La scuola che in tanti sognano, ma che non avremo

Stefaneldi Mario Maviglia

Questa campagna elettorale sta facendo sognare tutti gli operatori scolastici: tra aumenti salariali (fino ad arrivare all’equiparazione con la media degli stipendi dei docenti UE), il tempo pieno su tutto il territorio nazionale ed altre importanti promesse, c’è motivo di essere ottimisti rispetto al futuro della scuola italiana.

Non vogliamo offuscare questa immagine idilliaca della scuola che verrà; segnaliamo però che ci sono anche altri problemi che oggi sono sul tappeto e che meriterebbero di essere affrontati. Ne citiamo solo alcuni, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo.

Ormai è invalso l’uso di considerare l’istituzione scolastica come una comunità che interagisce con la più vasta comunità esterna. L’ultimo CCNL Scuola ha introdotto, a questo proposito, l’espressione di “comunità educante” (art. 24). Visione suggestiva e intrigante. Ma perché la scuola possa riconoscersi come “comunità” occorre che vi siano i presupposti, come dire?, materiali perché ciò avvenga. In una comunità, ad esempio, ci si aspetta che i componenti si conoscano tra loro in modo non superficiale, ci si attende che possano interagire al loro interno e condividere idee e progetti; insomma ci si aspetta che vi sia una rete relazionale e comunicativa viva e continua sia in senso orizzontale (tra colleghi) che in senso verticale (con la dirigenza e viceversa). A fronte di ciò, vi sono istituti scolastici che contano più di 2000 studenti ed oltre 200 addetti tra docenti e personale ATA.

È ragionevole pensare che queste strutture si configurino più come dei monstre organizzativi che come comunità. Difficile immaginare, ad esempio, che un dirigente scolastico, in questi contesti, conosca in modo adeguato tutti i docenti dell’istituto, per non parlare degli studenti. Purtroppo le norme attuali fissano solo i numeri minimi per far funzionare un’autonomia scolastica (non meno di 600 alunni ordinariamente e non meno di 400 nelle zone di montagna o piccole isole); non viene fissato un numero massimo. Pensare di fondare “comunità educanti” con numeri così alti è pura utopia in quanto viene a mancare l’elemento caratterizzante una comunità, ossia quello relazionale-comunicativo; al più si può fondare una comunità organizzativa con una chiara definizione dei ruoli e dei poteri dei diversi soggetti coinvolti. La soglia che la legge fissa come livello minimo dovrebbe costituire invece il livello normale di un’istituzione scolastica. I grandi istituti scolastici rispondono ad esigenze di risparmio economico e, tutto sommato, perseguono modelli aziendalistici (ricordano le grandi fabbriche), ma i processi educativi, per essere curati e sviluppati adeguatamente, dovrebbero ispirarsi a modelli umanistici, ossia favorire l’incontro tra le persone e tra queste e la cultura, in tutte le sue poliedriche forme.

La scuola, com’è noto, ha il compito di curare i processi di apprendimento e socializzazione delle giovani generazioni in modo che questi possano inserirsi attivamente nella società e realizzare, per quanto possibile, i loro desideri. Tutto ciò che ruota intorno alla scuola (competenze professionali, aspetti organizzativi, dispositivi amministrativi, risorse strumentali ecc.) dovrebbe essere subordinato o collegato a questo compito prioritario (alla mission della scuola, come spesso viene detto). Se però si analizza come la scuola è andata strutturandosi nel corso di questi ultimi due decenni si può facilmente verificare che questo principio è stato fortemente contraddetto nei fatti. Prendiamo l’aspetto burocratico. Ogni organizzazione non può fare a meno di documentare, attestare, certificare ecc. la propria attività, per vari e molteplici motivi; ma quando la produzione di atti raggiunge livelli assimilabili alla categoria della superfetazione, allora rischia di essere messa in discussione la stessa mission dell’organizzazione stessa, nel senso che ciò che doveva essere visto come un mezzo diventa un fine. È quello che è successo alla scuola e che continua a succedere: un profluvio di norme, circolari, direttive, note, decreti, istruzioni e quant’altro, che soffoca l’attività di docenti e dirigenti. Non è esagerato dire che oggi il docente italiano rischia di essere più paragonabile ad uno scribacchino che a un intellettuale. Non vi è aspetto della funzione docente (e dirigente) che non sia fortemente interessata a produzioni scritte (schede, resoconti, rapporti, verbali, verifiche, progetti, linee operative ecc.), per non parlare dell’insieme di incontri, riunioni, colloqui ecc. che fanno da corollario a tutto ciò. Questa sovrapproduzione burocratica è costantemente sostenuta dallo stesso Ministero (e dalle sue diramazioni periferiche) attraverso una molteplicità di atti (circolari, note, monitoraggi, direttive, ordinanze e altro ancora) che si riversano sulle istituzioni scolastiche il più delle volte senza che vi sia un ritorno degli esiti di quanto richiesto. Questo processo crea inevitabilmente sovrapposizione di norme, spesso in contraddizione tra loro, ponendo i soggetti terminali in situazioni disagevoli di interpretazione ed esegesi delle norme stesse. Forse bisognerebbe riorganizzare in modo sistematico le norme già esistenti (operazione già prevista, per la verità, dalla legge 107/2015, ma finora mai portata a termine) e quindi imporre un limite massimo di atti da produrre nel corso di un anno scolastico. Se le norme nazionali sono chiare e ben sistematizzate, gli interventi amministrativi del Ministero non dovrebbero superare la decina nel corso dell’anno scolastico; ci penseranno le scuole autonome ad organizzare l’attività scolastica sulla base delle norme esistenti. Questo presuppone che il “superiore Ministero” abbandoni definitivamente ogni velleità centralistica e si ponga al servizio dell’autonomia delle scuole.

C’è però da sperare che questo passo indietro del Ministero rispetto alla sovrapproduzione burocratica non venga compensato da analoga sovrapproduzione delle scuole autonome. Talvolta, infatti, sono i dirigenti scolastici a soffrire di comportamenti compulsivi sul piano della produzione di “carte”, attraverso una intensa generazione di norme regolamentari locali, oppure richiedendo ai docenti la produzione/compilazione di una molteplicità di documenti. Una scuola di dimensioni più ridotte probabilmente necessiterebbe di una minore produzione di “carte e scartoffie”. Quello che si vuole sottolineare con decisione è che l’insegnamento dovrebbe essere fortemente sburocratizzato e gli insegnanti non dovrebbero essere oggetto di inutile e snervanti molestie burocratiche; le energie magistrali vanno impiegate prima di tutto e innanzi tutto nella cura dei processi di apprendimento e non nel soddisfare le brame burocratiche dell’ingordo moloch amministrativo, invero mai completamente sazio. Le preoccupazioni dei docenti dovrebbero essere altre: come strutturare la classe in una comunità di apprendimento? Quali strategie mettere in atto nei confronti degli studenti che non apprendono? Come suscitare la motivazione? Quale mediazione didattica appare più indicata per quella specifica classe frequentata da quei particolari alunni? Quali approcci valutativi adottare in termini formativi? Come suscitare e tenere vivo l’interesse degli alunni? Come utilizzare in modo proficuo le tecnologie informatiche nella didattica? Quali approcci sono più efficaci nella gestione della classe o dei gruppi? Come garantire continuità e coerenza tra i diversi interventi dei vari docenti che si alternano in una medesima classe? Come interagire con la realtà esterna senza snaturare la specificità educativa della scuola? Su queste domande prioritariamente, e su altre del medesimo tenore, si dovrebbe indirizzare l’attenzione dei docenti in quanto facilitatori dei processi di apprendimento. Eppure l’impressione che si ricava è che questi problemi siano stati espunti dal dibattito sulla scuola, tutto centrato su ciò che avviene al di fuori dell’aula, come se la professione docente si svolgesse in un altrove contrassegnato dall’assenza della didattica e della pedagogia.

Questo problema appare strettamente intrecciato al cosa insegnare, ossia a ciò che è importante che oggi apprendano gli studenti e soprattutto alle forme di “trasmissione” del sapere. Sul primo punto sembra ormai persa la battaglia condotta per tanti anni e che mirava a snellire ed essenzializzare i curricula delle scuole di ogni ordine e grado. In realtà nel tempo i curricula si sono viepiù ampliati configurandosi di fatto come degli “spezzatini cognitivi” con scarse relazioni tra di loro. Questo processo di secondarizzazione, caratterizzato da nette paratie tra le discipline, ha nel tempo coinvolto anche i gradi iniziali dell’istruzione, talché oggi non vi è una sostanziale differenza tra l’offerta didattica del primo e del secondo ciclo, a parte, evidentemente, i livelli di approfondimento. Parlare di semplificazione del curricolo, attraverso operazioni di apparentamento tra discipline affini o periferiche, oggi appare quasi improponibile anche perché andrebbe a scardinare il meccanismo perverso delle classi di concorso iperspecialistiche. In questa frammentazione sono stati sacrificati, almeno nel primo ciclo, anche i cosiddetti saperi di base, (lingua e matematica, in primo luogo), immolati sull’altare dell’uguaglianza delle discipline, con inevitabili ripercussioni sulle possibilità di padroneggiare tutte le discipline, atteso che una inadeguata alfabetizzazione linguistica pregiudica l’acquisizione delle altre.

