L’insegnante è come un regista, gli alunni sono gli attori

di Raimondo Giunta

Non c’è deduzione tra finalità educative e procedure didattiche ,ma ci sono tentativi e percorsi di avvicinamento.
I principi si possono incarnare in pratiche differenti, adattabili a contesti diversi e a diversi alunni, a diversi contenuti dell’apprendimento.
Questo non significa che si è liberi da qualsiasi vincolo di coerenza ,ma che bisogna con discernimento orientarsi verso quei modelli didattici ritenuti più adeguati alle situazioni date, sapendo in partenza che a-priori non ci sono metodi universalmente buoni e sempre efficaci.

Il problema non è quale pratica adottare, ma quali apprendimenti si devono conseguire e misurare su questi la pertinenza dei mezzi e delle procedure usati, tenendo presente che una pratica non può essere separata dalle intenzioni che l’animano e dal modo in cui viene messa in atto.

Ogni apprendimento impegna l’attività intellettuale di colui che apprende e ne porta il segno; ogni conoscenza è legata al contesto sociale e culturale in cui scaturisce e nei luoghi di formazione il protagonismo dei discenti e le pratiche sociali di cui è quotidianamente partecipe non possono essere trascurate.

L’alunno deve sentire come scoperta personale il possesso del sapere e “rapportarsi ad esso con uno spirito amichevole e curioso”(D.Nicoli).
E’ indispensabile fare almeno un tratto dell’itinerario intellettuale dell’apprendimento sul modello della scoperta, che nei luoghi scolastici non può che essere inquadrato, semplificato, didatticizzato; lontano comunque dall’insegnamento ex-cathedra.

“Imparare a essere scienziati non è la stessa cosa di imparare le scienze: è imparare una cultura con tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna”(J.Bruner).
Lavorare per enigmi, dibattiti, situazioni-problemi, piccoli progetti di ricerca, esperimenti comporta un radicale cambiamento dell’insegnamento.

E’ fondamentale per una buona formazione tenere sempre sotto osservazione il rapporto che si viene a istituire tra alunno e il sapere, per cercare in tutti i modi che non si frappongano ostacoli, remore di qualsiasi genere che possano determinare un atteggiamento difensivo, diffidente o cinico verso una disciplina, una nozione, un metodo, una posizione intellettuale (Ph.Perrenoud).

Per raggiungere questo risultato una buona scuola deve dare spazio alla negoziazione, al dialogo, alla riflessione perché in questo modo l’alunno può crescere bene e trovare fiducia nelle sue forze.

Ai metodi e ai modelli didattici si deve richiedere di favorire e di stimolare l’autonomia dello studente, di collocare l’apprendimento in contesti realistici, di agevolare la “costruzione” delle conoscenze entro una esperienza sociale di collaborazione con l’insegnante e con i pari, di promuovere e incoraggiare l’autoconsapevolezza nel processo di apprendimento.

Le nuove concezioni dell’apprendimento e la cultura pedagogica più attenta alle trasformazioni della società ridisegnano sia il ruolo del docente sia il ruolo dell’alunno.

Il docente diventa il regista del processo di formazione e gli alunni ne diventano gli attori.

Gli alunni responsabilizzati e coinvolti nel loro apprendimento possono diventare in alcune attività aiuto per l’insegnante ,risorse di apprendimento per i propri pari

L’insegnante favorisce la comunicazione interattiva tra gli alunni, valorizza i punti di forza di una prestazione; permette a tutti di esprimersi e ne apprezza i suggerimenti; valorizza la partecipazione e i contributi degli alunni, stimola con le sue domande e riporta a coerenza col modello didattico prescelto le attività che vengono svolte; favorisce l’identità e la consapevolezza individuale e dei gruppi di lavoro.

E’ presenza fondamentale nei momenti preliminari, e soprattutto durante l’attività didattica. E’ un ruolo di guida ,ma deve accettare che il centro dell’azione didattica si sposti dalla cattedra all’intera aula, che si instauri una forma di democrazia nelle relazioni pedagogiche. Non deve considerarsi un dispensatore di saperi, che spezza ogni giorno il pane della verità. Collocato in una comunità d’apprendimento assume il ruolo di adulto significativo, capace di mobilitare i talenti degli studenti in esperienze importanti, concrete, sfidanti che suscitano interesse curiosità e desiderio di apprendere.

