gli studenti scapestrati diventano grandi e capiscono il senso di quello che prima non volevano accettare.




Dove va il futuro e dove va la scuola

di Stefano Stefanel

La storia ci racconta che dopo il passaggio di Napoleone sulla storia europea ci fu un tentativo molto autorevole e anche molto popolare di rimettere le lancette indietro attraverso il famoso Congresso di Vienna.
L’innovazione napoleonica aveva stravolto l’Europa, ma si pensò di far finta che non ci fosse stata. La pandemia sta finendo (così ci dicono) o, comunque, viene percepita come riconducibile dentro sistemi di convivenza più normali di quelli in cui abbiamo vissuto negli ultimi due anni e, dunque, bisogna ripartire e bisogna farlo tenendo conto di quanto è successo. Il PNRR, la transizione digitale ed ecologica, ma anche l’incredibile guerra in Ucraina dicono che il mondo di domani dovrà essere diverso da quello di ieri e dunque dobbiamo attrezzarci al meglio per capire quale direzione prendere.

In questo scenario ci sono un futuro incerto ma pieno di occasioni, innovazioni necessarie e cambiamenti da cui non si può più tornare indietro. Banalmente, osservo che lo sviluppo del digitale ha portato alla nostra nuova identità (digitale) e lo SPID, piaccia o non piaccia, è il nostro futuro. E anche le battaglie ecologiste, partite con grande clamore prima della pandemia, tornano ora sotto le spoglie di una radicalmente modificata sensibilità ecologica che non viene contestata da nessuno e trova grandi finanziamenti e grandi progetti.

Anche l’idea di formazione sta avendo a livello mondiale una sua enorme mutazione verso saperi nuovi, discipline contaminate, nuovi lavori, nuove occupazioni, nuove sensibilità, nuove opportunità. Sembrava, dunque, che la cifra all’uscita dalla scossa pandemica, superiore per forze e impatto a quella napoleonica, portasse verso un’idea di innovazione entro cui inserire anche il nostro sistema scolastico.

Così qualcuno può essere sconcertato dalla spinta restaurativa e conservatrice che sta pervadendo il mondo della scuola, dove sono tornate alla ribalta parole antiche, che sembravano dover uscire dall’universo di una scuola che vuole recuperare il tempo passato dentro la pandemia. I segnali sono molto chiari e vanno dal ritorno agli esami di stato in cui gli scritti su carta e il nozionismo del colloquio finale spostino il tempo a dieci anni addietro fino alla proposta di reintrodurre il latino alle medie come elemento orientativo tra il liceo classico e il liceo scientifico, quasi che l’istruzione tecnica e professionale fosse un inciampo del destino, da scavalcare con l’enfasi sugli IFTS (cioè i corsi post diploma in alternativa all’università). Oltre a questo, c’è stata la violenta enfasi contro la Didattica a distanza con un’idea di presenza che supera qualsiasi interrogativo su che cosa si va a fare in quella presenza, ma anche un finanziamento cospicuo e disordinato sul digitale che, invece di unificare il sistema, lo ha ancora di più disgregato. È ripartito con grande evidenza il centralismo ministeriale con continui monitoraggi su qualsiasi argomento, piattaforme da compilare quotidianamente con dati su dati che non è chiaro dove confluiscano e perché. Molto spesso si sentono snocciolare sui social e sui media dati tratti da azioni di controllo che hanno avuto esito parziale (dati parziali che portano a decisioni globali). Ha ripreso vigore l’idea della scuola del rigore che boccia molto e che si occuperà non si sa bene come della dispersione in aumento, anzi la dispersione in aumento viene vissuta quasi come il debito pubblico in aumento: un tempo elemento di allarme ora semplice dato statistico. Anche la spinta verso il terzo settore come elemento di aiuto alla scuola rientra in una logica matrigna che spiega all’opinione pubblica come la scuola da sola non è in grado di andare da nessuna parte.

