Pedagogia dell’infosfera, tra Ucraina e Italia

di Raffaele Iosa

17 marzo 2022 mattina.
Sono online con Reggio Emilia ad un incontro con i dirigenti scolastici e la Provincia sul tema dell’accoglienza dei bambini e ragazzi ucraini profughi. Buone idee, molto impegno. Dico le solite cose che scrivo in questi giorni: sobrietà, empatia, poche feste e tv all’arrivo (le faremo quando torneranno a casa), no a compassione svenevole, no a domande pettegole, ma molto ascolto e comprensione, serenità e amicizia vera senza fronzoli. Prima di tutto dare continuità e connessione alla loro esperienza scolastica in patria e adesso da noi. Non devono perdere l’anno. Ma soprattutto prepararli per il ritorno, che tutti vogliono. Hanno il padre che combatte in Ucraina, l’ ansia quotidiana è la telefonata da laggiù. Qualcuno potrebbe restare orfano. A loro va quindi offerta una pedagogia del ritorno, non un’accoglienza qualsiasi.
Una preside, tra gli interventi, racconta una cosa sorprendente: due studenti ucraini da poco arrivati chiedono un orario che permetta loro di collegarsi con l’insegnante ucraina che li aspetta…per una Dad. Funziona così: un quarto d’ora prima un sms per dire che l’insegnante è pronta e poi…. Non ne sapevo nulla e mi commuovo: stupefacente, solo dopo tre settimane di guerra.
Ma c’è di più: altri sei presidi confermano che anche da loro succede così. Sta dunque accadendo qualcosa?

Riflettete, colleghi italiani: immaginate Svetlana, Olga, Katiuscia, Natasha, Irina, Pavel nascondersi nella metro o in cantina, mandare sms e poi accendere il computer. Immaginate che nell’infosfera da lì a qui passano tabelline, poesie, racconti, geografia. Soprattutto passano facce e sguardi, sorrisi e tristezze.
Si parlano, si salutano con “priviet” (ciao) e si lasciano con “dasvidanie”. Arrivederci, appunto.
Verifico, finito il webinar, e trovo conferma in altre scuole della regione. Un quotidiano racconta che a Bari succede così. Chiamo amici laggiù e confermano: molte insegnanti ucraine cominciano a collegarsi, lo fanno come possono, lo fanno spontaneamente in attesa di un accordo bilaterale.

Come non pensare che nell’ anima dei nostri colleghi ucraini stia accadendo, in forme più tragiche delle nostre, quello che è accaduto tra noi a marzo 2020, nel durissimo e lungo primo lockdown legato al COVID, in un periodo oscuro con centinaia di morti al giorno. E’ accaduto da noi e adesso da loro un evento di contatto in tutti modi con i loro ragazzi lontani: una generosità educativa che non ha atteso gli ordini. Come da noi, quindi, non didattica a distanza, ma quella che ho chiamato didattica della vicinanza, quella possibile online.

Perché di questo emotivamente e cognitivamente si tratta: ricostruire la relazione, far loro sentire che siamo vicini. Poi, nel tipico bla bla italico, nel tempo la cosa si è fatta ideologismo. Ma per quattro mesi la relazione docenti/ragazzi è stata un incanto. E ha messo in discussione i modi di insegnare.
Accade oggi lo stesso a colleghe e colleghi ucraini: in attesa che i governi si coordinino, tessono i contatti con i loro bambini e ragazzi. Lo fanno da luoghi più scomodi di noi, sotto il rumore delle bombe, senza acqua per lavarsi, col rischio di morire. Pura didattica della vicinanza.

18 Marzo 2022.
Nel sito del Ministero istruzione ucraino  trovo un settore specifico da leggere: “UA, education in wartime: international support”.
Materiali didattici via via in costruzione. In un’ ADN Kronos, ripresa su facebook da Tecnica della scuola, c’è un’intervista al ministro Istruzione Serhiv Schkarlet, che precisa la possibile collaborazione con i paesi europei per aiutare i ragazzi a non perdere la scuola, a mantenere il più possibile il loro curricolo, a preparare il ritorno.
Esattamente la continuità di cui parlo e scrivo da una decina di giorni.
Il ministro Bianchi in un comunicato racconta che il 16 marzo in una riunione del Consiglio d’Europa dei ministri istruzione assieme al collega ucraino Skharlet si è concordata una collaborazione intensa per la scolarizzazione dei ragazzi, con tutte le modalità possibili a partire da quelle online, e l’aiuto sociale e psicologico necessario. Dunque, si stanno muovendo molte cose.
E non rivelo nulla di segreto a pensare che la prossima nota del Ministero sull’ accoglienza dei ragazzi ucraini ne parlerà.
E’ per noi, quindi, il momento di darci alcuni sfondi pedagogici di riferimento per una buona accoglienza.

Penso ad una originale scuola binaria, di cui cerco di tracciare qui i principali sfondi su cui riflettere:

1. Il più possibile, fin che è possibile
Naturalmente, per quanto si possa fare, non sarà possibile offrire sempre a tutti i ragazzi ucraini accolti nelle nostre scuole ore online con le loro insegnanti in Ucraina. Dipende dalle loro condizioni di guerra, perfino dalla loro sopravvivenza. Da quello che capisco sarà più facile fare didattica della vicinanza dalla classe 5.a in poi. Ma tutte le ore online che si realizzeranno dovranno essere valorizzate, senza paturnie burocratiche su assenza/presenza dell’alunno a scuola. Nel momento online sono a scuola, eccome! Piuttosto sarebbe opportuno connettere a questo impegno il nostro parallelo impegno didattico (il binario) sul quale scorrere vicine le nostre attività. Sarà un’impresa molto interessante, anche se frastagliata.
Importante sarà comunque conoscere i curricoli e l’organizzazione della scuola ucraina, cercando le molte analogie con noi e le differenze. Forse anche imparare reciprocamente dalle differenze, bambini italiani e ucraini che si imparano vicendevolmente. Importante far notare che la presenza online delle colleghe ucraine allevia anche la questione dei mediatori linguistici se si debbano o meno utilizzare come insegnanti. Meglio forse utilizzare le madri rifugiate con i figli in Italia, se di professione e studi insegnanti.

2. Curricolo del doppio binario
Dunque, sulla base dell’online che sarà possibile realizzare, e dei materiali virtuali che i ragazzi ucraini troveranno nei siti a loro dedicati, sarà possibile costruire un curricolo breve in forma di binario. Suggerisco di pensare solo ai prossimi tre mesi, fino a giugno, inutile per adesso andare oltre. Dunque la parte italiana delle attività potrebbe essere di diversi tipi: complementari, di approfondimento, sostitutive, alternative. Banale è l’esempio dell’educazione fisica, che online non è possibile, ma anche delle discipline artistiche e creative. Importante è approfondire la lingua straniera, che può essere utile come veicolo comunicativo universale. Ovviamente il curricolo dovrà essere personalizzato secondo le diverse condizioni di ogni bambino e ragazzo.

3. Sbirciarsi dallo schermo e condividere tutto il possibile
Eppure c’è una questione relazionale e pedagogica che sarebbe utile realizzare. Mi piacerebbe pensare che in un incontro online con il suo ragazzo ucraino, la loro Svetlana e la nostra Maria potessero almeno sbirciarsi e salutarsi. Mi piace pensare che se Maria e Svetlana non hanno una lingua da condividere, la prima faccia dei gesti per far capire alla collega che verso quel bambino noi siamo qui ad aiutarlo e che non lo molleremo mai alla tristezza o alla solitudine. Siamo loro sostituti, ci crediamo. Ma se le due potessero capirsi (es. inglese, ma molte ucraine sanno un po’ di italiano) potrebbe crearsi quel binario pedagogico di scambio e collaborazione con effetti pratici molto interessanti. Una pedagogia dello scambio mutualistico, pieno di umanità.

4. Il binario per i più piccoli
Per i bambini più piccoli, quelli della scuola infanzia e forse anche dei quattro anni di primaria, è possibile che siano meno le occasioni di connessione online. In questo caso sarà importante avere un buon rapporto con le madri per capire i loro figli e conoscere il meglio possibile i curricoli ucraini per realizzare un binario armonico e coerente anche se basato su una sola lingua. In questo caso, importante ancora di più sarà la relazione con i compagni coetanei italiani.

5. Cominciare a pensare l’estate
E poi, forse bisogna pensare presto a come organizzare la loro estate. I ”patti territoriali di comunità” con gli enti locali e le molte esperienze estive presenti nelle nostre città sono esperienze che vanno favorite e sviluppate a partire dalla scuola. Giugno arriva tra poco. Guai a lasciarli soli.
Suggerirei, infine, a non pensare per ora all’ anno scolastico prossimo. Conviene un intervento caldo e positivo per questi mesi, i più difficili. Ma meglio non anticipare troppo decisioni che potrebbero, anche involontariamente, essere premature. Si rischia altrimenti, in buona fede, di relegarli alla psicologia dell’esilio.




A scuola si va come si deve e non come ci pare

di Raimondo Giunta

A scuola, nei rapporti quotidiani, capita che sul modo in cui debbano vestirsi e parlare gli alunni ci possa scappare l’incidente.
Per evitare umilianti controversie e penose campagne di stampa, considerando come si è diventati, credo che debbano essere dettate delle norme precise al riguardo.
Una volta francamente non ce n’era bisogno.
Però bisogna dirlo. A tanti sembra indebito che la scuola stabilisca un minimo di regole sul modo di comportarsi e anche sul modo di vestirsi.
Per alcuni e forse per molti è importante solo che i giovani a scuola ci vadano e ci restino.
Sinite parvulos venire ad me…
E’ un’idea senz’altro accattivante, ma non credo che sia seria.
La scuola è altro rispetto alla vita e lo deve essere proprio per preparare alla vita; una realtà che deve avere le proprie regole: quelle che sembrano essere le più efficaci per mantenere le promesse che fa a chiunque entri dal suo portone d’ingresso.
Si dice in chiesa con i santi e in taverna con i briganti.
Si potrebbe citare Machiavelli che cambiava abito, quando si metteva a leggere e a scrivere.
Questa condiscendenza, ai limiti dell’irresponsabilità, non aiuta i giovani.