Il buon esito del lavoro di formazione dipende dalla capacità dell’insegnante di testimoniare in modo convincente il proprio amore per il sapere, di costituirsi come modello plausibile di persona appassionata del proprio lavoro di studio e di ricerca.
Deve far vedere che ha in sé il fuoco che vuole accendere negli altri: fatto che oltrepassa la competenza didattica e interpella le altre sue dimensioni umane.

 




C’era una volta il direttore didattico

di Nicola Puttilli

In una dichiarazione rilasciata qualche tempo fa al Corriere delle Sera sul previsto ulteriore taglio di autonomie scolastiche disposto dall’ultima legge di bilancio, il presidente di ANP Antonello Giannelli sottolinea il rischio di ingestibilità amministrativa degli istituti sovradimensionati. Giannelli ha ragione da vendere, anche in considerazione della condizione di perenne emergenza in cui da troppo tempo versano gli uffici amministrativi delle scuole fra carenze, precarietà e inadeguata formazione del personale. Mi ha tuttavia colpito l’assenza di argomentazioni circa la “gestibilità” didattica di tali strutture peraltro comprendenti, come nel caso degli istituti comprensivi, diversi ordini di scuole. Sarà che ho trascorso poco più di una decina di anni nel ruolo di dirigente scolastico mentre una ventina circa in quello di direttore didattico, ma sempre mi ha guidato la convinzione che una buona amministrazione e organizzazione non avessero altra finalità se non l’innalzamento della qualità del progetto formativo e della didattica.

ll passaggio alla dirigenza scolastica è stata una logica conseguenza dell’attribuzione dell’autonomia. Non che prima ci fossero sostanziali differenze fra il ruolo di preside e di direttore didattico, entrambi inquadrati nel IX livello del contratto di lavoro dividevano analoghe condizioni retributive e di stato giuridico, mentre diverse erano, di fatto, le modalità di reclutamento: sempre attraverso regolare concorso, molto selettivo, nel caso dei direttori didattici, spesso con concorso riservato, decisamente più abbordabile, nel caso dei presidi. Diversa, inoltre, la formazione di provenienza: quasi sempre laurea di natura disciplinare per i presidi, non sempre, ma molto spesso, laurea in pedagogia per i direttori didattici, provenienti dall’istituto magistrale, dove un po’ di pedagogia e di psicologia l’avevano pur masticata, e dalla facoltà di magistero.

A Torino, dove ho sempre lavorato, c’era una grande tradizione associativa dei direttori didattici attiva già dal dopoguerra, raccoglieva una massiccia partecipazione e nei primi anni ’80 diede vita alla “Conferenza dei direttori didattici”, riconosciuta con atto formale e autorizzata a riunirsi in orario di servizio dall’allora provveditore agli studi. Nulla di simile esisteva per i presidi.

L’attenzione per i temi pedagogici e didattici era molto alta tra i direttori didattici e nel confronto interno alla  loro associazione (successivamente e quasi per intero confluita nell’ANDIS), ampiamente prevalenti rispetto a quelli più propriamente gestionali e amministrativi.

L’avvento dell’autonomia e della dirigenza, nonchè la formazione comune di 300 ore tra direttori didattici e presidi che l’hanno accompagnata, ha comportato, com’era logico che fosse, un radicale cambiamento di prospettiva. Per quanto il nuovo assetto normativo non prevedesse in alcun modo una diminuzione delle competenze e delle responsabilità del nuovo dirigente scolastico in campo pedagogico e didattico, l’enfasi si è di fatto spostata, quasi inconsapevolmente,  sugli aspetti gestionali e organizzativi con preciso riferimento, rispetto alla specificità del ruolo, alle teorie sul management allora prevalenti. Non è un caso, del resto, se in Piemonte, rispetto alle 300 ore di formazione, la scelta era limitata a due agenzie formative: ISVOR, che faceva capo alla FIAT ed ELEA agenzia formativa di Olivetti. Le teorie di riferimento erano ovviamente quelle più recenti di derivazione anglosassone che, rispetto al settore pubblico, istruzione compresa, si ispiravano prevalentemente al modello allora definito del “quasi privato”.

Certo esigenze di svecchiamento non erano più rinviabili. Come ci spiegava Enrico Autieri, direttore di ISVOR, si trattava di passare da un modello burocratico-artigianale, da sempre imperante nella nostra pubblica amministrazione, a un modello a gestione professionale, di chiara derivazione aziendale, fondato su variabili di progetto: pianificazione, problem solving, misurazione, rendicontazione.

