Investire sulle Comunità professionali nelle istituzioni scolastiche. Condizioni e approccio.

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Antonio Valentino

La domanda delle Scuole in questa fase difficile e impegnativa è volta ovviamente a come fare al meglio la propria parte (ed essere aiutata a farla). Ma grande è anche il bisogno di orientamento e sostegno di fronte alle sfide importanti con cui sarà gioco forza misurarsi. Tra queste, in primis, la progettazione e le azioni per il contrasto alla dispersione scolastica e per la riduzione dei divari territoriali, previste dal PNRR, assieme alla predisposizione della Rendicontazione sociale e del RAV per l’aggiornamento del PTOF: che richiederanno molto probabilmente ripensamenti di non poco conto sull’offerta formativa e le strategie per darle gambe.

1.       Esperienze di Comunità Professionale (CP) durante la pandemia

Da considerare e sottolineare – delle scuole considerate in questa ricerca – le caratteristiche rilevate nel loro funzionamento durante la pandemia, sotto il profilo relazionale e organizzativo; caratteristiche così sintetizzabili:

  • forte coinvolgimento degli insegnanti come collettivo;
  • promozione e sostegno di  pratiche collaborative
  • la cura degli ambienti di apprendimento e l’attenzione al modello organizzativo, attraverso la valorizzazione delle figure di coordinamento delle diverse articolazioni del Collegio Docenti;
  • leadership (condivisa) come “qualità distintiva” dell’intera comunità.

Sono queste caratteristiche – identificate come proprie delle “comunità professionali di apprendimento” – che, secondo l’analisi degli Autori dell’Editoriale, hanno permesso alle scuole ‘osservate’ – questo è l’assunto esplicito dell’Editoriale – di attraversare gli scombussolamenti dell’emergenza, garantendo comunque equità e qualità dell’offerta formativa.

  1. Comunità Professionale. Si parte da lontano

Assunto questo che richiama e conferma ulteriormente, per più aspetti, l’importanza e il valore – e il metodo – delle ricerche e degli studi delle comunità scientifiche internazionali che – almeno dagli anni ’70 del secolo scorso – si sono interessate agli intrecci tra teorie dell’apprendimento e scienze organizzative. L’aspetto di maggiore interesse per queste loro ricerche va ricercato soprattutto nel nuovo approccio di carattere pluridimensionale, volto a studiare ed esplicitare le correlazioni tra fattori e capitoli di teorie coinvolte nei loro studi. E, ovviamente, a verificarne l’incidenza e l’efficacia.

E tutto questo, a partire da problematiche quali

  1. l’apprendimento nelle sue diverse forme (mnemonico e per imitazione, riflessivo e organizzativo, trasformativo e generativo, collettivo, individuale …),
  2. gli ambienti di lavoro (e come ci si sta dentro) e la cultura professionale, ma anche i modelli di funzionamento all’interno delle organizzazioni viste come organismi sociali,
  3. gli ambiti disciplinari a vario titolo chiamati in causa dalle ricerche (psicologia educativa, sociologia, pedagogia, economia, …)[2].

È quest’insieme di problematiche che entra in gioco, a partire da quegli anni, come intreccio di variabili che caratterizza le ricerche sulle Comunità Professionali, descritte, nell’accezione condivisa, come aggregazioni di professionisti che, all’interno di una organizzazione, ricoprono funzioni e ruoli identici.  Studiarne il valore sociale e garantirne eventualmente tenuta, sviluppo e identità diventa l’obiettivo di questi studi.[3]

Perciò riportarne in primo piano i punti di forza, assieme agli interrogativi che pongono, e riappropriarsi delle sue parole chiave – e delle pratiche che le traducono operativamente – si assume qui come un’operazione che può aiutare a recuperare o a meglio sviluppare un’idea di scuola capace di aprirci a nuove prospettive in questa fase di incertezze e grandi sfide. Consapevoli che, senza una visione di insieme e un’idea di scuola condivisa, che orientino gli impegni e prospettino condizioni di rinnovamento e sviluppo, le stesse sfide prima richiamate (dalla lotta alla dispersione, all’apertura alle opportunità e alla collaborazione col territorio, eccetera ), sarà difficile affrontarle con qualche possibilità di successo.

3.  Tra definizioni e approfondimenti[4]

Per recuperare al meglio l’idea di CP e metterla a fuoco – anche avvalendoci dei risultato di ricerche più recenti – può essere utile partire da una prima interessante definizione – forse la più nota –  di due pionieri e protagonisti degli studi dei primi anni ’70 del secolo scorso, Donald Schön e Chris Argyris[5]; definizione che mette ben a fuoco gli aspetti caratterizzanti di una Comunità[6], intrecciati con elementi che hanno a che fare con la professionalità di chiunque operi in organizzazioni che funzionano come sistemi sociali di apprendimento. Di questi aspetti si citano soprattutto

  • il senso di appartenenza (il percepirsi cioè come qualcosa di più grande che accomuna chi ne partecipa e li motiva in una logica di reciprocità);
  • la percezione di essere dentro una rete di relazioni capace di fornire sostegno emotivo e professionale a chi ci sta dentro;
  • la consapevolezza del proprio ruolo e del proprio sé professionale dentro la CP;
  • un sistema comune di apprezzamento con cui distinguere ciò che è rilevante da ciò che non lo è.

Si tratta, come è facile osservare, di caratteristiche che non si danno a priori e che richiedono quindi consapevolezza, esercizio e cura a più livelli, trattandosi di condizioni che interrogano la cultura e quindi la formazione professionale di chi partecipa a queste comunità. E non solo.

Va richiamato anche che ad arricchire e declinare più specificamente l’idea di CP di questi due studiosi concorrono anche i risultati di ricerche successive che riportano in primo piano gli aspetti più ricorrenti  per definire e descrivere tali Comunità  come specificamente professionali e permettere di riconoscerle attraverso appositi indicatori.

Tra questi, in primo luogo: una visione solidale e collaborativa del fare scuola, che si traduca in comportamenti contrari a chiusure e separatezze nell’esercizio delle diverse attività; e in secondo luogo: una cultura professionale fondata sull’assunto fondamentale che si apprende in modo socialmente significativo soprattutto attraverso il confronto e la condivisione delle pratiche lavorative e delle esperienze maturate.

L’accento posto sopra la dimensione collegiale e cooperativa, propria del costrutto di CP, tende piuttosto ad evidenziare opportunamente che, essendo la scuola una organizzazione-istituzione che ha responsabilità sociali, migliorarne la qualità è condizione che non può essere lasciata al caso o alla disponibilità del singolo, ma va opportunamente prevista e costruita, e anche curata e coltivata collegialmente nelle modalità più efficaci. 

Conferme sulla fondatezza di questa visione arrivano tra l’altro anche dalle neuroscienze che evidenziano come l’apprendere in modo efficace non è attività puramente solitaria, ma un’azione sociale, in un contesto dato, che matura attraverso processi di interazione e negoziazione dei significati con altri soggetti con cui si è chiamati a interagire[7]

4. Dalle condizioni ai i primi punti di forza.

I tratti che, nelle elaborazioni condotte col nuovo approccio, qualificano una CP – e che si ripropongono come spunti promettenti di cui riappropriarsi -, mettono in primo piano e prioritariamente:
• una visione dell’apprendere non più come esperienza unicamente individuale e mentale, ma come fenomeno sociale e collettivo; non più esito quindi di pura trasmissione di nozioni (dalla lezione del docente o dalle pagine del libro di testo alla testa dello studente), ma come esperienza attiva e trasformativa;
la valorizzazione dell’’apprendimento ‘organizzativo’ [8]: che si fonda sulla consapevolezza che in una organizzazione, il sapere professionale (e sociale) si crea, si sviluppa e si consolida, quando i contributi dei singoli o dei gruppi [in termini di risultati di esperienze, pratiche, attività] diventano parte del patrimonio di conoscenze della comunità [9]. Saldando così l’apprendimento individuale (o del gruppo) a quello collettivo e producendo cambiamenti migliorativi nel contesto lavorativo (Wenger) [10].
• l’idea di CP “come ambiente di apprendimento; dove apprendere è imparare a essere (learning to be) e ad agire come un membro della comunità (Brown e Duguid, 2000) [11] (Aspetto questo che si riprenderà successivamente).

5. La ‘pratica’, tra ricerca e riflessività

Una dimensione delle CP assolutamente centrale è anche Pratica che evidenzia l’importanza e il valore del conoscere basato sul fare e sull’esperienza. Importante per la nostra scuola, perché ancora non adeguatamente considerata, una prima definizione, ancora di Schön,  di Pratica come “sistema di attività in cui il sapere non è separato dal fare” e “dove il pratico non è contrapposto al teorico”; e dove la conoscenza si precisa come attività contestualizzata, “situata” nei luoghi dove acquista significato e valore.

Ma forse può risultare ancora più stimolante recuperare con più evidente nettezza una seconda definizione dello stesso studioso che la descrive in questi termini:

Attività di una comunità di professionisti che condividono (….) le tradizioni di un mestiere; e che acquista valore e senso (…) quando assume caratteristiche di ricerca e sa scavare in se stessa attraverso l’esercizio riflessivo e sa porsi domande, cercare coerenze, capire i presupposti delle azioni, cercare collegamenti con le teorie o tentare ipotesi teoriche nuove, insieme ai colleghi, mettendo a confronto i pensieri con le azioni[12].

Assunto quest’ultimo del quale va soprattutto sottolineata l’importanza di due suoi aspetti caratterizzanti: la ricerca e la riflessività, considerate nella definizione come stimolanti indicatori di una CP.

Qui però si vuole soprattutto evidenziare il richiamo all’esercizio riflessivo come pratica-risorsa dell’organizzazione (e delle sue articolazioni) che porta a guardare dentro e oltre le azioni e i contenuti che esse esprimono, per cogliere la carica trasformativa delle conoscenze o generativa di nuove[13].

6. Le Comunità di Pratica (CdP)

A completamento di questa ricostruzione – necessariamente sintetica e per più versi approssimativa, volta soprattutto a evidenziare le caratteristiche promettenti delle CP – vanno recuperati i risultati degli studi e delle ricerche (ultimo decennio del secolo scorso) di due studiosi di origini svizzere, Etienne Wenger e Jean Lave, sulle Comunità di pratica (CdP).

Traendo spunti da Schön e Argyris,  e più in generale dal filone di studi e ricerche che ruotano intorno alle CP, i due studiosi approfondiscono il senso e il valore dei luoghi di aggregazione (le CP) come ambienti di apprendimento dentro le organizzazioni, enfatizzando il concetto di pratica e dei suoi significati, su cui già Schön aveva offerto, come abbiamo visto, significativi contributi[14]; ma anche  insistendo sulla specificità dei campi di interesse (Campi tematici) delle Comunità, che si configurano – questa è almeno la ricostruzione che tendo a privilegiare – come potenziali elementi di diversificazione identitaria rispetto al costrutto della CP in senso stretto.

Ma di Wenger va soprattutto richiamata  la svolta (2002)[15], che lo porta ad allontanarsi dalla fase precedente strettamente teorica, per approdare ad una più pratica e operativa, che potrebbe essere probabilmente interessante riprendere e approfondire,  perché offre stimoli per una più solida e innovativa configurazione del modello organizzativo per la componente docente delle Istituzioni Scolastiche (IS).