Tutto questo scenario è reso ancora più interessante dal passaggio durante la pandemia da una fiducia iniziale nella dirigenza scolastica, chiamata a fronteggiare un problema immane apparso improvvisamente, alla sua successiva esautorazione da qualunque catena di comando (con il passaggio, ad esempio, di competenza alle prefetture degli orari scolastici), fino alla spinta verso una dirigenza scolastica esecutiva di compiti decisi altrove. Che il mondo della scuola non debba mettere il naso (o il becco) dentro il PNRR pare ormai chiaro a tutti e le due commissioni ministeriali che lavorano sull’argomento con tutti dialogano tranne che col mondo della scuola, nella certezza che da quel mondo non possano venire idee interessanti. Tra l’altro i soldi del PNRR per le scuole stanno dentro i progetti delle Amministrazioni locali, che con molta fretta hanno dovuto tirare fuori dai cassetti vecchi progetti di messa a norma o di demolizione senza una precisa progettualità di area e con le regioni interessate ad altro.

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Analizzando tutto questo si deve però constatare che l’opinione pubblica è attratta da questa restaurazione che tocca il mondo della scuola, quasi che da uno stravolgimento epocale (sia determinato da Napoleone o dal Covid) si esca solo riportando tutto alla vecchia normalità e come se quella che stavamo vivendo prima dell’emergenza lo fosse stata realmente. Però l’innovatore davanti alla restaurazione e ai conservatori e alla loro popolarità qualche domanda sulle sue debolezze se le deve fare. Se le idee in cui chi vuole innovare credeva e crede non hanno alcuna popolarità, se alcune evidenze non sono percepite come tali dalla grande maggioranza dei cittadini qualcosa di problematico nella progettualità innovativa c’è. L’impressione è che l’Italia non voglia combattere due battaglie piuttosto impegnative, che ora appaiono troppo complicate: quella della lotta alla dispersione scolastica e alle povertà educative e quella per un riequilibrio dell’ascensore sociale. Se così è per l’innovatore nella scuola non c’è più molto posto e dunque può essere controproducente spingere in tal senso, quando alla grande maggioranza convince di più una restaurazione di pratiche antiche e comunque ritenute coerenti con quello che abbiamo sempre fatto e abbiamo sempre saputo fare.

E’ uscito in questi giorni a cura di FORUM PA il “FPA – Annual Report 2021” e già nei titoli degli interventi introduttivi c’è un’idea di futuro ineludibile: Coesione, coerenza e costanza nell’innovazione per un’amministrazione al servizio di tutto il paese” (Carlo Mochi Suismondi) e L’allineamento astrale 2022: la nostra ultima chanche (Andrea Rangone). Gran parte di quello che è contenuto nel report non c’è a scuola e la scuola non pare coinvolta in questo enorme processo di innovazione ritenuto indispensabile.

Ma anche il Piano di RiGenerazione scuola, di cui molto si parla indica “i quattro pilastri della transizione ecologica” (Rigenerazione dei saperi, Rigenerazione dei comportamenti, Rigenerazione delle infrastrutture, Rigenerazione delle opportunità) che nulla hanno a che vedere con quello che si sta progettando a scuola (ritorno al latino, esame di stato come ai vecchi tempi, niente didattica digitale se non in presenza e magari solo nelle aule dedicate, struttura cartacea imperante, orari rigidi, saperi legati alle classi di concorso, nuove graduatorie basate sull’anzianità, nessun investimento sulla formazione in ingresso, nessuna obbligatorietà della formazione dei docenti, ecc.).

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Tutto questo sconcerta e merita un pensiero riflessivo non banale, perché è evidente che in futuro non ci sarà lavoro per tutti e ci saranno opportunità solo per alcuni in un mercato del lavoro e della conoscenza che non avrà motivo di combattere le povertà, perché potrà semplicemente “mantenerle” tramite l’assistenza. Nel ritorno al passato io vedo un brutto disegno di esclusione, perché il sapere che conserva è il sapere di chi avrà la possibilità di scegliere se innovare o meno, mentre chi non ha la possibilità di scegliere o innova o è fuori dal mercato.

Sembra quasi che la scuola di massa abbia nel dopo pandemia il compito primario di trovare un’occupazione ai bambini e ai ragazzi nelle ore in cui i genitori lavorano, di dare assistenza al mondo della disabilità, di avviare un percorso di alfabetizzazione che si tenga ancorato alla tradizione per poi lasciare correre una parte della sua gioventù verso i licei e la laurea. Se questo non è vero perché il PNRR, le forze politiche l’opinione pubblica non parlano di Rigenerare tutti i laboratori degli Istituti tecnici e professionali e delle Università? Se non si rigenerano in questo modo le infrastrutture come le si rigenerano? Inoltre, viene il dubbio che il PNRR sulla scuola voglia occuparsi del contenuto e non del contenitore dando per scontato che comunque con il calo delle nascite di contenitori nuovi non abbiamo tanto bisogno ed è sufficiente fare in modo che quelli vecchi migliorino il risparmio energetico e l’ecosostenibilità (se ci riescono).

