Il Ministro dell’Umiliazione Nazionale

di Giovanni Fioravanti

In un celebre Fioretto riportato dai libri di lettura della mia infanzia, san Francesco spiega a frate Leone cosa sia la “perfetta letizia” alla quale la laica e pagana resilienza neppure assomiglia. La perfetta letizia è il piacere d’essere umiliato, vilipeso, una sorta di masochismo esaltato come ascesi. Non so se l’attuale ministro dell’istruzione e del merito (diciamolo tra parentesi, già il merito puzza di umiliazione per quelli che merito non hanno) sia un terziario francescano, certo è a digiuno, per stare nell’ascesi, di pedagogia, per lo meno di quella non nera.

Di fronte all’uscita, rivelatrice, del Ministro mi è tornata immediatamente alla mente l’iniziativa del suo alleato di governo, onorevole Maurizio Lupi, che nella scorsa legislatura si fece promotore di un disegno di legge per introdurre nei programmi scolastici della Repubblica l’educazione alle competenze non cognitive.
Ecco che il ministro l’ha preso in parola, pensando bene di iniziare con l’educare all’umiliazione; competenza indubbiamente non cognitiva, con i lavori socialmente utili come conseguenza punitiva. Tenere pulita e in ordine l’aula dove lavori e studi è umiliante, perché è come se fosse una punizione. Bella educazione a proposito di educazione civica, materia reintrodotta al posto di Cittadinanza e Costituzione!

Comunque invito a riflettere i fautori della comunità educante, con cui si sono riempite nei tempi recenti circolari e pagine di buoni propositi, a considerare quanto può puzzare una comunità quando pretende di essere “educante”, solo questo dovrebbe consigliare molti a rivedere il proprio lessico e la propria riflessione pedagogica.

Certo, invece di perdersi a discutere di merito senza entrare nel merito, qualcuno un po’ più avveduto in materia di scuola e formazione avrebbe dovuto intuire immediatamente che dietro al Ministero dell’Istruzione e del Merito in realtà si celava il Ministero dell’Educazione Nazionale di antica memoria, ora uscito smaccatamente allo scoperto con le parole del suo ministro.

In pieno revival gentiliano il ministro propone il ritorno alla restaurazione dei valori della “gloriosa Destra che guidò l’Italia al Risorgimento”, rivalutando quindi l’autorità dello “Stato forte, concepito come realtà etica” anche nel campo formativo, da qui la missione  di cui il ministro ha deciso di farsi paladino di “correggere” e “raddrizzare” il legno storto della gioventù.

Humus è la radice latina di umiltà, di umiliazione, e humus è la terra, ciò che sta in basso, ciò che sta sotto i nostri piedi. Invece di levarti da terra, invece di farti crescere, ti abbatto, ti respingo a terra, annichilito, annullo la tua vita, la tua identità.
Come chiamare tutto ciò, se diventasse pedagogia della scuola, se non bullismo di Stato? L’umiltà praticata come obiettivo formativo è violenza ovunque essa si concretizzi, in famiglia come a scuola, perché è negazione di sé, è sfiducia in se stessi, pastoia culturale e psicologica che impedisce la crescita e la piena realizzazione della propria vita. “Meglio la morte con dignità che la vita con umiliazione”, non ricordo dove l’ho letto, ma mi è rimasto impresso.

L’umiltà sarà pure una virtù cristiana ma confligge con la dignità che è una virtù laica.

Ma l’umiliazione dal sen fuggita al ministro neppure avrebbe dovuto attraversare la mente di chi occupa il dicastero dell’istruzione, perché il lapsus freudiano è rivelatore di un modo di pensare, di una cultura, di pulsioni radicate.
Per troppo tempo la pratica dell’umiliazione ha accompagnato la storia scolastica di generazioni di bambine e bambini, di ragazze e di ragazzi. Quanti hanno affrontato l’esperienza di essere umiliati dai loro insegnanti e compagni di classe. Insegnanti che non hanno mai pensato a come ci si possa sentire male in quei momenti, danneggiando la fiducia nella scuola, fino a odiare l’insegnante e lo studio. E semmai si comportavano così, perché a loro volta era accaduto di essere stati umiliati a scuola.

Secondo diversi sondaggi, gli insegnanti scelgono di umiliare gli studenti per ottenere il controllo su di loro, per spaventare la classe e mantenere la disciplina. Alcuni insegnanti pensano che sia giusto umiliare gli studenti come rinforzo negativo. Altri ancora ritengono che gli studenti siano abituati a umiliarsi tra loro, soprattutto sui social, per cui dal cyber bullismo si passa al bullismo della cattedra.
D’altra parte anche recentemente le cronache non hanno mancato di riferire pratiche di umiliazione scolastica, dal professore che si rifiuta di ritirare il compito dello studente trans, a quello che si rivolge agli studenti di religione ebraica dicendo: ”voi nasoni dovete essere cremati”, per finire con la maestra elementare che, alla mamma che chiede alla sua piccola, sofferente di autismo, perché piange, risponde: “cosa glielo chiede a fare, tanto non sa parlare!”. E l’elenco potrebbe ancora continuare.

A un ministro giurista non è richiesto di avere né una competenza pedagogica e neppure psicologica, ma di riflettere prima di parlare questo sì, specie relativamente a terreni particolarmente delicati e scivolosi.
Sapendo che mio figlio è nelle mani di un simile ministro io non esiterei a scendere in piazza e a chiederne le dimissioni, ma ho l’impressione che il paese soffra di una corruzione culturale che ormai non salva più nessuna forza politica.
La cosa maggiormente preoccupante è che, di fronte a chi pensa di azzerare le conquiste dell’educazione progressista, riproponendo la pedagogia correttiva, non vi sia un sussulto di dignità professionale di chi lavora nella scuola, a partire dagli insegnanti e dai dirigenti.
A meno che vi sia chi nelle iniziative del ministro scorga un recupero di ruolo e di autorità dopo decenni di caduta  del proprio prestigio sociale.
Allora significa che davvero questa scuola ha toccato il fondo, è giunta al punto di non ritorno. Significa aver abbandonato la scuola nelle mani di un personale sempre più squalificato  e frustrato, privo delle competenze indispensabili per poter affiancare i nostri giovani di ogni età nell’incontro con i saperi e nella loro crescita.
C’è di peggio. Di fronte a giovani riottosi all’autorità dei genitori e degli insegnanti, la ricetta populista è quella dell’umiliazione nazionale con il ritorno all’autorità di uno Stato educante.




Ministero dell’Istruzione e del Merito? Dal 1999 fino a Bianchi non ha meritato più di un 4 e mezzo

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Guglielmo Rispoli

Dunque sarà Ministero dell’Istruzione e del merito.