7. La formazione ‘situata’

Sintetizzando

A mo’ di sintesi, questo lo schema mentale e operativo dei ragionamenti svolti, che si propone come sguardo di insieme su un argomento complesso, ma certamente interessante soprattutto in questa fase.

La CP: idea di scuola che assume il punto di vista del funzionamento della Comunità dei docenti di una IS come ‘ambiente di apprendimento e di pratica’ finalizzato a garantire il successo formativo di tutti gli studenti, non uno di meno. Il che significa: cultura e sviluppo professionale, ambienti e rapporti di lavoro, tipo di relazionie modelli organizzativi conseguenti e coerenti.

Punto di vista quindi come espressione di un approccio multi dimensionale alle CP delle IS.

Il cui costrutto assume a riferimento:

  • la dimensione collettiva dell’apprendere professionale (e non solo);
  • l’apprendimento non tanto attività mentale, quanto operazione trasformativa della conoscenza;
  • la pratica riflessiva come aspetto fondamentale della cultura professionale (apprendimento riflessivo)
  • l’apprendimento ‘organizzativo’ come risorsa (pratiche, astuzie del mestiere, risultati di ricerche legati ai problemi del fare scuola) prodotta dai singoli o dai gruppi, che diventa patrimonio dell’intero collettivo della CP ed espressione della sua identità culturale e professionale;
  • lo sviluppo professionale visto prioritariamente come formazione ‘situata’, espressione a. del confronto e della ricerca sui problemi aperti del proprio ambiente di lavoro e b. dei risulti, in termini di pratiche, di comportamenti, di strategie …, negoziati nel gruppo e in grado di affrontare problemi e difficoltà;
  • gli ambienti e i contesti lavorativi come luoghi di collaborazione, negoziazione e intese;
  • modelli organizzativi centrati: a. sull’autonomia di ricerca, b. sulla reciprocità delle relazioni, c. su una leadership distribuita, d. sulla dimensione reticolare delle articolazioni della Comunità professionale.

 NOTE

[1] Titolo del numero monografico della Rivista dell’Università telematica IUL (26.06.2022): “Leadership, innovazione e cambiamento organizzativo. Promuovere comunità di apprendimento professionale”.

[2] Va doverosamente ricordato che il nuovo approccio recupera aspetti fondanti di teorie maturate nei decenni immediatamente precedenti, come  il Learning by Doing (John Dewey),  lo Sviluppo cognitivo di Piaget, l’Apprendimento come sviluppo sociale (Vygotskij), la Pedagogia scientifica e ruolo dell’ambiente di Maria  Montessori; e include il Learning Organization (Peter Senge) e anche strategie formative  come il Cooperative Learning.

[3] Cfr. I. Summa, Se il docente fa ‘Comunità professionale’, in ‘Rivista dell’istruzione’, n.6, 2014.

[4] Le riflessioni e alcune ipotesi di lavoro, che di seguito si propongono, recuperano, ripensate, tematiche ed elaborazioni maturate all’interno di un gruppo di lavoro interregionale, formato soprattutto da Ds dell’Associazione Nazionale Proteo Fare Sapere, in occasione del percorso di approfondimento delle Linee programmatiche per il Congresso Nazionale dell’Associazione (Ravenna, ottobre 2021).

[5] Riferimenti bibliografici fondamentali  al riguardo sono: D. Schön – C. Argyris, Teoria in pratica: aumentare l’efficacia professionale . San Francisco: Jossey-Bass, 1974 ; Apprendimento organizzativo: una teoria della prospettiva dell’azione . Lettura, MA: Addison-Wesley, 1978;  D. Schön, “L’epistemologia della pratica”, 1991

[6] Occorre chiarire che le CP su cui qui si riflette, non vanno identificate  con le Comunità scolastiche indicate nell’ultimo CCNL scuola  – novembre 2019 – (definite Comunità educanti), riferendosi queste ultime all’insieme delle articolazioni (‘le componenti’) delle Istituzioni Scolastiche (per le quali si possono ovviamente prevedere analoghi percorsi di ricerca). Le CP si riferiscono invece – qui e in genere negli studi sull’argomento che afferiscono specificamente al mondo della scuola – alla sola componente docenti (il Collegio che comprende anche il DS).

L’attenzione prioritaria alle CP dei docenti non vuol dire ovviamente sottovalutazione delle altre comunità professionali che operano nella scuola. Punta essenzialmente a riportare in primo piano la centralità dell’apprendere e del conoscere e quindi dei soggetti che istituzionalmente e prioritariamente sono investiti di questa funzione.

Perciò non penso sia esagerato affermare che l’idea di scuola a cui si tende passa in primo luogo attraverso l’idea di Comunità professionale dei docenti che si assume a riferimento; e quindi della cultura professionale di chi vi opera, della sua organizzazione, delle sue pratiche e dei suoi valori di riferimento.

[7] V. Pier Cesare Rivoltella, Neurodidattica. Insegnare al cervello che apprende, Cortina Editore, 2012.

[8] Organizational Learning, dove l’aggettivo è da intendere nel senso di ‘prodotto dai membri della comunità’.

[10] E. Wenger, Comunità di pratica.  Apprendimento, significato e identità’, Franco Angeli editore, 2006.

[11] V. sito Formez PA http://focus.formez.it/content/n10-comunita-pratiche apprendimento-e-professionali Focus tematico n. 10: Comunità di pratiche, di apprendimento e professionali, p. 22. Nel testo cit. – molto interessante e utile per orientarsi sull’argomento con una visione multidimensionale – il riferimento è nel paragrafo dedicato alle Comunità di Pratica.

[12] Le frasi virgolettate di questo paragrafo sono tratte da D. Schön, “L’epistemologia della pratica”, 1991.

[13] V. L. Mortari, Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Carocci Editore, 2011, Fabbri L. (2007). Comunità di pratiche e apprendimento riflessivo. Carocci: Roma e C. Mion, Riflessività, in www.edscuola.it/archivio/ped/riflessivita.htm, 2013.

[14] J.Lave, & E. WengerL’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti di apprendimento. Erickson, 2006 – prima pubblicazione: Cambridge University Press, 1991;; E. Wenger, R. MCDermott, & W. M. Snyder,  ‘Coltivare Comunità di pratica…, cit..

[15] Wenger, a seguito della ‘svolta’, formalizzata in ‘Comunità di pratica.  Apprendimento, significato e identità’, del 2002 (nel 2006 in Italia. V. n 9) prevede che vi si possano costituire in autonomia dentro le, ‘costellazioni’ di CdP anche ‘promosse’ – le CdP – dalle Organizzazioni in quanto interessate alla promozione di organismi attivi e innovativi.

[16] V. S. Gherardi, D. Nicolini, cit., pp. 56-57.

 




Bambini di Ukrajna in Italia. Oltre lo sconcertante silenzio sulla pedagogia del ritorno

di Raffaele Iosa

Ho aspettato fino alla riapertura delle scuole, sperando che qualcosa si dicesse. Capisco la complicata situazione italiana di questi ultimi tre mesi, dal caldo torrido, alla crisi di governo, al rincaro delle bollette. Capisco tutto,  ma il silenzio del Ministero Istruzione sui bambini e ragazzi ucraini accolti nelle nostre scuole da marzo scorso  è sconcertante. Per carità, non sempre è necessario che il Ministero dica qualcosa perché le scuole lavorino con buon senso (anzi!), ma toccano a lui gli accordi internazionali con il governo ucraino per eventuali collaborazioni pedagogiche sul destino dei ragazzi da noi accolti, in attesa del ritorno.

E’ dunque per me necessario risollevare la questione, per comprendere se il neologismo  “pedagogia del ritorno”,  condiviso da molti come chiave  di questa accoglienza, fosse ancora vivo o se si pensasse che ormai, da questo autunno, si dovesse accoglierli come emigranti definitivi o peggio lasciarli in un limbo.

Un doveroso promemoria

Facciamo prima di tutto il punto sulla situazione ucraina,  con le notizie di questi ultimi mesi.
Si conferma che questi bambini e ragazzi (e le loro mamme) si sentono solo di passaggio dal fatto che un buon numero è tornato a casa in estate, soprattutto se provenienti dal zone nord e ovest ucraino, e dal 1 settembre sono tornati a scuola, magari in locali di fortuna se le scuole sono state distrutte.
L’arrivo di nuovi profughi ucraini si è fermato. Resta quindi non elevato il numero di scolarizzati in Italia, già basso a primavera perché preferivano fermarsi  in paesi confinanti  (in primis la Polonia).
Anche questo un segno del desiderio del ritorno.
Il nostro governo ha prestato a tasso zero all’Ukrajna circa 200 milioni di euro per pagare gli insegnanti ucraini. Un buon segno che il nostro paese non invia lì solo armi.

Intanto ci arrivano notizie dure dalle aree ucraine di sudest ancora occupate militarmente dai russi. Sono stati licenziati molti insegnanti locali, sostituiti da “colleghi” russi; dal 1 settembre i ragazzi iniziano le lezioni  con l’alzabandiera bianca blu rossa di Mosca, hanno libri importati dalla Russia con le “cose giuste” da insegnare e si parla-scrive rigorosamente solo in russo.  Ma c’è di più: alcune migliaia di orfani sociali degli internati  sono stati deportati (altro termine non trovo) in Russia in modo forzato. Uno dei tanti modi che ha la terra di Putin di sopperire al suo deserto demografico. Penso con dolore a questi bambini, spesso con babbi e mamme fragilissimi e poveri ma viventi. Bambini portati via dagli orfanotrofi senza rispetto, con fratture esistenziali  lancinanti. E ancora: non si sa più nulla di centinaia di preadolescenti portati con la forza in Crimea durante l’estate (le vacanze “coatte”) e non più tornati. Nelle zone di campagna tornano i cd. besprizornye,  ragazzi randagi  che vivono alla macchia. Un lascito noto nella storia sovietica che si ripete,  nato nei primi anni della rivoluzione d’ottobre, di cui ci resta memoria in “Poema pedagogico” del pedagogista ucraino Makarenko e della sua colonia Gorky.

Si rifletta su cosa voglia dire essere bambini e ragazzi da quelle parti in questo settembre: se non si muore per le bombe, si sopravvive in un contesto allucinato col rischio del negarsi la memoria e l’identità. Effetti non collaterali ma voluti di una guerra che non è solo distruzione materiale, ma esistenziale.

Ricapitoliamo ora la nostra memoria sull’Italia. Sono uscite in primavera tre note del Ministero italiano sull’accoglienza dei ragazzi ucraini.