Ancor più complesso è il problema della mediazione didattica, ossia di come far arrivare il messaggio agli allievi, e dunque la questione delle strategie e della strumentazione (didattica) che vengono utilizzate. Anche in questo caso sembra che si faccia ancora molta fatica ad uscire dai canoni tradizionali caratterizzati da una comunicazione unidirezionale. In fondo, diciamocelo chiaro, in molte scuole la lezione la fa ancora da padrona. Decenni di insistenza sulla centralità dello studente e sulla cura della personalizzazione si infrangono davanti al totem della sempiterna lezione. Non che questa vada criminalizzata, ma bisognerebbe almeno trovare degli adeguati contrappesi per rendere effettivamente attivo il ruolo dello studente. E oggi esistono delle strategie didattiche che permettono di operare in questa prospettiva. Il lavoro di gruppo o quello cooperativo, ad esempio, appartengono a questa categoria, anche se ancora sono molto poco presenti nel nostro sistema scolastico e in alcuni istituti del tutto ignoti. La didattica laboratoriale, che coniuga l’approfondimento teorico con gli aspetti operativi di una disciplina, è un’altra strategia molto citata ma poco praticata. La responsabilizzazione dello studente con la mobilitazione delle sue capacità elaborative ed operative appare ancora molto poco diffusa nella pratica didattica. Di fatto gli studenti sono quasi sempre destinatari pressoché passivi degli interventi didattici degli insegnanti; sono poche le occasioni in cui possono mettere a frutto, attraverso progetti individuali o di coppia o di gruppo, quanto acquisito in classe. Non che manchino esperienze ispirate a questi principi educativo-didattici, ma nel complesso la didattica appare ancora ingessata, centrata prevalentemente sulla parola dell’insegnante e fortemente disallineata rispetto alle forme contemporanee di conoscenza dei giovani di oggi, immersi in un universo tecnologico dove l’utilizzo dei mezzi informatici ha sostituito le forme tradizionali dell’acquisizione dei dati e delle modalità di comunicazione.

Quanto è stato detto fin qui stenta ad entrare nel dibattito pubblico sulla scuola, ma se non si tengono conto di questi problemi le varie proposte di riforma rischiano di rimanere lettera morta in quanto non riescono ad incidere sulle concrete prassi didattiche. Se non vi è un cambio di paradigma nel modo di fare scuola ogni progetto di riforma è destinato ad arenarsi. Gli stessi interventi che mirano a contrastare le cosiddette “povertà educative” spesso dimenticano di considerare che può essere la stessa scuola ad alimentare ed aggravare queste povertà laddove perpetua forme vetuste di didattica che non riescono a motivare e coinvolgere nei processi di apprendimento la popolazione studentesca più fragile.

Tutto ciò ci porta a fare un’ultima considerazione riguardante il ruolo fondamentale svolto dai docenti nel rinnovamento della didattica e quindi della scuola. Ogni proposta di riforma della scuola non può aspirare ad alcun possibile successo se non trova una classe magistrale in grado di accettare e interpretare le sfide innovative. Lavorare sulle competenze professionali degli insegnanti appare quindi un obiettivo prioritario se non si vogliono perdere importanti opportunità di sviluppo e rinnovamento della scuola. Gli stessi sostanziosi finanziamenti messi in campo dal PNRR rischiano di lasciare inalterato il livello di qualità della scuola se non si interviene sulla formazione dei docenti. Avere insegnanti ben preparati e in grado di modulare gli interventi didattici a seconda delle realtà delle classi, vuol dire investire sulla loro formazione e sui meccanismi di selezione e individuazione di professionisti idonei. Su questo aspetto in Italia si registra una grande fatica a trovare una soluzione adeguata; di fatto ci si accontenta di tenere in piedi un esercito di professionisti malpagato, senza alcun incentivo a migliorare la propria professionalità, con pochissimi controlli sulla qualità del servizio prestato e con una preparazione iniziale alquanto indefinita. Con questi presupposti c’è poco da essere ottimisti.

 

 




Caro futuro Ministro dell’Istruzione, chiunque tu sia…

di Mario Maviglia

(Attenzione! Questo intervento contiene affermazioni a forte impatto emotivo e pertanto se ne sconsiglia la lettura ai soggetti fragili, depressi o impressionabili. Non tenere a portata di mano pistole d’ordinanza o altre armi, anche bianche).
Nel testo il termine “Ministro” viene usato al maschile ma comprende anche il femminile.

Caro futuro Ministro dell’Istruzione, chiunque tu sia (c.t.s.), siamo convinti che sarai scelto non in seguito a incomprensibili e imperscrutabili beghe di potere o per mantenere equilibri politici precari. No! Tutto ciò fa parte della liturgia del passato. Questa volta sarai scelto per le tue acclarate competenze generali e di politica scolastica in particolare. Tu conosci in modo puntuale i problemi che affliggono la scuola ed elaborerai un piano di interventi tempestivo, efficace e definitivo. Finalmente la scuola sarà rivoltata come un calzino e potrà realizzare la sua importante funzione senza intoppi o titubanze, proiettata verso un futuro radioso di sviluppo, crescita e ricchezza.
La scuola sarà posta al centro dell’agenda politica e dell’opinione pubblica e tutti ne riconosceranno il suo insostituibile e fondamentale ruolo che svolge per il bene del Paese. Eccetera…

Ma, prima che tu inizi questa catartica e rivoluzionaria operazione di innovazione e trasformazione, vogliamo richiamare la tua attenzione su alcuni preliminari aspetti della macchina che andrai a dirigere nella convinzione che ciò ti possa tornare utile e possa imprimere una accelerazione ai tuoi disegni riformatori.

Caro futuro Ministro, c.t.s., come sai, quando si intraprende un’impresa complessa come quella che tu stai per iniziare, una delle prime cose da fare è quella di verificare chi sono i propri collaboratori, sia nel micro che nel macro, e quali competenze e motivazioni hanno rispetto al compito.
Per esempio, il tuo apparato amministrativo è in grado di gestire processi ordinari ancorché complessi? (Non rispondere subito, fai prima un respiro, o conta fino a tre).
Alcuni di questi processi sono di una banalità disarmante e ripetitiva, come ad esempio la nomina dei docenti “prima” che inizino le lezioni (o la nomina degli addetti all’amministrazione delle scuole).
Saprai, caro futuro Ministro, c.t.s., che l’anno scolastico, in Italia, inizia il 1° settembre, mentre le lezioni hanno un inizio differenziato a seconda delle Regioni. Queste scadenze si conoscono un anno prima e dunque tutto lascerebbe supporre che si abbia il tempo necessario per organizzare tempestivamente le varie operazioni di trasferimenti, nomine, immissioni in ruolo e quant’altro.
Eppure è quasi commovente vedere come l’apparato amministrativo ogni anno arrivi con l’acqua alla gola per completare le varie operazioni.
Forse sono troppo complesse? Forse ci sono troppi passaggi? Forse non ci sono adeguate competenze gestionali nel management amministrativo?
Il problema in sé non è paragonabile ai tanti di carattere politico che dovrai affrontare, caro futuro Ministro, c.t.s., ma considerato che impatta fortemente sull’organizzazione delle scuole e sulle attese di studenti e famiglie, forse ti conviene rivolgere una certa attenzione e trovare delle soluzioni, come dire?, definitive. (Ricorda, caro futuro Ministro, c.t.s: l’a.s. in Italia inizia il 1° settembre…).

Nel corso della campagna elettorale molti tuoi concorrenti hanno promesso mare e monti (qualcuno anche la collina…). È stato detto che gli stipendi dei docenti italiani devono essere equiparati alla media degli stipendi dei docenti UE. Ma perché fermarsi a questo? Perché non puntare più in alto? Tu vai oltre: prometti stipendi da favola, con aumenti stratosferici per tutti! Tanto gli italiani hanno la memoria corta e dimenticano tutto.
Ricorderai che nel passato qualche uomo politico aveva promesso un milione di posti di lavoro poco prima delle elezioni, qualcun altro l’aumento delle pensioni e la sconfitta della povertà, tanti altri l’abbassamento delle tasse. Gli italiani stanno ancora aspettando. Gli italiani sanno aspettare. E allora tu prometti stipendi d’oro! Non ti costa nulla e ti fa avere un mucchio di voti.