La strada era segnata ma forse sarebbe stato necessario modularla fin da subito secondo le esigenze prioritarie della nostra scuola: innalzamento qualitativo dei processi di insegnamento/apprendimento, superamento delle ineguaglianze e della dispersione scolastica, inclusione e benessere psicofisico degli studenti. Da subito doveva essere chiarito il nesso fra qualità dell’organizzazione e fini istituzionali, da questo e per questo era nata fondamentalmente l’autonomia scolastica. L’enfasi sugli aspetti organizzativi e “manageriali” ha fatto invece premio, nella percezione del ruolo del dirigente scolastico in particolare, su quelli più strettamente pedagogici e didattici. Credo che anche a tale distorsione si debba il sovradimensionamento, nelle regioni del nord principalmente, di molte istituzioni scolastiche che arrivano a contare più di 2000 studenti senza, peraltro, che siano state create le condizioni normative e organizzative per gestire situazioni di tale complessità (middle management, leadership diffusa, ecc.).

Ricordo ancora le difficoltà che incontrai, da parte delle insegnanti della scuola dell’infanzia, quando decisi di unificare il loro collegio dei docenti con quello della scuola elementare. Nei collegi della scuola dell’infanzia si ponevano in discussione tutti gli aspetti della vita scolastica, compresi quelli apparentemente più irrilevanti: cosa fare con i bambini che non volevano dormire al pomeriggio, le problematiche presentate dalla mensa o dai momenti di gioco, le dinamiche relazionali tra i bambini ecc., tutti quegli elementi di attenzione e di cura così cari, mi  piace citarla, all’amica Cinzia Mion.  Avevano ragione le maestre della scuola dell’infanzia, nel collegio unificato di queste cose non si è più parlato, né si sono trovati altri spazi per poterlo fare, figurarsi in istituti comprensivi con 1800 alunni e tre ordini di scuola.

E’ ovvio che non si sta auspicando un ritorno agli anni ’90, ma ad oltre vent’anni dall’istituzione dell’autonomia e della dirigenza scolastica sarebbero maturi i tempi per una rinnovata riflessione. Anche la ricerca di una giusta dimensione per le istituzioni scolastiche (da 700 a non oltre, tassativamente, 1200 alunni?) e una struttura organizzativa (middle management adeguatamente riconosciuto e formato?) idonea a presidiare gli spazi non solo amministrativi e gestionali ma anche più propriamente psicopedagogici e relazionali, potrebbero aiutare non poco a far ritrovare senso ed equilibrio ad organizzazioni fin troppo complesse e a un ruolo ormai reso indistinto e pletorico come quello del dirigente scolastico.

Anche nel linguaggio comune non si sente più parlare di direttore didattico, poco usata anche la corretta definizione di dirigente scolastico, evidentemente troppo fredda e burocratica, è rimasto il preside a rappresentare tutti. In una delle sue ultime riflessioni un altro caro amico, Giancarlo Cerini, così si esprimeva, con la consueta lucidità: “Si ha spesso l’impressione che la nuova generazione di dirigenti scolastici sia troppo preoccupata delle correttezza delle procedure formali e molto meno della guida di una comunità educativa”. Cinzia e Giancarlo, non a caso due direttori didattici.




ll progetto su “dispersione e dislivelli territoriali”: una sfida per le scuole  

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Antonio Valentino

La percezione

In questi ultimi mesi l’attenzione di dirigenti scolastici, insegnanti, personale tutto è apparsa rivolta essenzialmente alla gestione dei fondi previsti per il Piano, agli adempimenti a cui si è chiamati, all’uso della piattaforma messa a disposizione per facilitarne le operazioni.

 

Sono tuttora abbastanza rari gli incontri in presenza in cui socializzare dubbi, perplessità, limiti.

Poco e male finora sono entrate nel dibattito – anche in quello pubblico in generale – le ragioni per cui l’Unione Europea[1] ha previsto investimenti – in misura come mai prima era successo – su settori strategici della vita pubblica e, tra questi, quelli di Scuola e Università.
La stessa Amministrazione centrale – a partire dal Ministro – e quella periferica hanno finora dimostrato scarsa consapevolezza della dimensione strategica e della centralità e rilevanza della problematica dei divari  territoriali anche in fatto di istruzione; e quindi dell’importanza di  strategie di contrasto agli insuccessi e agli abbandoni precoci da mal di scuola che, nel nostro Paese, risultano tra i più alti d’Europa.