Una prima nota di marzo 2022 li chiama erroneamente “esuli” e invita ad accoglierli, seguendo le solite regole  amministrative  e di collaborazione a livello locale tra servizi.
La seconda nota n. 576 del 24 marzo li chiama finalmente “profughi” (come sono), e invia ottime riflessioni di carattere pedagogico.  Si suggerisce accoglienza mite, riconoscimento dell’ identità di bambini e ragazzi “di passaggio” con il forte desiderio del ritorno, un impegno di ascolto rispettoso della loro condizione esistenziale. Notevole è l’idea di “cura pedagogica” non diversa dall’ Y CARE donmilaniano, operando con una pedagogia che aiuti al ritorno. Appunto, il ritorno. Finalmente un respiro alto.
La terza e ultima nota, invece, la 781 del 14 aprile, scade in uno sconcertante formalismo. A fronte del “canone” scolastico italico sul rito valutativo e curricolare (altro che autonomia scolastica) si suggerisce  di considerare questi ragazzi come BES stranieri appena arrivati,  quindi con dispense e compense, consolando i buro-pedagoghi del formalismo cartaceo. Ma c’è di peggio: circa la questione della loro straordinaria Dad che, nonostante la guerra, i loro insegnanti coraggiosamente realizzato da marzo a giugno da laggiù (con immensa gioia dei ragazzi che si sentono così un po’ a casa), la terza nota suggerisce con un linguaggio senz’anima di considerarla come “eventuale arricchimento  dell’offerta formativa” in aggiunta (solo in aggiunta) alle tradizionali lezioni italiche, e sempre che i docenti italici vogliano. Dunque, la più straordinaria avventura pedagogica di questi mesi (la Dad sotto le bombe) non trattata per il giusto rango di un’esperienza educativa arricchente tutti, in primis  loro, e con la quale iniziare un dialogo pedagogico tra colleghi coinvolti qui e lì, ma un mero accessorio transitorio.

Questa sconcertante nota mi ha fatto sospettare una sottovalutazione della fase in un’attesa astratta di cosa sarebbe accaduto della guerra, lasciando ad un indefinito tempo il trattare cosa fare dal settembre.

E infatti sul che fare da settembre il più allarmante silenzio. Il nulla.

Ricordiamo infine che i  nostri amici ucraini accolti sono stati in tutto circa 30.000 (molto meno del previsto),  che i mesi da marzo a giugno sono stati una sorta di accoglienza d’attesa, la migliore possibile. Adesso, invece, con un anno scolastico intero davanti, le cose si fanno ben più serie.

Restiamo in attesa, o ripartiamo con l’autonomia?

Ricevo numerose telefonate  da colleghi e scuole di diverso tipo che mi chiedono cosa fare adesso. Ho scritto molto in primavera sulla pedagogia del ritorno e svolto affollati webinar, quindi molti mi conoscono. I loro racconti non sono sempre felici: ci sono bambini e ragazzi ancora scossi dagli eventi, qualcuno in estate è diventato orfano, di un buon numero di loro non si sa se è rimasto o no. Fortunatamente l’accoglienza racconta anche segni di umanità e solidarietà. Ma le domande sull’oggi sono molte, soprattutto (e non è un caso) sulla loro Dad ucraina: continua o no? Come e se collegarla alle lezioni italiane? Ricevo anche richieste sulla dimensione pedagogica delle relazioni e sul tema della guerra. L’incertezza è anche nelle famiglie ucraine che chiedono notizie alla scuola italiana.

Finchè non arriva la notizia che scuote le famiglie ucraine e che l’Italia non ha ancora dato: le scuole ucraine intendono proseguire anche quest’anno con la loro Dad sia sincrona che asincrona, in tutti i modi possibili e per il miglior tempo possibile. E quindi prendono contatto virtuale con i singoli bambini e ragazzi di cui hanno un indirizzo telefonico o elettronico. Insomma, non intendono  perderli.

Ho fatto un giro di telefonate a colleghi ucraini con cui ho ancora contatti e confermano: “si riparte, non li abbandoniamo. In tutti i modi possibili e nei tempi possibili”. Ma chiederebbero, anche, di sapere un po’ di più su cosa accade ai loro ragazzi in Italia. D’altra parte ho rarissimi racconti di contatti tra colleghi italiani e ucraini in primavera: è sembrata a molti un’esperienza quasi “privata”, di cui non si è sempre colto il valore educativo e anche un’opportunità solidaristica su cui meritasse costruire rapporti. Se poi il Ministero italiano aggiunge che la loro Dad è solo un “accessorio”, lo scadimento  nella banalità è naturale.

Proposte realistiche e rigorose: per un curricolo binario

Non è  necessario, come dicevo all’inizio, che il Ministero mandi per forza chissà quali norme o stringenti indicazioni operative. Le scuole hanno (avrebbero) ampi spazi di autonomia didattica e organizzativa per poter costruire ognuna una propria positiva pedagogia del ritorno. Basta volerlo e crederci.

Per queste ragioni, rompo lo sconcertante silenzio romano  con alcune proposte di lavoro aperte a diverse soluzioni, per offrire alle scuole una proposta pedagogica per far crescere con quest’esperienza solidale la capacità di farsi soggetto progettuale libero e creativo.

Suddivido queste proposte in quattro passi, con un passo zero necessario.

  1. Niente BES

Una premessa necessaria. Si eviti di trattare questi ragazzi nella categoria BES, anche per i rimandi simbolici che questa determina con frequenti effetti iatrogeni e di abbassamento delle attese.
Sono infatti bambini e ragazzi come i nostri, ce n’è di bravi e meno bravi, di più sicuri e più timidi, di più aperti e più chiusi, con  mamme e  papà non tutti eguali. Vivono il dolore del profugo in diversi modi.
Li lega però l’uno all’altro il fatto che sono dentro una tragedia più grande di loro,   stanno vivendo una grande incertezza sul futuro, nell’ansia che il padre non muoia in guerra.
Hanno voglia di tornare a casa e voglia di vivere. Desideri terribilmente normali.
Guai a noi farne una categoria generale psico-pedagogica di sindrome da profuganza educativa di guerra.  Non hanno bisogno di insegnanti di sostegno post-traumatico, né di sacerdoti scientifici del trattamento obbligatorio del trauma. Hanno invece bisogno di vicinanza educativa, di rispetto, di ascolto. E soprattutto di riprendere a  credere nel futuro, per il quale un pezzo di scuola fatta bene anche in Italia  è un primo mattone utile per ricostruire. Non cura pietosa ma speranza. La stessa speranza che esprimono i nostri coraggioso colleghi ucraini che non abbandonano i loro ragazzi sparsi per l’Europa, ma stanno loro dietro in tutti i modi possibili. Possiamo scindere in modo autistico le ore di scuola in Italia dal loro encomiabile impegno via etere? A me pare una bestemmia . Ecco perché la pedagogia del ritorno.

  1. Un necessario dialogo scuola-genitori di prospettiva

In questo primo mese di scuola è  importante che vi sia un colloquio riflessivo e serio tra i nostri insegnanti e le mamme o i parenti che accolgono il nostro alunno o studente ucraino.
E’ un momento necessario per fare il punto di come va la scolarizzazione e di cosa fare a scuola, soprattutto comprendendo la prospettiva in cui si sta muovendo la famiglia per il ritorno in Ukrajna.
Ci sono mamme che pensano di tornare per capodanno: il babbo sta mettendo a posto la casa (Kjiv).

Ci sono mamme rimaste vedove che pensano di tornare dai genitori-nonni  in campagna a rifarsi una vita l’estate prossima (Karkiv). Ci sono mamme ancora per aria perché la loro città è  distrutta (Mariupol) e attendono dove risistemarsi. Storie molto diverse tra loro, fatte spesso di molti se…allora, che senza morbose curiosità dobbiamo condividere per tarare bene quale sia la più corretta scolarizzazione per questo anno e quali elementi della pedagogia del ritorno siano da perseguire.

Soprattutto dobbiamo sapere dalle mamme di Kjiv, Karkiv, Mariupol, ecc.. se prevedono per il loro figlio/la loro figlia la prosecuzione del contatto Dad con gli insegnanti ucraini, quanto e come.
Quest’ultimo aspetto è decisivo per armonizzare la nostra offerta educativa. So infatti  di numerosi casi in cui i genitori ucraini, magari  all’oscuro delle offerte della nostra scuola, preferiscono tenerli a casa e fare tutta la scolarità via Dad. Perdendo così quegli elementi di socialità, relazione, apertura culturale che invece potrebbe dare la frequenza nelle nostre aule,  convivendo con bambini e ragazzi italiani senza perdere il filo della loro carriera scolastica in patria.
E’ ovvio che i diversi obiettivi di vita per le diverse situazioni rendono diversa la domanda educativa. Una buona pedagogia del ritorno non può che considerarli centrali per il nostro impegno.

  1. Il contatto con la scuola ucraina

Nel caso (frequentissimo dalla classe 4 alle 11/12) di desiderio dei ragazzi e delle loro famiglie di mantenere la Dad  ucraina è opportuno che la scuola cerchi il più possibile un contatto con i nostri colleghi ucraini.
E’ molto meno difficile di quanto si pensi. So peraltro che sarebbe molto attesa: gli insegnanti ucraini vorrebbero  entrare in un circuito collaborativo. Lavorare insieme, insomma. Nella speranza del ritorno.
Quasi tutti gli zvitelky (insegnanti) ucraini parlano bene l’inglese, un buon numero anche l’italiano (meno bene), ma hanno tutti skype e la mail, a volte gli manca solo l’elettricità.  Pensate alla loro condizione e alla solitudine di avere le scuole vuote e distrutte, pensate al desiderio di rivedere i loro ragazzi. Pensate all’epoca delle passioni generose nel primo duro lokdown italiano di primavera 2020, in cui migliaia di insegnanti italiani senza aver bisogno del Ministero hanno creato spontaneamente un qualche intenso contatto con i loro ragazzi, anche loro chiusi in casa. In modo ancora più drammatico, sotto le bombe e con le case sfasciate, lo stesso spirito educativo  muove i colleghi ucraini, non i comandi  ministeriali. Non prendono una grivna in più per la Dad, ma nessuno si è tirato indietro. Almeno chi è ancora vivo.

A cosa serva questo contatto tra docenti e scuole è perfino superfluo spiegare: condividere  un comune programma di lavoro, spartendosi un possibile curricolo e soprattutto creando anche ai ragazzi l’emozione di sapere che (Italia o Ukrajna che sia) gli insegnanti si pre-occupano di loro con dedizione e collaborazione. Le straordinarie potenzialità del digitale sono in questo terribile caso, un evento straordinario di pedagogia attiva. Un’esperienza che matura scambi professionali di avvincente valore formativo anche per gli adulti. E fa sentire i genitori dei nostri ragazzi anche loro meno soli in un paese straniero.

  1. Il curricolo binario

Chiamo “curricolo binario” il possibile esito di questo “dialogo professionale” tra colleghi italiani e ucraini. Può realizzarsi anche se saranno difficili i contatti. Il sito del Ministero ucraino abbonda di materiale virtuale, e potrebbe essere seguito da professionisti ucraini in Italia.

Nella logica della pedagogia del ritorno, visto che ai ragazzini ucraini vengono offerte in contemporanea due opportunità curricolari,  tanto vale  non separarle o ignorarsi l’un l’altra. Nei casi più felici, si potrebbe quindi immaginare, caso per caso (i ragazzi non sono nella stessa classe in Italia) cosa potrebbe fare l’insegnante ucraino e cosa l’italiano. Va tenuto conto che chi è in difficoltà (anche materiali) sono loro, non noi. E dunque, buona cosa a partire dalle disponibilità della Dad ucraina, costruire con flessibilità e intelligenza un curricolo personale di Alioscia, Dimitri, Eugenj, Katiuscia, ecc.. nel quale si possano sviluppare alcune attività curricolari in lingua ucraina e altre  nella scuola italiana. Le opzioni sono le più vaste e differenti tra loro. Facciamo alcuni esempi per capirci.