Credo sia necessario prendere atto che la restaurazione scolastica in atto è molto popolare e che l’innovazione sarà sempre più vista come un lusso inutile che non fornisce reali opportunità agli studenti più forti e non muta il destino di quelli che dalla dispersione scolastica si trasformano in NEET (Neither in Employment or in Education or Training) cioè in coloro che tra i 17 e i 25 anni non studiano e non lavorano (e che sono oltre due milioni). Gettare la spugna e rimandare a un lontano futuro la ripresa di un ascensore sociale che non è mai stato molto popolare, dentro sicurezze che permettono di tornare alle amate conoscenze con tutto il loro seguito di editoria dedicata e classi di concorso amate dai docenti e dai sindacati sembra l’orizzonte più vicino. Insomma, quella che avanza è una restaurazione da prendere molto sul serio in cui i segnali si sommano a dati forniti sempre in maniera incompleta e strumentale con modalità mai organiche ed omogenee. Dura la vita degli innovatori, ma complicato vedere l’innovazione che avanza nella società e la conservazione che si riprende la scuola.




Didattica a distanza e setting fluttuanti

di  Mario Maviglia e Laura Bertocchi

La scenografia nella didattica a distanza (M. Maviglia)

 Uno dei tanti effetti che la pandemia ha avuto in campo scolastico è stato quello di aver prodotto un radicale cambiamento nell’allestimento del setting educativo, intendendo con questo termine “l’insieme delle variabili che definiscono il contesto entro cui si svolge la relazione formativa”[1] (M. Castoldi, 2016) .
Tra queste variabili generalmente vengono ricomprese il tempo, lo spazio, le regole, gli attori, i canali comunicativi, ma anche le forme relazionali. La didattica a distanza ha cambiato le caratteristiche di tali variabili, anche se finora non si è molto approfondito e discusso questo aspetto che pure influenza in modo non secondario l’impresa educativa. Se ad esempio consideriamo le coordinate spazio-temporali si può facilmente constatare che un conto è fare scuola avendo come riferimento un setting strutturato con spazi ben identificabili (aule, laboratori, atelier, palestre ecc.) e dove il “controllo” del docente è ben delineato, un altro è gestire la lezione in spazi virtuali, come nella DaD, dove l’”aula” si scompone in tanti spazi individuali (l’immagine sullo schermo di ogni singolo studente) e la tradizionale scenografia scolastica (fatta di banchi, cattedra, lavagna o LIM, pareti più o meno addobbati, angoli, attrezzature ecc.) risulta completamente trasformata. Peraltro, va sottolineato che mentre nei tradizionali setting d’aula sono i docenti a definire – consapevolmente o meno – l’allestimento della scenografia in modo che sia funzionale al tipo di attività che vi si svolge e agli obiettivi che si vogliono conseguire, nella scenografia dettata dalle contingenze della DaD il “controllo” dei docenti risulta molto più labile e indefinito e comunque fortemente influenzato alla tecnologia.

Un altro aspetto da considerare è che nella “scenografia DaD” entra prepotentemente in campo il contesto familiare dei singoli studenti, sebbene attraverso il particolare e limitato occhio della webcamera.
Di fatto si entra nelle case degli studenti (e gli studenti entrano in quella dell’insegnante, se il collegamento avviene dalla casa di costui), si spia dentro. Questa deformazione dei confini del setting educativo determina problemi del tutto nuovi rispetto alla tradizionale gestione delle attività didattiche.