Anche riguardo ad altri aspetti della vita scolastica, non essere banale! Punta in alto!
Basta con le classi pollaio! Al massimo, classi-stalla: sono più grandi e ci stanno più studenti. Nessuno ti può accusare di non aver risolto il problema. Anzi, potrai sempre dire che “la congiuntura economica del momento non consente di affrontare il problema in una prospettiva risolutoria diversa, e pertanto occorre adottare una linea di condotta realistica in sintonia con le specifiche richieste dell’UE… ecc. ecc.” (il riferimento alla UE va sempre bene…).
E poi, parliamoci chiaro, si può fare lezione anche con 50 studenti: chi ha voglia di studiare non si lascia condizionare dal numero. Certo, i tuoi predecessori hanno insistito oltremodo (sulla carta…) sulla necessità di personalizzare i percorsi di apprendimento, ma quelle sono espressioni che si usano perché “lo vuole la UE”, appunto. Fumo negli occhi, insomma.
D’altro canto, saprai, caro futuro Ministro, c.t.s., che la scuola riesce a fare poco o nulla rispetto ai divari iniziali tra gli studenti. E allora perché vuoi intralciare un fenomeno naturale, che fa parte della natura stessa delle cose? Ovviamente non dirai così al personale della scuola, anzi ti sperticherai nel dire che il tuo Ministero “è impegnato nel garantire a tutti gli studenti il diritto allo studio e il successo formativo quale obiettivo prioritario per innalzare il livello culturale della popolazione e la crescita economica del Paese bla bla bla…”.

Non ti vorrai sottrarre, caro futuro Ministro, c.t.s., al fascino discreto del lasciare il segno della tua permanenza a Viale Trastevere 76/A attraverso una epocale riforma della scuola, qualunque cosa essa sia.
I tuoi predecessori hanno amato in modo particolare questo aspetto della loro missione. Tu non puoi essere da meno. La riforma può riguardare l’Esame di Stato della scuola del secondo ciclo (ma è diventato un tema talmente inflazionato che è meglio lasciar perdere…); oppure l’obbligo scolastico (12 anni? 13 anni? Nessuno offre di più?…) oppure le modalità di reclutamento del personale (tema sempre attuale e che dà sempre tante soddisfazioni al Ministro di turno, un po’ meno alle scuole costrette a fare i conti con sistemi di selezione che nella migliore delle ipotesi premiano la velocità di risposta ai quiz o la conoscenza mnemonica dei candidati, molto meno l’attitudine all’insegnamento).
Ma noi ti consigliamo di dedicarti ad una riforma veramente titanica: il riordino dei cicli! Se riuscirai a portarla a termine, una tua gigantografia verrà apposta nel Salone dei Ministri del palazzo ministeriale! Per la verità in questa fase non è tanto importante la realizzazione della riforma, quanto la promessa di realizzarla (ricordati del milione di posti di lavoro di cui sopra…). Per la sua elaborazione puoi fare riferimento agli schemi che di solito utilizzano gli allenatori delle squadre di calcio (1-3-4-4, oppure 4-4-4, oppure 1-4-3-5 ecc.). Qual è il senso di tutto ciò? È lo stesso che consente il funzionamento di scuole con oltre 2000 studenti…

Un aspetto che ricorre puntualmente nel dibattito scolastico è quello dell’autonomia delle scuole. Non ti lasciare ingannare, caro futuro Ministro, c.t.s. È un falso problema.
L’autonomia scolastica in Italia non la vuole quasi nessuno. Sicuramente non il Ministero che andrai a dirigere, che l’ha usata per rifilare alle scuole “autonome” incombenze burocratiche di una certa scocciatura.
Questa finta autonomia ha permesso finora al Ministero che andrai a dirigere di tenere in mano il pallino del gioco, imponendo alle scuole disposizioni, direttive, ordini, istruzioni, precetti, circolari, decreti, note, linee di comportamento e altro ancora.
D’altro canto se le scuole dovessero davvero agire l’autonomia prevista dalle norme (ancorché nella sua dimensione “funzionale”), forse emergerebbe con tutta evidenza l’inutilità di un apparato amministrativo ministeriale (con le sue ramificazioni periferiche) così elefantiaco e pervasivo.
A proposito, caro futuro Ministro, c.t.s., forse saprai che quasi il 27% delle istituzioni scolastiche non ha il DSGA (Direttore Servizi Generali e Amministrativi), con punte che arrivano al 53% (come in Lombardia). Ma tu non farne un problema, non provare ambascia: in fondo, in una situazione così caratterizzata, le scuole possono sperimentare sul campo il concetto di resilienza che va tanto di moda in questo periodo.
Sì, certo, ci sono le scocciature dei PON o quelle legate all’utilizzo dei fondi PNRR, ma stai sicuro che in un modo o nell’altro le scuole se la caveranno anche senza la presenza del DSGA. Sono resilienti, appunto…

Ci sarebbero tante altre cosette da considerare: l’effettiva possibilità per le famiglie di utilizzare i servizi educativi 0-3 anni senza dover accendere un mutuo; l’avvio (non sulla carta) del Sistema integrato 0-6; la valutazione come sistema di controllo dei processi di insegnamento-apprendimento (e non solo come verifica sanzionatoria dei risultati degli studenti); la dialettica tra conoscenza e prassi (evitando l’inciampo fonetico dei PCTO); il superamento, o l’attenuazione, dei divari territoriali in termini di qualità dei risultati. Ma queste sono cose troppo serie per poter essere trattate da un Ministro.

Insomma, caro futuro Ministro, c.t.s., il lavoro che ti attende è tanto, ma siamo sicuri che riuscirai a portarlo avanti con quella perizia e competenza che hai dimostrato in campagna elettorale facendo promesse mirabolanti.
Il volgo ha bisogno di promesse perché ha bisogno di sognare, di immaginare un avvenire migliore, idilliaco e paradisiaco. Tu hai regalato un sogno! Lascia che la realtà viaggi invece sui suoi consueti binari dell’umana miseria e dell’asfittica contingenza del momento.

 

 




Il fantasma delle carriere, ma già oggi ogni scuola ha il suo organigramma

di Antonio Fini

Si sta facendo una gran confusione relativamente alle “carriere” dei docenti e alle figure del cosiddetto “middle managament”.
L’ultima surreale proposta del “docente esperto”, da proclamare tra dieci anni, sta contribuendo massicciamente al caos.

Non servono premi per “esperti”; ciò che serve alla scuola (OGGI, non nel 2032!) è semplicemente (si fa per dire…) la definizione di una normativa che ufficializzi la situazione di fatto.

Basta consultare il sito web di qualsiasi istituto per imbattersi nella voce “Organigramma”.
Ohibò, ma se nella scuola non ci sono altro che docenti, tutti uguali, tutti con le stesse mansioni, a che servirà mai un organigramma?
Al contrario, se nell’organigramma risultano così tante funzioni specializzate, come mai non vi è traccia di tutto ciò nella normativa o, se c’è, risulta tutto precario e fumoso?
Un esempio su tutti: la figura del coordinatore di classe, fondamentale da sempre e ultimamente di più, letteralmente NON ESISTE. Non è prevista da alcuna norma!

Allora, vogliamo liberare una volta per tutte QUESTI FANTASMI dai pietosi lenzuoli (ad esempio l’annuale rito della contrattazione del FIS) che ancora li rendono invisibili?

VAI ALLA PAGINA DEDICATA AL TEMA DEL DOCENTE ESPERTO

Ecco la mia proposta.

Si può definire una struttura base, più o meno valida per tutti gli istituti, con i necessari adattamenti:
– 1-2 vice, con reali poteri di sostituzione temporanea del DS (max 30 giorni continuativi), con incarico pluriennale;
– coordinatori di sede, per le scuole su più plessi, con incarico preferibilmente pluriennale;
– coordinatori dei dipartimenti disciplinari e/o di classi parallele, con incarico pluriennale. Nelle scuole anglosassoni si chiamano “Head of …” e hanno importanti compiti di supporto alla didattica;
– coordinatori di classe, con incarico annuale;
– altre funzioni di staff (ex funzioni strumentali, responsabili dei laboratori, referenti). Va definito un numero massimo per ogni istituto in funzione della complessità, con incarico annuale.

Ognuna di queste figure dovrebbe avere una retribuzione differenziata e un orario di lavoro specifico. Per alcune figure si può prevedere esonero parziale/totale da attività in classe, in base alla complessità dell’istituto.
No FIS, ma stipendio diverso. Il MOF può quindi essere molto ridimensionato e con i relativi risparmi si finanzia, almeno parzialmente sta cosa. Per il resto, si investono i soldini del PNRR, ora, non nel decennio successivo.
Per accedere alle funzioni, si presenta una domanda, esibendo il CV e dimostrando di possedere le necessarie competenze (certo, acquisite anche mediante formazione!, come si fa comunemente in qualsiasi lavoro.
La decisione sugli incarichi è affidata al DS, coadiuvato dal comitato di valutazione, i cui membri, sempre eletti, devono però essere retribuiti.