Anche altri due progetti del Piano Scuola del PNRR – ‘Zero-Sei’ e ‘Ambienti di apprendimento (‘Aule’ e ‘Laboratori’) – possono ben essere visti come occasioni importanti per contrastare alla base i fenomeni di inadeguatezza del nostro sistema di istruzione, cause non secondaria della dispersione.
A questi è ancora da aggiungere il progetto sull’orientamento (le Linee Guida nel Decreto Ministeriale sono del 22 dicembre 2022), perché anche Orientamento è parola chiave nelle misure previste dal DM 170 sul contrasto alla dispersione[2].

All’interno di questo quadro complessivo, il progetto sulla dispersione andrebbe considerato – a ragione – come l’anima dell’intera operazione del Piano Scuola, in quanto le azioni di contrasto in esso previste investono aspetti ‘vitali’ del fare scuola: – cultura professionale e didattica,  organizzazione e leadership, ambienti apprendimento, … – che attraversano anche gli altri progetti.
Investire su di essi significa investire sul ‘motore’ dell’intera macchina del sistema di istruzione.

Novità (parziali) e interrogativi

È in questa ottica che andrebbero pertanto considerate azioni e percorsi previsti nei documenti di accompagnamento ai Decreti ministeriali citati e soprattutto in  “Istruzioni operative” del 30 dicembre 2022 – a cui va aggiunto la Piattaforma “Futura PNRR – Gestione Progetti”: che, in realtà,  è parecchio più di uno ‘strumento’ operativo.

Di questi documenti vanno certamente segnalati in positivo – perché prefigurano differenze promettenti rispetto a iniziative analoghe già sperimentate nelle nostre scuole – quelle parti che

  1. indicano come strategie importanti un insieme di azioni: dal mentoring[3] all’orientamento[4]; dai percorsi di potenziamento delle competenze di base[5] (visti anche come occasione di motivazione e di accompagnamento) ai percorsi di orientamento per le famiglie;
  2. prevedono percorsi formativi e laboratoriali co-curriculari che includono progetti speciali di scuola (dalle attività teatrali a quelle sportive, dai laboratori di musica ai percorsi di educazione emotiva-affettiva ….), visti come momenti di aggregazione volti non solo a sviluppare socialità e favorire inclusione, ma anche integrazione (che include normalmente anche ricadute sul rendimento scolastico in termini di apprendimenti).

Anche la previsione di aprire le scuole alla collaborazione – comprensiva di co-progettazione, ma anche di gestione di attività con agenzie formative accreditate e affidabili – è un punto importante dell’intero progetto, in quanto aiuta a fare uscire le scuole dall’auto-isolamento, in cui qualche volta si confinano, e a trarne arricchimenti salutari di vario tipo.

(Ma al riguardo va annotato che sono emersi, da più parti, interrogativi e dubbi che nascono – e non solo con riferimento a questo progetto – dall’enfasi con cui le collaborazioni con enti del terzo settore vengono prospettate alle scuole dal Ministero. Non si vorrebbe che tale enfasi preludesse a scivolamenti rischiosi per l’autonomia scolastica e a derive gestionali di tipo privatistico.)

Un nodo centrale: fruizione individuale dei percorsi o individualizzazione dell’offerta formativa?

In tale quadro complessivamente positivo, pone però seri interrogativi la scelta di intervenire su fragilità e insuccessi attraverso i percorsi di cui al precedente punto b., per le quali si prevede una modalità che sembra ignorare strategie che la ricerca pedagogica e didattica raccomanda da tempo.
Per i percorsi di mentoring e di orientamento, destinati soprattutto agli studenti a rischio dispersione, si prevedono infatti:

  1. una fruizione ‘individuale’ degli stessi (rapporto studente-docente / esperto esterno: 1 a 1);
  2. una loro collocazione di norma al di fuori dell’orario scolastico e degli spazi delle lezioni[6].

Manca in questa scelta operativa delle Istruzioni ministeriali ogni riferimento alle metodologie didattiche di individualizzazione o di personalizzazione, che, come è noto, sono cosa altra rispetto ad azioni a ‘fruizione individuale’. Metodologie che, per diverse e buone ragioni, meritavano attenzione – e non solo  –.

Le recupero da Massimo Baldacci[7] che, già in un suo libro del 2005, le richiama esplicitamente: “L’istruzione individualizzata non è una istruzione individuale, realizzata semplicemente in un rapporto 1 ad 1. Essa consiste nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche individuali di ciascuno (ritmi di apprendimento, capacità linguistiche, prerequisiti cognitivi) cercando di permettere al singolo di conseguire individualmente obiettivi comuni al resto della classe. (…)”[8].