La variabile tempo, ad esempio, va incontro ad una serie di alterazioni: in situazione di DaD può succedere che non tutti gli studenti riescano a collegarsi alla rete e dunque si va incontro a inevitabili perdite di tempo o comunque a tempi morti. (Ricordiamo che “Il rapporto DESI (Indice di Digitalizzazione dell’Economia e della Società) 2020 della Commissione Europea (…) ci vede posizionati al 25° posto globale nel ranking della digitalizzazione dei paesi dell’Unione Europea (i dati sono riferiti al 2019, perciò ancora 28 paesi)” (Rapporto sulla trasformazione digitale dell’Italia, CENSIS e TIM, 2020[2]).
Non è che nelle situazioni normali non vi siano perdite di tempo, ma mentre in quest’ultime il docente può intervenire direttamente per risolvere eventuali problemi, nella DaD le possibilità di intervento da parte dell’insegnante sono molto più limitate. A ciò va aggiunta la diversa strumentazione tecnologica di cui gli studenti possono usufruire a casa e dunque le differenti possibilità di avere collegamenti ottimali oppure problematici. Non tutti gli studenti utilizzano la banda larga o la fibra per il processo dei dati. Questi aspetti, se non adeguatamente considerati, rischiano di creare difformità nelle possibilità di accesso al servizio scolastico. In fondo in classe la strumentazione didattica è a disposizione di tutti gli alunni; nella situazione di DaD è invece fortemente correlata alla dotazione tecnologica delle famiglie.

Va pure detto che la didattica a distanza, se non adeguatamente gestita, tende ad enfatizzare gli aspetti più trasmissivi dell’insegnamento con un inevitabile scivolamento verso un approccio nozionistico alla didattica. La didattica in presenza non è scevra da questi rischi, ovviamente, ma le specifiche coordinate spazio-temporali della DaD accentuano ancor più questi elementi unidirezionali della comunicazione magistrale. Ci sono ovviamente degli “accorgimenti” che possono attenuare questi aspetti; uno di questi, ad esempio, consiste nell’attivare gli studenti nei giorni precedenti la lezione o l’attività didattica, in modo che possano consultare materiale on line che lo stesso docente fornisce loro o che possono reperire direttamente sulla base delle indicazioni date dall’insegnante (ovviamente in relazione all’età degli alunni). In questo caso la lezione viene “costruita” insieme agli studenti sulla base di quanto hanno capito/trovato sull’argomento. Ancora troppo spesso gli studenti vengono considerati meri destinatari dell’attività didattica, più che protagonisti, e la DaD rischia di relegarli in una dimensione di maggiore passività.

Un ulteriore aspetto va tenuto presente nella scenografia della DaD, sempre in relazione alla gestione dei tempi. Proprio perché gli elementi trasmissivi rischiano di farla da padrone, i tempi di attenzione potrebbero conoscere livelli ancor più bassi di quanto non succeda nelle situazioni scolastiche ordinarie. È pur vero che i ragazzi oggi sono abituati a stare anche molte ore davanti a un computer, ma le forme di utilizzo sono molto diverse di quanto avviene durante la DaD in quanto le loro possibilità di intervento sul palinsesto sono decisamente molto limitate.

Gli aspetti comunicativi (L. Bertocchi)

Possiamo allora chiederci quali strumenti ha il docente in DaD per cercare di coinvolgere gli studenti. Alcuni non sono poi così diversi da quelli utilizzati in presenza.
Partiamo da una constatazione: ogni insegnante è guardato ed ascoltato (si spera!), anche in DaD. Spetta a lui decidere di “operare una messa in scena attiva del proprio corpo”[3] e della propria voce, anziché “essere passivamente esposto agli sguardi”[4] degli studenti. Spetta a lui scegliere di utilizzare consapevolmente gli strumenti che ha a disposizione, cosciente delle reazioni che atteggiamenti e comportamenti possono suscitare.

La voce innanzitutto. È lo strumento professionale per eccellenza, fondamentale per ogni docente, anche quando la didattica si realizza a distanza. Cerchiamo di analizzare in che misura e con quali differenze rispetto alle lezioni che tradizionalmente si tengono in presenza.

L’insegnamento “è essenzialmente fatto di parole”[5]. Il docente comunica in modi diversi e con diversi scopi:[6]

  1. Di controllo: ordina, comanda, tronca i conflitti.
  2. Di imposizione: regola, dispone, moralizza, giudica, informa.
  3. Di facilitazione: chiarisce, mette in evidenza, dimostra, insegna.
  4. Di svolgimento del contenuto: stimola, apprezza, offre aiuto.
  5. Di risposte personali: risponde alle domande, accetta le esperienze personali, interpreta, riconosce i propri errori.
  6. Affettivi positivi: loda, mostra sollecitudine, incoraggia.
  7. Affettivi negativi: ammonisce, rimprovera, accusa, rinvia.