Ecco, così cominceremmo a somigliare ad un’organizzazione seria. 




Lo specchio e la fotografia: a proposito di autovalutazione

di Franco De Anna

La cultura sociale del nostro Paese è singolarmente percorsa da un costrutto di lutto e mancanza. Il Risorgimento è una “rivoluzione mancata”; la Vittoria è “mutilata”, la Resistenza è “tradita”; la Costituzione è “irrealizzata”…
E’ un costrutto che in parte proviene da una (datata) riflessione storica, ma viene rielaborato nel senso comune dalla vulgata della riproduzione politica e dell’informazione. Non è questa la sede per approfondire, ma certo questo costrutto sembra proiettare l’intera collettività in una dimensione di irrealizzato che, scontando il riflesso del lutto e dell’abbandono della memoria dolorosa, consente alla cultura politica un paio (almeno) di abusati strumenti di comunicazione di massa.
Il primo è il lusso di predicare come sempre nuove (di moda il termine “epocale”) ipotesi riformatrici in realtà già esplorate e di cui si tralascia sia la memoria, sia la necessità di valutarne rigorosamente i fallimenti e le loro ragioni. Ne viene favorito un opportunismo implicito, variamente interpretato, nei caratteri del “nuovismo”.
Il secondo vantaggio politico di tale opportunistica elaborazione è che “tutti sono riformatori”; anzi, quale che sia il colore politico ciascuno proclama la propria autenticità e radicalità riformistica. In questo paese, sostanzialmente e prevalentemente conservatore, nessuno (pochissimi) dichiara di esserlo.

Potremmo offrire a qualche lacaniano, che pare interessato alla scuola, il destro per una riflessione psicanalitica sul rapporto tra tale paradigma della mancanza e dell’irrealizzato, e il fatto che la psicologia collettiva del nostro Paese non abbia mai rielaborato la “patria” (il padre) ma la sua consistenza collettiva sia da “matria”. Il “collettivo nazionale” è in realtà “mai nato”. Un cordone ombelicale mai reciso.

Una dannazione ed una salvezza congiuntamente, operanti nelle fasi più critiche della storia nazionale: ci aiutò ad uscire dalla “morte della patria” nel 1943; ci impedisce di costruire un assennato sistema di welfare di cittadinanza, “paterno e non materno” …
Al precedente elenco dei lutti storici potremmo aggiungere (si parva licet…) l’Autonomia delle Istituzioni scolastiche che è congiuntamente normata da strumenti di legge (dalla 59/97 al Regolamento) e richiamata della Costituzione (titolo V, art. 117).


Autonomia, buona scuola e autovalutazione Il pensiero si innesca inevitabilmente nella lettura comparata de “La buona scuola” laddove parla di autonomia e valutazione, come coppia concettuale fondante della filosofia valutativa proposta, e della Direttiva Ministeriale sulla valutazione, la circolare applicativa corrispondente, i caratteri del protocollo autovalutativo che si preannunciano e in parte sono stati sperimentati. La filosofia enunciata ne “La buona scuola” richiama esplicitamente l’autonomia come valore fondante del “sistema di istruzione”.
A tale valore connette organicamente (e correttamente) le problematiche della responsabilità e della valutazione e quella del sistema di governance (sia pure con il limite del considerare la governance interna: organi collegiali, Dirigenza, partecipazione ecc… ma non la governance esterna. Si tenga conto del “sintomo”, costituito da tale assenza..).
Sembrerebbe cioè riprendere gli elementi di un disegno radicalmente innovativo di destrutturazione e ricostruzione del sistema di istruzione, tentato all’inizio del secolo: il passaggio da un modello piramidale assimilato alla pubblica amministrazione e governato dal diritto amministrativo (produzione di atti…) e percorso da un flusso di comando algoritmico dal centro alla periferia, ad un modello decentrato, ma soprattutto caratterizzato dalla pluralità di “produttori del servizio” operanti in rapporto con gli “utenti” (i cittadini, le comunità locali..), con autonomia operativa e dunque con una duplice responsabilità.
In primo luogo, verso i cittadini portatori non solo di “interessi” ma (soprattutto) di diritti (istruzione come diritto di cittadinanza). E in secondo luogo verso lo Stato come garante sia della fruizione di quel diritto, sia della “uguaglianza” dei cittadini rispetto ad essa. Quel “progetto” aveva riferimenti sia nazionali che internazionali di grande portata: dal decadere dei tradizionali modelli di stato sociale (la crisi fiscale dello Stato che investiva tutto l’Occidente), al nodo specifico costituito dalla necessità della riforma della Pubblica Amministrazione nazionale.

Elementi portanti di quella ipotesi riformatrice sono (sarebbero) i seguenti.

– Il passaggio dallo Stato “produttore” diretto di servizi, a soggetto “regolatore” e “finanziatore” del servizio affidato a una pluralità di “produttori” (le scuole autonome). Da producer a provider. (visto che qualcuno ama il lessico anglosassone). Nella versione “di destra” e “privatistica” da producer a customer ..(vedi ispirazioni politiche Regione Lombardia. Il soggetto pubblico come “committente” di servizi offerti alla popolazione-cliente).

– Compito dello Stato (garante dei diritti di cittadinanza) diviene (diverrebbe) dunque quello di definire le “prestazioni essenziali” dovute a tutti i cittadini. Tale repertorio è di natura “politica e istituzionale” (i diritti) ma anche tecnico e scientifica (il contenuto delle prestazioni e i relativi protocolli validati tecnicamente e scientificamente: i Livelli Essenziali di Prestazione). Vi sono in proposito sentenze della Corte Costituzionale (riferite al Servizio Sanitario Nazionale, ma con buon isomorfismo rispetto alla produzione di servizi alla persona. Non tocca esclusivamente alla politica definire il repertorio ma occorre il contributo della ricerca tecnico scientifica ed il costante adeguamento ad essa.

– Il repertorio delle prestazioni essenziali ha un riflesso anche sul profilo dei costi e dei finanziamenti. I “costi standard” sono infatti il corrispettivo economico delle prestazioni essenziali (la cui determinazione richiede qualche cosa di più che individuare la media dei costi). I costi standard rappresentano il riferimento, l’ancoraggio del meccanismo di finanziamento pubblico, dallo Stato alla pluralità dei produttori autonomi del servizio. Non “l’unico” criterio di finanziamento (si pensi al valore della solidarietà, della compensazione delle differenze e delle diseguaglianze…) ma la “base” del meccanismo di finanziamento pubblico. La combinazione tra finanziamento a costi standard, autonomia organizzativa e produttiva dei servizi, padronanza delle risorse economiche, umane e organizzative, verificata dalla garanzia della qualità del prodotto, rappresenta (rappresenterebbe) la garanzia di una ricerca costante della “migliore efficacia” (ottimizzazione costi/risultati), supportata, oltre che dall’etica pubblica, proprio dalla convenienza della padronanza delle risorse. (se la produzione di un servizio pubblico, a parità di qualità erogata, avviene costi inferiori a quelli standard, si recuperano all’autonomia risorse per lo sviluppo innovativo o per la incentivazione del personale…)

– La decostruzione del modello amministrativo tradizionale mette capo ad un sistema di governance (governo misto) che coinvolge nella determinazione della strategia pubblica e nella sua realizzazione una pluralità di soggetti e responsabilità (nel sistema di istruzione lo Stato e le Regioni, titolari di podestà legislativa e le istituzioni scolastiche autonome titolari di responsabilità “produttiva”, il sistema delle autonomie locali, legato a quello regionale con responsabilità gestionali strutturali, dall’edilizia ai servizi). I vincoli delle prestazioni essenziali, dei costi standard, dei livelli di qualità (valutazione) sono (dovrebbero) comuni e condivisi da tutti i titolari della governance (Che dire, però, dei lavori della Conferenza Unificata sui temi scolastici?!)

– Un corollario di quel modello è rappresentato dal fatto che la preoccupazione della “tenuta sistemica” (appropriata ai compiti dello Stato) deve esprimersi nella capacità di definire con accuratezza i “vincoli essenziali” cui sono tenuti i produttori, in termini di risultati e di rendicontazione, e non (come da modello tradizionale) le specifiche dei processi di produzione. Ai “produttori” vanno indicati i 5 o 6 elementi che “non possono non essere” nelle prestazioni e nei prodotti realizzati, a garanzia della comparabilità di sistema. Sui processi concreti va invece lasciata, ma anche promossa, incentivata, la padronanza e la responsabilità produttiva della scuola autonoma.