Sono il profilo politico guardando da destra, da sinistra o da centro si possono fare tutte le legittime ipotesi (probabilmente tutte errate) con riferimento al proprio legittimo punto di vista ma anche col rischio di incorrere nei pregiudizi tipici di una popolazione che ragiona per approssimazione e luoghi comuni e dimenticando, parlo per i presunti progressisti, che il novecento è finito.

Questo mio contributo analizza il rapporto tra Scuola e Merito focalizzandosi sul ruolo e il successo delle azioni di Ministero dal 1999 ad oggi (vari governi di destra e centro destra e vari governi di centrosinistra).

Senza ombra di dubbio l’Amministrazione della Scuola della Repubblica Italiana è immeritevole.
Vediamo insieme perché prendendo dati conosciuti e significativi.

#01_ I dati della corruzione della politica e il numero dei processi la dicono lunga sullo scarso merito degli amministratori pubblici intesi come categoria e non come singoli. Anche nel Ministero dell’istruzione ci sono stati recentissimi casi di inquinamento e di tangenti, fatti inaccettabili.

Voto in decimi: 4emezzo – grazie al lavoro indefesso ed onesto di tanti.
Giudizio descrittivo: si può e si deve fare di più. Diamo spazio e visibilità alla qualità del lavoro dell’onesto personale amministrativo dal Ministero agli UUSSRR, alle singole Scuole

#02_ I dati relativi ad uno snellimento delle procedure connesse con il funzionamento amministrativo della scuola ci dicono che il Ministero dell’Istruzione – secondo le analisi e le richieste delle associazioni professionali dei dirigenti come delle sigle sindacali – lavora quasi all’incontrario. Pur in un regime di autonomia organizzativa, didattica, curricolare, di formazione e sperimentazione delle singole scuole (DPR 275/99) il Ministero ha prodotto ed inviato decine di migliaia di note, circolari agli UUSSRR ed alle Istituzioni scolastiche. Testi lunghissimi con centinaia di milioni di parole e con un lessico non sempre lineare, coerente, pragmatico, chiaro, concreto, efficace e efficiente, quanto poi non corretto da smentite e correzioni.
La macchina amministrativa del Ministero dell’Istruzione (con o senza altre definizioni ed aggettivi) è elefantiaca ed ottocentesca. Oramai ha nettamente superato la funzione positiva di visione weberiana come supporto all’organizzazione sociale di un pezzo importante del nostro Paese e – pur con il digitale – non ha fatto altro che trasformare le carte esistenti ancora negli anni novanta e poco prima del duemila in una ancòra più grossa elefantiaca macchina di produzione di contorte procedure da svolgersi su piattaforme da personale che non può fermarsi mai (DS, Dsga, assistenti amministrativi, docenti collaboratori del ds): le scuole rispondono di continui controlli come se fossero evasori che devono dimostrare tutto ciò che fanno alla Guardia di Finanza.
Questa sovrabbondante produzione non solo ha scarsa funzione comunicativa e di organizzazione aziendale ma è di fatto un continuo sgambetto al funzionamento delle strutture scolastiche che hanno come mission principale l’organizzazione del lavoro nei vari edifici (e plessi) e l’organizzazione della didattica e dei servizi connessi.
Distrarre il personale amministrativo e docente come gli stessi dirigenti scolastici è un’autentica azione di sapiente boicottaggio rispetto alla Mission istituzionale.
Occorre liberare la scuola dall’eccesso di orpelli.

Voto in decimi: DUE – inqualificabile
Giudizio descrittivo: sul piano dell’organizzazione aziendale il Ministero è tutto da rivedere

 #03_ La selezione del personale della Scuola incide negativamente sull’assetto organizzativo e didattico delle scuole italiane.

Fino alla fine degli anni novanta abbiamo avuti eccellenti dirigenti tecnici per lo più sempre meno valorizzati dal Ministero ed il cui organico, che andava potenziato in vista delle tante innovazioni dal DPR 275/99 ad oggi, è stato quasi oscurato e bloccato. Il numero sotto organico degli attuali dirigenti tecnici è talmente inconsistente che di fatto le singole scuole sono da un lato totalmente dipendenti – a livello amministrativo dal centro (leggasi viale Trastevere) – con quasi nessun raccordo ed aiuto organizzativo – formativo – didattico che non siano le centinaia di mail al mese. Chiunque capirebbe che è un sistema caotico e contraddittorio.
La selezione del personale dirigente delle scuole non era ineccepibile, ma la verità è stata che la selezione precedente era maggiormente efficace ed efficiente. Prova ne sia l’altissima selezione nell’ultimo concorso a Direttore didattico (1995) che ha visto il numero di vincitori inferiore al numero dei posti. Soprattutto quei direttori didattici oggi dirigenti scolastici (al netto dei pensionati) sono stati e sono tra i migliori dirigenti scolastici dell’intero sistema scolastico italiano. Quasi nessuno di quella generazione è stato oggetto di nomine per meglio coordinare i processi di innovazione e miglioramento pur in presenza, fin dal 2013, di uno specifico decreto ministeriale (n.80/2013).
Le selezioni successive, basate principalmente sui quiz e con prove orali anche di 4-5 minuti, hanno prodotto non pochi errori che non possono che essere attribuiti al sistema in sé. Certamente l’uso dei quiz demotiva e rischia di escludere le personalità più creative ed intelligenti.
La selezione del personale docente è farraginosa. Lunga, poco tecnica, nessuna considerazione delle attitudini con accuse reciproche tra amministrazione e organizzazioni sindacali sulle modalità ed oi visibili risultati di ritardo e qualità.
Prima di fare i soliti sbiaditi confronti europei occorrerebbe avere il coraggio di pubblicare e rendere note le modalità di selezione, le tempistiche, il valore aggiunto delle attitudini esistenti dal Portogallo alla Slovacchia, dalla Francia alla Svezia, dalla Germania alla Grecia.

Voto in decimi: zero per la selezione dei dirigenti tecnici
Voto in decimi: quattro e mezzo per la selezione dei dirigenti scolastici
Voto in decimi: tre per la selezione del personale docente

Giudizio descrittivo: il Ministero dell’Istruzione è oggettivamente inefficace ed inefficiente

 #04_ L’organizzazione della Didattica nella scuola italiana non è all’altezza della media Europea. Viene continuamente ricordato in tanti convegni e seminari e le statistiche delle prove INVALSI non fanno che ribadire un concetto di fondo che riguarda tutti: l’azione didattica della Scuola, dalla sua Direzione Generale del Ministero agli UUSSRR di tutte le Regioni, alle Dirigenze Scolastiche degli II.SS.AA. è poco aiutata e valorizzata.
L’impatto dell’azione di prevenzione dell’insuccesso scolastico è opaco o molto minimo rispetto all’ingresso a scuola di generazioni di bambini e ragazzi sempre meno aiutati a vivere bene la scuola ed imparare.