Soffermiamoci quindi sugli aspetti paraverbali, detti anche non verbali, del parlato e che riguardano il modo in cui qualcosa viene detto. Essi “modellano, arricchiscono, completano, a volte modificano”[7] il significato del messaggio, fino al punto di stravolgerlo.  Tra le principali qualità vocali che caratterizzano il tono di un discorso troviamo:

  1. L’altezza: riguarda la frequenza del suono e permette di distinguere una voce acuta da una grave, un tenore da un baritono per esempio.
  2. Il timbro: deriva dall’ampiezza di vibrazioni e permette di riconoscere suoni che hanno la stessa altezza, come una medesima nota suonata da un oboe e da una chitarra rock.
  3. La velocità di eloquio: riguarda il numero di sillabe pronunciate in un determinato lasso di tempo.
  4. Il ritmo: e cioè l’alternanza delle velocità in un discorso.
  5. L’intensità: ci permette di distinguere i suoni deboli da quelli forti.

L’altezza e il timbro ci appartengono per natura e sono difficilmente modificabili. Permettono di distinguere la nostra voce tra mille altre, come una sorta di impronta digitale. Le altre caratteristiche invece, note con il termine di “colore”, oltre a suscitare spesso prevedibili reazioni nell’interlocutore, sono riconosciute come rivelatrici dei sentimenti e delle emozioni di colui che parla.

Vediamo qualche esempio.

Al di là di precise caratteristiche personali e culturali, adattare il ritmo al discorso è molto importante. Un andamento regolare esprime emozioni tranquille, ma rischia di diventare mono-tono, rendendo estremamente difficile mantenere nell’interlocutore un’attenzione costante. Un ritmo irregolare, al contrario, rende emozioni forti e violente e, al contempo, permette di sottolineare i passaggi che riteniamo fondamentali.

Inoltre, poiché anche in DaD è auspicabile che il processo di insegnamento-apprendimento si realizzi in modo collaborativo, l’esperienza ci insegna che, in questa modalità più che in presenza, gli interventi degli studenti vanno sollecitati, poiché “sparire” e nascondersi dietro ad uno schermo è più facile e più frequente che in un’aula scolastica.

Anche i silenzi possono essere ricchi di senso e di significato. Non parlare, dopo aver posto una domanda, permette all’interlocutore di inserirsi nel discorso, dandogli il tempo necessario a formulare una risposta. Il rischio di silenzi prolungati in remoto è però che qualcuno li attribuisca a problemi di connessione. Ecco, in questi casi “riempire” i silenzi con cenni di incoraggiamento e sorrisi può essere una strategia.

Altra caratteristica molto importante nella comunicazione è l’intensità della voce: una voce forte richiama l’attenzione, incita, esorta, ma può anche apparire prevaricatrice; al contrario, una voce troppo bassa rischia di perdersi e di non essere correttamente percepita, soprattutto in DaD, dove i rumori in sottofondo sono diversi e possono interferire con l’adeguata comprensione del messaggio.

D’altro canto, non deve essere sottovalutata la ricchezza comunicativa del linguaggio non verbale. Il contatto fisico – una delle forme più forti di trasmissione di un messaggio, che favorisce l’avvicinamento, anche emotivo, tra le persone – in DaD viene a mancare.

Permangono invece, in tutta la loro potenza comunicativa, altri gesti che – come le parole – rivestono diverse funzioni. Nella comunicazione a mezzo busto le mani possono essere visibili. Tra i gesti principali individuiamo quelli[8]:

  1. Olofrastici: con una sola parola trasmettono un messaggio, come per esempio il gesto “vai via!”
  2. Articolati: indicano un nome o un oggetto, come quando ad esempio puntiamo il dito per indicare una persona.
  3. Iconici: rappresentano immagini.
  4. Arbitrari: che appartengono ad uno specifico linguaggio, come quello dei segni per i sordi.
  5. Codificati: ai quali attribuiamo precisi significati condivisi.

Questi gesti, utilizzati correttamente, arricchiscono ed enfatizzano il discorso.