– Il carattere dell’operare dello Stato e della Pubblica Amministrazione, si sposta (si sarebbe spostato) dunque, dalla veicolazione del comando amministrativo alla predisposizione di “servizi” (ricerca, documentazione, elaborazione dei repertori di prestazioni essenziali, meccanismi di finanziamento coerenti e promotori di eguaglianza) e, conseguentemente, del servizio di valutazione a garanzia della qualità del “prodotto pubblico”.
Dal comando amministrativo alla produzione di services. Una “rivoluzione” del paradigma amministrativo classico, e del modo di organizzare i servizi del welfare.

Una transizione incompiuta

In questo senso, l’affermazione ne “La buona scuola” della connessione del trinomio autonomia, responsabilità, valutazione, sarebbe assolutamente coerente a quel modello. Ma se ci si provasse a capire che cosa da oltre un quindicennio si è opposto alla sua realizzazione, quali interessi, quali culture, quali meccanismi auto riproduttivi, forse si potrebbero individuare strategie di realizzazione finalizzate e indirizzate su bersagli specifici. Come sono stati governati i meccanismi di finanziamento delle scuole, per assicurare effettiva padronanza delle risorse? Quali regole nella classificazione, gestione, destinazione del personale per dare effettiva padronanza organizzativa alle scuole autonome? Quali interventi sul sistema della Ricerca Educativa e dei suoi Istituti (quelli regionali, chiusi, e i due nazionali INDIRE e INVALSI, per 10 anni in ristrutturazione/transizione..); come si sono riconfigurati i presidi territoriali del MIUR, e il MIUR stesso, (Dipartimenti, direzioni, USR, Uffici territoriali…), per costruire un effettivo sistema di services all’autonomia? Per ciascuna domanda (e sono solo alcune..) vi sarebbe un giudizio valutativo da esplicitare: e non si stratta di un giudizio politico (non solo), ma di una elaborazione tecnico-politica di quanto realizzato in funzione delle strategie dichiarate.

Se l’attività di valutazione non investe prima di tutto la “politica pubblica” e le sue realizzazioni (e, insisto, non si tratta di un mero giudizio politico, ma di corrispondenza tra gli obiettivi dichiarati ed i risultati) sarà difficile abilitare il principio del nesso responsabilità/valutazione sugli altri livelli e contesti (le organizzazioni, il personale, i dirigenti). In merito basterebbe considerare la coerenza con la quale si applica, nella nostra amministrazione, il criterio dello spoil system (ideologicamente rivendicato) alla alta dirigenza amministrativa: funziona in entrata, non in uscita. L’incompiuta sembra un destino nazionale. Ma ha una griglia più o meno complessa di responsabilità sia politiche che tecnico-politiche, e, questione cruciale, culturali. Il vero imputato dell’incompiutezza è la cultura della cosa pubblica. E nel caso dell’autonomia scolastica la sostanziale estraneità e sotterranea opposizione manifestata della Pubblica Amministrazione del MIUR.
Si tratta, come si vede, di un nodo possente e di difficile scioglimento: emerge in evidenza proprio sulla topica della valutazione delle scuole e della sua “premessa e allegato” (così vorrebbe il modello del Regolamento del Sistema Nazionale di Valutazione) costituito dalla autovalutazione.

Lo specchio e la fotografia: il significato dell’autovalutazione

“Evidentemente entrambi avevamo una fame terribile. Il guscio dell’aragosta era già vuoto e il cameriere venne sollecito. Ordinammo altre cose, a sua scelta. Cose leggere, specificammo, e lui annuì con competenza. “Qualche anno fa ho pubblicato un libro di fotografie”, disse Christine.” Era la sequenza di una pellicola, fu stampato molto bene, come piaceva a me, riproduceva anche i denti della pellicola, non aveva didascalie, solo foto. Cominciava con una fotografia che considero la cosa più riuscita della mia carriera, poi gliela manderò se mi lascia il suo indirizzo, era un ingrandimento, la foto riproduceva un giovane negro, solo il busto; una canottiera con una scritta pubblicitaria, un corpo atletico, sul viso l’espressione di un grande sforzo, le mani alzate come in segno di vittoria: sta evidentemente tagliando il traguardo, per esempio i cento metri”. Mi guardò con aria un po’ misteriosa, aspettando una mia interlocuzione.
“Ebbene ?” chiesi io, ”dov’è il mistero?” “La seconda fotografia”, disse lei.
”Era la fotografia per intero. Sulla sinistra c’è un poliziotto vestito da marziano, ha un casco di plexiglas sul viso. Gli stivaletti alti, un moschetto imbracciato, gli occhi feroci sotto la visiera feroce. Sta sparando al negro. E il negro sta scappando a braccia alzate, ma è già morto: un secondo dopo che io facessi clic era già morto”. Non disse altro e continuò a mangiare.”
(Da “Notturno indiano” di Antonio Tabucchi)

Un autorevolissimo interlocutore con ruolo fondamentale nella direzione del MIUR presentando l’autovalutazione delle scuole ad una platea di Dirigenti Scolastici della mia Regione (Marche), all’inizio della “avventura del RAV; con grande, ma forse inconsapevole, efficacia comunicativa disse “Noi vi daremo una fotografia… voi deciderete cosa migliorare… poi nel triennio…”. Si riferiva al fatto che alle scuole vengono resi disponibili dati rielaborati dal “superiore” ministero (da INVALSI…) e che costituiranno il punto di riferimento per l’analisi autovalutativa (le scuole potranno aggiungere proprie informazioni e propri indicatori, ma, nella filosofia del dettato della norma, in chiave “residuale” e aggiuntiva”). I report di informazione su se stesse (la fotografia) verranno da “altri” (il Ministero, l’INVALSI…).
Non desidero discutere sulla pertinenza tecnico scientifica di tali “raccolte di dati” (le contraddizioni anche tecniche sono numerose: basterebbe valutare la chiarezza e trasparenza dei dati di “Scuole in Chiaro” riferiti alle risorse economiche delle scuole e la loro capacità di rendere leggibile un bilancio ad un comune cittadino, che per altro dovrebbe poterlo consultare a livello di singola scuola e probabilmente con maggiori chiavi di lettura e possibilità interpretative). Mi interessa invece il significato profondo, politico e culturale, di tale approccio, esemplare delle diverse concezioni e pratiche dell’autonomia.
Su questo piano maturano le contraddizioni più significative tra le affermazioni ripetute nel confronto politico corrente, relative al nesso autonomia e valutazione, e le proposte fin qui delineate nello specifico del Sistema Nazionale di Valutazione.
Segnalo quali siano, a mio parere, gli elementi più significativi di tale “stratificato” di contraddizioni, ribadendo che la loro origine sta proprio nella criticità di quel nesso autonomia/valutazione che viene a parole enfatizzato.

  1. Viene delineata una concezione (e ovviamente una pratica..) dell’autovalutazione che sposta e attenua significativamente il peso specifico dell’autoanalisi (organizzativa, gestionale, delle strategie e dei risultati) della singola organizzazione.
    Il valore aggiunto dell’impegno alla raccolta sistematica ed analisi dei propri dati, nella scelta degli indicatori, nelle aree da sottoporre a verifica consiste nel fatto che su tale comune impegno di una organizzazione si misura la sua “propensione” al miglioramento.

E’ questo il terreno fondamentale del nesso tra autonomia, responsabilità, valutazione. Nel modello proposto invece, la scuola in autovalutazione dovrà esaminare dati (per altro da essa stessa provenienti) rielaborati dal MIUR stesso (Scuole in Chiaro), risultanti da questionari (rielaborati da INVALSI) che coinvolgono il personale, i genitori e gli studenti, oltre cha i dati relativi alle rilevazioni nazionali sui livelli di apprendimento.
La scuola viene invitata a fare autoanalisi su dati offerti da “fuori”. Apparentemente una comodità: si esenta la scuola da un impegno ed una fatica; si uniformizza il protocollo. In realtà una sostanziale mortificazione della stessa autonomia. Alla scuola non si propone di “guardarsi allo specchio”, e di provarsi a fare i conti con se stessa, opportunamente giovandosi di un “amico critico” capace di valorizzare lo specchio e impedendo il “narciso”. Si propone invece di guardare una sua fotografia, scattata da altri (vedi brano di Tabucchi…)