Non c’è dubbio che l’insegnamento della lingua ucraina sia basilare che continui. Qualche ora di ucraino alla settimana sarebbe solo salutare. Sulla storia e geografia forse un insegnamento misto sarebbe interessante, sia per i ragazzi ucraini che italiani, perchè aprirebbe la mente alla scoperta di altri mondi, altre storie, altri luoghi, come de-centramento dal nostro comune solipsismo. Potrebbe invece essere meno significativo l’insegnamento dell’inglese perché più o meno si fa simile sia qui che lì, ma merita eventualmente confrontare le metodologie e gli obiettivi previsti di anno in anno. Per quanto conosco le scuole post-sovietiche penso che l’insegnamento della matematica potrebbe essere affidato alla scuola ucraina, che ha una lunga eccellente tradizione. Il che non vuol dire non mescolare eventualmente i metodi, che potrebbero persino essere utili ai nostri italiani.

Forse le discipline artistiche potrebbero essere meglio affidate alla scuola italiana. Ma non voglio dire di più, perché ogni scuola e ogni classe è diversa, e credo nella creatività e sensibilità degli insegnanti.

  1. Bagatelle formali

Naturalmente un curricolo binario apre questioni “formali” di cui la nostra scuola italica abbonda per eccessi burocratici spesso inventati. Ricordo a chi mi legge che l’art. 4 del DPR 275/99 Regolamento Autonomia prevede esplicitamente la flessibilità didattica, che l’art. 8 dello stesso DPR prevede il curricolo locale, che sempre l’art. 4 prevede forme particolari di valutazione diverse da scuola a scuola. Cose presenti e legittime ma dimenticate nel noioso tran tran di una scuola che non cambia mai.

Per quanto riguarda la valutazione,  ricordiamo che i ragazzi ucraini desiderano diplomarsi in patria, non in Italia, e che la nostra valutazione deve diventare nel tempo un aiuto alla scuola collega quando torneranno a casa, non a fare scale e misure formalistiche. Quindi anche su questo un dialogo con i colleghi ucraini sarebbe quanto mai utile per crescere reciprocamente.

Infine, una questione delicata  riguarda la classe di frequenza dei nostri ragazzi, perché in primavera si sono fatti molti pasticci per la fretta e per la non conoscenza della loro scuola. Sempre nella logica della pedagogia del ritorno, dobbiamo tener conto che la loro scuola primaria termina alla classe 4 e che dalla classe 5 alla 9 c’è una lunga scuola media unitaria.  Poi ci sono 2/3 anni di scuola superiore. Tutti questi 11/12 anni obbligatori. Quindi i ragazzi ucraini hanno l’obbligo fino a 17/18 anni ed entrano all’università un anno o perfino due prima dei 19 enni italiani.  Possiamo farli rallentare solo perchè sono in Italia? Per questo ho suggerito spesso di utilizzare con lucidità quello che le norme italiane sugli studenti stranieri al loro accesso in Italia prevedono: che siano inseriti anche o in una classe prima o in una dopo dei cicli tradizionali italiani.  In particolare per quanto conosco delle loro scuole e dei diversi curricoli, penso che sia delicata la situazione dei bambini di classe 5, che in Ukrajna  è la prima classe della serednja skola (scuola media) e da noi invece è ancora nella primaria.  L’esperienza mi ha fatto proporre spesso un “salto” in avanti di un buon numero dei nostri arrivati in primavera, perché palesemente adeguati ad inserirsi nella nostra prima media. Ogni caso va visto a sé, anche questo è tema da considerare con le loro famiglie.

Lascio qui altre questioni, per esempio quella dei mediatori linguistici se sono o meno necessari (ovviamente dipende), o se sia possibile utilizzare studenti universitari (o insegnanti anch’essi profughi) ucraini per svolgere il curricolo binario qui proposto come adattamento della loro scuola in Italia nel caso non sia possibile un qualche collegamento con la scuola ucraina. Caso che può essere residuale visto l’impegno dei nostri colleghi  laggiù.




L’alternanza Scuola-lavoro e il binomio Capire/Riuscire

di Cinzia Mion

Rispetto alla problematica che sta focalizzando l’attenzione delle scuole secondarie di secondo grado in questi ultimi tempi, io penso che- per capire fino in fondo l’opportunità di sostenere, con i dovuti aggiustamenti da ambo le parti, l’autentica connessione tra scuola e lavoro- bisogna rendere plasticamente accessibile il CAPIRE  insieme al RIUSCIRE, intrecciando perciò sempre queste due dimensioni, rendendole quasi simultanee o comunque “contemporanee”.

Per poter tentare di rendere più chiaro il mio pensiero devo fare riferimento all’intelligenza connettiva, termine coniato da Derrick de Kerchove. Il  noto pensatore allude con questa espressione alla connessione digitale di vari soggetti che pensano, si esprimono e condividono insieme un sapere diffuso. Essi mantengono le varie individualità ed anche le differenze, essendo però in grado di costruire una comunità di conoscenza. De Kerchove però non prende in considerazione la declinazione di Gardner delle intelligenze personali, che si articolano in interpersonale ma anche in intrapersonale: egli focalizza infatti soltanto quella interpersonale tanto è vero che, secondo Nicholas Carr, sottovaluta l’influenza negativa della digitalizzazione sulla nostra intelligenza connettiva intrapersonale. Carr infatti lamenta che la digitalizzazione depotenzia il pensiero critico e riflessivo, che ci permette di creare autonomamente le connessioni mentali, in cambio di un click che “connette” al posto nostro.

Io allora intendo fare riferimento con questo mio contributo proprio alle connessioni mentali non soltanto interpersonali ma anche intrapersonali, che si mettono in moto quando un soggetto cerca di creare legami, correlazioni  tra i dati a disposizione, anche se a prima vista questi possono apparire sconnessi.

L’intelligenza connettiva, sia personale che collettiva, allora, si sviluppa perché il nostro cervello funziona organizzando il sapere attraverso la ricerca di analogie e differenze, sviluppando competenze essenziali di elaborazione e riflessività. Il pensare autentico consiste in fondo nel creare nessi e relazioni tra i dati, gli elementi, le esperienze, vale a dire la pratica illuminata dalla teoria, e la teoria dalla pratica, per ricondurre il discorso al tema di apertura.                                                                                                                                                  Il filo rosso allora che intendo afferrare è quello dato dal binomio Capire/Riuscire, e viceversa, partendo da alcune riflessioni dei grandi pensatori del secolo scorso. Se Piaget infatti aveva superinvestito il termine capire di energia speculativa, tanto da pretendere che nel capire fosse inclusa la competenza dello spiegare, Bruner invece connotava il capire da una forza conoscitiva tesa al comprendere profondamente. Per questo motivo egli avrebbe suggerito a Piaget di sollecitare la “verbalizzazione durante l’azione” in riferimento, per esempio, ai suoi esperimenti sulla conservazione, individuando nel linguaggio, che “narra” l’azione, la chiave di volta per catturare il processo mentale congruente. Riassumendo: l’azione riconducibile al RIUSCIRE, descritta attraverso la narrazione, fa scaturire la mentalizzazione del CAPIRE.                            Bruner azzarda che in questo modo gli esiti degli esperimenti piagetiani sarebbero stati ben diversi.

D’altro canto il paradigma culturale della complessità, come ci insegna Edgar Morin, ci induce a coniugare logiche diverse, anche contrapposte. Siamo noi, con le nostre radici culturali immerse nel paradigma della linearità, che obbedisce alla logica binaria (o vero o falso, o capire o riuscire,ecc.) che facciamo fatica ad attivare l’operazione logica della “coniugazione”. Teniamo però presente che i ragazzi che occupano le nostre aule oggi  abiteranno domani una cultura ancora più complessa.

Anche il metodo “dell’apprendistato cognitivo”, impregnato di didattica vigotskiana, descritto molto bene nella raccolta “I contesti sociali dell’apprendimento” a cura di C.Pontecorvo, A.M.Ajello, C.Zucchermaglio, offre un esempio incomparabile di riuscire-capendo ma anche di capire-riuscendo. Il riferimento, per quanto attiene la competenza della comprensione del testo scritto, trasversale ed essenziale per ogni disciplina, è  alle ricerche di  Brown e Palincsar che utilizzano l’insegnamento reciproco insieme all’espediente di pensare a voce alta. La strategia infatti descritta dagli autori suddetti utilizza le quattro fasi vigotskiane dell’apprendistato tradizionale (modellamento, assistenza, sostegno, progressiva diminuzione dell’aiuto) ma le  rielabora ponendo l’enfasi sui processi cognitivi e metacognitivi che, attraverso appunto la funzione del pensiero a voce alta, non rimangono taciti e nascosti nella mente del docente, dotato di expertise, ma vengono messi a disposizione dell’allievo apprendista.

Scorrendo l’indice del testo in questione troviamo inoltre il saggio interessante della Resnick “Imparare dentro e fuori alla scuola”. Dice la Resnick: Ho identificato quattro tipi generali di discontinuità tra l’apprendimento a scuola e la natura dell’attività cognitiva fuori della scuola. In breve, la scuola si concentra sulla prestazione individuale, mentre il lavoro mentale all’esterno è spesso condiviso socialmente. La scuola è finalizzata a incoraggiare il pensiero privo di supporti, mentre il lavoro mentale fuori della scuola include abitualmente strumenti cognitivi. La scuola coltiva il pensiero simbolico, laddove l’attività mentale fuori della scuola è direttamente coinvolta con oggetti e situazioni. Infine la scuola ha il fine di insegnare capacità e conoscenze generali, mentre all’esterno dominano le competenze specifiche per la situazione”.

La prima osservazione da fare è che se la scuola utilizzasse più spesso attività laboratoriali e progettasse, insegnasse e valutasse “competenze”, e non solo conoscenze generali e capacità, già si avvicinerebbe a colmare il  gap tra apprendimento a scuola e fuori dalla scuola.

Se poi, come affermavo più sopra, a scuola si utilizzassero metodi come l’apprendistato cognitivo, allora si può pensare che la preparazione a trarre beneficio mentale ed operativo dall’alternanza scuola-lavoro, diventerebbe più accessibile ed efficace. Nell’apprendistato cognitivo infatti l’autoefficacia che sperimenta l’allievo nel cimentarsi attraverso l’imitazione nel compito sollecitato, dopo aver assimilato i processi riportati, corrisponde al passaggio dialettico tra CAPIRE/RIUSCIRE.  Bisognerebbe che anche nell’esperienza  lavorativa gli studenti venissero accompagnati da un tutor, formato ad hoc, vale a dire in grado di sollecitare la riflessione sull’esperienza, man mano che questa viene affrontata, rielaborata, ne viene colto il senso, viene collegata con i saperi già acquisiti e con altri di cui eventualmente si avverta la necessità di approfondimento.