Anche la mimica facciale gioca un ruolo importante in DaD, ma non solo. Alcune espressioni hanno evidenti funzioni di rinforzo, positivo o negativo, di ciò che viene detto a parole. Questi i più evidenti:

  1. Testa: scuotere la testa dall’alto verso il basso indica approvazione, assenso; muoverla invece da destra verso sinistra mostra disaccordo, dinego; inclinarla da un lato, magari guardando negli occhi l’interlocutore, trasmette attenzione, empatia, propensione all’ascolto.
  2. Occhi: aggrottare le sopracciglia mostra contrarietà, disapprovazione; alzare gli occhi al cielo, magari sbuffando, rivela stizza e irritazione; sollevare un solo sopracciglio indica scetticismo e incredulità; spalancare gli occhi mostra sorpresa o terrore (ma speriamo non sia questo il caso!).
  3. Bocca: abbiamo un sorriso sardonico, beffardo, persino sprezzante quando gli angoli della bocca sono rivolti verso l’alto mentre lo sguardo rimane serio; un sorriso sincero invece mostra approvazione e incoraggiamento; serrare le labbra, magari mordicchiarsele, rivela disagio.

Numerose piattaforme permettono di mettere in evidenza colui che parla e allora lo sguardo e il sorriso diventano fondamentali. Il contattato oculare è possibile anche via web, soprattutto nei momenti in cui -anziché parlare a tutta la classe – si instaura un dialogo collaborativo con un singolo allievo. Generalmente guardare il proprio interlocutore trasmette sensazioni di franchezza, attenzione, partecipazione, incoraggiamento. Se in presenza essere fissati può mettere alcuni studenti a disagio, poiché percepiscono questo atteggiamento come aggressivo o sfidante, ciò raramente succede a distanza, dove il filtro dello schermo attenua le espressioni, rendendole meno nitide. Per questa ragione allora una certa enfatizzazione di alcune caratteristiche può aiutare l’efficacia comunicativa.

Quanto abbiamo presentato sopra sono solo alcuni spunti per sollecitare una prima riflessione su come anche in situazione di DaD è opportuno prestare attenzione agli aspetti scenografici del fare scuola, un fare scuola affatto diverso da quello ordinario e proprio per questo meritevole di essere investigato nella sua diversità. L’aspetto comunicativo riveste, in questo contesto, una particolare importanza considerato che è soprattutto sulla figura dei docenti e degli studenti che si concentra l’attenzione, a differenza della classica situazione d’aula dove gli stimoli percettivi sono molto più variegati. 

NOTE

[1]https://www.iccocchilicciananardi.edu.it/attachments/article/591/Oltre%20la%20metodologia-setting%20organizzativo%20e%20clima%20relazionale.pdf

[2] https://www.operazionerisorgimentodigitale.it/sites/default/files/pdf/20201130%20Rapporto%20sulla%20Trasformazione%20digitale%20dell’Italia%20-%20esteso.pdf

[3] C. Pujade-Renaud (1983), Le corps de l’enseignant dans la classe, ESF, Paris, p. 74

[4] Ibidem

[5] G. Ballanti (1979), Analisi e modificazione del comportamento insegnante, Lisciani e Giunti Editori, Teramo, p. 7

[6] M. Maviglia, L. Bertocchi (2021), L’insegnante e la sua maschera. Teatralità e comunicazione nell’insegnamento, Mondadori, Milano, pp. 58-59

[7] G. De Landsheere, A. Delchambre (1981), I comportamenti non verbali dell’insegnante, Lisciani & Giunti Editori, Teramo, p. 37

[8] I. Poggi (1987), Le parole nella testa. Guida a un’educazione linguistica cognitivista, Il Mulino, Bologna, p. 51




Ripensare la scuola e le sue responsabilità

di Raimondo Giunta

Le polemiche roventi scoppiate sull’alternanza/scuola lavoro, in seguito alla tragica morte di un giovane nel suo ultimo giorno di stage in un’azienda friulana, devono essere colte come una seria occasione per ripensare il rapporto tra il sistema di istruzione e formazione e la società. Una questione che deve partire per forza dalla ricognizione dei compiti e delle responsabilità del sistema scolastico alla luce di ciò che ne costituisce l’identità.

La scuola nel corso della storia progressivamente ha dovuto svolgere tutti i compiti che la società le ha dato di volta in volta per sostituire le agenzie formative che avevano portato a termine la propria missione o che non sono state più in grado di affrontarla: la chiesa, la famiglia, la bottega artigiana, le associazioni di mestiere, etc. . Compiti di cultura e di educazione; compiti di formazione professionale. Una situazione inevitabile che si è posta da sempre come condizione della sua legittimità sociale: non è comprensibile, oggi, l’esistenza di un sistema scolastico al di fuori di questa responsabilità.