La preoccupazione “sistemica” di tenuta unitaria e di comparabilità, in un contesto di autonomia valorizzata, richiederebbe esattamente di invertire l’approccio: il “cuore” del processo è l’autoanalisi della singola organizzazione; il ruolo indispensabile della dimensione sistemica si esercita indicando un plafond ristretto e essenziale di rilevazione di dati che “non possono non esserci” a garanzia della comparabilità. L’esame dei modelli di autovalutazione implementati dalle scuole sarebbe allora davvero una misura delle loro “propensione” al miglioramento, e la valutazione esterna avrebbe un campo significativo (certo non esclusivo) sul quale esercitarsi. Io comprendo le esigenze di “unità” sistemica; ma così la garanzia di unità del sistema è fondata sul fatto che tutti si “si mettano in divisa”.. Non è un “inedito”: si pensi al processo con cui si è provveduto ad affrontare e risolvere il problema della trasparenza nei servizi on line delle scuole. Anche in tal caso invece di indicare in modo vincolante le informazioni essenziali da assicurare nei rispettivi siti, si è provveduto a trasformarli in “fotocopie”. L’unità si interpreta come “uniformità”. L’identità si interpreta come “identicità”. Il doppio slittamento semantico è proprio della Pubblica Amministrazione e segnala il modo proprio di declinare l’autonomia.
La realtà però si vendica di questo riduzionismo; e in due modi possibili: vi saranno scuole (quelle che hanno sperimentato modelli e protocolli propri) che si batteranno per ampliare e complessificare, falsificare, la “fotografia” ricevuta. Ve ne saranno altre e probabilmente la maggioranza, che, dopo il primo impatto e fatica, assolveranno all’adempimento, compileranno le schede, rispondendo alle domande, assemblando il report… e lasciando sullo sfondo le dinamiche reali della propria identità di organizzazione, i caratteri della propria cultura organizzativa. E così, fuori bersaglio, andrà proprio l’obiettivo di raggiungere una “valutazione autentica”. Non credo sia questo il senso del lavoro di tanti ricercatori che operano all’INVALSI. Né che ciò sia utile allo stesso decisore amministrativo e politico la cui razionalità decisoria dovrebbe essere alimentata proprio dalla “valutazione autentica”

 

  1. Entro tale schema interpretativo, il significato della rendicontazione sociale slitta. Il suo valore sostanziale è quello di essere una “filosofia” della produzione dei servizi in rapporto alla domanda dei cittadini, della comunità locale di riferimento, e del diritto di cittadinanza concretamente esercitato. Una “filosofia” che si materializza in un documento (Il Bilancio Sociale) che diventa oggetto di tale confronto. La rendicontazione sociale non può limitarsi a coincidere con la mera “pubblicità” degli atti. Nulla da eccepire ovviamente (mancherebbe: le scuole sono Enti Pubblici…e che pubblichino loro bilanci è obbligatorio: magari in modo che siano effettivamente leggibili dai cittadini. Che dite dall’aggregato Z01 per esempio?…Lo spiegherà ai cittadini “Scuole in Chiaro”?). Ma la rendicontazione sociale è altro: l’interfaccia dell’autonomia e della sussidiarietà, nel rapporto con la comunità locale, della verificata congruenza tra l’offerta formativa e la domanda… Anche in tal caso il medesimo “scarto” nella filosofia amministrativa. La tenuta sistemica e le preoccupazioni di comparabilità, in un sistema che vede operare una pluralità di produttori autonomi, richiede che siano rigorosamente definite le informazioni essenziali che non possono non esserci; valorizzando, e rendendo semmai oggetto di valutazione “esterna”, proprio le espressioni autonome che, rispettando ciò che non può non essere detto, sviluppino invece fino in fondo la specificità della propria identità.



Due o tre cose su Invalsi, 100 e lode, competenze e dintorni

di Stefano Stefanel

L’estate porta sempre con sé il dibattito sui risultati Invalsi e sugli esiti degli esami di Stato facendo emergere l’inesistente cultura della valutazione italiana propria dell’opinione pubblica e di troppe componenti della scuola. Inoltre l’estate fa emergere anche la stucchevole polemica sulle competenze, sui voti alti, sulla scuola figlia e vittima del sessantotto. Il tutto visionato da un punto di vista solo liceale, con commentatori che boccerebbero tutti gli studenti che non scelgono di studiare a fondo greco e latino. Poiché, però, l’indignazione non serve a nulla provo qui con “due parole”, ammesso che queste, invece, possano servire in una società e in un mondo che brucia tutto con la velocità di Instagram.

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Con grande voluttà e gran spregio del senso del ridicolo vengono messe in estate in correlazione alcune considerazioni che nascono da contesti diversi:

  • i dati Invalsi fotografano un sud in ritardo rispetto al nord e mostrano i dati Invalsi in linea con le rilevazioni Ocse-Pisa;
  • all’esame finale del secondo ciclo (che qualcuno ancora si ostina a chiamare “maturità” anche se con la maturità delle persone con c’entra nulla) non viene bocciato nessuno o quasi;
  • al sud fioccano 100 e 100 e lode in controtendenza rispetto ai risultati Invalsi.

Alcuni colleghi dirigenti del nord (con una certa malcelata tendenza allo sciacallaggio) si buttano estivamente sui dati per rimarcare la serietà delle scuole del nord di fronte alla leggerezza di quelle del sud. Le scuole del sud, per lo più compostamente, si sottraggono a questo dibattito estivo e poi tutto torna come prima.

Dal punto di vista scientifico (che non interessa praticamente a nessuno) la commistione di questi dati è assurda: al sud ci sono molti studenti molto bravi che giustamente sono licenziati con voti molti alti. Cosa c’entra tutto questo coi dati Invalsi negativi per il sud?
I 100 e 100 e lode mica vengono assegnati agli studenti deboli o debolissimi: quelli al massimo escono dall’esame di stato con 60 o 61, al nord come al sud. La cosa, inoltre, che fa inorridire è che l’argomento è “brandito” da commentatori per lo più in pensione che conoscono la scuola italiana perché sessant’anni fa l’hanno frequentata, o da dirigenti che di solito guidano licei del nord di prestigio frequentati dai migliori studenti in circolazione. Questa caotica sovrapposizione di dati, che non c’entrano tra loro, viene poi trasformata in autorevoli opinioni e tutto non può che fermarsi lì.

Se proprio vogliamo incrociare i due dati sarebbe interessante sapere quanti studenti sia al nord che al sud con valutazioni basse nell’Invalsi hanno preso 100 o 100 e lode all’esame di stato. Non conosco questi dati ma propendo per lo zero per cento o poco più. Se ho ragione allora chiedo di cosa si parla? Confrontare i dati deboli di un sistema scolastico con gli esiti dei migliori studenti dello stesso sistema è segno di una grande incompetenza valutativa, ma anche di smemoratezze assolute: a cominciare da quella basilare che ci fa individuare sempre e dovunque e facilmente il “migliore della classe”. Se una classe è debole al miglior e diamo voti bassi o quelli che si merita? L’esame di stato è dentro la stessa logica: se uno è bravo deve avere il voto alto anche se il contesto in cui studia è modesto.

Decisamente autolesionista è poi la manifestata voluttà con cui molti esprimono il desiderio che all’esame di stato ci siano bocciati. Gli stessi, però, non desidererebbero mai che ci fossero bocciati alle tesi di laurea, perché la fine di un percorso lungo deve essere accompagnata, non messa davanti ad una prova concorsuale. Anche perché abbiamo la dispersione scolastica (leggi soprattutto bocciature) più alta d’Europa. Magari qualche bocciato in più potrebbe esserci, invece, nei concorsi a cattedra, dove partecipano solo i laureati e dove molti commissari sono professori universitari. Ma questo è un altro discorso.

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C’è poi, sempre attiva ma d’estate un po’ di più, la critica al lassismo, ai voti alti, alle competenze da eliminare a favore delle vecchie e amate conoscenze, alla lotta contro le “non cognitive skills”, anche se tutte le aziende e tutta la società della conoscenza quelle cercano dentro un sistema ordinato di “cognitive skills” (che molto spesso sono trascurate proprio dalle università da cui vengono i commentatori più appassionati del sapere trasmissivo, cartaceo, statico).

Le competenze sono nient’altro che il saper utilizzare conoscenze e abilità in ogni contesto e non solo in quello scolastico. Una competenza si poggia sempre su conoscenze e non esiste mai in senso generico. Non si può però valutare una competenza con compiti e interrogazioni standard, perché la sua valutazione è più complessa. Questa idea del “docente trasmettitore” che imbonisce le piccole folle a lui assegnate come un muezzin, forte di una cultura tradizionale, statica e ben definita è alla base della disastrosa situazione italiana (non solo scolastica) dove tutti vogliono parlare e   nessuno vuole ascoltare. Abbiamo tanti conferenzieri e pochi pedagogisti, abbiamo tanti che proclamano e declamano e molti di meno che sanno insegnare. Quando poi si valuta tutto cade nel grigio in cui ogni colore si confonde: si valuta, di solito, attraverso misurazioni standard (compiti e interrogazioni) autodefinite dal docente che poi misura decidendo la scala numerica e che e trasforma i voti attraverso le medie in valutazioni. Percorso completamente sbagliato che limita la conoscenza dei progressi dei migliori, ripete all’infinito le performance dei medi e affossa quelli in difficoltà, che con questi metodi di valutazione sono nella stessa situazione di chi, non sapendo nuotare, viene gettato in acqua con addosso uno zaino di sassi.