Anche nell’acquisizione della competenza le Indicazioni per la scuola dell’infanzia chiedono “la riflessione sull’esperienza” come modalità paradigmatica dell’avviamento di tutte le competenze in genere, su cui poi dovrà avvenire l’attività dell’allenamento. Che cos’è questo se non riuscire/capire?

Il nostro sistema scolastico è sempre stato caratterizzato da una grave scissione: da una parte la scuola del capire, i licei, dall’altra quella del riuscire, gli istituti tecnici e quelli professionali. Secondo me l’obbligo di organizzare l’alternanza scuola-lavoro in tutti gli ordini di scuola secondaria di secondo grado va nella direzione di attenuare questa scissione a tutto vantaggio dell’apprendimento e della formazione delle nuove generazioni e della sfida che si sta parando davanti alla scuola. Sfida che il nostro sistema scuola, organizzato intorno alle conoscenze ed alla lezione trasmissiva, fa fatica ad accettare, rischiando di non tenere il passo con i tempi e di non assumere in debita considerazione i nuovi bisogni formativi dei nostri giovani.

Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi?,Cortina, 2011
De Kerckhove DerricK, La rete ci renderà stupidi?, Castelvecchi, 2016
Pontecorvo C.,Ajello A.M.,Zucchermaglio C.(a cura di), I contesti sociali dell’apprendimento,LED, Milano, 1995




PNRR e innovazione del lavoro: una falsa partenza

di Pietro Calascibetta

Parliamo di carriera o di lavoro? Una premessa necessaria a proposito del “docente esperto”.

L’ istituzione della figura del “docente esperto” con il “Decreto Aiuti bis” [1] è stata interpretata come l’introduzione di una carriera per i docenti e ha innescato subito un’accesa discussione.

Franco De Anna nel webinar del 17 agosto promosso da “Gessetti Colorati”[2] ci ha fatto notare che la disposizione, anche se inserita in modo inusuale in un decreto di tutt’altro tema, è frutto della Legge n. 79 del giugno 2022 che definisce la cornice di alcune delle azioni previste dal PNRR tra cui quelle relative all’istruzione ed è su questo che bisogna porre l’attenzione.

Osservando meglio la premessa della parte che riguarda l’istruzione e i rimandi normativi si scopre infatti  che l’art.38 del Decreto Aiuti e la Legge 79 in realtà dovrebbero essere finalizzati a dare una risposta nell’ambito della pubblica istruzione alla richieste della UE di avviare con il Recovery Plan italiano un processo pluriennale “ di innovazione del lavoro pubblico[3] con l’obiettivo di riqualificare la pubblica amministrazione migliorando la professionalità dei suoi dipendenti.

Se le cose stanno veramente così, piuttosto che discutere della carriera sarebbe più interessante e utile interrogarsi sulle valenze e sull’efficacia dei provvedimenti nel poter effettivamente raggiungere l’obiettivo di innovare il lavoro nella scuola come richiesto dalla UE e dare ad esso la dignità che merita e quali proposte fare per aggiustare il tiro di un provvedimento in essere che presenta già prima di essere applicato molte ambiguità in modo che non diventi l’ennesima occasione sprecata per affrontare la questione del lavoro nella scuola.

Un quadro normativo contraddittorio

Da quanto si legge la modalità scelta per innovare il lavoro nella scuola è stata l’introduzione di un “ sistema di formazione e aggiornamento permanente delle figure di sistema[4] , individuate nei “docenti con incarichi di collaborazione a supporto del sistema organizzativo dell’istituzione scolastica e della dirigenza scolastica[5] e più genericamente dei docenti di ruolo “articolato in percorsi di durata almeno triennale” e gestito dalla “ Scuola di alta formazione dell’istruzione[6] istituita contestualmente.

La norma precisa che l’attività di formazione e aggiornamento ha come obiettivo “promuovere e sostenere processi di innovazione didattica e organizzativa della scuola, rafforzare l’autonomia scolastica e promuovere lo sviluppo delle figure professionali di supporto all’autonomia scolastica e al lavoro didattico e collegiale[7]

Fin qui tutto bene. Sembrava proprio da queste premesse che tale formazione supplementare dovesse distinguersi da quella obbligatoria per tutti i docenti di ruolo già prevista dall’ articolo 1, comma 124 della “Buona scuola” e che fosse finalizzata a quella formazione appunto aggiuntiva e specifica dedicata a chi avesse voluto o dovuto per ragioni di servizio occuparsi di qualcosa di più e di diverso dal solo insegnare come è d’obbligo per tutti i docenti.

A prima vista sembrava che fosse l’innovazione si fondasse  su  una differenziazione tra i docenti non basata sulla “bravura” o l’anzianità, bensì basata da una parte sull’acquisizione e il rafforzamento di competenze addizionali per compiti particolari rispetto all’insegnare e al progettare la propria lezione d’aula, dall’altra sulle mansioni effettivamente svolte nell’organizzazione scolastica oltre la docenza.

A questa apertura iniziale non è corrisposta però nell’articolazione successiva della norma, una esplicita e chiara definizione di percorsi formativi specificatamente attribuibili alle figure di sistema attualmente presenti in tutte le scuole, né di percorsi per quei docenti che si offriranno volontari, prefigurandone un ruolo di supporto nell’organigramma di un istituto attraverso una formazione specifica, magari come “agenti di cambiamento” nei collegi o nei gruppi o come psicopedagogisti , o altro.

Le indicazioni dei percorsi di formazione sono invece deludenti e oltremodo generiche trattando di  “attività di progettazione, tutoraggio, accompagnamento e guida allo sviluppo delle potenzialità degli studenti, volte a favorire il raggiungimento di obiettivi scolastici specifici e attività di sperimentazione di nuove modalità didattiche”. Tutto e niente. La solita demagogia dell’indicare con roboanti espressioni come novità ciò che non è tale, facendo sfumare così la possibilità di uno “sviluppo delle figure professionali”   come reale, anche se parziale,   elemento di innovazione nel lavoro dei docenti.

[1] DL 9 agosto 2022, n. 115, art. 38
[2] L’intervento si può ascoltare  in: https://www.youtube.com/watch?v=n4UuYFbiC_4
[3] DL n. 36 del 30 aprile 2022  “Misure   per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Convertito con la Legge  n. 79 del  29 giugno 2022.
[4] Ivi, Art. 16 ter comma 1
[5] Ivi, Art.16 ter comma 3
[6] Ivi. Art. 16 bis
[7] Ivi, Art. 16ter comma 3

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Le sfide per una scuola senza scarti umani

di Raimondo Giunta

“La divisione politica si situa tra coloro che affidano alla scuola il compito di trasmettere una somma di saperi tecnici tali da garantire al termine l’impiegabilità del soggetto e coloro per i quali la scuola ha una vocazione culturale che supera la somma delle competenze tecniche che essa permette di acquisire” (Philippe Meirieu)

LA LIBERTA’ DELL’INSEGNANTE

Ciò che dovrebbe fare l’insegnante a scuola in gran parte è stabilito dall’amministrazione dello Stato attraverso i suoi ordinamenti; in gran parte, perché in democrazia qualche voce in capitolo dovrebbero averla genitori e alunni.
In una parola non è lasciato al suo arbitrio ciò che va fatto,
L ‘incidenza delle leggi e delle direttive ministeriali, però, se può svilupparsi sui contenuti del curriculum, non può e non dovrebbe pesare sull’organizzazione dell’attività didattica, che appartiene alla responsabilità professionale dell’insegnante,
L’amministrazione, nell’esercizio dei suoi poteri deve rispettare i principi e i valori sanciti nelle norme costituzionali, che dell’insegnante tutelano la libertà e la dignità,
Se non vuole ridursi ad un semplice operatore tecnico a cui ogni giorno vengono date le istruzioni per lavorare, l’insegnante deve farsi una propria idea di società, di scuola e d’insegnamento, coltivarla e confrontarla con le pratiche che gli vengono richieste,
Solo su questo solido fondamento è possibile difendere il proprio diritto alla libertà di insegnamento,
L’ insegnante deve sapere che la sua libertà a scuola è al riparo dalle ingiunzioni e dai tentativi che la vogliono limitare, se è vasta e indiscutibile la sua cultura e se la sua attività didattica è improntata ad una irreprensibile correttezza professionale e al rispetto dell’autonomia e della dignità dell’alunno,


La società farebbe a meno degli insegnanti liberi, ma alla crescita dei giovani sono utili solo quelli intellettualmente autonomi, ”Nell’educazione l’autonomia è essenzialmente autonomia di decisione; è libertà di interpretazione; è capacità di pensare lontano; è prefigurazione di scenari che per quanto sbagliati possano essere ,lo saranno sempre di meno di quelli sollecitati da un senso comune incapace di progettualità educativa e subalterno a modelli di interpretazione del reale che rispondono a tutt’altre logiche” (B, Vertecchi)
Il lavoro dell’insegnante, oggi, non gode il prestigio sociale di un tempo ed è fatto oggetto spesso di critiche immotivate da parte dei media, delle famiglie e della propria amministrazione e tutto questo nonostante siano cresciuti la complessità dei suoi compiti e il carico degli adempimenti, Sembra a volte che deliberatamente non si voglia riconoscerne la peculiarità, il significato e il valore civico indispensabile per la società, Si trascura il fatto che l’insegnamento solo con la collaborazione e col sostegno dei partner sociali e istituzionali può dare frutti, perché grandi e difficili sono le sfide che deve affrontare e superare,

LE SFIDE DELLA SCUOLA

Il lavoro dell’insegnante è sfidato, messo a dura prova, perché deve svolgersi in ambienti di apprendimento che non hanno più i confini dello spazio-aula, perché deve rivolgersi ad una popolazione scolastica sempre più multietnica e multiculturale, e tenere presente la differenziazione dei bisogni educativi (famiglie disperse, migrazioni etc, ) di una società in cui con l’ampliamento del diritto all’istruzione e alla formazione di fatto si è alzato il livello delle sue ambizioni sociali ,
Su questo fronte un insegnante democratico e aperto, anche se dovesse essere isolato, anche se non viene apprezzato per quello che fa e vale, deve impegnarsi senza cedimenti e compromessi, perché una così grande conquista di civiltà non venga vanificata.
In una scuola che pretende di definirsi come comunità educativa nessuno può essere condannato all’insuccesso e all’esclusione,
Nella trasmissione dei saperi e della cultura né la scuola né gli insegnanti possono darsi come obiettivo l’abbandono di una parte degli alunni. La scuola e gli insegnanti non possono dimenticare che il loro ruolo non può non essere legato ad un progetto di liberazione umana e intellettuale, allo sviluppo dell’umanità di ogni alunno,
Le sfide che si devono affrontare quotidianamente a scuola si riassumono in quella dell’educabilità di ogni alunno e quindi nel suo diritto/dovere ad apprendere. L’educabilità di ogni alunno è un criterio di orientamento a cui ogni docente dovrebbe ispirarsi per difendere il suo insegnamento dalle ingiunzioni del sistema , che nonostante i suoi alti proclami pretende solo risultati, molti dei quali indifferenti alla crescita degli alunni che gli vengono affidati, ”E’ evidente che nell’ambito di concezioni utilitarie l’educazione perde la sua autonomia”(B. Vertecchi).
Piegarsi alla sudditanza di certe prescrizioni dal netto sapore economicistico è un tradimento della funzione educativa.
La cultura del risultato cui soggiace quella della valutazione, soprattutto quando si molestano le scuole con asfissianti e ripetute richieste di reperimento di dati, ha impoverito la vita delle scuole e rende difficile una buona educazione dei giovani,