Il personale docente della scuola mal selezionato, mal retribuito, mal formato anche in discipline oggetto di rilevazioni nazionale, presenta preoccupanti sindromi di malessere della categoria per questa impotenza generale e specifica nella gestione annuale e quotidiana, come nell’inclusione, come nella promozione del miglior rapporto insegnamento-apprendimento.
Se non si pone rimedio ai fattori brevemente analizzati #01, #02, #03 appare evidente che ogni azione tendente al miglioramento della qualità generale e specifica rischia di far rilevare a valle ulteriore spreco di risorse economiche e professionali. Le scuole che eccellono spesso sono quelle che appartengono a territori privilegiati, hanno casualmente una leadership colta e preparata su vasti terreni, hanno casualmente un team di alta qualità. Nel primo caso la qualità può durare nel secondo e terzo caso appena cambia il dirigente o il team si sgretola per pensionamento e trasferimento di validi docenti i risultati si modificano.

Voto in decimi: quattro e mezzo
Giudizio descrittivo: la gran parte dei dipendenti anche dirigenti scolastici e tecnici ritiene che al Ministero non interessa quasi per nulla l’organizzazione della didattica.

Probabilmente è un effetto di appercezione. In varie parti del Ministero qualcosa si muove e si è mosso ma è poco seguita e valorizzata e soprattutto ad ogni cambio della politica molte azioni si bloccano

Breve analisi e breve conclusione

Questo contributo è nato per dare un aiuto di lettura di sistema a chi tiene alla Scuola Italiana ed al suo miglioramento come sistema dell’Istruzione e della formazione che punti all’inclusione ed al successo formativo di tutti e di ciascuno.
È inutile oltre che dannoso sventolare genericamente una parola – come merito – che di per sé non ha valore né positivo né negativo.
Senza un’analisi seria aggiungere la parola merito è solo la sostituzione di una mattonella in un bagno in cui l’acqua non si riscalda male, le altre mattonelle si sono crepate, la finestra non si chiude più e la porta è stata tolta da anni.
La mia opinione rimanda all’evidente importanza di tutte le teorie sistemiche; la più vicina alla scuola è quella di Bronfenbrenner.
Si può giocare a modificare le etichette e le tipografie che producono adesivi e carte intestate saranno felici ma se non si affrontano sistemicamente le questioni realizzando probabilistiche azioni di successo almeno in termini di efficacia, cioè come causa effetto avremo la conferma che:

  • Non si sa fare.
  • Non si vuole fare.
  • Non si deve fare.

Sollecitare il merito dei docenti in questo momento mi sembra ridicolo sulla base di quanto analizzato e con riferimento a reclutamento, retribuzione, motivazione, opacità della definizione degli obiettivi standard.

Se il merito fosse riferito agli alunni (e successivamente esprimerò la mia documentata opinione anche con riferimento alle famose questioni sull’uguaglianza delle opportunità) sarebbe oltre che ridicolo anche drammatico ed un po’ criminale visti i problemi di povertà sociale ed economica di milioni di persone in Italia come da dati dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT).

Altro che merito !!!

Si potrebbe spiegare quanto analizzato alla gente semplice e forse faremmo tutti una figura meno meschina se la proposta di trascrivere Ministero dell’Istruzione e del merito fosse al momento sospeso visti i debiti amministrativi, organizzativi, morali e funzionali accumulati dal Ministero dell’Istruzione (diretto da politici di destra e di sinistra) verso la comunità, i dipendenti, le famiglie ed i bambini ed i ragazzi. 

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Ministero dell’Istruzione e del Merito: ma perché stupirsi? stava già tutto nel programma

di Nicola Puttilli

Stupisce lo stupore con cui il mondo della scuola e non solo ha accolto la nuova denominazione del “Ministero dell’Istruzione e del Merito”. Forse non tutti avevano letto l’accordo di programma relativo alla scuola delle forze che si apprestano a governare, il cui primo punto recita: “rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico…”.

Meritocrazia e professionalizzazione sono aspetti fondamentali nel quadro di un intervento complessivo e organico sul sistema di formazione. L’idea di sostenere i “capaci e meritevoli” è, tra l’altro, alla base dell’art.34 della nostra Costituzione.
Non è d’altro canto possibile non ricordare alcuni decenni di sociologia dell’educazione che, già a partire dagli ’60, hanno chiaramente messo in luce come il “merito” non sia una categoria del tutto neutra ma che strutture concettuali, attitudine all’apprendimento, atteggiamento verso lo studio si definiscono già nei primi anni di vita e dipendono in larga misura dai condizionamenti socioculturali dell’ambiente di provenienza.
Quello che preoccupa, e non poco, non è la presenza della parola merito ma la totale assenza di parole come inclusione e dispersione scolastica. In uno sguardo complessivo come dovrebbe essere quello di chi si accinge a governare non può mancare qualsiasi riferimento a quello che è considerato, ma non da tutti evidentemente, il problema più pressante della nostra scuola, sia in termini sociali sia in costi economici.

Anche “professionalizzante” è una bella parola a cui corrisponde un concetto altrettanto fondamentale. Lo storico disallineamento tra filiera formativa e filiera produttiva è infatti un altro grosso problema del nostro sistema formativo che determina da un lato rilevanti difficoltà al sistema economico, oggi ribattezzato tout court “made in Italy” e dall’altro persistenti fenomeni di disoccupazione e sottoccupazione che penalizzano in modo inaccettabile i nostri giovani.
Doveroso occuparsene in modo urgente e determinato, ma anche in questo caso colpisce l’assenza di qualsiasi riferimento “all’educazione del cittadino” che in una società democratica dovrebbe precedere o, quantomeno, affiancare la formazione del produttore con l’obiettivo, citando Dewey, di “formare persone in grado di contribuire al processo decisionale nel proprio contesto operativo e di vita e di comprendere in forma critica le scelte di governo”.

Altro punto qualificante del programma che non tarderà ad emergere è il “riconoscimento della libertà di scelta educativa alle famiglie attraverso il buono scuola”. Anche in questo caso ritorna in gioco un principio costituzionale, quel “senza oneri per lo stato” di cui all’art.33, soggetto a diverse e contrapposte interpretazioni. Rimane la considerazione relativa al saccheggio subito dalla scuola pubblica nell’ultimo trentennio, con dimezzamento della quota di PIL alla stessa assegnata e la inevitabile domanda: dove prendere le risorse se non ancora e sempre dalla medesima esausta fonte?