Credo che se a scuola trovassero insegnanti capaci di fargli assaggiare giorno per giorno il sapore del sapere, i ragazzi a scuola ci andrebbero volentieri anche con giacca e cravatta.
L’alterità delle regole della scuola rispetto a quelle della famiglia e del gruppo dei pari è condizione per collocarsi nel migliore dei modi rispetto alla responsabilità individuale di crescere e di imparare.
Quand’ero in servizio, ma erano altri tempi, non dettavo regole sull’abbigliamento, anche perché pensavo e credevo che i genitori ci tenessero a insegnare le buone maniere ai propri figlioli e che li osservassero bene e come si deve prima di vederli uscire da casa per andare a scuola.
Esercitavo, però, l’ironia su qualche eccesso degli alunni e anche degli/delle insegnanti.
Si toglievano subito il piacere di stupire con le stranezze piuttosto che con l’impegno e con i risultati.
Non so se oggi funzionerebbe e quando succedono fatti come quelli del liceo romano, ringrazio il Padreterno di essere in pensione.
A distanza di tempo incontro spesso gli alunni che diventati, ormai, genitori mi ringraziano per le scelte che allora facevo da preside.
Perché, prima o poi, anche gli studenti scapestrati diventano grandi e capiscono il senso di quello che prima non volevano accettare.




Dove va il futuro e dove va la scuola

di Stefano Stefanel

La storia ci racconta che dopo il passaggio di Napoleone sulla storia europea ci fu un tentativo molto autorevole e anche molto popolare di rimettere le lancette indietro attraverso il famoso Congresso di Vienna.
L’innovazione napoleonica aveva stravolto l’Europa, ma si pensò di far finta che non ci fosse stata. La pandemia sta finendo (così ci dicono) o, comunque, viene percepita come riconducibile dentro sistemi di convivenza più normali di quelli in cui abbiamo vissuto negli ultimi due anni e, dunque, bisogna ripartire e bisogna farlo tenendo conto di quanto è successo. Il PNRR, la transizione digitale ed ecologica, ma anche l’incredibile guerra in Ucraina dicono che il mondo di domani dovrà essere diverso da quello di ieri e dunque dobbiamo attrezzarci al meglio per capire quale direzione prendere.

In questo scenario ci sono un futuro incerto ma pieno di occasioni, innovazioni necessarie e cambiamenti da cui non si può più tornare indietro. Banalmente, osservo che lo sviluppo del digitale ha portato alla nostra nuova identità (digitale) e lo SPID, piaccia o non piaccia, è il nostro futuro. E anche le battaglie ecologiste, partite con grande clamore prima della pandemia, tornano ora sotto le spoglie di una radicalmente modificata sensibilità ecologica che non viene contestata da nessuno e trova grandi finanziamenti e grandi progetti.

Anche l’idea di formazione sta avendo a livello mondiale una sua enorme mutazione verso saperi nuovi, discipline contaminate, nuovi lavori, nuove occupazioni, nuove sensibilità, nuove opportunità. Sembrava, dunque, che la cifra all’uscita dalla scossa pandemica, superiore per forze e impatto a quella napoleonica, portasse verso un’idea di innovazione entro cui inserire anche il nostro sistema scolastico.

Così qualcuno può essere sconcertato dalla spinta restaurativa e conservatrice che sta pervadendo il mondo della scuola, dove sono tornate alla ribalta parole antiche, che sembravano dover uscire dall’universo di una scuola che vuole recuperare il tempo passato dentro la pandemia. I segnali sono molto chiari e vanno dal ritorno agli esami di stato in cui gli scritti su carta e il nozionismo del colloquio finale spostino il tempo a dieci anni addietro fino alla proposta di reintrodurre il latino alle medie come elemento orientativo tra il liceo classico e il liceo scientifico, quasi che l’istruzione tecnica e professionale fosse un inciampo del destino, da scavalcare con l’enfasi sugli IFTS (cioè i corsi post diploma in alternativa all’università). Oltre a questo, c’è stata la violenta enfasi contro la Didattica a distanza con un’idea di presenza che supera qualsiasi interrogativo su che cosa si va a fare in quella presenza, ma anche un finanziamento cospicuo e disordinato sul digitale che, invece di unificare il sistema, lo ha ancora di più disgregato. È ripartito con grande evidenza il centralismo ministeriale con continui monitoraggi su qualsiasi argomento, piattaforme da compilare quotidianamente con dati su dati che non è chiaro dove confluiscano e perché. Molto spesso si sentono snocciolare sui social e sui media dati tratti da azioni di controllo che hanno avuto esito parziale (dati parziali che portano a decisioni globali). Ha ripreso vigore l’idea della scuola del rigore che boccia molto e che si occuperà non si sa bene come della dispersione in aumento, anzi la dispersione in aumento viene vissuta quasi come il debito pubblico in aumento: un tempo elemento di allarme ora semplice dato statistico. Anche la spinta verso il terzo settore come elemento di aiuto alla scuola rientra in una logica matrigna che spiega all’opinione pubblica come la scuola da sola non è in grado di andare da nessuna parte.

Tutto questo scenario è reso ancora più interessante dal passaggio durante la pandemia da una fiducia iniziale nella dirigenza scolastica, chiamata a fronteggiare un problema immane apparso improvvisamente, alla sua successiva esautorazione da qualunque catena di comando (con il passaggio, ad esempio, di competenza alle prefetture degli orari scolastici), fino alla spinta verso una dirigenza scolastica esecutiva di compiti decisi altrove. Che il mondo della scuola non debba mettere il naso (o il becco) dentro il PNRR pare ormai chiaro a tutti e le due commissioni ministeriali che lavorano sull’argomento con tutti dialogano tranne che col mondo della scuola, nella certezza che da quel mondo non possano venire idee interessanti. Tra l’altro i soldi del PNRR per le scuole stanno dentro i progetti delle Amministrazioni locali, che con molta fretta hanno dovuto tirare fuori dai cassetti vecchi progetti di messa a norma o di demolizione senza una precisa progettualità di area e con le regioni interessate ad altro.

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Analizzando tutto questo si deve però constatare che l’opinione pubblica è attratta da questa restaurazione che tocca il mondo della scuola, quasi che da uno stravolgimento epocale (sia determinato da Napoleone o dal Covid) si esca solo riportando tutto alla vecchia normalità e come se quella che stavamo vivendo prima dell’emergenza lo fosse stata realmente. Però l’innovatore davanti alla restaurazione e ai conservatori e alla loro popolarità qualche domanda sulle sue debolezze se le deve fare. Se le idee in cui chi vuole innovare credeva e crede non hanno alcuna popolarità, se alcune evidenze non sono percepite come tali dalla grande maggioranza dei cittadini qualcosa di problematico nella progettualità innovativa c’è. L’impressione è che l’Italia non voglia combattere due battaglie piuttosto impegnative, che ora appaiono troppo complicate: quella della lotta alla dispersione scolastica e alle povertà educative e quella per un riequilibrio dell’ascensore sociale. Se così è per l’innovatore nella scuola non c’è più molto posto e dunque può essere controproducente spingere in tal senso, quando alla grande maggioranza convince di più una restaurazione di pratiche antiche e comunque ritenute coerenti con quello che abbiamo sempre fatto e abbiamo sempre saputo fare.

E’ uscito in questi giorni a cura di FORUM PA il “FPA – Annual Report 2021” e già nei titoli degli interventi introduttivi c’è un’idea di futuro ineludibile: Coesione, coerenza e costanza nell’innovazione per un’amministrazione al servizio di tutto il paese” (Carlo Mochi Suismondi) e L’allineamento astrale 2022: la nostra ultima chanche (Andrea Rangone). Gran parte di quello che è contenuto nel report non c’è a scuola e la scuola non pare coinvolta in questo enorme processo di innovazione ritenuto indispensabile.

Ma anche il Piano di RiGenerazione scuola, di cui molto si parla indica “i quattro pilastri della transizione ecologica” (Rigenerazione dei saperi, Rigenerazione dei comportamenti, Rigenerazione delle infrastrutture, Rigenerazione delle opportunità) che nulla hanno a che vedere con quello che si sta progettando a scuola (ritorno al latino, esame di stato come ai vecchi tempi, niente didattica digitale se non in presenza e magari solo nelle aule dedicate, struttura cartacea imperante, orari rigidi, saperi legati alle classi di concorso, nuove graduatorie basate sull’anzianità, nessun investimento sulla formazione in ingresso, nessuna obbligatorietà della formazione dei docenti, ecc.).

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Tutto questo sconcerta e merita un pensiero riflessivo non banale, perché è evidente che in futuro non ci sarà lavoro per tutti e ci saranno opportunità solo per alcuni in un mercato del lavoro e della conoscenza che non avrà motivo di combattere le povertà, perché potrà semplicemente “mantenerle” tramite l’assistenza. Nel ritorno al passato io vedo un brutto disegno di esclusione, perché il sapere che conserva è il sapere di chi avrà la possibilità di scegliere se innovare o meno, mentre chi non ha la possibilità di scegliere o innova o è fuori dal mercato.

Sembra quasi che la scuola di massa abbia nel dopo pandemia il compito primario di trovare un’occupazione ai bambini e ai ragazzi nelle ore in cui i genitori lavorano, di dare assistenza al mondo della disabilità, di avviare un percorso di alfabetizzazione che si tenga ancorato alla tradizione per poi lasciare correre una parte della sua gioventù verso i licei e la laurea. Se questo non è vero perché il PNRR, le forze politiche l’opinione pubblica non parlano di Rigenerare tutti i laboratori degli Istituti tecnici e professionali e delle Università? Se non si rigenerano in questo modo le infrastrutture come le si rigenerano? Inoltre, viene il dubbio che il PNRR sulla scuola voglia occuparsi del contenuto e non del contenitore dando per scontato che comunque con il calo delle nascite di contenitori nuovi non abbiamo tanto bisogno ed è sufficiente fare in modo che quelli vecchi migliorino il risparmio energetico e l’ecosostenibilità (se ci riescono).

Credo sia necessario prendere atto che la restaurazione scolastica in atto è molto popolare e che l’innovazione sarà sempre più vista come un lusso inutile che non fornisce reali opportunità agli studenti più forti e non muta il destino di quelli che dalla dispersione scolastica si trasformano in NEET (Neither in Employment or in Education or Training) cioè in coloro che tra i 17 e i 25 anni non studiano e non lavorano (e che sono oltre due milioni). Gettare la spugna e rimandare a un lontano futuro la ripresa di un ascensore sociale che non è mai stato molto popolare, dentro sicurezze che permettono di tornare alle amate conoscenze con tutto il loro seguito di editoria dedicata e classi di concorso amate dai docenti e dai sindacati sembra l’orizzonte più vicino. Insomma, quella che avanza è una restaurazione da prendere molto sul serio in cui i segnali si sommano a dati forniti sempre in maniera incompleta e strumentale con modalità mai organiche ed omogenee. Dura la vita degli innovatori, ma complicato vedere l’innovazione che avanza nella società e la conservazione che si riprende la scuola.