Scuola e società fino all’altro ieri hanno avuto un rapporto di reciproca fiducia e di scambio alla pari: si sono sostenute a vicenda assicurando un servizio efficace e con qualche grado di qualità. Il loro sodalizio entra in crisi negli anni in cui lo sviluppo economico, le dimensioni e l’intensità dello sviluppo delle scienze e delle tecnologie creano le condizioni di un distacco sempre più ampio tra esigenze complessive della società e capacità di adeguamento della scuola. Il compito di dare una risposta alle richieste della società non è facoltativo e non può essere disatteso anche se è diventato sempre più difficile poterlo svolgere.

La logica delle riforme, quando ne hanno qualcuna, è quella di superare questa difficoltà per assicurare in mutate condizioni la conservazione del patrimonio culturale, tecnico e professionale di una nazione e la possibilità di preparare le nuove generazioni ad inserirsi nel mondo del lavoro e nella società. E’ stata ed è questa difficoltà che ha spinto a ridisegnare i compiti della formazione professionale come segmento di mediazione e di transizione tra istruzione e mondo del lavoro: non più cenerentola di momenti emergenziali, nè strumento sussidiario e subalterno al sistema scolastico in funzione della risoluzione del problema della dispersione.
Le linee di tendenza delle dinamiche sociali della società della conoscenza, nei limiti in cui sono configurabili, sollecitano ad aprire una nuova fase dei rapporti tra istruzione, formazione professionale, mondo del lavoro per tentare di costruire un circuito permanente di scambi e di servizi lungo tutta la vita, che diano risposte ai problemi di inserimento nella società delle nuove generazioni.
Questo tentativo di grande rilievo sociale impone alcune scelte ineludibili:
a) la costituzione di un sistema formativo integrato, in cui i soggetti che lo compongono abbiano pari dignità e sia possibile il passaggio da un settore all’altro;
b) la creazione delle condizioni per disegnare il sistema formativo che funzioni alla stregua del servizio sanitario: un sistema, cioè, che eroghi prestazioni per tutte le età e in ogni età delle persone.
Le tendenze prima descritte sono state al centro degli sforzi per fare della scuola un’istituzione efficace. Seppure ardui, questi compiti possono essere affrontati in una logica razionale, costante, pragmatica di evoluzione e di cambiamento dell’organizzazione del sistema formativo. Ma alla scuola non si chiede solo questo. Si chiede anche di essere un’istituzione giusta che si preoccupi di rendere migliori i propri alunni. La sfida più difficile, perché deve misurarsi con i mutamenti profondi e radicali del mondo dei valori e del costume, ambito in cui la scuola nel passato si sentiva al riparo di ogni difficoltà. Questi problemi si possono riassumere nella rottura del rapporto famiglia-scuola; nella crisi del concetto e del principio di autorità; nella costituzione di valori individualistici, spesso alternativi alla dimensione comunitaria dei valori repubblicani della Costituzione. Nella fase storica in cui è avvenuta la piena scolarizzazione delle generazioni la crisi della famiglia e di altre agenzie formative, l’incertezza dei valori pubblici costitutivi della convivenza sociale rendono difficile il compito di educare le nuove generazioni, la funzione educativa della scuola. La buona amministrazione del sistema di istruzione e formazione non consente di eludere questa responsabilità e non si riduce alla produzione continua di cosiddette riforme epocali.
E per concludere. Il peso della responsabilità professionale e conoscitiva e quello della responsabilità educativa del sistema di istruzione e formazione ricadono sulle spalle degli insegnanti, che si devono misurare con un’opinione pubblica artatamente ostile, con un’organizzazione che non premia l’impegno e l’innovazione e che si vede ridurre le risorse di cui dovrebbe disporre. La situazione richiede un alto profilo civico e professionale dell’insegnante, ma le scelte concrete dell’amministrazione hanno creato una figura professionale senza autonomia, senza spessore culturale e ai bordi di un vero declassamento sociale. Un rinnovato rapporto della scuola con la società da questi ultimi problemi deve partire e trovare slancio.