Pochi, certamente condivisibili e quasi di rito gli altri punti del programma relativo a scuola, università e ricerca (14° su 15 non proprio tra le priorità), tra gli altri, investimenti su edilizia scolastica, formazione del personale e superamento del precariato (temi storici rispetto ai quali nulla si dice sul come).

Merito, professionalizzazione, libertà della scelta educativa sembrano pertanto i temi caratterizzanti che segnano una scelta di campo, rafforzata dal non detto su temi non necessariamente contrapposti ma almeno altrettanto distintivi quali il contrasto alla dispersione, l’inclusione, la formazione integrale del cittadino.
Si tratta di un’idea di scuola fortemente identitaria che sembra voler ignorare molto di quanto si è effettivamente realizzato nelle nostre scuole negli ultimi decenni, temi su cui aprire un confronto aperto, senza forzature e tanto meno imposizioni. La scuola è troppo importante per diventare terreno di scontro ideologico, bisogna ripartire da un’analisi attenta dei suoi problemi reali e da quanto i suoi insegnanti e dirigenti scolastici hanno, fino ad oggi, costruito.




Te lo do io il merito. Dalla meritocrazia alla mediocrazia è un attimo

di Mario Maviglia

Chissà quanto costerà alla finanza pubblica (ossia a tutti noi) la nuova denominazione di numerosi Ministeri voluta dal nuovo Governo.

Occorre infatti cambiare l’intestazione delle carte (anche se buona parte della comunicazione oggi avviene on line), i timbri non più in regola, le targhette ai vari uffici. E questo per tutti i Ministeri coinvolti e per le loro diramazioni territoriali.

Gli istituti scolastici, ad esempio, dovranno subito darsi da fare per aggiungere “e del Merito” subito dopo “Ministero dell’Istruzione. E dire che molte di loro avevano da poco finito di aggiornare la vecchia denominazione di “Ministero dell’Istruzione e della Ricerca”. (Ma se fate un giro in rete, ci sono ancora istituzioni scolastiche che utilizzano ancora la vecchia denominazione di “Ministero della Pubblica Istruzione”. Nostalgici…).

Può darsi (ma è alquanto improbabile) che gli inventori del nuovo nome abbiamo pensato all’art. 34 della nostra Costituzione, dove, in riferimento alla scuola aperta a tutti, viene citato il merito (“I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”).
Non sappiamo per quale motivo, ma ci sembra che nel caso che stiamo trattando si faccia riferimento ad altri paradigmi valoriali (chiamiamoli così). E allora su questo punto conviene essere sfacciatamente espliciti e politicamente scorretti. Da molti anni in Italia (da sempre?) quando si parla di “merito” significa che si vogliono “sistemare” amici o amici degli amici (o familiari o parenti vicini e lontani o affini, con tutta la filiera genealogica del caso) in posti chiave o comunque ambiti, utilizzando (qui sta l’ingegnosità del paradigma) la parola magica del “merito”. È quello che succede quasi ordinariamente in ambito universitario, o nella nomina dei dirigenti pubblici ex art. 19 commi 5bis e 6 del DLvo 165/2001; o quello che succede quando si confezionano bandi ad hoc per la nomina di esperti/consulenti/formatori presso le pubbliche amministrazioni. Un ulteriore esempio è la cosiddetta fuga di cervelli dall’Italia, ossia quei talenti che non hanno alcuna possibilità di vedere riconosciute le loro competenze in quanto non adeguatamente “imparentati” con lobby o gruppi di potere.

Come funziona il meccanismo “meritocratico” in versione italica? È abbastanza semplice e tutto molto “regolare”: PRIMA si decide chi deve occupare quel determinato posto, e SUCCESSIVAMENTE viene confezionata la procedura valutativa o concorsuale in modo che non vi siano sbavature tra il dichiarato e l’agito (diciamo così). Insomma, una sorta di vestito cucito su misura del designato. Forse è per questo che quando sentiamo parlare di merito avvertiamo un certo fastidio, una sorta di orticaria comportamentale.

La rivincita della mediocrazia

Paradossalmente, questa traduzione nostrana della meritocrazia (ma probabilmente non è solo un problema italiano) porta a quella che Alain Deneault chiama “mediocrazia” [1],  ossia il trionfo dei mediocri. Illuminanti le sue osservazioni fatte nel corso di un’intervista; “L’esperto è una figura centrale della mediocrazia: si sottomette alle logiche della governance, sta al gioco, non provoca mai scandalo, insegue obiettivi. È la morte dell’intellettuale, come lo descrive Edward Saïd in un saggio, Dire la verità. Intellettuali e potere. Si tratta di un sofista contemporaneo, retribuito per pensare in una certa maniera, che lavora per consolidare poteri accademici, scientifici, culturali. I veri intellettuali seguono interessi propri, curiosità non dettate a comando, possono uscire dal gioco. Un giovane ricercatore universitario ha davanti a sé un bivio. Se vuole essere semplicemente un esperto ha buone possibilità di fare carriera, ottenere una cattedra, finanziamenti. Se ha il coraggio di restare un intellettuale puro avrà un futuro molto più incerto. Magari non finirà assassinato come Rosa Luxembourg o incarcerato come Antonio Gramsci, ma non è più certo di poter diventare un professore come Saïd o Noam Chomsky. Ha buone chances di restare precario tutta la vita.”[2]

C’è poi da chiedersi, più in generale, quale significato viene attributo al merito in una società neocapitalistica e liberista come la nostra (credo che si possano ancora usare queste espressioni. Non vanno contro il codice penale…).
Paradossalmente le critiche più spietate alla “meritocrazia” provengono proprio da alcuni dei Paesi più industrializzati al mondo. Il filosofo politico americano, Michael J.
Sandel, dell’Università di Harvard, vi ha dedicato recentemente un libro, tradotto anche in italiano [3], in cui sostiene che il modello del successo individuale basato sul talento crea un meccanismo perverso in quanto stigmatizza e marginalizza coloro che non ce la fanno.
Non solo: siccome il successo è strettamente correlato al reddito, si tende a svilire l’importanza di alcune professioni, pure fondamentali per la tenuta e lo sviluppo della società, in quanto non abbastanza remunerative (è il caso dei docenti o degli infermieri).
Un’altra perversa conseguenza è che siccome la sottesa convinzione che il successo sia da ascrivere alle proprie personali capacità di affermazione (secondo la logica “ognuno è artefice del proprio destino”), allora le politiche di sostegno verso i deboli o verso coloro che non raggiungono risultati ritenuti soddisfacenti sono inutili. Ecco perché, secondo Sandel,
il trionfo della meritocrazia comporta come conseguenza una società meno equa, peraltro con fenomeni di rifiuto verso quelle minoranze che abbisognano di assistenza e di sostegni (immigrati, disabili, disoccupati).