Didattica a distanza e setting fluttuanti

di  Mario Maviglia e Laura Bertocchi

La scenografia nella didattica a distanza (M. Maviglia)

 Uno dei tanti effetti che la pandemia ha avuto in campo scolastico è stato quello di aver prodotto un radicale cambiamento nell’allestimento del setting educativo, intendendo con questo termine “l’insieme delle variabili che definiscono il contesto entro cui si svolge la relazione formativa”[1] (M. Castoldi, 2016) .
Tra queste variabili generalmente vengono ricomprese il tempo, lo spazio, le regole, gli attori, i canali comunicativi, ma anche le forme relazionali. La didattica a distanza ha cambiato le caratteristiche di tali variabili, anche se finora non si è molto approfondito e discusso questo aspetto che pure influenza in modo non secondario l’impresa educativa. Se ad esempio consideriamo le coordinate spazio-temporali si può facilmente constatare che un conto è fare scuola avendo come riferimento un setting strutturato con spazi ben identificabili (aule, laboratori, atelier, palestre ecc.) e dove il “controllo” del docente è ben delineato, un altro è gestire la lezione in spazi virtuali, come nella DaD, dove l’”aula” si scompone in tanti spazi individuali (l’immagine sullo schermo di ogni singolo studente) e la tradizionale scenografia scolastica (fatta di banchi, cattedra, lavagna o LIM, pareti più o meno addobbati, angoli, attrezzature ecc.) risulta completamente trasformata. Peraltro, va sottolineato che mentre nei tradizionali setting d’aula sono i docenti a definire – consapevolmente o meno – l’allestimento della scenografia in modo che sia funzionale al tipo di attività che vi si svolge e agli obiettivi che si vogliono conseguire, nella scenografia dettata dalle contingenze della DaD il “controllo” dei docenti risulta molto più labile e indefinito e comunque fortemente influenzato alla tecnologia.

Un altro aspetto da considerare è che nella “scenografia DaD” entra prepotentemente in campo il contesto familiare dei singoli studenti, sebbene attraverso il particolare e limitato occhio della webcamera.
Di fatto si entra nelle case degli studenti (e gli studenti entrano in quella dell’insegnante, se il collegamento avviene dalla casa di costui), si spia dentro. Questa deformazione dei confini del setting educativo determina problemi del tutto nuovi rispetto alla tradizionale gestione delle attività didattiche.


La variabile tempo, ad esempio, va incontro ad una serie di alterazioni: in situazione di DaD può succedere che non tutti gli studenti riescano a collegarsi alla rete e dunque si va incontro a inevitabili perdite di tempo o comunque a tempi morti. (Ricordiamo che “Il rapporto DESI (Indice di Digitalizzazione dell’Economia e della Società) 2020 della Commissione Europea (…) ci vede posizionati al 25° posto globale nel ranking della digitalizzazione dei paesi dell’Unione Europea (i dati sono riferiti al 2019, perciò ancora 28 paesi)” (Rapporto sulla trasformazione digitale dell’Italia, CENSIS e TIM, 2020[2]).
Non è che nelle situazioni normali non vi siano perdite di tempo, ma mentre in quest’ultime il docente può intervenire direttamente per risolvere eventuali problemi, nella DaD le possibilità di intervento da parte dell’insegnante sono molto più limitate. A ciò va aggiunta la diversa strumentazione tecnologica di cui gli studenti possono usufruire a casa e dunque le differenti possibilità di avere collegamenti ottimali oppure problematici. Non tutti gli studenti utilizzano la banda larga o la fibra per il processo dei dati. Questi aspetti, se non adeguatamente considerati, rischiano di creare difformità nelle possibilità di accesso al servizio scolastico. In fondo in classe la strumentazione didattica è a disposizione di tutti gli alunni; nella situazione di DaD è invece fortemente correlata alla dotazione tecnologica delle famiglie.

Va pure detto che la didattica a distanza, se non adeguatamente gestita, tende ad enfatizzare gli aspetti più trasmissivi dell’insegnamento con un inevitabile scivolamento verso un approccio nozionistico alla didattica. La didattica in presenza non è scevra da questi rischi, ovviamente, ma le specifiche coordinate spazio-temporali della DaD accentuano ancor più questi elementi unidirezionali della comunicazione magistrale. Ci sono ovviamente degli “accorgimenti” che possono attenuare questi aspetti; uno di questi, ad esempio, consiste nell’attivare gli studenti nei giorni precedenti la lezione o l’attività didattica, in modo che possano consultare materiale on line che lo stesso docente fornisce loro o che possono reperire direttamente sulla base delle indicazioni date dall’insegnante (ovviamente in relazione all’età degli alunni). In questo caso la lezione viene “costruita” insieme agli studenti sulla base di quanto hanno capito/trovato sull’argomento. Ancora troppo spesso gli studenti vengono considerati meri destinatari dell’attività didattica, più che protagonisti, e la DaD rischia di relegarli in una dimensione di maggiore passività.

Un ulteriore aspetto va tenuto presente nella scenografia della DaD, sempre in relazione alla gestione dei tempi. Proprio perché gli elementi trasmissivi rischiano di farla da padrone, i tempi di attenzione potrebbero conoscere livelli ancor più bassi di quanto non succeda nelle situazioni scolastiche ordinarie. È pur vero che i ragazzi oggi sono abituati a stare anche molte ore davanti a un computer, ma le forme di utilizzo sono molto diverse di quanto avviene durante la DaD in quanto le loro possibilità di intervento sul palinsesto sono decisamente molto limitate.

Gli aspetti comunicativi (L. Bertocchi)

Possiamo allora chiederci quali strumenti ha il docente in DaD per cercare di coinvolgere gli studenti. Alcuni non sono poi così diversi da quelli utilizzati in presenza.
Partiamo da una constatazione: ogni insegnante è guardato ed ascoltato (si spera!), anche in DaD. Spetta a lui decidere di “operare una messa in scena attiva del proprio corpo”[3] e della propria voce, anziché “essere passivamente esposto agli sguardi”[4] degli studenti. Spetta a lui scegliere di utilizzare consapevolmente gli strumenti che ha a disposizione, cosciente delle reazioni che atteggiamenti e comportamenti possono suscitare.

La voce innanzitutto. È lo strumento professionale per eccellenza, fondamentale per ogni docente, anche quando la didattica si realizza a distanza. Cerchiamo di analizzare in che misura e con quali differenze rispetto alle lezioni che tradizionalmente si tengono in presenza.

L’insegnamento “è essenzialmente fatto di parole”[5]. Il docente comunica in modi diversi e con diversi scopi:[6]

  1. Di controllo: ordina, comanda, tronca i conflitti.
  2. Di imposizione: regola, dispone, moralizza, giudica, informa.
  3. Di facilitazione: chiarisce, mette in evidenza, dimostra, insegna.
  4. Di svolgimento del contenuto: stimola, apprezza, offre aiuto.
  5. Di risposte personali: risponde alle domande, accetta le esperienze personali, interpreta, riconosce i propri errori.
  6. Affettivi positivi: loda, mostra sollecitudine, incoraggia.
  7. Affettivi negativi: ammonisce, rimprovera, accusa, rinvia.

Soffermiamoci quindi sugli aspetti paraverbali, detti anche non verbali, del parlato e che riguardano il modo in cui qualcosa viene detto. Essi “modellano, arricchiscono, completano, a volte modificano”[7] il significato del messaggio, fino al punto di stravolgerlo.  Tra le principali qualità vocali che caratterizzano il tono di un discorso troviamo:

  1. L’altezza: riguarda la frequenza del suono e permette di distinguere una voce acuta da una grave, un tenore da un baritono per esempio.
  2. Il timbro: deriva dall’ampiezza di vibrazioni e permette di riconoscere suoni che hanno la stessa altezza, come una medesima nota suonata da un oboe e da una chitarra rock.
  3. La velocità di eloquio: riguarda il numero di sillabe pronunciate in un determinato lasso di tempo.
  4. Il ritmo: e cioè l’alternanza delle velocità in un discorso.
  5. L’intensità: ci permette di distinguere i suoni deboli da quelli forti.

L’altezza e il timbro ci appartengono per natura e sono difficilmente modificabili. Permettono di distinguere la nostra voce tra mille altre, come una sorta di impronta digitale. Le altre caratteristiche invece, note con il termine di “colore”, oltre a suscitare spesso prevedibili reazioni nell’interlocutore, sono riconosciute come rivelatrici dei sentimenti e delle emozioni di colui che parla.

Vediamo qualche esempio.

Al di là di precise caratteristiche personali e culturali, adattare il ritmo al discorso è molto importante. Un andamento regolare esprime emozioni tranquille, ma rischia di diventare mono-tono, rendendo estremamente difficile mantenere nell’interlocutore un’attenzione costante. Un ritmo irregolare, al contrario, rende emozioni forti e violente e, al contempo, permette di sottolineare i passaggi che riteniamo fondamentali.

Inoltre, poiché anche in DaD è auspicabile che il processo di insegnamento-apprendimento si realizzi in modo collaborativo, l’esperienza ci insegna che, in questa modalità più che in presenza, gli interventi degli studenti vanno sollecitati, poiché “sparire” e nascondersi dietro ad uno schermo è più facile e più frequente che in un’aula scolastica.

Anche i silenzi possono essere ricchi di senso e di significato. Non parlare, dopo aver posto una domanda, permette all’interlocutore di inserirsi nel discorso, dandogli il tempo necessario a formulare una risposta. Il rischio di silenzi prolungati in remoto è però che qualcuno li attribuisca a problemi di connessione. Ecco, in questi casi “riempire” i silenzi con cenni di incoraggiamento e sorrisi può essere una strategia.

Altra caratteristica molto importante nella comunicazione è l’intensità della voce: una voce forte richiama l’attenzione, incita, esorta, ma può anche apparire prevaricatrice; al contrario, una voce troppo bassa rischia di perdersi e di non essere correttamente percepita, soprattutto in DaD, dove i rumori in sottofondo sono diversi e possono interferire con l’adeguata comprensione del messaggio.