Circola poi anche la “malsana” idea che per gli studenti in difficoltà sia necessario far più scuola e non migliorare gli strumenti pedagogici e selezionare i saperi da insegnare, come se il soggetto più debole potesse essere aiutato dall’aumento di carico (quando ero alpino se un mulo era “debole” si diminuiva il suo carico, non lo si aumentava: così, per dire). In questo ci mette del suo anche l’Invalsi che misura i ritardi in periodi (“in certe zone del paese si è indietro di un anno”, ecc.), senza mai curarsi del problema principale, che non è quanto si sta a scuola, ma come si sta a scuola, che non è quanto si studia ma come si studia. Parole al vento, lo so, legate all’altro grande equivoco su cui nessuno vuole mai entrare: i docenti con le loro metodologie ottengono con la gran maggioranza degli studenti risultati sufficienti, buoni o ottimi. Le stesse metodologie con una parte degli studenti producono risultati pessimi. Si assiste però a questa considerazione: se lo studente va bene a scuola è merito del docente, se va male è demerito dello studente. Vecchio vizio italiano: privatizzare i ricavi e socializzare le perdite. Forse sarebbe il caso di capire che le metodologie vincenti per la maggioranza sono spesso quelle che distruggono le potenzialità di apprendimento di una parte di studenti. Quando si parla di personalizzazione nessuno sa bene di cosa si sta parlando e troppi sono legati all’idea della lezione privata. Se però si affacciasse in qualcuno il dubbio per cui è il “mio” metodo che porta sia in alto che in basso, allora forse si comincerebbe a parlare di pedagogia, lasciando perdere l’enfasi sugli errori degli studenti e cominciando seriamente a cercare di correggerli.

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Da questo punto di vista va letta la decisione ministeriale di far cadere su molte scuole 500 milioni di euro (con assegnazioni di circa 250.000 euro a scuola), basandosi in modo piuttosto oscuro sui dati Invalsi e sui dati della dispersione. Se alle scuole che hanno “prodotto” dispersione con metodologie didattiche e valutative sbagliate si danno tanti soldi chi dice che non perpetreranno ulteriori errori aumentando e non diminuendo la dispersione? Perché i soldi non sono vincolati ad un controllo tutto esterno degli esiti e delle situazioni di partenza? Perché chi boccia più studenti deve avere più soldi se non ha mai messo in campo alcuna metodologi attiva e verificabile per diminuire le bocciature?

Qui si annida l’idea italiana che le bocciature (dei figli degli altri ovviamente) siano una buona cosa e che chi non studia non debba andare avanti, senza mai chiedersi perché costui non studia e non si impegna, e perché non ascolta rapito le conferenze di conferenzieri che non troverebbero uno spettatore se si mettessero sul mercato. Direi che è ora di finirla con la pedagogia svilita a conferenza trasmessa in diretta e che si debba andare a fondo del problema degli apprendimenti e del problema ancor maggiore della loro valutazione, senza inventarsi soluzioni progettuali che non esistono, ma analizzando studente per studente i motivi dei suoi fallimenti.

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Insomma, due parole, d’estate.

 

 




Autonomia scolastica: ha ancora senso parlarne?

Stefaneldi Nicola Puttilli

Nel recente dibattito congressuale dell’ANDIS, come sempre interessante e ricco di stimoli, pochi e tutto sommato fuggevoli i richiami all’autonomia scolastica, quasi si trattasse di un argomento minore o appartenente a un passato neanche troppo vicino. Eppure autonomia e dirigenza erano le due idee-forza su cui nacque l’associazione dei dirigenti scolastici più di un trentennio fa.

La sensazione, palpabile anche se mai dichiarata, è quella di un fallimento senza ritorno. A vent’anni di distanza siamo a un simulacro di autonomia, mentre la dirigenza piena, che si misura anche in termini di reddito e che doveva essere conseguita entro pochi mesi (chi ricorda le promesse di Aprea e Bassanini nella campagna elettorale del 2001?) è rimasta una pia illusione a cui nessuno più crede.

E’ del tutto verosimile che la classe politica dell’epoca fosse in buona fede e che, anche con un certo coraggio, credesse veramente in un progetto complessivo di rinnovamento e trasformazione (penso a personaggi come Luigi Berlinguer, De Mauro, gli stessi Aprea e Bassanini, non certamente Gelmini che tagliò le prime significative risorse a ciò destinate).

Quello che è clamorosamente mancato è, come quasi sempre accade nei tentativi di riforma avviati nel nostro Paese, la necessaria continuità e coerenza tra il dettato legislativo e i provvedimenti applicativi, tra il dichiarato e l’agito.

A distanza di oltre un ventennio e osservando attentamente i diversi passaggi che hanno portato al deludente risultato odierno, mi sentirei di individuarne le cause più rilevanti in due fattori del tutto trasversali e che travalicano lo stretto ambito scolastico: l’ipertrofia  burocratica e l’inerzia (o, forse, meglio sarebbe dire l’ignavia) della politica.

Con l’avvento dell’autonomia scolastica le varie burocrazie ministeriali centrali e periferiche avrebbero dovuto concentrarsi sulle funzioni di indirizzo, coordinamento e verifica abbandonando una volta per tutte le pratiche gestionali. Lo stesso smantellamento degli ex provveditorati agli studi portava chiaramente in questa direzione.

Per contro mai come in questi anni abbiamo assistito a una così abnorme proliferazione di norme, regolamenti, criteri applicativi, richieste dati dalle fonti più diverse e incongrue, attribuzione alle scuole di compiti e incombenze improprie, andando ben oltre la felice, pur se datata, locuzione di molestie burocratiche.

La burocrazia scolastica ha scaricato sulle neonate autonomie il proprio “modus operandi” non avendo più la possibilità di agire autonomamente. Anziché trasformarsi in supporto alle autonomie è riuscita un po’ alla volta a trasformare le autonomie in elementi a supporto di se stessa. Operazione che è peraltro riuscita anche nei confronti della politica, basti pensare alla fallimentare, e tutta burocratica, gestione della Legge 107 (quando andammo in audizione presso le commissioni riunite di camera e senato in rappresentanza dell’ANDIS, qualcuno ricordò opportunamente come per scrivere la legge sulla scuola media unica, tanto per dire la più importante dal dopoguerra in materia di istruzione, furono sufficienti poco più di tremila parole, per la 107 non ne sono bastate centomila).

Serve, d’altro canto, ricordare che nei vecchi provveditorati agli studi si celavano rilevanti competenze tecniche in materia di bilancio, sicurezza degli edifici, contenzioso con il personale ecc. di cui le scuole autonome avrebbero potuto efficacemente giovarsi per potersi concentrare sugli aspetti più propriamente formativi della loro progettazione e della loro azione. Competenze che sono andate via via perdendosi, lasciando le relative incombenze alle stesse autonomie, private per contro di personale amministrativo numericamente adeguato e adeguatamente formato.

E’ anche vero che le autonomie scolastiche mai sono state in grado di esprimere un apprezzabile peso politico sulle materie più rilevanti di politica scolastica: organici, entità e distribuzione delle risorse, reclutamento, stato giuridico e carriera del personale per dirne alcune. Temi sui quali si decide la qualità del sistema formativo del Paese e sui quali il potere decisionale e gestionale sta nelle mani della classe politica e della burocrazia scolastica, con prevalenza, spiace dirlo, di quest’ultima.

In verità nei primi anni dell’autonomia ci fu un generoso tentativo di organizzare associazioni territoriali di scuole autonome in grado di interloquire con l’amministrazione scolastica e i poteri locali (ricordo come particolarmente attive le Associazioni del Lazio, del Piemonte, della Sicilia, di Milano), tentativo che ha gradualmente perso forza e significato. Così come sovente sembra venuto meno quel “coraggio dell’autonomia” dei molti dirigenti scolastici che si erano riconosciuti nel motto di Luigi Berlinguer “Tutto ciò che non è esplicitamente vietato è permesso”. Oggi mette una certa malinconia leggere nelle chat dei colleghi, anche con una certa frequenza, frasi come “fermi tutti, aspettiamo le indicazioni ministeriali (o della direzione regionale)”.

La politica, dal canto suo, poco o nulla ha fatto per dare corpo e vita all’autonomia scolastica. Niente di quanto previsto dal complesso quadro normativo di fine/inizio secolo è stato compiutamente realizzato: in più di vent’anni non si è stati in grado di procedere alla definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione, fondamento per la progettazione delle autonomie scolastiche ed elementi imprescindibili in chiave di elaborazione e di equità per le politiche scolastiche nazionali e per le previste autonomie regionali. Irrisolta è rimasta la questione centrale della governance, una volta aboliti i provveditorati agli studi mai sono stati definiti con certezza normativa ruoli e funzioni delle direzioni scolastiche regionali anche in relazione alle autonomie scolastiche e ai poteri locali ancora in attesa, a loro volta e dopo tanto parlare di autonomie più o meno differenziate, di conoscere in via definitiva i rispettivi compiti e prerogative.