Concetti questi ultimi non molto diversi da quelli espressi da Papa Francesco nel 2017 durante una visita pastorale e Genova e commentate da José Angel Lombo in un suo articolo[4]. Il Papa richiama il rischio di una “dittatura della meritocrazia”. Se da una parte l’idea di merito è inseparabile dal lavoro e da quello che si fa, quando “si considerano ‘meritevoli’ attributi o qualità che non provengono dal proprio lavoro, ma da situazioni o contingenze circostanziali, come la propria nazionalità, le relazioni, o addirittura i propri titoli quando questi non sono supportati da risultati oggettivi”[5], allora si creano problemi di carattere etico e di giustizia sociale. Infatti “questo scambio dei ‘meriti morali’ per ‘qualità circostanziali’ – un vero quid pro quo – interpreta i talenti delle persone non come doni, ma come mezzi per determinare ‘un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi’. A partire da qui si sviluppano almeno due conseguenze. Da una parte, si rende possibile una strumentalizzazione ideologica della meritocrazia, vale a dire il suo impiego come strumento ‘eticamente legittimato’ per giustificare la diseguaglianza. Ma la diseguaglianza – non la diversità –, considerata in modo radicale, non è altro che ingiustizia. D’altra parte, questo rivestimento da moralità di ciò che è invece meramente circostanziale non è operato soltanto in senso positivo – pretendere di avere meriti in ragione della propria situazione –, ma anche negativo, e cioè colpevolizzando la sventura o le condizioni svantaggiate di alcune persone, ragionando in questo modo: ‘io merito la ricchezza che ho, tu meriti la povertà che hai’”.[6]

Al nuovo Ministro il compito di sbrogliare questa matassa. Se il merito lo sostiene…

[1] A, Deneault, La mediocrazia, Neri Pozza, Vicenza, 2017

[2] https://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2017/01/25/news/il_trionfo_della_mediocrazia_spiegato_dal_filosofo_canadese_alain_deneault-156837500/

[3] M. J. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, Milano, Feltrinelli, 2021.

[4] J. A. Lombo, https://www.pusc.it/sites/default/files/pdf/approfondimenti/Lavoro.pdf

[5] Ibidem

[6] Ibidem




La progettazione di istituto ai tempi del PNRR

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Clara Alemani

Come è noto, le scuole stanno ricevendo cospicui finanziamenti legati al PNRR. Appare quindi necessario che la progettualità di istituto (ri)trovi spazi e modi adeguati agli investimenti, così da scongiurare il rischio di spese poco oculate e creare invece le condizioni per utilizzare al meglio quanto viene assegnato.

 

 

La progettualità, intesa come attività del progettare[1], deve innanzi tutto assumere la trasparenza come riferimento imprescindibile, non soltanto per quanto attiene gli atti amministrativi e contabili, ma soprattutto come principio per documentare quanto via via si realizza. Tradizionalmente nella scuola si lavora molto, ma si documenta poco: in parte perché gli strumenti adottati sono percepiti come appesantimenti burocratici da molti docenti (e da alcuni DS); in parte perché spesso le scuole sono chiamate a operare in situazioni cosiddette di emergenza, in cui conta agire rapidamente e appare quasi impossibile ricavare spazi e tempi per progettare e pianificare le azioni che verranno realizzate.  C’è inoltre una ragione culturale, retaggio di una visione di scuola in parte romantica, in parte legata alla cultura gentiliana, che identifica qualunque documento ufficiale redatto dentro la scuola come una indebita perdita di tempo, un’attività che deve essere compiuta, un dovere da adempiere, che, nei fatti, non interessa a nessuno. Il pensiero ancora prevalente per molti docenti identifica il buon insegnante come colui (solo in parte colei) che, dotato di una solida cultura (rigorosamente umanistica), di carisma personale e di una certa dose di istrionismo, è capace di improvvisare le proprie lezioni affascinando e incantando alunni e alunne. Redigere il piano di lavoro o un’unità di apprendimento rappresenta, in questa visione, un tempo sottratto ad attività considerate più nobili. Anche molti tra i nuovi giovani docenti non sfuggono a questa logica dell’adempimento e non sembrano disponibili a interrogarsi su altre ipotesi possibili. Al contrario, la capacità di documentare può diventare una risorsa professionale per i/le docenti, con funzioni diverse e variegate, come illustra Barbara Balconi[2].

Anche i documenti di istituto ricadono spesso nella medesima logica dell’adempimento, configurandosi così, non come risorse operative utili per chi lavora a scuola, bensì come atti da chiudere in un cassetto fino alla scadenza successiva. Riesaminare la progettualità di istituto può servire proprio ad avviare una riflessione collettiva sui documenti della scuola, sulla loro struttura, sulle modalità con cui vengono redatti, sulla scelta delle persone che se ne occupano.

È necessario, preliminarmente, interrogarsi sul significato che in ogni scuola si attribuisce al termine progetto: sotto questo comodo e rassicurante umbrella term abitano iniziative molto diverse tra loro che variano da incontri di poche ore, di una o più classi, con esperti su tematiche specifiche, a iniziative che negli anni hanno perso il loro carattere prototipico e si sono strutturate come articolazioni della didattica ordinaria. Sarebbe utile allora che le scuole definissero con chiarezza i criteri per classificare le diverse attività e attribuire a ciascuna di esse uno spazio meglio definito all’interno del curricolo di istituto, del PTOF, nonché del Programma Annuale. Sarebbe ugualmente utile interrogarsi sul valore di tali iniziative, inteso come coerenza con gli obiettivi educativi e didattici individuati come prioritari dall’istituto, sui risultati ottenuti nel tempo grazie a esse (ammesso che vengano effettivamente misurate), ma anche sulle metodologie promosse e sui tempi di realizzazione. La questione dovrebbe riguardare soprattutto le iniziative che le scuole intendono mettere in campo contro la dispersione scolastica. È chiaro che gli interventi, soprattutto quelli che le scuole definiscono di recupero, non possono essere la riproposizione, seppure destinata a gruppi di alunni/e più ristretti, di metodologie e modalità di conduzione delle lezioni tradizionali, in cui il modello prevalente è ancora la lezione frontale. È altresì evidente che le scuole potrebbero opportunamente aprirsi a realtà esterne, come previsto anche dal decreto del Ministero, che già agiscono in molti territori, per co-progettare iniziative in grado di valorizzare anche e soprattutto gli apprendimenti informali e non formali, in aggiunta a quelli formali proposti dalla scuola stessa.