D’altro canto, non deve essere sottovalutata la ricchezza comunicativa del linguaggio non verbale. Il contatto fisico – una delle forme più forti di trasmissione di un messaggio, che favorisce l’avvicinamento, anche emotivo, tra le persone – in DaD viene a mancare.

Permangono invece, in tutta la loro potenza comunicativa, altri gesti che – come le parole – rivestono diverse funzioni. Nella comunicazione a mezzo busto le mani possono essere visibili. Tra i gesti principali individuiamo quelli[8]:

  1. Olofrastici: con una sola parola trasmettono un messaggio, come per esempio il gesto “vai via!”
  2. Articolati: indicano un nome o un oggetto, come quando ad esempio puntiamo il dito per indicare una persona.
  3. Iconici: rappresentano immagini.
  4. Arbitrari: che appartengono ad uno specifico linguaggio, come quello dei segni per i sordi.
  5. Codificati: ai quali attribuiamo precisi significati condivisi.

Questi gesti, utilizzati correttamente, arricchiscono ed enfatizzano il discorso.

Anche la mimica facciale gioca un ruolo importante in DaD, ma non solo. Alcune espressioni hanno evidenti funzioni di rinforzo, positivo o negativo, di ciò che viene detto a parole. Questi i più evidenti:

  1. Testa: scuotere la testa dall’alto verso il basso indica approvazione, assenso; muoverla invece da destra verso sinistra mostra disaccordo, dinego; inclinarla da un lato, magari guardando negli occhi l’interlocutore, trasmette attenzione, empatia, propensione all’ascolto.
  2. Occhi: aggrottare le sopracciglia mostra contrarietà, disapprovazione; alzare gli occhi al cielo, magari sbuffando, rivela stizza e irritazione; sollevare un solo sopracciglio indica scetticismo e incredulità; spalancare gli occhi mostra sorpresa o terrore (ma speriamo non sia questo il caso!).
  3. Bocca: abbiamo un sorriso sardonico, beffardo, persino sprezzante quando gli angoli della bocca sono rivolti verso l’alto mentre lo sguardo rimane serio; un sorriso sincero invece mostra approvazione e incoraggiamento; serrare le labbra, magari mordicchiarsele, rivela disagio.

Numerose piattaforme permettono di mettere in evidenza colui che parla e allora lo sguardo e il sorriso diventano fondamentali. Il contattato oculare è possibile anche via web, soprattutto nei momenti in cui -anziché parlare a tutta la classe – si instaura un dialogo collaborativo con un singolo allievo. Generalmente guardare il proprio interlocutore trasmette sensazioni di franchezza, attenzione, partecipazione, incoraggiamento. Se in presenza essere fissati può mettere alcuni studenti a disagio, poiché percepiscono questo atteggiamento come aggressivo o sfidante, ciò raramente succede a distanza, dove il filtro dello schermo attenua le espressioni, rendendole meno nitide. Per questa ragione allora una certa enfatizzazione di alcune caratteristiche può aiutare l’efficacia comunicativa.

Quanto abbiamo presentato sopra sono solo alcuni spunti per sollecitare una prima riflessione su come anche in situazione di DaD è opportuno prestare attenzione agli aspetti scenografici del fare scuola, un fare scuola affatto diverso da quello ordinario e proprio per questo meritevole di essere investigato nella sua diversità. L’aspetto comunicativo riveste, in questo contesto, una particolare importanza considerato che è soprattutto sulla figura dei docenti e degli studenti che si concentra l’attenzione, a differenza della classica situazione d’aula dove gli stimoli percettivi sono molto più variegati. 

NOTE

[1]https://www.iccocchilicciananardi.edu.it/attachments/article/591/Oltre%20la%20metodologia-setting%20organizzativo%20e%20clima%20relazionale.pdf

[2] https://www.operazionerisorgimentodigitale.it/sites/default/files/pdf/20201130%20Rapporto%20sulla%20Trasformazione%20digitale%20dell’Italia%20-%20esteso.pdf

[3] C. Pujade-Renaud (1983), Le corps de l’enseignant dans la classe, ESF, Paris, p. 74

[4] Ibidem

[5] G. Ballanti (1979), Analisi e modificazione del comportamento insegnante, Lisciani e Giunti Editori, Teramo, p. 7

[6] M. Maviglia, L. Bertocchi (2021), L’insegnante e la sua maschera. Teatralità e comunicazione nell’insegnamento, Mondadori, Milano, pp. 58-59

[7] G. De Landsheere, A. Delchambre (1981), I comportamenti non verbali dell’insegnante, Lisciani & Giunti Editori, Teramo, p. 37

[8] I. Poggi (1987), Le parole nella testa. Guida a un’educazione linguistica cognitivista, Il Mulino, Bologna, p. 51




Ripensare la scuola e le sue responsabilità

di Raimondo Giunta

Le polemiche roventi scoppiate sull’alternanza/scuola lavoro, in seguito alla tragica morte di un giovane nel suo ultimo giorno di stage in un’azienda friulana, devono essere colte come una seria occasione per ripensare il rapporto tra il sistema di istruzione e formazione e la società. Una questione che deve partire per forza dalla ricognizione dei compiti e delle responsabilità del sistema scolastico alla luce di ciò che ne costituisce l’identità.

La scuola nel corso della storia progressivamente ha dovuto svolgere tutti i compiti che la società le ha dato di volta in volta per sostituire le agenzie formative che avevano portato a termine la propria missione o che non sono state più in grado di affrontarla: la chiesa, la famiglia, la bottega artigiana, le associazioni di mestiere, etc. . Compiti di cultura e di educazione; compiti di formazione professionale. Una situazione inevitabile che si è posta da sempre come condizione della sua legittimità sociale: non è comprensibile, oggi, l’esistenza di un sistema scolastico al di fuori di questa responsabilità.

Scuola e società fino all’altro ieri hanno avuto un rapporto di reciproca fiducia e di scambio alla pari: si sono sostenute a vicenda assicurando un servizio efficace e con qualche grado di qualità. Il loro sodalizio entra in crisi negli anni in cui lo sviluppo economico, le dimensioni e l’intensità dello sviluppo delle scienze e delle tecnologie creano le condizioni di un distacco sempre più ampio tra esigenze complessive della società e capacità di adeguamento della scuola. Il compito di dare una risposta alle richieste della società non è facoltativo e non può essere disatteso anche se è diventato sempre più difficile poterlo svolgere.

La logica delle riforme, quando ne hanno qualcuna, è quella di superare questa difficoltà per assicurare in mutate condizioni la conservazione del patrimonio culturale, tecnico e professionale di una nazione e la possibilità di preparare le nuove generazioni ad inserirsi nel mondo del lavoro e nella società. E’ stata ed è questa difficoltà che ha spinto a ridisegnare i compiti della formazione professionale come segmento di mediazione e di transizione tra istruzione e mondo del lavoro: non più cenerentola di momenti emergenziali, nè strumento sussidiario e subalterno al sistema scolastico in funzione della risoluzione del problema della dispersione.
Le linee di tendenza delle dinamiche sociali della società della conoscenza, nei limiti in cui sono configurabili, sollecitano ad aprire una nuova fase dei rapporti tra istruzione, formazione professionale, mondo del lavoro per tentare di costruire un circuito permanente di scambi e di servizi lungo tutta la vita, che diano risposte ai problemi di inserimento nella società delle nuove generazioni.
Questo tentativo di grande rilievo sociale impone alcune scelte ineludibili:
a) la costituzione di un sistema formativo integrato, in cui i soggetti che lo compongono abbiano pari dignità e sia possibile il passaggio da un settore all’altro;
b) la creazione delle condizioni per disegnare il sistema formativo che funzioni alla stregua del servizio sanitario: un sistema, cioè, che eroghi prestazioni per tutte le età e in ogni età delle persone.
Le tendenze prima descritte sono state al centro degli sforzi per fare della scuola un’istituzione efficace. Seppure ardui, questi compiti possono essere affrontati in una logica razionale, costante, pragmatica di evoluzione e di cambiamento dell’organizzazione del sistema formativo. Ma alla scuola non si chiede solo questo. Si chiede anche di essere un’istituzione giusta che si preoccupi di rendere migliori i propri alunni. La sfida più difficile, perché deve misurarsi con i mutamenti profondi e radicali del mondo dei valori e del costume, ambito in cui la scuola nel passato si sentiva al riparo di ogni difficoltà. Questi problemi si possono riassumere nella rottura del rapporto famiglia-scuola; nella crisi del concetto e del principio di autorità; nella costituzione di valori individualistici, spesso alternativi alla dimensione comunitaria dei valori repubblicani della Costituzione. Nella fase storica in cui è avvenuta la piena scolarizzazione delle generazioni la crisi della famiglia e di altre agenzie formative, l’incertezza dei valori pubblici costitutivi della convivenza sociale rendono difficile il compito di educare le nuove generazioni, la funzione educativa della scuola. La buona amministrazione del sistema di istruzione e formazione non consente di eludere questa responsabilità e non si riduce alla produzione continua di cosiddette riforme epocali.
E per concludere. Il peso della responsabilità professionale e conoscitiva e quello della responsabilità educativa del sistema di istruzione e formazione ricadono sulle spalle degli insegnanti, che si devono misurare con un’opinione pubblica artatamente ostile, con un’organizzazione che non premia l’impegno e l’innovazione e che si vede ridurre le risorse di cui dovrebbe disporre. La situazione richiede un alto profilo civico e professionale dell’insegnante, ma le scelte concrete dell’amministrazione hanno creato una figura professionale senza autonomia, senza spessore culturale e ai bordi di un vero declassamento sociale. Un rinnovato rapporto della scuola con la società da questi ultimi problemi deve partire e trovare slancio.




Pedagogia della cura ai tempi del Covid

di Raffaele Iosa

E’ il tempo che hai perduto per la tua rosa
che ha fatto la tua rosa così importante
Saint Exupery, il piccolo principe

Ho letto il messaggio di Dario Missaglia, presidente di Proteo,  attorno a questa terribile fase di espansione del COVID e di come la scuola sembri  aver perso il senso pedagogico del suo agire, travolta da aspre discussioni solo sulle  incertezze sanitarie, il caos gestionale, le tifoserie tra “presenza” e “distanza”,  e così via.

Condivido in pieno il suo messaggio per ri-mettere al centro del nostro impegno lo sguardo pedagogico,  che rifletta  su  come stanno i nostri bambini e ragazzi e cosa servirebbe loro  come priorità educativa in questa epoca così drammatica.