UNA SCUOLA SENZA SCARTI UMANI

Si promuove e si esalta la centralità degli alunni nel processo educativo, senza fare cenno alle difficoltà che si incontrano in un sistema in cui di fatto, soprattutto con l’accettazione dogmatica dell’’approccio per competenze, al centro sono state messe le esigenze dell’apparato economico.
Non è senza costi lavorare per la crescita degli alunni e questo tra le tante cose significa togliere gli ostacoli al loro apprendimento, apprezzare i loro progressi nel profitto, non colpevolizzare i loro errori, ascoltarli, ma anche metterli alla prova.
Per mettere al centro dei processi formativi gli alunni bisogna battersi contro l’idolatria del risultato immediato; occorre togliere all’insegnamento certe scorie professionistiche che a volte rendono gli insegnanti insensibili alle richieste di confidenza, di aiuto e anche di affetto, perché l’insegnante educa con il comportamento, non solo con le parole della sua disciplina.
A quanti queste indicazioni fanno storcere la bocca si deve ricordare che la gestione delle relazioni umane è cruciale per assicurare un buon clima interno alla classe e che solo su questo solido fondamento possono innestarsi con successo anche le pratiche didattiche che presentano un certo grado di difficoltà.
L’educazione dei giovani è una questione di incontri positivi: ”quello del preside con gli insegnanti, quello degli insegnanti con gli alunni, quello degli alunni con la cultura (Claude Lessard).
Non è un processo direttivo di produzione dal sicuro effetto, dipendente soltanto da rapporto mezzi/fini.
L’insegnamento è un incontro dove non è detto quello che PUÒ SUCCEDERE, Ragion per cui a scuola l’insegnante, che si sente responsabile di parte del futuro dei suoi alunni, deve farsi testimone di un’etica della sollecitudine e della necessità del dialogo e opporsi a qualsiasi suggestione che conduca al lavoro di scarto dei prodotti ritenuti difettosi.
L’insegnante di qualità vuol vedere andare avanti tutta la classe e non ama predicare nel deserto,
Il primo compito dell’insegnante è quello di rendere intellegibile il sapere che deve trasmettere e farlo amare.
Per raggiungere questo risultato deve trovare gli accorgimenti organizzativi e metodologici per diradare l’indifferenza degli alunni che può crearsi intorno ad esso e uno dei più sicuri è quello di dare visibile prova della sua passione per ciò che insegna. Questo è il primo compito, perché la scuola non ha senso, se viene privata o impoverita della funzione imprescindibile della trasmissione del patrimonio di cultura, di tradizioni, di valori, di saperi e di tecniche alle nuove generazioni, se viene occultata o sminuita la sua funzione conoscitiva.
La storia non ricomincia ogni volta da zero; continua e continua per l’azione di conservazione e di trasmissione svolta dalla scuola attraverso i suoi insegnanti,

UNA SCUOLA COME ISTITUZIONE COLLETTIVA

Ad una scuola che non vuole creare scarti si propone come strategia adeguata la personalizzazione e/o l’individualizzazione dei percorsi; una scuola su misura si sarebbe detto in altri tempi. Ci sono tante e reali difficoltà per mettere in atto un modello simile e solo la modularizzazione del curriculum potrebbe essere una soluzione adeguata.
Di fatto se questo dovesse essere il solo rimedio per evitare di creare scarti, la scuola diventerebbe il luogo della giustapposizione di trattamenti individuali e non avrebbe più alcun carattere di istituzione collettiva, centrata sul bene comune; non sarebbe più capace, nell’età che hanno gli alunni che la frequentano, di educarli alla convivenza stabile con un proprio gruppo di riferimento. La scuola diventerebbe una struttura pubblica nelle modalità e nelle pratiche simile ad una casa di cura più che ad un luogo di istruzione e formazione, dove si impara a crescere insieme.
Credo che sfugga a tanti come in questo modo la scuola diventerebbe omologa ad una società che non vuole legami comunitari; ad una società che non vuole essere società.
Con questo modello educativo, tra l’altro, si rende difficile all’insegnante il compito di mobilitare gli alunni su interessi che non siano quelli che già ha e alla fine la scuola si darebbe come vero ed unico obiettivo solo quello di fare riuscire l’alunno in qualche modo, non quello di aiutarlo a crescere, a comprendere e a migliorarsi.
L’alunno sarebbe confermato, bloccato nella propria strategia di apprendimento e l’insegnamento non libererebbe le sue energie, perché si ridurrebbe ad una strategia di adattamento.
L’alunno non uscirebbe mai dai suoi limiti. Non andrebbe mai oltre se stesso. I giovani non hanno bisogno di essere diversificati per curriculum, ma di essere accettati e compresi nella propria diversa identità, nella propria storia personale, nella propria provenienza sociale, religiosa ed etnica.
Hanno bisogno di una pedagogia dell’aiuto reciproco, della cooperazione. Hanno bisogno di essere migliori di se stessi, non migliori degli altri. La verità è che c’è la classe e c’è l’insegnante e non l’insegnante e ogni singolo alunno. L’insegnante deve potere parlare ad ognuno dei suoi alunni, pur indirizzandosi a tutti.
E’ difficile, non impossibile.

CONTRO L’AZIENDALISMO

L’insieme dei ragionamenti fin qui svolti delineano una linea di opposizione al modello della scuola efficace che, oltre ad essere la cornice istituzionale in cui gli insegnanti devono lavorare e alla quale non dovrebbero sottrarsi, è anche la proposta che più facilmente passa nella pubblica opinione, perchè ne intercetta il senso comune e le aspirazioni. Non si è cercato, né voluto elaborare un succinto pro-memoria di sollecitazioni tecnico-metodologiche; si è inteso proporre un appello alla dimensione etico-pedagogica del lavoro dell’insegnante.
Nell’insegnamento c’è una vocazione intrinseca all’umanità che non si può trascurare, né scambiare come un semplice ed eventuale aspetto della professionalità docente. E tutto questo senza prescindere dalle contraddizioni che abitano il lavoro dell’insegnante e dalle sue estese condizioni reali di disagio e di precarietà professionale.
Con quello che si è detto si tende, con i mezzi a disposizione, a dare risalto e dignità civica e valore alle scelte che lo potrebbero sottrarre all’umiliazione quotidiana, con la quale si vuole farne un esecutore servizievole di un’organizzazione che nell’iper-attivismo nasconde la perdita di senso dell’insegnamento.
Si prova a farlo scendere dalla gioiosa macchina delle educazioni per cercare il senso autentico dell’educazione.
Non si è proposto, però, un invito alla solitudine, a disdegnare le giuste alleanze tra i colleghi, senza le quali sarebbe difficile fare della scuola il vero luogo dell’autonomia: quella intellettuale e morale.
Si è voluto scrivere una sollecitazione a ritrovare la capacità di decidere, espropriata da quanti sono interessati a rendere la scuola funzionale soprattutto al sistema produttivo.
La scuola come azienda non ha senso; ce l’ha solo come comunità educante, in cui non si dovrebbero spendere molte parole per mettere in risalto i valori della responsabilità, della collaborazione e del dialogo e in cui non se ne dovrebbero usare per invitare gli insegnanti a non partecipare alle misere corse per premi messi in palio per spingerli alla competizione tra loro. Arrivismo e carrierismo dovrebbero esserne banditi.
Solo insegnanti liberi e generosi possono formare giovani liberi e generosi, dotati di tutti gli strumenti per essere cittadini in grado di partecipare alle scelte della propria comunità e di assumere le responsabilità nel mondo del lavoro per le quali sono stati formati. I compiti della scuola non possono essere riassunti in quello di produzione di capitale umano per la competizione tra sistemi economici.
Bisognerebbe, pertanto, guardare con sospetto ai prestiti culturali della cultura aziendale, resistere alle suggestioni consumistiche che si nascondono dietro il luccichio delle nuove tecnologie e non leggere i dati delle comparazioni internazionali come pagine della nuova buona novella pedagogica.
Dice B. Vertecchi: ”Siamo di fronte a una contrapposizione drammatica fra concezioni educative centrate sui tempi brevi e concezioni che guardano ai tempi lunghi”; la scuola che si cura di tutti e che a tutti ha qualcosa da dire è una scuola che non deve avere fretta e alla quale non si dovrebbe fare fretta. In questo scenario l’insegnante di fatto è costretto a scegliere la propria parte e quella che si suggerisce di prendere è impegnativa e veramente difficile, perchè con molta probabilità lo metterà in contrasto con la propria amministrazione e con le stesse famiglie degli alunni.
A questo proposito va detto con chiarezza che se gli insegnanti non vengono tutelati, se le loro scelte impegnative non hanno alcun sostegno sociale, politico e sindacale, non essendo nessuno obbligato all’eroismo, ma solo alla responsabilità personale, molti come purtroppo avviene svolgeranno il proprio difficile lavoro con l’intendimento di non avere fastidi.
Ma così l’insegnante perderà l’anima e la scuola la sua funzione educativa.
Se la scuola di fronte ai cambiamenti della società è tenuta a rinnovarsi e a ridefinire le proprie funzioni nella società, l’insegnante non può restare fermo alle esperienze maturate; è tenuto a ripensare il proprio ruolo e le modalità di esercizio dei suoi compiti. Non può essergli estranea la consapevolezza di stare esercitando una professione complessa, diversificata, in costante evoluzione che richiede una riflessione continua sulle proprie pratiche e un continuo aggiornamento.
La professionalità del docente non può essere ridotta all’insieme delle competenze tecniche; non può essere pensata priva di responsabilità morale e sociale, né tantomeno di passione educativa.
Se così fosse, sarebbe destinata all’insuccesso.




La scuola che in tanti sognano, ma che non avremo

Stefaneldi Mario Maviglia

Questa campagna elettorale sta facendo sognare tutti gli operatori scolastici: tra aumenti salariali (fino ad arrivare all’equiparazione con la media degli stipendi dei docenti UE), il tempo pieno su tutto il territorio nazionale ed altre importanti promesse, c’è motivo di essere ottimisti rispetto al futuro della scuola italiana.

Non vogliamo offuscare questa immagine idilliaca della scuola che verrà; segnaliamo però che ci sono anche altri problemi che oggi sono sul tappeto e che meriterebbero di essere affrontati. Ne citiamo solo alcuni, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo.

Ormai è invalso l’uso di considerare l’istituzione scolastica come una comunità che interagisce con la più vasta comunità esterna. L’ultimo CCNL Scuola ha introdotto, a questo proposito, l’espressione di “comunità educante” (art. 24). Visione suggestiva e intrigante. Ma perché la scuola possa riconoscersi come “comunità” occorre che vi siano i presupposti, come dire?, materiali perché ciò avvenga. In una comunità, ad esempio, ci si aspetta che i componenti si conoscano tra loro in modo non superficiale, ci si attende che possano interagire al loro interno e condividere idee e progetti; insomma ci si aspetta che vi sia una rete relazionale e comunicativa viva e continua sia in senso orizzontale (tra colleghi) che in senso verticale (con la dirigenza e viceversa). A fronte di ciò, vi sono istituti scolastici che contano più di 2000 studenti ed oltre 200 addetti tra docenti e personale ATA.