Logica avrebbe voluto che all’avvento dell’autonomia e della dirigenza avesse fatto seguito una revisione di tutta l’impostazione relativa agli organi collegiali nati in epoca e per esigenze del tutto diverse, così come è unanimemente riconosciuto che una struttura complessa come le attuali autonomie scolastiche non può funzionare efficacemente con un unico organo di vertice e senza posizioni intermedie stabili e riconosciute (esemplari in questo senso le ricerche del prof. Paletta, sostenute anche dall’ANDIS, ma, anche in questo caso, nulla si muove).

A proposito di complessità è utile ricordare che il numero di alunni (e di conseguenza delle unità di personale) per autonomia scolastica è cresciuto a dismisura nell’ultimo decennio, a seguito di processi di dimensionamento piuttosto dissennati, rendendone ulteriormente difficoltosa la gestione. In tale contesto appare di particolare interesse la vicenda degli istituti comprensivi che, nel segmento di base, hanno di fatto soppiantato direzioni didattiche e scuole medie e in cui convivono docenti con orari, carichi di lavoro e retribuzioni diverse. Anche in questo caso le più che legittime esigenze di omogeneizzazione di stato giuridico e trattamento retributivo sono state completamente ignorate e disattese.

Ipertrofia burocratica e immobilismo della politica (nei confronti della scuola in modo del tutto particolare, del resto chi si è permesso di toccare i fili negli ultimi trent’anni è rimasto fulminato) sono ostacoli giganteschi e quasi insormontabili. Eppure, prima o poi, bisognerà provare ad abbatterli. In caso contrario non solo autonomia e dirigenza resteranno a metà del guado, ma sarà  verosimilmente compromesso ogni possibile processo di rinnovamento della nostra scuola, progetti e risorse del PNRR compresi.

 

 

 

 




Le scuole parallele

di Giovanni Fioravanti

Non c’è niente di più costituzionale dell’istruzione per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, eccetera, eccetera. È l’istruzione, dunque, che può fare la differenza. Eppure, nonostante il ministero dell’istruzione, di istruzione si parla poco nel nostro paese, come se l’istruzione fosse un accidente e su tutto dovesse prevalere l’educazione, che resta termine ambiguo e non identificato.

Lo Stato, invece, una sua idea di istruzione ce l’ha, avendo per dettato costituzionale (art. 117, com.1, lett. n) legislazione esclusiva relativamente alle norme generali dell’istruzione. Questa idea è addirittura prescrittiva ed organicamente sancita dalle Indicazioni Nazionali relative al Primo Ciclo e al Secondo Ciclo dell’Istruzione.

Per fare solo un esempio il nostro Stato ritiene prescrittivo che al termine del primo ciclo di istruzione le nostre ragazze e i nostri ragazzi, in uscita dalla terza media, siano in grado di leggere testi letterari di vario tipo (narrativi, poetici, teatrali), di scrivere correttamente testi di tipo diverso (narrativo, descrittivo, espositivo, regolativo, argomentativo) adeguati a situazione, argomento, scopo, destinatario. Di produrre testi multimediali, utilizzando in modo efficace l’accostamento dei linguaggi verbali con quelli iconici e sonori.
Di padroneggiare e applicare in situazioni diverse le conoscenze fondamentali relative al lessico, alla morfologia, all’organizzazione logico-sintattica della frase semplice e complessa, ai connettivi testuali; di utilizzare le conoscenze metalinguistiche per comprendere con maggior precisione i significati dei testi e per correggere i propri scritti.

È tutto scritto nei Traguardi per lo sviluppo delle competenze al termine della scuola secondaria di primo grado.

Se non basta, sempre a mo’ di esempio, prendiamo le Indicazioni Nazionali  per i Licei, dopo tredici anni di scuola. Ci sta scritto, caso mai qualcuno non le avesse mai lette, che “Al termine del percorso liceale lo studente padroneggia la lingua italiana: è in grado di esprimersi, in forma scritta e orale, con chiarezza e proprietà, variando – a seconda dei diversi contesti e scopi – l’uso personale della lingua; di compiere operazioni fondamentali, quali riassumere e parafrasare un testo dato, organizzare e motivare un ragionamento; di illustrare e interpretare in termini essenziali un fenomeno storico, culturale, scientifico.

L’osservazione sistematica delle strutture linguistiche consente allo studente di affrontare testi anche complessi, presenti in situazioni di studio o di lavoro. A questo scopo si serve anche di strumenti forniti da una riflessione metalinguistica basata sul ragionamento circa le funzioni dei diversi livelli (ortografico, interpuntivo, morfosintattico, lessicale-semantico, testuale) nella costruzione ordinata del discorso.”

Se qualcuno ha un’idea di qualità dell’istruzione migliore si faccia avanti. Per il momento questa è la qualità che lo Stato legislatore esige dalle sue scuole, e a me sembra di tutto rispetto. Tralascio le competenze matematiche per non appesantire il lettore.

Allora viene da chiedersi come mai sia possibile che al termine di un ciclo scolastico durato 13 anni, non raggiungono un livello accettabile di competenze, definito in ambito internazionale come livello 3, il 51% dei diciannovenni italiani in matematica e il 44% in lettura, con percentuali che sfiorano il 70% in alcune regioni del Sud per quanto riguarda la matematica.

Lo Stato è prescrittivo in materia di competenze e di livelli di apprendimento da raggiungere, ma poi come ci si arriva è affare dell’autonomia scolastica (quella del DPR n.275 dell’8marzo 1999) e della libertà di insegnamento riconosciuta ai docenti dall’articolo 33 della Costituzione.

Lo Stato avvisa che le sue sono “Indicazioni”, dunque non “Programmi”, perché lo Stato fissa i traguardi ma non i percorsi, lo Stato non ha alcun modello didattico-pedagogico da dettare. La strada che porta all’istruzione di qualità, ai livelli di apprendimento è lastricata di sperimentazione, di scambio di esperienze metodologiche, del ruolo dei docenti e delle autonomie scolastiche nella scelta delle strategie e delle metodologie più appropriate a raggiungere il successo formativo.

Nel 2013 l’indagine Talis (Teaching and Learning International Survey), incentrata sull’analisi degli ambienti di apprendimento, metteva in luce come, a giudizio degli stessi docenti intervistati, l’Italia sia il paese dove è maggiormente diffusa la strategia didattica trasmissiva, nella quale lo studente ha quasi sempre un atteggiamento passivo, il “vaso da riempire” di pedagogica memoria.

Ancora più negativi i risultati relativi alla capacità degli insegnanti di personalizzare le pratiche di insegnamento, prestando attenzione alle differenze fra gli studenti e sostenendo i loro bisogni emotivi: quasi l’80% dei docenti osservati non compie alcuno sforzo di adattare le attività in classe alle diverse esigenze degli studenti.

Emerge un’organizzazione dell’insegnamento “blindata”, in cui la maggior parte dei docenti è più preoccupata di garantire una trasmissione di contenuti che di sviluppare l’autonomia nell’apprendimento dei ragazzi.

Da un lato l’Istruzione normata sancita dalle Indicazioni dello Stato, dall’altro l’istruzione reale praticata quotidianamente nel rumore d’aula.

Due scuole parallele che non si incontrato. L’una disegnata dal legislatore, l’altra che si trascina pigramente, perché si è fatto sempre così, si faceva prima quando si sedeva dietro i banchi, si fa ora che si siede dietro la cattedra. Un modo di insegnare che ha avuto i suoi rinforzi negli anni di frequenza dell’Università. Semmai non si sono neppure mai lette le Indicazioni Nazionali relative al grado di scuola in cui si insegna, preferendo seguire i libri di testo e le guide didattiche.

Non è la scuola progressista che ha aumentato le disparità, ma la convinzione dura a morire che insegnare corrisponda alla propria idea di istruzione, costruita sulla base della propria esperienza scolastica. Se è andata bene per me perché non dovrebbe andare bene anche per gli altri. Così nel nostro paese si fa scuola a prescindere dalle scelte del legislatore destinate a cadere nel vuoto delle nostre aule.

Indicazioni nazionali e Autonomia scolastica sono le strutture portanti del nostro sistema formativo, entrambe sono il prodotto della migliore riflessione  e ricerca nell’ambito delle scienze dell’educazione e in campo amministrativo che questo paese abbia saputo produrre. Costituiscono la fortezza Bastiani da difendere e da realizzare. Questi sono i bastioni su cui fondare la lotta contro la povertà educativa e gli impegni presi con il PNRR, dalla formazione dei docenti all’edilizia scolastica.