Già a settembre 2020 ho condiviso il suo Protocollo Pedagogico, rimasto per molti una vox clamans in deserto, che richiamava ad un diverso impegno per fronteggiare gli effetti psicologici, emotivi, cognitivi  dati da una scuola diventata balbettante, semiaperta o più semichiusa. Raccoglievo commenti del tipo “belle parole, ma oggi il problema è un altro”. Un “altro” che si riduceva, poi, alle sedie a rotelle, o alla Dad come fosse il demonio, scordando che spesso la mitica “presenza” è, seguendo il canone della tradizione,  noiosa aria fritta, distanza fino all’ estraneità.

Ma oggi la situazione educativa, a due anni dall’inizio della pandemia,  è quanto mai peggiorata.
Dunque, è necessario il coraggio di riprendere e rilanciare un pensiero pedagogico.
Rispondo qui alla sua proposta superando d’un colpo  le mie opinioni  su quarantene, mascherine, Dad e così via. Mi soffermo invece sul cuore della scuola rimettendo  al centro la voce pedagogica. Di questo qui scrivo,  anche con alcune proposte operative.

  1. Pedagogia della cura

La relazione educativa è termine generico, registrata nelle norme scolastiche e nei contratti, ma rischia di essere una specie di insalatina di contorno alla recita del dio contenuto/disciplina, per molti  il totem della scuola italiana.  Si sente ancora dire: “a scuola si impara, non si impara a vivere; al vivere ci penserà mamma e babbo o i preti.  Al massimo l’io docente spera di trasmettere le sue simpatie, cioè che l’alunno perfetto assomigli a lui/lei”. Ma non è così.

Proviamo invece ad approfondire in modo più rigoroso: l’evento “scuola” si realizza con una relazione sempre asimmetrica tra adulti e bambini/giovani  che mette insieme certo i contenuti, ma vissuti come eventi irripetibili (di apprendimento e di vita)  entro cui le dimensioni emotive, relazionali,  affettive, di sensibilità e di identità si mescolano concretamente realizzando  lo sviluppo di ogni persona. La stessa pura “trasmissione di contenuti” avviene come un evento didattico carico di senso non solo di esito, che determina o meno interesse, passione, curiosità. Ma c’è di più: la relazione educativa avviene nel tempo reale hic et nunc  della vita di un bambino e di un adolescente, ne riflette quindi le vicende concrete del vivere in un dato momento storico. Questo attuale momento  è, inutile negarlo, del tutto dolorosamente straordinario.
Infine,  c’è una cosa più importante ancora che rende la relazione educativa centrale  nel fare scuola:  l’art. 3 comma 2 della Costituzione quando ci dice che “compito della Repubblica è di rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione della persona umana”.
La rimozione degli ostacoli in pedagogia si chiama “cura dell’altro come sé”. Cura non perché malato o poveretto, ma perché persona e cittadino. Cioè è quell’ “I CARE” che ci ha insegnato don Milano a Barbiana. Che vuol dire concretamente: ”Mi interessi, non ti mollo, faccio di tutto per te, cerco una soluzione se gli ostacoli ti creano guai”.  E’ una scuola seria, non lassista!

Se questo è vero in generale, lo è ancora di più in questa terribile fase COVID nella quale i bambini e i ragazzi vivono oggi eventi inediti, di cui non abbiamo memoria comparativa, dentro una tempesta sociale, sanitaria, ed emotiva a fortissimo impatto individuale e collettivo. Si può insegnare una qualsiasi cosa  senza tenerne conto? Anzi:  come si fa ad apprendere se dentro di noi c’è la tempesta emotiva?

La relazione educativa dunque non è semplicemente confinata da quel generico modo di dire nel profilo del docente come “competenze psico-pedagogiche”, una tra le altre competenze, ma è elemento strutturale e trasversale del lavoro  docente.

  1. La tempesta emotiva dei nostri bambini e ragazzi oggi, e i rischi iatrogeni

Le ricerche di cui scrive Dario sulle crisi emotive dei nostri bambini e ragazzi  sono cospicue:  c’è uno stato diffuso di smarrimento, di stress, di alterità, di incertezza, di solitudine, e soprattutto di incertezza sempre più forte sul domani, anche quello più vicino. Quando finirà questa tempesta?
Questo prolungarsi e  della pandemia aumenta a dismisura le crisi già presenti nel primo anno.
La tempesta produce anche  casi clinici  drammatici. In questi mesi ho seguito e raccolto storie di suicidi e tentati suicidi, di autolesionismo, di isolamento fino al fenomeno kikomori, di anoressia o bulimia. Ma questi casi sono solo la punta di un iceberg molto più vasto sotto la superfice di diversi stati emotivi, spesso più  semplici ma sempre più diffusi e ma comunque duri.

C’è oggi il rischio di pensare che ad ogni “sintomo di dolore”  basti riferirsi al medico o allo psicologo, come se per le sofferenze non servisse la relazione educativa. Il che è paradossale: nel primo periodo del lockdown (primavera 2020) si imparò nei fatti che una Dad che volesse scimmiottare online la lezione tradizionale o la “normalità dell’aula” rischiava due fallimenti: apprendimenti incerti ma anche stati d’animo più tristi, ragazzi  sperduti nella solitudine del video, cui non si chiedeva come stavano nei loro sentimenti, ma di rispondere alle domande curricolari.  Perfino con la buona fede di pensare che se si “evitava” di trattare la condizione esasperata di confinamento questo poteva essere meno doloroso. Insomma una specie di finzione amnesica.  Oggi questa contraddizione  è più importante da considerare, visto il prolungamento di questa fase pandemica “straordinaria”  (intesa come strana) con l’aumento della sofferenza.

Il rischio di una intensa medicalizzazione è elevata.  La scuola con la relazione asimmetrica adulti/ ragazzi e quella tra pari sono invece  “luoghi esistenziali” che alleviano con il   “prendersi cura”  (o sfasciano con la sua mancanza) i tanti  e diversi dolori.  Dobbiamo quindi considerare questi prossimi mesi, così ancora incerti e difficili,  come un periodo in cui lo sguardo pedagogico della cura educativa sia la base del nostro agire,  qualsiasi siano le condizioni di lavoro.

Rischiamo altrimenti  una deriva iatrogena, cioè di etichettare oltre il lecito e il giusto le diverse storie dei nostri ragazzi,  isolandoli nel cerchio della certificazione, della terapia, della “dispensa”, cioè all’assistenzialismo che produce dipendenza e abbassamento delle attese dell’io.
Penso spesso, per confronto,  a come mia mamma e mio papà erano durante la guerra. Avevano tra i 10 e i 15 anni. La guerra è passata dura nelle loro vite. Se un qualche psicologo li avesse visitati  a quei tempi avrebbe trovato molte  patologie. Eppure il dopoguerra fu un  miracolo: una generazione di bambini maltrattati dalle guerre vissero i tanto celebrati “favolosi 30 anni”.

Ci vuole dunque molta attenzione a non catastrofizzare eventi drammatici della vita. Se ne potrebbe uscire anche migliori ,con una maggiore capacità di resilienza davanti alle disavventure. E’ con questo sguardo che la nostra “cura educativa”  deve saper trovare il giusto equilibrio  tra comprendere e sollevare il dolore diffuso nello loro anime, ma anche quella di far leva nelle loro forze interiori, nei loro talenti e passioni,  nel saper dare uno scopo al dopo e al dopodomani.

  1. L’io docente nella relazione ai tempi della pandemia

Quale comportamento docente è più opportuno, in questa fase complicata, per gestire una “cura” educativamente saggia?
Trovo giusto che gli insegnanti no-vax  non insegnino  e non solo per motivi sanitari.  Il nostro paese ha scelto di adottare il principio costituzionale della priorità della salute come interesse pubblico (e quindi il vaccino). Da qui ripartiamo.
Ma ho riscontrato anche la presenza, umanamente comprensibile,   di docenti che si trovano in una fase emotivamente fragile della loro vita. Aver paura non è una colpa.
Mi raccontano a volte  di colleghi  ansiosi,  che emotivamente si isolano in una fisica e psicologica “distanza” relazionale. Penso che avremmo dovuto capire e aiutare questi colleghi.

Ma ora proviamo a precisare alcune caratteristiche di cura educativa che gli insegnanti dovrebbero, a mio avviso,  avere in questa difficile fase. Ne segnalo quattro.

Empatia.

Che, come noto non è simpatia o antipatia. E’ sentire l’altro, fargli capire che lo sentiamo, con discrezione, senza invadenza esagerata. Si può anche chiamare scaffolding, con Bruner. Uno stile relazionale dove si sta dietro non davanti all’altro,  che non si obbliga a parlare o fare, ma si incentiva ad agire, perché lui sa che se cade ci siamo noi dietro  a tirarlo su. E’ per la verità un paradigma di tutta la didattica attivistica, utile sempre, ma in questo periodo necessaria.

Equilibrio

E opportuno avere uno stile relazionale sereno, sobrio, offrendo sicurezza,  evitando eccessi sia di ansia che di superficialità. Non è un periodo facile per nessuno, ma il bambino e il ragazzo devono sentire che l’insegnante è un adulto. E solido.

Creatività e flessibilità

Le diverse e complicate situazioni di lavoro di questi mesi ci obbligano ad avere una maggiore flessibilità nell’organizzazione dell’attività scolastica. Potrebbe anche essere la volta buona di sperimentare  didattiche innovative, e soprattutto evitare che le regole sanitarie impediscano o riducano forme di didattica attiva. Forse serve una riscoperta dell’attivismo,  oggi più importante che mai perché può dare ai ragazzi una più felice pratica di  partecipazione, piuttosto che  essere passivi ascoltatori chiusi nella loro mascherina. Questa è la pedagogia della cura necessaria.

Adattamento

Questa è forse la dote più difficile da spiegare evitando equivoci. La vita a scuola è per forza di cosa diversa dal passato, e giorno per giorno possono cambiare molte cose. Significa per chi ci lavora trovare forme di adattamento positivo e flessibile secondo le diverse avversità. Un eccesso di rigidità e formalismo rende la scuola più dura per tutti, anche per chi insegna.

  1. Proposte per agire, stimoli per costruire il positivo

Ed ora, la parte che più mi interessa approfondire: cosa potremmo fare?
SI aprono sei mesi duri, con poche certezze. Potremmo avere situazioni  varie in vari periodi, dal confinamento  per positività, alla quarantena preventiva, al ricovero ospedaliero, sia per studenti che per insegnanti. Potremmo avere classi strappate a metà tra “presenza” e Dad.