È ragionevole pensare che queste strutture si configurino più come dei monstre organizzativi che come comunità. Difficile immaginare, ad esempio, che un dirigente scolastico, in questi contesti, conosca in modo adeguato tutti i docenti dell’istituto, per non parlare degli studenti. Purtroppo le norme attuali fissano solo i numeri minimi per far funzionare un’autonomia scolastica (non meno di 600 alunni ordinariamente e non meno di 400 nelle zone di montagna o piccole isole); non viene fissato un numero massimo. Pensare di fondare “comunità educanti” con numeri così alti è pura utopia in quanto viene a mancare l’elemento caratterizzante una comunità, ossia quello relazionale-comunicativo; al più si può fondare una comunità organizzativa con una chiara definizione dei ruoli e dei poteri dei diversi soggetti coinvolti. La soglia che la legge fissa come livello minimo dovrebbe costituire invece il livello normale di un’istituzione scolastica. I grandi istituti scolastici rispondono ad esigenze di risparmio economico e, tutto sommato, perseguono modelli aziendalistici (ricordano le grandi fabbriche), ma i processi educativi, per essere curati e sviluppati adeguatamente, dovrebbero ispirarsi a modelli umanistici, ossia favorire l’incontro tra le persone e tra queste e la cultura, in tutte le sue poliedriche forme.

La scuola, com’è noto, ha il compito di curare i processi di apprendimento e socializzazione delle giovani generazioni in modo che questi possano inserirsi attivamente nella società e realizzare, per quanto possibile, i loro desideri. Tutto ciò che ruota intorno alla scuola (competenze professionali, aspetti organizzativi, dispositivi amministrativi, risorse strumentali ecc.) dovrebbe essere subordinato o collegato a questo compito prioritario (alla mission della scuola, come spesso viene detto). Se però si analizza come la scuola è andata strutturandosi nel corso di questi ultimi due decenni si può facilmente verificare che questo principio è stato fortemente contraddetto nei fatti. Prendiamo l’aspetto burocratico. Ogni organizzazione non può fare a meno di documentare, attestare, certificare ecc. la propria attività, per vari e molteplici motivi; ma quando la produzione di atti raggiunge livelli assimilabili alla categoria della superfetazione, allora rischia di essere messa in discussione la stessa mission dell’organizzazione stessa, nel senso che ciò che doveva essere visto come un mezzo diventa un fine. È quello che è successo alla scuola e che continua a succedere: un profluvio di norme, circolari, direttive, note, decreti, istruzioni e quant’altro, che soffoca l’attività di docenti e dirigenti. Non è esagerato dire che oggi il docente italiano rischia di essere più paragonabile ad uno scribacchino che a un intellettuale. Non vi è aspetto della funzione docente (e dirigente) che non sia fortemente interessata a produzioni scritte (schede, resoconti, rapporti, verbali, verifiche, progetti, linee operative ecc.), per non parlare dell’insieme di incontri, riunioni, colloqui ecc. che fanno da corollario a tutto ciò. Questa sovrapproduzione burocratica è costantemente sostenuta dallo stesso Ministero (e dalle sue diramazioni periferiche) attraverso una molteplicità di atti (circolari, note, monitoraggi, direttive, ordinanze e altro ancora) che si riversano sulle istituzioni scolastiche il più delle volte senza che vi sia un ritorno degli esiti di quanto richiesto. Questo processo crea inevitabilmente sovrapposizione di norme, spesso in contraddizione tra loro, ponendo i soggetti terminali in situazioni disagevoli di interpretazione ed esegesi delle norme stesse. Forse bisognerebbe riorganizzare in modo sistematico le norme già esistenti (operazione già prevista, per la verità, dalla legge 107/2015, ma finora mai portata a termine) e quindi imporre un limite massimo di atti da produrre nel corso di un anno scolastico. Se le norme nazionali sono chiare e ben sistematizzate, gli interventi amministrativi del Ministero non dovrebbero superare la decina nel corso dell’anno scolastico; ci penseranno le scuole autonome ad organizzare l’attività scolastica sulla base delle norme esistenti. Questo presuppone che il “superiore Ministero” abbandoni definitivamente ogni velleità centralistica e si ponga al servizio dell’autonomia delle scuole.

C’è però da sperare che questo passo indietro del Ministero rispetto alla sovrapproduzione burocratica non venga compensato da analoga sovrapproduzione delle scuole autonome. Talvolta, infatti, sono i dirigenti scolastici a soffrire di comportamenti compulsivi sul piano della produzione di “carte”, attraverso una intensa generazione di norme regolamentari locali, oppure richiedendo ai docenti la produzione/compilazione di una molteplicità di documenti. Una scuola di dimensioni più ridotte probabilmente necessiterebbe di una minore produzione di “carte e scartoffie”. Quello che si vuole sottolineare con decisione è che l’insegnamento dovrebbe essere fortemente sburocratizzato e gli insegnanti non dovrebbero essere oggetto di inutile e snervanti molestie burocratiche; le energie magistrali vanno impiegate prima di tutto e innanzi tutto nella cura dei processi di apprendimento e non nel soddisfare le brame burocratiche dell’ingordo moloch amministrativo, invero mai completamente sazio. Le preoccupazioni dei docenti dovrebbero essere altre: come strutturare la classe in una comunità di apprendimento? Quali strategie mettere in atto nei confronti degli studenti che non apprendono? Come suscitare la motivazione? Quale mediazione didattica appare più indicata per quella specifica classe frequentata da quei particolari alunni? Quali approcci valutativi adottare in termini formativi? Come suscitare e tenere vivo l’interesse degli alunni? Come utilizzare in modo proficuo le tecnologie informatiche nella didattica? Quali approcci sono più efficaci nella gestione della classe o dei gruppi? Come garantire continuità e coerenza tra i diversi interventi dei vari docenti che si alternano in una medesima classe? Come interagire con la realtà esterna senza snaturare la specificità educativa della scuola? Su queste domande prioritariamente, e su altre del medesimo tenore, si dovrebbe indirizzare l’attenzione dei docenti in quanto facilitatori dei processi di apprendimento. Eppure l’impressione che si ricava è che questi problemi siano stati espunti dal dibattito sulla scuola, tutto centrato su ciò che avviene al di fuori dell’aula, come se la professione docente si svolgesse in un altrove contrassegnato dall’assenza della didattica e della pedagogia.

Questo problema appare strettamente intrecciato al cosa insegnare, ossia a ciò che è importante che oggi apprendano gli studenti e soprattutto alle forme di “trasmissione” del sapere. Sul primo punto sembra ormai persa la battaglia condotta per tanti anni e che mirava a snellire ed essenzializzare i curricula delle scuole di ogni ordine e grado. In realtà nel tempo i curricula si sono viepiù ampliati configurandosi di fatto come degli “spezzatini cognitivi” con scarse relazioni tra di loro. Questo processo di secondarizzazione, caratterizzato da nette paratie tra le discipline, ha nel tempo coinvolto anche i gradi iniziali dell’istruzione, talché oggi non vi è una sostanziale differenza tra l’offerta didattica del primo e del secondo ciclo, a parte, evidentemente, i livelli di approfondimento. Parlare di semplificazione del curricolo, attraverso operazioni di apparentamento tra discipline affini o periferiche, oggi appare quasi improponibile anche perché andrebbe a scardinare il meccanismo perverso delle classi di concorso iperspecialistiche. In questa frammentazione sono stati sacrificati, almeno nel primo ciclo, anche i cosiddetti saperi di base, (lingua e matematica, in primo luogo), immolati sull’altare dell’uguaglianza delle discipline, con inevitabili ripercussioni sulle possibilità di padroneggiare tutte le discipline, atteso che una inadeguata alfabetizzazione linguistica pregiudica l’acquisizione delle altre.

Ancor più complesso è il problema della mediazione didattica, ossia di come far arrivare il messaggio agli allievi, e dunque la questione delle strategie e della strumentazione (didattica) che vengono utilizzate. Anche in questo caso sembra che si faccia ancora molta fatica ad uscire dai canoni tradizionali caratterizzati da una comunicazione unidirezionale. In fondo, diciamocelo chiaro, in molte scuole la lezione la fa ancora da padrona. Decenni di insistenza sulla centralità dello studente e sulla cura della personalizzazione si infrangono davanti al totem della sempiterna lezione. Non che questa vada criminalizzata, ma bisognerebbe almeno trovare degli adeguati contrappesi per rendere effettivamente attivo il ruolo dello studente. E oggi esistono delle strategie didattiche che permettono di operare in questa prospettiva. Il lavoro di gruppo o quello cooperativo, ad esempio, appartengono a questa categoria, anche se ancora sono molto poco presenti nel nostro sistema scolastico e in alcuni istituti del tutto ignoti. La didattica laboratoriale, che coniuga l’approfondimento teorico con gli aspetti operativi di una disciplina, è un’altra strategia molto citata ma poco praticata. La responsabilizzazione dello studente con la mobilitazione delle sue capacità elaborative ed operative appare ancora molto poco diffusa nella pratica didattica. Di fatto gli studenti sono quasi sempre destinatari pressoché passivi degli interventi didattici degli insegnanti; sono poche le occasioni in cui possono mettere a frutto, attraverso progetti individuali o di coppia o di gruppo, quanto acquisito in classe. Non che manchino esperienze ispirate a questi principi educativo-didattici, ma nel complesso la didattica appare ancora ingessata, centrata prevalentemente sulla parola dell’insegnante e fortemente disallineata rispetto alle forme contemporanee di conoscenza dei giovani di oggi, immersi in un universo tecnologico dove l’utilizzo dei mezzi informatici ha sostituito le forme tradizionali dell’acquisizione dei dati e delle modalità di comunicazione.

Quanto è stato detto fin qui stenta ad entrare nel dibattito pubblico sulla scuola, ma se non si tengono conto di questi problemi le varie proposte di riforma rischiano di rimanere lettera morta in quanto non riescono ad incidere sulle concrete prassi didattiche. Se non vi è un cambio di paradigma nel modo di fare scuola ogni progetto di riforma è destinato ad arenarsi. Gli stessi interventi che mirano a contrastare le cosiddette “povertà educative” spesso dimenticano di considerare che può essere la stessa scuola ad alimentare ed aggravare queste povertà laddove perpetua forme vetuste di didattica che non riescono a motivare e coinvolgere nei processi di apprendimento la popolazione studentesca più fragile.