Qualunque sia l’indirizzo che la scuola si darà, è necessario scongiurare alcuni rischi, primo fra tutti quello di mettere in pista un numero sproporzionato di iniziative / progetti, difficili da governare e pertanto poco organici alla scuola stessa. Un altro rischio, come già accaduto in passato, è quello di importare esempi e pratiche, più o meno buone, in maniera acritica, senza cioè il necessario adattamento al proprio contesto di scuola, compresa la cultura professionale delle persone che vi lavorano. C’è infine il rischio che le scuole improvvisino, realizzando azioni non sorrette dalle necessarie competenze professionali, intese come

  • adeguata formazione dei soggetti chiamati a realizzarle (sapere);
  • necessaria pianificazione delle azioni da realizzare (saper fare);
  • solida cultura professionale e organizzativa (saper essere).

In questo particolare momento di questo particolare anno scolastico, in cui devono prendere avvio le iniziative del PNRR contro la dispersione, quelle del Piano Scuola 4.0, la rendicontazione sociale, il nuovo rapporto di autovalutazione, il piano di miglioramento e il PTOF, è necessario mantenere una visione di insieme (uno sguardo unitario) sulle diverse azioni che già si realizzano dentro le scuole, per evitare, da un lato la duplicazione di rassicuranti pratiche dall’esito incerto (o forse solo mai misurato),  dall’altro per differenziarne la tipologia e arrivare magari ad aggredire uno stesso problema da molteplici e variegati fronti.

Spetta a chi dirige il compito di mantenere la rotta, cogliendo ogni utile opportunità per garantire unitarietà all’organizzazione, ma anche per sollecitare la consapevolezza di tale unitarietà nei docenti, in tutto il personale della scuola, nelle famiglie, nei partner e nei portatori di interesse più significativi. Il messaggio deve essere chiaro e inequivocabile: la scuola ha selezionato i propri obiettivi, di miglioramento e di sviluppo, e agisce in maniera consequenziale, per favorirne il raggiungimento attraverso processi, azioni, iniziative e progetti coerenti con gli obiettivi stessi. È un messaggio che deve arrivare in maniera diretta dal PTOF stesso, cioè dal documento di pianificazione strategica dell’istituto, in cui le diverse iniziative sono portate a sistema in maniera coerente e organica, visibili all’interno e all’esterno della scuola, sostenute dalle necessarie risorse, a dimostrazione dell’impegno di tutte le persone che lavorano nella scuola.

Affinché si componga un disegno organico, è necessario che lo sguardo di chi dirige mantenga il fuoco su tre diverse prospettive, di cui sappia cogliere e far cogliere la complementarietà:

  • i risultati dei progetti, in coerenza con le azioni e gli obiettivi definiti (gli output, per così dire);
  • i risultati di apprendimento degli/delle alunni/e, destinatari per i quali quelle iniziative sono state messe in atto (gli outcome);
  • i risultati di apprendimento organizzativo, inteso come apprendimento che si sviluppa all’interno della scuola attraverso momenti collettivi di riflessione, di confronto e di agire effettivo e diventa patrimonio professionale dell’intero istituto (risultati in termini di impatti).

Per facilitare il compito e mantenere uno sguardo vigile, può essere utile elaborare o riesaminare, se già in uso, strumenti che

  • siano una risorsa per la pianificazione, la realizzazione, il monitoraggio, la valutazione e la messa a sistema complessiva delle azioni che si intende realizzare;
  • consentano di governare in maniera più agevole la complessità delle iniziative e dei progetti che le scuole realizzano e realizzeranno;
  • documentino le scelte e le strategie messe in atto dall’istituzione scolastica;
  • rendano possibile far dialogare fra loro i diversi documenti in corso di elaborazione (RAV, PdM, PTOF, Programma Annuale, Contratto di Istituto, …);
  • facilitino le azioni di monitoraggio e rendicontazione, non soltanto quelle che verranno richieste dal Ministero, bensì quelle necessarie alla scuola per valutare il proprio operato.

Ci sono elementi che, qualunque sia lo strumento adottato, devono essere presenti nel momento in cui si pianifica un’iniziativa o un progetto. Occorre

  • individuare obiettivi misurabili e coerenti con quelli di istituto riportati nel PTOF;
  • definire indicatori e target;
  • definire la sequenza delle azioni, anche di quelle apparentemente meno significative;
  • individuare i responsabili;
  • stabilire, per ogni azione, il piano temporale (quando e per quanto tempo);
  • indicare le risorse necessarie per la realizzazione;
  • definire un sistema di monitoraggio, in cui siano indicate le scadenze e le modalità di raccolta e diffusione dei dati.

Sarebbe inoltre opportuno definire un piano appropriato di comunicazione interna ed esterna, in cui indicare quando, cosa, a chi e come comunicare lo stato dell’arte delle varie iniziative.

Quanto riportato più sopra dovrebbe concretizzarsi in uno strumento a cui facciano riferimento tutti coloro che collaborano alle diverse iniziative, siano esse parte del Piano di Miglioramento, dei progetti del PNRR e del Piano Scuola 4.0, di ogni altro progetto realizzato dalla scuola. Un foglio excel o una tabella word possono essere altrettanto funzionali di strumenti più sofisticati che solitamente scoraggiano i/le docenti.

È certo che la definizione di uno strumento omogeneo per iniziative diverse comporta una riflessione che riguarda non soltanto la scelta delle attività, la loro pianificazione, realizzazione e monitoraggio, bensì un ripensamento più complessivo sul significato dell’azione educativa e didattica dell’istituto, sulla professionalità di chi ci si impegna, sul fare scuola. Una riflessione di questo genere deve trovare nella scuola uno spazio adeguato per svilupparsi, prendere forma e diventare così un elemento della cultura professionale di quell’istituto. È importante che non sia solo il risultato della riflessione (o dell’intuizione o persino dell’ostinazione) di una persona (o di un ristretto gruppo) , ma che possa diventare patrimonio di tutta la comunità professionale, come risultato di una riflessione condivisa e di un apprendimento sociale. Si parte dagli strumenti, ma si arriva inevitabilmente alle persone, ai protagonisti delle azioni educative e didattiche.