Le ultime decisioni del Governo per la scuola prevedono di fatto un sistema differenziato perfino da classe a classe, cioè  non più il precedente modello del lockdown generalizzato a tutti nello stesso periodo a prescindere dalla  salute  individuale.  Questa è la novità essenziale da cui partire.

Inutile negarlo: una condizione molto difficile da gestire dal punto di vista didattico, che ha bisogno di due atteggiamenti professionali e organizzativi fuori dal canone classico dell’orario scolastico standard uguale per tutti:

la flessibilità didattica, preparandosi  a gestire diverse situazioni, periodi diversi tra loro, condizioni diverse tra gli stessi alunni. Proviamo a rovesciare il dramma in opportunità: potrebbe essere il momento di utilizzare forme di flessibilità inedite che possono perfino essere più gradite e efficaci del rito lineare tradizionale. Finalmente l’autonomia didattica prevista dal DPR 275/99 potrebbe diventare simpatica e certo utile, dopo vent’anni di amnesia e di boicottaggio. Servirebbe ai bambini e ragazzi fare una scuola sui loro tempi, non sul rito lineare settimanale.

l’accomodamento ragionevole. Utilizzo qui un ben termine ripreso dalla Carta dei diritti della persona con disabilità dell’ONU del 2006, allargata a tutti i nostri bambini e ragazzi.      Adattamento è  la capacità di fare istruzione il meglio possibile nelle condizioni  date,  che ci obbligano a mettere al centro i  ragazzi più che le discipline. Ce lo chiede la loro condizione esistenziale, che ha bisogno di  opportunità di apprendere  come lievito di curiosità, coinvolgimento, desiderio,  passione.

            Ragionevole è accettare che questo non è un periodo normale, che non si può ripetere il passato in forme ristrette,. ma che conviene puntare ai saperi e alle esperienze essenziali, non pretendendo quantità ossessive ma conoscenze e competenze fluide e interconnesse.

Partendo da queste due pre-condizioni, presenterò qui alcune proposte per una buona pedagogia della cura  attraverso alcune idee-stimolo, esempi-tipo, senza pretesa di una summa, mettendo insieme una buona cura educativa e una buona ragionevole didattica.
Ovviamente sono schegge di azioni  perché mi fido della fantasia e creatività degli insegnanti, se riacquistano  l’autonomia didattica libera, pur troppo scippata in questi anni.

4.1  Il perdere tempo

I lettori più attenti si saranno chiesti perché ho posto all’inizio una frase del Piccolo Principe.

Si parla della sua relazione con una rosa cui ha dedicato molta cura e attenzione. Il valore sta in quel perdere tempo che, come si sa dalla storia, è stato tempo intenso. Nel  perdere tempo sta la mia prima proposta di cura. Significa preoccuparsi meno del calendario  e più del tempo di cura che si passa parlando, riflettendo, creando comunità di parola e di ascolto tra noi e loro.

E’ evidente che avere cura non è perdere tempo, ma anzi guadagnarlo  nello sviluppo di significati, emozioni, confronto di esperienze, saper connettere eventi ed emozioni. E’ per me una fase essenziale della cura, diversa ovviamente secondo le diverse età. Dare tempo alla parola e al pensiero sui vissuti interiori è in questo momento centrale per una relazione educativa di cura. Non serve a fare una specie di “ricognizione indiretta” dei diversi dolori , ma invece a socializzare i diversi stati e darne una ragione e un senso. Potrebbero nascere molte connessioni anche con i saperi esterni ai ragazzi,  che avrebbero al centro non un certo capitolo di un manuale ma “un interesse” reale dei nostri studenti. Dario Missaglia sostiene che questo è tempo di lavoro, che andrebbe registrato in un diario, e sono proprio d’accordo: non è perdita di tempo, ma guadagno di senso. Un tempo professionale autentico che va riconosciuto.

Il perdere tempo è una suggestione pedagogica per il brutto tempo presente che mi affascina per la sua intrinseca utilità ma anche per il valore solidaristico e civico che produce.

  • Una cura educativa al telefono

Un piccolo suggerimento-stimolo che potrebbe avere diverse varianti e che tocca un tema centrale nella cura: il saper agire verso ogni persona partendo dall’individualità.
Accadrà ancora nei prossimi mesi che i bambini e i ragazzi debbano stare a casa o perché contagiati o perché in quarantena.
Potrebbe quindi essere una buona consuetudine se l’insegnante si fa vivo con una telefonata per salutare il suo studente, sapere come sta, fare due chiacchiere. Ovviamente anche questo  è per me tempo vero di lavoro. Questo contatto diretto e individuale, perfino sorprendente per chi lo riceve,  ha un significato pregnante a fronte di un ragazzino chiuso in casa e pieno di paure. Dà il segno dell’I CARE, dell’ “io ti penso”, del sapere che non sei solo.

Quest’idea me l’ha data un bambino triste di 5.a primaria che ha scritto a maggio 2020 alla maestra un messaggino che mi ha commosso. Scrive così: “Maestra, scusami se ogni tanto ti telefono. Te dici sempre che dobbiamo essere ottimisti. Allora quando  sono nervoso ti chiamo. Sento la tua voce e mi calmo”.  Questo si aspettano i bambini da noi: l’ascolto e la calma.
Se ogni ragazzo chiuso in casa per quarantena ricevesse una telefonata dal suo prof non se la dimentica più. Forse studierà anche più volentieri al ritorno a scuola.
”Sento la tua voce e mi calmo”. La voce capite? Non le tabelline o la storia. Straordinaria lezione di quanto possiamo contare per loro.

  • Lavorare per curricoli adattati e ragionevoli: l’autonomia creativa

E’ probabile che il calendario delle lezioni verrà spesso travolto dalle varie vicissitudini del COVID.  Potrebbero essere assenti anche alcuni insegnanti.
E’ forse giunto il momento  del coraggio della flessibilità curricolare, adattata secondo le diverse condizioni,  ore utili e flessibili secondo la situazione di fatto. Questo non è difficile in una scuola primaria e facilissimo in una dell’infanzia. Ma è ora che ci provino anche le medie e superiori.  Porto qui alcuni esempi da sviluppare. 

  • pratiche di flessibilità organizzativo-didattica

Si potrebbero sperimentare curricoli con didattiche brevi aggregando più ore di una disciplina per settimana.

Si potrebbe lavorare per centri di interesse che coinvolgono più insegnamenti, in cui l’intercambiabilità dei docenti facilita il lavoro, anche con una ricerca degli snodi essenziali.

Si potrebbe lavorare più frequentemente per gruppi laboratoriali, in cui la questione presenza e distanza potrebbe essere adattata a gruppi che condividono un comune lavoro

Più in generale, è opportuno che in questo periodo si utilizzino il più possibile pratiche di didattica attiva,  in forme flessibili. Proprio la cura necessaria ci chiede di dare ai ragazzi opportunità di apprendimento come protagonisti, interagenti,  ricercatori e comunità.   Potrebbero essere moduli interdisciplinari, ma comunque (nel rispetto delle regole) momenti e eventi in cui il ragazzo fa con gli altri, non solo ascolta.

  • Pratiche di metodologica didattica attiva

Ed ora alcuni suggerimenti di carattere metodologico-didattico, tra le molte possibilità, spesso già note. Sono alcune proposte-stimolo nel vasto panorama didattico, che mettono insieme l’innovazione didattica  con una migliore “cura” della fase emotiva e sociale dei nostri ragazzi.

Tutti i suggerimenti qui proposti hanno carattere di attivismo, di comunicazione interpersonale, di ricerca e possono avere adattamenti di grande flessibilità, anche potendo realizzarsi in forme “miste” con ragazzi in presenza e contemporaneamente in Dad.

            Flipped classroom.  Cioè le classi rovesciate, dove i ragazzi si documentano e fanno ricerca su un certo tema prima che se ne parli a scuola. Poi, nell’aula virtuale o fisica, discussione e presentazione da parte dei ragazzi del loro punto di vista, con un lavoro di scaffolding socratico del docente che lievita ed alimenta la discussione   per  giungere ad una consapevolezza comune.

            I brevetti alla Freinet. attività individuali di studio-ricerca autonomamente scelte che ogni ragazzo approfondisce partendo dalle proprie passioni e interessi, che poi presenta nel gruppo di pari, come esperienza di comunicazione orizzontale, effetti di cooperazione,  e auto-valutazione possibile da parte dello studente.  Scrivendo questa proposta, mi sono ricordato della mia antica scuola media (anni 63-66) in cui il prof. faceva un po’ il Freinet, probabilmente non conoscendolo. In geografia in prima ci ha fatto scegliere una regione da far diventare ”nostra”, in seconda uno stato europeo, in terza uno extraeuropeo. Curiosa è la mia scelta: in prima il Friuli VG (terra dei miei nonni), in seconda l’Austria (perchè mio padre era andato a Vienna a veder la finale di coppa campioni Inter – Real Madrid, gol di Mazzola), la terza l’Argentina perché avevo lì uno zio prete salesiano. In tutti e tre gli anni ricordo ricerche appassionate (dai libri alle foto alle cartoline, ecc..), dall’Argentina mio zio mi scrisse una lunga lettera geo-politica e materiale. Nel lavoro d’aula ad ognuno di noi veniva chiesto di presentare “la sua” regione o nazione. Questi tre luoghi geografici mi sono ancora oggi un po’ rimaste nel cuore.

            Freedom writer. Se qualcuno ha visto il film mi capisce: una classe di ragazzi di una zona disperata della California, un’insegnante intelligente  propone loro di scrivere un diario personale con tutte le cose che gli passano nella loro tormentata mente. Ne esce un capolavoro didattico e l’incontro con…Anna Frank e il suo diario. La scrittura come comunicazione e riflessione è aspetto importante dello sviluppo, individuale e collettivo.  Vi possono essere molte varianti che oggi con la tecnologia si possono fare a prescindere dall’aula fisica e dall’orario settimanale. Penso alla corrispondenza scolastico con classi e scuole di altri luoghi. Ma potrebbe essere anche la ripresa del giornalino scolastico, che oggi i computer rendono possibile colorati e ricchi.

            la scrittura collettiva. Più seriamente, amo proporre la scrittura collettiva di don Milani e di Mario Lodi: un lavoro che parte da testi individuali, costruisce con una discussione collettiva un testo comune condiviso. Un’operazione cooperativa di grande efficacia relazionale, e di civismo.