Tutto ciò ci porta a fare un’ultima considerazione riguardante il ruolo fondamentale svolto dai docenti nel rinnovamento della didattica e quindi della scuola. Ogni proposta di riforma della scuola non può aspirare ad alcun possibile successo se non trova una classe magistrale in grado di accettare e interpretare le sfide innovative. Lavorare sulle competenze professionali degli insegnanti appare quindi un obiettivo prioritario se non si vogliono perdere importanti opportunità di sviluppo e rinnovamento della scuola. Gli stessi sostanziosi finanziamenti messi in campo dal PNRR rischiano di lasciare inalterato il livello di qualità della scuola se non si interviene sulla formazione dei docenti. Avere insegnanti ben preparati e in grado di modulare gli interventi didattici a seconda delle realtà delle classi, vuol dire investire sulla loro formazione e sui meccanismi di selezione e individuazione di professionisti idonei. Su questo aspetto in Italia si registra una grande fatica a trovare una soluzione adeguata; di fatto ci si accontenta di tenere in piedi un esercito di professionisti malpagato, senza alcun incentivo a migliorare la propria professionalità, con pochissimi controlli sulla qualità del servizio prestato e con una preparazione iniziale alquanto indefinita. Con questi presupposti c’è poco da essere ottimisti.

 

 




Caro futuro Ministro dell’Istruzione, chiunque tu sia…

di Mario Maviglia

(Attenzione! Questo intervento contiene affermazioni a forte impatto emotivo e pertanto se ne sconsiglia la lettura ai soggetti fragili, depressi o impressionabili. Non tenere a portata di mano pistole d’ordinanza o altre armi, anche bianche).
Nel testo il termine “Ministro” viene usato al maschile ma comprende anche il femminile.

Caro futuro Ministro dell’Istruzione, chiunque tu sia (c.t.s.), siamo convinti che sarai scelto non in seguito a incomprensibili e imperscrutabili beghe di potere o per mantenere equilibri politici precari. No! Tutto ciò fa parte della liturgia del passato. Questa volta sarai scelto per le tue acclarate competenze generali e di politica scolastica in particolare. Tu conosci in modo puntuale i problemi che affliggono la scuola ed elaborerai un piano di interventi tempestivo, efficace e definitivo. Finalmente la scuola sarà rivoltata come un calzino e potrà realizzare la sua importante funzione senza intoppi o titubanze, proiettata verso un futuro radioso di sviluppo, crescita e ricchezza.
La scuola sarà posta al centro dell’agenda politica e dell’opinione pubblica e tutti ne riconosceranno il suo insostituibile e fondamentale ruolo che svolge per il bene del Paese. Eccetera…

Ma, prima che tu inizi questa catartica e rivoluzionaria operazione di innovazione e trasformazione, vogliamo richiamare la tua attenzione su alcuni preliminari aspetti della macchina che andrai a dirigere nella convinzione che ciò ti possa tornare utile e possa imprimere una accelerazione ai tuoi disegni riformatori.

Caro futuro Ministro, c.t.s., come sai, quando si intraprende un’impresa complessa come quella che tu stai per iniziare, una delle prime cose da fare è quella di verificare chi sono i propri collaboratori, sia nel micro che nel macro, e quali competenze e motivazioni hanno rispetto al compito.
Per esempio, il tuo apparato amministrativo è in grado di gestire processi ordinari ancorché complessi? (Non rispondere subito, fai prima un respiro, o conta fino a tre).
Alcuni di questi processi sono di una banalità disarmante e ripetitiva, come ad esempio la nomina dei docenti “prima” che inizino le lezioni (o la nomina degli addetti all’amministrazione delle scuole).
Saprai, caro futuro Ministro, c.t.s., che l’anno scolastico, in Italia, inizia il 1° settembre, mentre le lezioni hanno un inizio differenziato a seconda delle Regioni. Queste scadenze si conoscono un anno prima e dunque tutto lascerebbe supporre che si abbia il tempo necessario per organizzare tempestivamente le varie operazioni di trasferimenti, nomine, immissioni in ruolo e quant’altro.
Eppure è quasi commovente vedere come l’apparato amministrativo ogni anno arrivi con l’acqua alla gola per completare le varie operazioni.
Forse sono troppo complesse? Forse ci sono troppi passaggi? Forse non ci sono adeguate competenze gestionali nel management amministrativo?
Il problema in sé non è paragonabile ai tanti di carattere politico che dovrai affrontare, caro futuro Ministro, c.t.s., ma considerato che impatta fortemente sull’organizzazione delle scuole e sulle attese di studenti e famiglie, forse ti conviene rivolgere una certa attenzione e trovare delle soluzioni, come dire?, definitive. (Ricorda, caro futuro Ministro, c.t.s: l’a.s. in Italia inizia il 1° settembre…).

Nel corso della campagna elettorale molti tuoi concorrenti hanno promesso mare e monti (qualcuno anche la collina…). È stato detto che gli stipendi dei docenti italiani devono essere equiparati alla media degli stipendi dei docenti UE. Ma perché fermarsi a questo? Perché non puntare più in alto? Tu vai oltre: prometti stipendi da favola, con aumenti stratosferici per tutti! Tanto gli italiani hanno la memoria corta e dimenticano tutto.
Ricorderai che nel passato qualche uomo politico aveva promesso un milione di posti di lavoro poco prima delle elezioni, qualcun altro l’aumento delle pensioni e la sconfitta della povertà, tanti altri l’abbassamento delle tasse. Gli italiani stanno ancora aspettando. Gli italiani sanno aspettare. E allora tu prometti stipendi d’oro! Non ti costa nulla e ti fa avere un mucchio di voti.

Anche riguardo ad altri aspetti della vita scolastica, non essere banale! Punta in alto!
Basta con le classi pollaio! Al massimo, classi-stalla: sono più grandi e ci stanno più studenti. Nessuno ti può accusare di non aver risolto il problema. Anzi, potrai sempre dire che “la congiuntura economica del momento non consente di affrontare il problema in una prospettiva risolutoria diversa, e pertanto occorre adottare una linea di condotta realistica in sintonia con le specifiche richieste dell’UE… ecc. ecc.” (il riferimento alla UE va sempre bene…).
E poi, parliamoci chiaro, si può fare lezione anche con 50 studenti: chi ha voglia di studiare non si lascia condizionare dal numero. Certo, i tuoi predecessori hanno insistito oltremodo (sulla carta…) sulla necessità di personalizzare i percorsi di apprendimento, ma quelle sono espressioni che si usano perché “lo vuole la UE”, appunto. Fumo negli occhi, insomma.
D’altro canto, saprai, caro futuro Ministro, c.t.s., che la scuola riesce a fare poco o nulla rispetto ai divari iniziali tra gli studenti. E allora perché vuoi intralciare un fenomeno naturale, che fa parte della natura stessa delle cose? Ovviamente non dirai così al personale della scuola, anzi ti sperticherai nel dire che il tuo Ministero “è impegnato nel garantire a tutti gli studenti il diritto allo studio e il successo formativo quale obiettivo prioritario per innalzare il livello culturale della popolazione e la crescita economica del Paese bla bla bla…”.

Non ti vorrai sottrarre, caro futuro Ministro, c.t.s., al fascino discreto del lasciare il segno della tua permanenza a Viale Trastevere 76/A attraverso una epocale riforma della scuola, qualunque cosa essa sia.
I tuoi predecessori hanno amato in modo particolare questo aspetto della loro missione. Tu non puoi essere da meno. La riforma può riguardare l’Esame di Stato della scuola del secondo ciclo (ma è diventato un tema talmente inflazionato che è meglio lasciar perdere…); oppure l’obbligo scolastico (12 anni? 13 anni? Nessuno offre di più?…) oppure le modalità di reclutamento del personale (tema sempre attuale e che dà sempre tante soddisfazioni al Ministro di turno, un po’ meno alle scuole costrette a fare i conti con sistemi di selezione che nella migliore delle ipotesi premiano la velocità di risposta ai quiz o la conoscenza mnemonica dei candidati, molto meno l’attitudine all’insegnamento).
Ma noi ti consigliamo di dedicarti ad una riforma veramente titanica: il riordino dei cicli! Se riuscirai a portarla a termine, una tua gigantografia verrà apposta nel Salone dei Ministri del palazzo ministeriale! Per la verità in questa fase non è tanto importante la realizzazione della riforma, quanto la promessa di realizzarla (ricordati del milione di posti di lavoro di cui sopra…). Per la sua elaborazione puoi fare riferimento agli schemi che di solito utilizzano gli allenatori delle squadre di calcio (1-3-4-4, oppure 4-4-4, oppure 1-4-3-5 ecc.). Qual è il senso di tutto ciò? È lo stesso che consente il funzionamento di scuole con oltre 2000 studenti…

Un aspetto che ricorre puntualmente nel dibattito scolastico è quello dell’autonomia delle scuole. Non ti lasciare ingannare, caro futuro Ministro, c.t.s. È un falso problema.
L’autonomia scolastica in Italia non la vuole quasi nessuno. Sicuramente non il Ministero che andrai a dirigere, che l’ha usata per rifilare alle scuole “autonome” incombenze burocratiche di una certa scocciatura.
Questa finta autonomia ha permesso finora al Ministero che andrai a dirigere di tenere in mano il pallino del gioco, imponendo alle scuole disposizioni, direttive, ordini, istruzioni, precetti, circolari, decreti, note, linee di comportamento e altro ancora.
D’altro canto se le scuole dovessero davvero agire l’autonomia prevista dalle norme (ancorché nella sua dimensione “funzionale”), forse emergerebbe con tutta evidenza l’inutilità di un apparato amministrativo ministeriale (con le sue ramificazioni periferiche) così elefantiaco e pervasivo.
A proposito, caro futuro Ministro, c.t.s., forse saprai che quasi il 27% delle istituzioni scolastiche non ha il DSGA (Direttore Servizi Generali e Amministrativi), con punte che arrivano al 53% (come in Lombardia). Ma tu non farne un problema, non provare ambascia: in fondo, in una situazione così caratterizzata, le scuole possono sperimentare sul campo il concetto di resilienza che va tanto di moda in questo periodo.
Sì, certo, ci sono le scocciature dei PON o quelle legate all’utilizzo dei fondi PNRR, ma stai sicuro che in un modo o nell’altro le scuole se la caveranno anche senza la presenza del DSGA. Sono resilienti, appunto…

Ci sarebbero tante altre cosette da considerare: l’effettiva possibilità per le famiglie di utilizzare i servizi educativi 0-3 anni senza dover accendere un mutuo; l’avvio (non sulla carta) del Sistema integrato 0-6; la valutazione come sistema di controllo dei processi di insegnamento-apprendimento (e non solo come verifica sanzionatoria dei risultati degli studenti); la dialettica tra conoscenza e prassi (evitando l’inciampo fonetico dei PCTO); il superamento, o l’attenuazione, dei divari territoriali in termini di qualità dei risultati. Ma queste sono cose troppo serie per poter essere trattate da un Ministro.

Insomma, caro futuro Ministro, c.t.s., il lavoro che ti attende è tanto, ma siamo sicuri che riuscirai a portarlo avanti con quella perizia e competenza che hai dimostrato in campagna elettorale facendo promesse mirabolanti.
Il volgo ha bisogno di promesse perché ha bisogno di sognare, di immaginare un avvenire migliore, idilliaco e paradisiaco. Tu hai regalato un sogno! Lascia che la realtà viaggi invece sui suoi consueti binari dell’umana miseria e dell’asfittica contingenza del momento.