La rilettura della progettualità di scuola assume quindi le caratteristiche di un ripensamento complessivo del fare scuola e può condurre a ulteriori, interessanti spunti di riflessione. È possibile infatti che le diverse iniziative da realizzare richiedano anche aggiustamenti, correzioni, interventi su aspetti che riguardano i processi organizzativi (la necessità, ad esempio, di condensare alcuni interventi in un particolare arco temporale, con la conseguente necessità di rimodulare gli orari). È altresì possibile (auspicabile) che la necessità di pianificare azioni, variegate ma organiche, contro la dispersione promuova una riflessione sulle metodologie didattiche, sui modelli di lezione, sulla laboratorialità, sul significato stesso di dispersione. Ne potrebbe addirittura nascere un’esigenza di formazione su temi che derivano proprio dall’esperienza di quella scuola, in quel particolare contesto spazio-temporale! Ecco dunque che, partendo dagli strumenti, necessari per governare le azioni progettate, si toccano i nodi di una organizzazione complessa come la scuola: le persone, i processi, la cultura professionale, la dimensione sociale dell’apprendimento organizzativo.

La scuola valorizzerebbe in questo modo la propria dimensione di comunità professionale, con quelle connotazioni che Antonio Valentino richiama in un suo scritto[3]. Anche il profilo del/della dirigente ne uscirebbe rafforzato proprio in quelle dimensioni di leader per l’apprendimento di cui scrive, tra gli altri, lo stesso autore: capace di motivare le persone, sviluppare consapevolezza, orientare le scelte del collegio, creare le condizioni per favorire il confronto e la mediazione, delegare senza tuttavia smettere di presidiare le aree di propria competenza, adoperarsi per promuovere apprendimento per tutti i soggetti della scuola.

[1] SI veda il vocabolario Treccani on line, consultabile al seguente indirizzo web: https://www.treccani.it/vocabolario/progettualita/

[2] Barbara Balconi, Documentare a scuola – Una pratica didattica e formativa, Carocci, Roma, 2020.

[3] Antonio Valentino, Investire sulle Comunità professionali nelle istituzioni scolastiche. Condizioni e approccio
https://www.gessetticolorati.it/dibattito/2022/10/06/investire-sulle-comunita-professionali-nelle-istituzioni-scolastiche-condizioni-e-approccio/

 




Quando nelle scuole si devono “fare gli orari” dei docenti…

di Domenico Sarracino

Il mondo della scuola come tutti i settori lavorativi ha i suoi lati chiari e scuri.
Momenti di generoso impegno cedono in certe fasi a piccinerie, egoismi, al cieco “particulare”, che mortificano la scuola e che difficilmente non lasciano il segno…
Ecco, la fase in cui si prepara l’orario di servizio dei docenti è uno di quei momenti che non fanno bene alla scuola e alla sua credibilità.
Il povero docente incaricato di stendere l’orario è letteralmente messo in croce: inseguito per i corridoi, ora blandito, ora minacciato di rivalse, con il telefono che suona sempre, a tutte le ore, di tutti i giorni, domeniche comprese; e ore e ore a discutere, litigare, mediare …
Eppure non c’è docente che non conosca e non dichiari l’importanza di un buon orario delle lezioni, funzionale alla realizzazione delle esigenze didattiche e capace di mettere gli alunni ed i loro bisogni psico-fisici nelle condizioni migliori per rendere meglio.
Questo triste spettacolo è tanto lacerante quanto più le scuole sono sfiduciate, stanche e abbandonate a se stesse, con docenti strapazzati da tutte le parti e stressati da continui annunci di cambiamenti improvvisati, cartacei e rituali; con dirigenti lontani ed assillati da mille urgenze, a capo di mega-strutture, reggenti altre scuole, agenti su plessi lontani…
Non nego che ci possano essere – anzi, che ci sono – esigenze personali particolari, meritevoli di considerazione ed attenzione, ma queste possono essere circoscritte e risolte con equilibrio e spirito di solidarietà.


Si capisce allora – di fronte a questo quadro – quanto sia importante rilanciare l’idea che bene primario sia riuscire a creare quello spirito di compartecipazione ad un compito che non si può affrontare nella frammentazione, nella solitudine ed indifferenza “dell’ognuno che fa per sé”, ma solo nella collaborazione e cooperazione dell’insieme dei soggetti educativi che – cercando, tentando e sperimentando – mettono in piedi modalità di lavoro comune e provano a tracciare vie nuove per far fronte alla complessità educativa dei nostri tempi. I quali soggetti, unendo le forze, imprimono ad esse un impulso moltiplicatore e conferiscono alle scuole un profilo unitario di cammino condiviso. Si tratta, insomma, di rilanciare l’idea per cui le scuole riescano a realizzarsi come comunità educative vere, mobilitate e coese, appassionate e solidali; in cui l’altro, il collega, i colleghi non sono atomi estranei, ma l’uno forza e sostegno per l’altro, ed in cui il mio successo è contemporaneamente anche il tuo e di tutta la scuola. Quando vengono meno le passioni e le tensioni ideali, allora la frammentazione, il malessere, i contrasti sono dietro l’angolo; l’arido “particulare” prende piede e nelle scuole cala la nebbia…




Dispersione scolastica, qualcosa si può fare

di Raimondo Giunta

Nei giorni che precedevano l’inizio delle lezioni, finchè sono stato in servizio, impegnavo il collegio dei docenti e i gruppi di coordinamento a discutere sui risultati dell’anno precedente e in modo particolare su quelli che fanno parlare di dispersione scolastica. Il proposito era quello di vedere come e se era possibile contenerla. Trasmettevo ai miei docenti la preoccupazione e l’amarezza di vedere tanti giovani perdersi e perdere le occasioni per istruirsi, per andare avanti, per impossessarsi degli strumenti che sono indispensabili per diventare cittadini e lavoratori all’altezza dei tempi.

La definizione degli insuccessi scolastici come dispersione non mi è mai piaciuta e non mi piace ancora. Sembra quasi che si tratti di un fenomeno naturale, che si verifichi a prescindere dalle decisioni degli uomini, dalle scelte fatte dagli uomini. Una volta con più precisione si parlava di selezione, ma il termine era ed è sovraccarico di molteplici significati contrastanti e pro bono pacis non lo si usa più, tranne negli articoli di quegli intellettuali che nei quotidiani la reclamano ad alta voce per dare prestigio alla scuola e al sapere e anche per darsi un alto contegno…

Che la dispersione scolastica (ci atteniamo alla vulgata ministerial-pedagogica. . ) continui a verificarsi nonostante le lotte che le sono state dichiarate è un fatto grave sul quale è giusto soffermarsi a ragionare. Senza dimenticare che nel fenomeno della dispersione oltre agli abbandoni bisogna includere ripetenze e scarso livello di conoscenze e competenze

A determinarla nelle proporzioni che vengono messe in luce dalle statistiche ministeriali non sono solo le scelte di parte sempre minoritaria del corpo docente, ancora arroccata a difesa di procedure di valutazione che non hanno alcun valore pedagogico e docimologico; a determinarla contribuiscono la disarticolazione dei rapporti tra enti locali e istituzioni scolastiche, ma anche e in modo preponderante la stessa scuola come sistema. La scuola come istituzione con le sue regole, con la sua organizzazione, con i suoi codici di valore, con la sua identità culturale non è priva di responsabilità in questo campo.