            La cura  tra pari.  In questa fase la relazione con i compagni di classe e di scuola è già di per sé un evento di cura. Dunque, sia che siano a scuola sia che siano a casa, si devono favorire forme di comunicazione, di solidarietà  e di auto-aiuto tra compagni di classe come forma comunitaria  di uscirne insieme. Sarebbe anche un eccellente modo di sostituire quelle cose orrende dette “recuperi”  con pratiche di apprendimento dove ci si aiuta a vicenda.

            Questo è il momento di rovesciare la sventura del COVID con una nuova avventura pedagogica, che non solo aiuti i ragazzi, ma dia anche un senso di cambiamento  positivo per gli insegnanti. Anche loro hanno bisogno di passare dalle isole separate per discipline a comunità realmente educanti, non a parole.

  1. Non dimentichiamo la disabilità

Gli alunni con disabilità hanno pagato i diversi lockdown e le restrizioni legate al COVID molto più di tutti gli altri compagni di classe. Su di loro una pedagogia della cura deve essere ancora più attenta e di adattamento ragionevole.
Nella crisi complessiva dell’inclusione nelle nostre scuole, il COVID ha reso ancora più isolati e soli questi bambini e ragazzi. Sarebbe grave se si tornasse a circolari ministeriali  che rendevano possibile il loro ritorno a scuola “da soli”, tanto per fare badantato,  o magari (se la scuola è buona) con alcuni altri bambini o (peggio) con altri disabili . Cioè l’anticamera delle scuole speciali.
Molte delle proposte-stimolo sulla flessibilità didattica sopra presentate possono facilitare l’accoglienza dei nostri studenti con disabilità, ognuno titolare di un pensiero, di desideri e passioni, ma anche dolori.  Perché l’accoglienza diventi invece un’appartenenza a pieno titolo.
Questi sei mesi sono importanti per costruire  azioni di una nuova gruppalità solidale tra pari. Ne hanno bisogno tutti, anche gli altri.  Perché la solidarietà serve a tutti reciprocamente, aiutare e aiutarsi. Perché, come sempre, sortirne insieme è la Politica.

Qui mi fermo. Non parlo qui del futuro più lontano dei prossimi sei mesi. Mi pare già tanto provare a non perdere o sfasciare la scuola  in questo breve periodo. Breve ma delicatissimo, perché la crisi COVID rischia di lasciare troppi segni  permanenti. E’ adesso l’ora di reagire e di ripensare al pedagogico. La pedagogia della cura è il nostro orizzonte  attuale.




La nuova emergenza Covid: riparare le ferite dell’infanzia e dell’adolescenza volgendo lo sguardo al futuro

di Antonio Valentino

Tra dati di fatto e percezioni fondate

Sulla questione ‘nuova emergenza Covid’, considererei soprattutto i seguenti aspetti:

  1. Il dato di fatto con cui anche la scuola è costretta a confrontarsi in queste settimane – con la variante ‘Omicron’ che impazza – è che l’uscita dal Covid non ci è ancora dato di vederla all’orizzonte, come si pensava fino ad alcune settimane fa grazie alla vaccinazione di massa in atto da mesi.
  2. Comunque la crescita percentuale del contagio nelle ultime due settimane (10-16 e 17-22 gennaio) ha continuato a scendere: vi sono ormai “evidenze certe di una decelerazione della curva epidemica, in linea con quanto osservato in altri Paesi” (Franco Locatelli, Coordinatore del CTS)
  3. È percezione fondata che il contagio con l’ultima variante non sembra comportare i rischi gravissimi (persone in terapia intensiva e esiti letali) delle prime ondate, a seguito delle misure adottate.
  4. Le consapevolezze dell’attuale situazione – a. la convivenza obbligata col virus però depotenziato nei suoi esiti più dolorosi (il riferimento è alla variante ultima, la più contagiosa); b. gli strumenti di difesa dal Covid sempre più disponibili e mirati – è condizione di un diverso sguardo anche sul futuro prossimo del mondo scolastico.

Proviamo, con i ragionamenti che seguono, a riavvolgere il nastro di questa storia degli ultimi due anni con riferimento alla scuola, per individuare qualche direzione di marcia sensata e possibile, per gestire al meglio la fase sulla base dei dati e delle consapevolezze di cui ai punti precedenti.

A tal proposito, è opportuno richiamare in prima battuta che il blocco delle attività didattica in presenza nel 2020 – e l’avvio della Didattica a Distanza (DaD), è stato certamente l’evento tra i più drammatici che il mondo della scuola abbia vissuto dal secondo dopo guerra.

Va però anche detto che la Dad ha limitato in parte i danni di tale blocco sulla vita delle scuole ed ha, tra l’altro, reso evidente, riportandole in primo piano, non solo le inadeguatezze pesanti della scuola sul fronte delle tecnologie informatiche (strumenti e formazione); ma anche e soprattutto ha ridato evidenza, ulteriormente acutizzandole, alle vecchie ferite del sistema, attraverso le molte ricerche, inchieste, articoli e saggi e commenti che, a partire già dalle settimane in cui si concludeva il primo anno scolastico segnato dalla pandemia, hanno alimentato il dibattito sul presente e il futuro della scuola.

Ricerche e dibattiti che in modo generalizzato  esprimevano preoccupazioni estese e profonde ma anche nuove e generalizzate attenzioni e propositi di una ripartenza che non fosse un ritorno al passato pre-pandemia; che non riproducesse cioè le stesse disfunzioni, arretratezze, traumi, ingiustizie del sistema vigente.

Sul fronte studenti si evidenziavano soprattutto – come è noto -, con sottolineature più o meno preoccupate, oltre al peggioramento pressocché generalizzato degli apprendimenti, anche a. l’aumento delle diseguaglianze nel rendimento scolastico e degli abbandoni, come conseguenza delle disparità sociali e  b. la drammaticità degli effetti del lockdown su bambini e adolescenti, in termini di disturbi comportamentali e psicofisici e di difficoltà di concentrazione; sui quali ci ha richiamati recentemente il Presidente di Proteo Fare sapere nazionale, Dario Missaglia[1].

Sul fronte insegnanti, i dati e le testimonianze raccolte riportavano invece in primo piano – assieme all’ impegno complessivamente generoso e generalizzato del mondo della scuola – le carenze di una cultura professionale non attrezzata a fronteggiare situazioni così nuove e impegnative; e non solo per carenze nella gestione mirata degli strumenti informatici.

In quei mesi – si ricorderà – ‘ripartenza’ e ‘riprogettazione’ entravano con nuova forza nel dibattito sulla scuola tanto, da diventarne parole d’ordine particolarmente diffuse.

Dal bisogno diffuso di “ripartenza” alle tendenze al recupero di una ‘normalità’ pre-pandemia

‘Niente sarà più come prima’ – ricordate? – è stato lo slogan più diffuso di quella stagione che ha caratterizzato soprattutto gli ultimi mesi del 2020 e i primi del ’21. Uno slogan che se da una parte sottolineava che non si poteva più far finta di niente rispetto ai mali vecchi e nuovi che venivano riportati in primo piano, dall’altra includeva anche il richiamo alle opportunità, da saper cogliere, che si aprivano con le tecnologie digitali.

In realtà le parole d’ordine prima richiamate, per quanto ripetute con accenti appassionati, non riuscivano però a tradursi in iniziative evidenti di rinnovamento, per ragioni immediatamente comprensibili.

Le incertezze e una certa confusione nella gestione della pandemia soprattutto nella prima parte dell’anno scolastico, assieme alla mancanza di misure di difesa certa dal virus, hanno di fatto determinato situazioni di stop and go, soprattutto nella secondaria, che hanno di fatto impedito di pensare ad altro che non fosse quello di salvare il salvabile. Certamente le scuole si erano attrezzate al meglio, rispetto all’anno precedente, con le tecnologie necessarie; e gli insegnanti avevano imparato a organizzarsi e a utilizzare le nuove dotazioni messe a disposizione.

Per le parole d’ordine dei mesi precedenti non c’era però spazio. Erano state confinate – e lo sono ancora – in uno spazio tutto loro, in attesa di tempi migliori.

Lo stesso Il PNRR, nel quale il nuovo Governo Draghi è stato impegnato negli ultimi mesi dello scorso anno scolastico e che pure prevedeva misure importanti e urgenti per la scuola, ben poco l’ha coinvolto anche sul tema della ‘ripresa’, che pure è parola chiave di quel Piano.

In questi ultimi mesi è sembrata prevalere su più fronti la preoccupazione pressocchè unica di recuperare una normalità che sembra avvicinarsi alle forme di quella pre-pandemia.

Di ripartenza si è parlato sempre di meno in quest’anno scolastico e lo slogan prima ricordato non è più sembrato essere molto ‘popolare’.

E questo, nonostante le scadenze per il rinnovo del POFT e la riscrittura del RAV, previste dal calendario scolastico ’21.’22, che sarebbero potuto / dovuto essere una occasione per interrogarsi sul passato recente e derivarne indicazioni per la riprogettazione dell’offerta formativo del nuovo triennio.

L’interrogativo che verrebbe da porsi, alla luce delle considerazioni con cui si è aperta queta nota (le nuove incertezze portate dalla preoccupante contagiosità della nuova variante, ma anche le consapevolezze nuove sopra richiamate), è se l’attuale situazione generale socio-sanitaria, per quanto ancora problematica, possa giustificare del tutto l’accantonamento – o il rinvio – delle questioni della ‘ripartenza’.

“Niente sarà come prima”. Uno slogan ‘perso’?

Recupero qui, in ordine sparso, dalle cose lette e sentite e scritte di quel periodo, alcuni elementi (questioni, attese, priorità) tra quelli che ancora oggi mi sembrano particolarmente significativi.

Si ricorderà certamente che all’inizio dell’anno scolastico 2020-’21, al centro delle preoccupazioni, soprattutto dell’Amministrazione centrale, c’erano questioni più legate agli effetti della situazione che si stava vivendo: il previsto recupero e sostegno per i percorsi formativi ‘saltati’ – più prosaicamente: le parti di programma non svolte (nel secondo quadrimestre dell’a.s. ’19-‘20).

Ma nel dibattito tra gli addetti ai lavori, frequenti e insistiti erano i richiami ai problemi più legati al funzionamento incerto e preoccupato delle scuole e al carico di ansie, difficoltà relazionali e psicologiche che emergevano nei bambini e nei ragazzi e che chiedevano risposte che non arrivavano.

Mi riferisco

  1. alla necessità di superare, nella professione docente, comportamenti autoreferenziali e individualistici, sempre molto diffusi, e di rendere abituali pratiche cooperative e interazioni e, insieme, cura del contesto (i suoi spazi e loro dotazioni), come condizioni per migliorare la partecipazione degli studenti alla vita della scuola e qualificarne la formazione culturale e sociale;
  2. ad una idea di scuola in grado di coltivare – attraverso misure e riconoscimenti opportuni – la sua autonomia non solo didattica e organizzativa, ma anche ‘di ricerca sperimentazione e sviluppo’ (recupero pieno di quanto prevede l’art 6 del Regolamento del DPR 297/99); e di liberarsi dalla vocazione impiegatizia ancora persistente tra i suoi operatori;
  3. ad una filosofia progettuale, per quanto riguarda il ricorso al digitale, che evidenziasse la necessità di un approccio metodologico volto sia a sviluppare la “capacità di imparare a valutare le potenzialità d’uso, le implicazioni etiche, economiche e sociali delle nuove tecnologie”, sia a favorire “la contaminazione fra strumenti nuovi e vecchi, tra digitale e analogico, senza contrapposizioni ideologiche e con un approccio pragmatico” [3].

Questi soprattutto i termini del dibattito già meno di un anno fa. L’impressione che si ha oggi è che la maggior parte di quelle preoccupazioni e di quei ragionamenti si siano un po’ persi per strada, e che il futuro che si tende a prefigurare in questi ultimi mesi – già prima dello scatenarsi della nuova ondata di contagio – non sembra diverso dal quadro complessivo pre-pandemia, che pure si era giurato di voler cambiare in profondità.

Ci sarebbe da interrogarsi sulle ragioni dell’offuscamento (rimozione?) dei propositi prima richiamati; e se non possono essere liquidate semplicemente con la giustificazione – pure immediatamente  comprensibile – delle difficoltà a gestire le scuole in una situazione in cui la pandemia, che di preoccupazioni, ansia e lavoro aggiuntivo – e quindi stanchezza – ne continua a produrre a iosa.

Ragionando sulle ragioni altre della ‘rimozione’.

A volerci pensare su, si potrebbe dire che a facilitare questo ritorno alla scuola pre-pandemia ci siano alcuni elementi endemici della cultura metodologico-didattica e organizzativa della nostra scuola, che riprenderei sinteticamente così:

  • la prevalenza della lezione fatta di spiegazione-compiti-interrogazione-voti (oggi un po’ in crisi, ma mica poi tanto) e quindi
  • la poca diffusione della diversificazione delle strategie di insegnamento e apprendimento e la scarsa attenzione alla relazione di reciprocità (per quanto necessariamente asimmetrica) nella gestione degli studenti;
  • la non generalizzata attenzione al principio di cura, almeno nei termini in cui andrebbe più efficacemente coltivato;
  • la insufficiente attitudine a diffondere e valorizzare le esperienze più significative che pure nelle scuole si realizzano, senza però (quasi) mai farle diventare patrimonio comune e pratiche diffuse.

A proposito di quest’ultima problematica va evidenziato come essa faccia il paio con la cultura individualistica e autoreferenziale di cui si è detto, che continua ad essere ancora prevalente, e che ha generalmente ignorato:

  1. la dimensione collettiva e sociale del lavoro – e dell’apprendere attraverso il lavoro e le esperienze sul lavoro – ai diversi livelli (si pensi soprattutto alle articolazioni funzionali del collegio: dai consigli di classe/interclasse ai dipartimenti e ai gruppi di progetti o di coordinamento -; ma anche al lavoro d’aula),
  2. l’attitudine al diffondersi, anche solo a titolo sperimentale, delle pratiche più efficaci.

Ma si dovrebbe anche richiamare, per chiarire i fattori che stanno probabilmente contribuendo al ritorno quasi automatico alla situazione scolastica pre-covid, che la cultura professionale del nostro sistema scolastico si è generalmente sviluppata dentro orizzonti culturali e professionali che hanno poco valorizzato e coltivato la ricerca pedagogica e didattico-organizzativa di casa nostra (e questo meriterebbe un discorso a parte soprattutto per quanto riguarda i rapporti difficili e sostanzialmente infruttuosi tra università e mondo scolastico – con poche ma importanti eccezioni). Non solo, ma  ha anche sostanzialmente ignorato la ricerca internazionale; privilegiando, anche nella formazione all’insegnamento, pratiche che hanno preso in ben poca considerazione le varie dimensioni dell’apprendere.

Soprattutto, l’importanza di fare squadra e la modalità situata, collettiva della crescita professionale, come anche l’apprendimento fondato sull’esperienza e la riflessione partecipata, non hanno mai toccato più di tanto la maggior parte delle nostre scuole[4].

Concludendo

A questo punto – se non si vuol dare per scontato che le parole d’ordine della ‘ripartenza’ qui spesso richiamate abbiano definitivamente perso valore e senso,  e non debbano quindi trovar posto neanche in seguito, nell’agenda delle scuole, iniziative  volte a  tenerne viva l’attenzione – c’è da chiedersi in qual modo e con quali prospettive recuperare, sulle tematiche che le considerazioni svolte ripropongono, almeno dentro l’orizzonte dei ‘memoranda’ (dalla relazione all’apprendimento organizzativo, dalle strategie plurali dell’insegnamento alla ricerca-azione …), filoni di ricerca e teorie, più o meno recenti, in grado di offrire stimoli e strumenti per fronteggiarle – tali tematiche – con maggiori cognizioni di causa.

Riguardo specificamente ad esse, si vogliono qui richiamare, in aggiunta alle segnalazioni precedenti e in prima battuta, gli studi e le sperimentazioni, nell’ambito delle teorie sociologiche della conoscenza, sviluppati soprattutto negli Stati Uniti[5]  – a partire indicativamente dagli anni 70 del secolo scorso e proseguiti anche nel nuovo millennio.  Studi e ricerche che hanno coinvolto accademici e ricercatori/studiosi di altri paesi e anche di alcune nostre università[6].

Da sottolineare qui in modo particolare, oltre alle loro innovative elaborazioni sulle problematiche sopra richiamate, i loro contributi sul fronte della formazione nella dimensione ‘situata’, sul campo, in quanto condizione particolarmente stimolante per una cultura professionale degli insegnanti attenta ai bisogni formativi e alle attese di studenti e territorio.

Annotazioni, queste ultime, volte a sottolineare – concludendo – che nessuna eventuale ‘ripartenza’ può’ avere sviluppi importanti e innovativi con la semplice logica del fai da te; senza cioè recuperi e ri-appropriazioni di studi, ricerche, esperienze, che siano promettenti quanto a stimoli, allargamento d’orizzonti e proposte operative.

NOTE

[1] “Ricerche condotte in tutto il mondo e con dovizia di dati e numeri anche in Europa (…), ci dicono che il prolungarsi di questa fase di pandemia, con il suo carico di ansie, paure, limitazioni, riaperture e nuove chiusure, ulteriori richiami di vaccino, incertezza sul futuro, sta producendo ferite gravi e profonde nel mondo dell’infanzia e dell’adolescenza” (D. Missaglia, Allarme rosso, in www.proteofaresarere.itnewsnotizie  13.1.2022). In questo contributo il Presidente nazionale di Proteo Fare Sapere esplicita il concetto di pandemia secondaria che “indica la vasta gamma di conseguenze psicologiche, relazionali, emotive, cognitive che risultano compromesse dal prolungarsi della pandemia. Secondaria (…) non per importanza minore rispetto alla pandemia che produce ricoveri in terapia intensiva e decessi quotidiani…”.

[3] Sulle proposte al riguardo ho condiviso soprattutto l’elaborazione del cap. 3 (Il Digitale “Senza se e senza ma, pp. 50-55) del Rapporto finale del 13 luglio 2020: “Idee e proposte per una scuola che guarda al futuro rapporto finale”, del  Comitato di esperti D.M. 21 aprile 2020. Coordinamento:  Prof.  Patrizio Bianchi. Le parti virgolettate sono state stralciate integralmente dal Rapporto.

[4] Non sono ovviamente le nostre scuole le prime indiziate, perché soprattutto altrove vanno individuate le maggiori responsabilità al riguardo.

[5] I nomi d’obbligo per quanto riguarda questo filone di ricerca sono – come si ricorderà – quelli di Donald Schön e di Chris Argyris, da noi noti non solo in ambito universitario. Ai quali vanno affiancati Jean Lave e Etienne Wenger, i cui contributi di ricerche e studi, nei decenni soprattutto a cavallo del 2000, sono confluiti nella elaborazione del concetto di Comunità di pratica. Nel quale è fondamentale il fattore solidarietà organizzativa tra soggetti che operano nello stesso ambito e si aggregano perché motivati/sollecitati a migliorare la propria pratica professionale. Le pubblicazioni più citate: C. Argyris, D. SchonApprendimento organizzativo, Guerini e Associati, Milano, 1998; A.D. Schön, (1999) Il professionista riflessivo: per una nuova epistemologia della pratica, Bari, Dedalo; Lave, J & WengerL’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti di apprendimento. Erickson, 2006 (prima pubblicazione: Cambridge University Press, 1991); E. Wenger, R. McDermott, & W. M. Snyder, Cultivating Communities of Practice, Coltivare Comunità di Pratica. Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza, guerinNext editore, 2007 (prima pubblicazione: HBS Press 2002).

[6] In campo universitario mi piace ricordare – ma sarebbero ben più numerosi i nomi da citare – soprattutto Francesco De Bartolomeis e Piero Romei; il primo in modo particolare per ‘La Didattica come antipedagogia’ e per la sue pubblicazioni sul lavorare in gruppo; il secondo, per ‘La scuola come Organizzazione’ in cui si sviluppa la nozione di Unità operativa, avvicinabile, con qualche approssimazione, al concetto di ‘Comunità di Pratica’ di Wenger e Lave. Su autonomia e organizzazione della scuola nella prospettiva di comunità di pratica, pubblicazione ancora stimolante: L. Benadusi, R Serpieri, (a cura di), Organizzare la scuola dell’autonomia, Carocci 2000, con contributi, oltre che dei curatori, di M. Tomassini, A.M. Ajello, V. Ghione, ….. Di quegli anni anche, P.G. Ellerani, La costruzione della comunità di apprendimento sostenuta dal Cooperative Learning. Progetto avviato dalla Provincia di Torino – A.s 97-98, proseguito nel 2003-2005.