L’apertura della scuola e il sostegno economico, ma sempre in crescente riduzione (esenzione tasse, libri gratis, borse di studio, trasporto gratuito) non hanno realizzato le condizioni perché tutti potessero godere pienamente del diritto allo studio e avere le stesse chances di successo. I pierini fino a qualche anno di studio si trovano accanto i gianni come compagni di classe, ma i primi concludono gli studi, fanno carriera si inseriscono nel mondo del lavoro, gli altri si disperdono, incespicano e a parità di talento fanno meno strada.

A scuola non si riesce a compensare lo squilibrio del patrimonio culturale ereditato dagli alunni; non ci si riesce perchè alla fine non si comprende il meccanismo, la logica che impedisce l’integrazione dei “nuovi “alunni con la scuola e quali nodi della struttura scolastica vadano sciolti per consentirla.

Il problema non è di facile soluzione perchè non si dà una sola ipotesi interpretativa di questo fenomeno sociale, e non c’è una sola causa di inconciliabilità tra istituzioni scolastiche e nuova popolazione scolastica, peraltro accresciuta dalla presenza di centinaia di migliaia di ragazzi di famiglie di recente immigrazione.

Sono varie le forme di disagio, scaturite dai contesti umani e culturali di provenienza degli alunni che si riversano sulla scuola e con cui si dovrebbero fare i conti. E’ importante considerare (e questo lo fa dire l’esperienza diretta della vita scolastica)che ad una certa età scolare, per lo più dopo il biennio delle superiori, non è tanto il possesso di specifici saperi di famiglia a determinare un migliore rendimento scolastico, ma la percezione del valore sociale dell”investimento in cultura, la conoscenza della profittabilità del sapere in tutto l’arco della vita, la pratica quotidiana dell’importanza delle competenze, della professionalità nella vita. .

Nel processo di formazione il giovane che conosce il guadagno ricavabile dallo studio è in grado di sostenere la sfida quotidiana tra soddisfazione immediata e sacrificio, di intendere cioè il senso dello scambio tra sacrifici attuali ed eventuali vantaggi futuri.

Questo tipo di alunni conoscono le ragioni più rilevanti che motivano nello studio, conoscono i tempi, i ritmi e le difficoltà del percorso da compiere. Questo sapere esperienziale che la scuola possiede non sempre viene messo a disposizione di quei gruppi consistenti di giovani, che dal proprio ambiente non riescono ad avere questo importante sostegno.

Vi è, inoltre, un problema di corrispondenza tra comportamenti individuali, acquisiti in ambienti sociali deprivati, e regole interne della scuola.
La formalità dei comportamenti esigiti per assicurare un regolare svolgimento delle attività didattiche contrasta con le abitudini di molti alunni, soprattutto nella scuola dell’obbligo, molto vicine all’ indisciplina e questo impedisce spesso l’accettazione della scuola e del suo mondo.

Il gruppo più numeroso di problemi è costituito, però, dal contrasto forte tra le procedure naturali di apprendimento e i processi di astrazione, di formalizzazione delle procedure d’apprendimento richieste dai saperi scolastici e dai linguaggi in cui questi si esprimono.
In una parola dal contrasto tra cultura giovanile e cultura scolastica. Rendere il processo di apprendimento attraente per le nuove generazioni è la sfida più impegnativa da affrontare a scuola.

In questa contraddizione si concentrano gli insuccessi, i ritardi; si forma la consapevolezza della propria incapacità e matura molto spesso la decisione di abbandonare.
E allora quali saperi? Quali metodi? Quali tempi ? Quali metodi di valutazione? Come recuperare?

La scuola non può essere ritagliata su misura del primato logico-linguistico o peggio ancora sulla particolare figura di studente, estratta dall’ambito sociale che sul possesso del codice linguistico, ampio e ricco ha fondato e legittimato le proprie posizioni sociali. La scuola si deve misurare con la pluralità dei linguaggi, dei saperi e delle intelligenze e dare a questa complessità il rilievo che merita e trarne le conseguenze.

Per gli alunni che si sentono fuori casa, estranei nel mondo scolastico è importante partire dai problemi che danno un senso al sapere che bisogna acquisire. Bisogna adottare metodologie attive e realistiche che lancino un ponte con le pratiche sociali in cui gli alunni sono immersi. Bisogna tentare, nei limiti in cui è possibile, andare oltre l’aula per ritrovare tutti gli elementi possibili di contiguità tra saperi scolastici e i processi della vita quotidiana.

Non si recupera lo svantaggio che denunciano molti alunni con l’aggiunta di ore di attività, che ripetono quelle che l’insuccesso hanno determinato, ma col cambiamento delle relazioni docente-saperi-alunno; con l’implementazione del patrimonio linguistico, chiave di accesso ai saperi; con metodologie dove il parlare abbia la stessa importanza del fare, il muoversi la stessa importanza dello stare fermi.

L’aula non è un auditorium e la cattedra un palcoscenico dove qualcuno recita la parte del sapere; l’aula deve essere un laboratorio che deve impegnare tutte le energie degli alunni, suscitare emozioni e il piacere della scoperta personale, attivare l’immaginazione. L’alunno deve rapportarsi al sapere con spirito amichevole e curiosità (D. Nicoli).

Bisogna lavorare con dibattiti, con situazioni-problema, con esperimenti, con progetti di ricerca; bisogna dare spazio al dialogo, alla negoziazione, alla riflessione. Non si può avere paura di attivare processi di partecipazione e di coinvolgimento

A scuola si deve lavorare senza rassegnarsi ai dati acquisiti della “dispersione” come se fossero naturali e immodificabili.
La scommessa è quella di condurre i giovani alla conquista del sapere; una scommessa che va fatta ogni giorno e in ogni lezione. Ma senza amore, senza passione per il sapere e per il proprio mestiere non può essere vinta. Testimoniare concretamente l’amore per il sapere che si vuole far possedere agli altri è la regola aurea per superare a scuola molte difficoltà nel lavoro di insegnamento.

Lunga è la vita dei precetti; corta e infallibile quella degli esempi (Seneca).