E, a proposito di spazi e collocazione oraria possono ben valere, come aspetti importanti della dimensione collettiva dell’apprendere, le seguenti considerazioni di Simonetta Fasoli, particolarmente importanti ed esplicite perché ancorate a richiami normativi: “La strategia di contrasto va individuata nello stesso registro dell’ordinarietà, più che nella predisposizione di percorsi gestiti in ambito extracurricolare. Si vedano in proposito pietre miliari quali il documento della Commissione Falcucci (1975) e la legge 517/77 (…). Se è il gruppo di apprendimento la risorsa essenziale, non è la separatezza la risposta adeguata per chi si senta o sia stato escluso…”[9]. [i corsivi sono miei]

La didattica individualizzata – che è espressione operativa della teoria dell’individualizzazione degli apprendimenti, si configura pertanto come modalità del fare scuola particolarmente importante per l’integrazione nel gruppo classe degli allievi che se ne sentono esclusi; integrazione quindi come processo importante nel contrasto agli abbandoni precoci, soprattutto in quanto facilita l’apprendere migliorando livello e qualità delle relazioni nel gruppo [10].

Delle due pratiche didattiche sopra considerate sono indubbiamente diverse le idee di scuola ad esse sottese e diverso il tasso di carica innovativa. Penso però che, nella situazione attuale, entrambe potrebbero,  se ben condotte, sortire gli esiti previsti dal progetto.  Ne guadagnerebbe da questa scelta anche l’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Due questioni non sottovalutabili.

Ci sono infine questioni, non propriamente secondarie, che non si possono trascurare, se si vuole partire col piede giusto. Si tratta di ‘mancanze’ o sottovalutazioni di variabili con cui fare i conti. Quali soprattutto

  • la non previsione di incentivi significativi per il surplus di lavoro delle scuole che la nuova progettualità del piano di contrasto inevitabilmente porterà (per i docenti, le segreterie, le figure di sistema, per i ruoli intermedi di raccordo e accompagnamento).
    Si è dimenticato infatti nelle Istruzioni operative che il cambiamento passa dal lavoro quotidiano, sempre più complesso e gravoso sulle spalle dei docenti e delle scuole;
  • la scarsa attenzione ad un principio guida per l’operazione in corso: è difficile aspettarsi cambiamenti duraturi e significativi se la scuola nel suo insieme non si sentirà parte essenziale dei processi attivati e non se ne farà carico. La lotta contro la dispersione non è affare di singoli insegnanti o esperti esterni che operano dentro protocolli indicati dai pochi docenti del team di scuola e dal gruppo di co-progettazione: o è impegno dell’insieme dei docenti della scuola che, nelle loro articolazioni, lavorano collegialmente per individuare problemi e possibili soluzioni o sarà molto difficile che si producano esiti positivi e duraturi.

La vera sfida del progetto dispersione e i principali terreni su cui giocarla

Quello che in conclusione si vuole soprattutto sottolineare è che la scuola, per essere la risorsa giusta contro insuccessi e rischi di abbandono – e saper fare al meglio la propria parte -, dovrebbe prioritariamente sviluppare consapevolezza autocritica che, in molti casi, è essa stessa parte del problema dispersione[12].

Che si crea sempre quando – al netto delle responsabilità del sistema, che sono comunque enormi e condizionanti – si sottovaluta (anche se per fortuna sempre di meno) l’incidenza, fra gli studenti,  di fattori non secondari del mal di scuola;  che se bene riconosciuti e analizzati possono suggerire una mappa di comportamenti professionali competenti e mirati di cui soprattutto c’è necessità se si vuole, come sarebbe opportuno e prioritario, trasformare l’esperienza scolastica degli studenti in una avventura che li veda partecipi e interessati; e prevenire così le diverse manifestazioni di abbandono, sapendone capire i sintomi. La lista di tali comportamenti è la stessa che gira da sempre e che vede in primo piano soprattutto:

  • la padronanza riflessiva di pratiche didattiche partecipative e coinvolgenti,
  • una cultura professionale, e relative pratiche, che sappia alimentarsi di esperienze condivise che si fanno occasioni di formazione ‘situata’,
  • la pratica attiva del lavoro di squadra, vincendo individualismi e autoreferenzialità,
  • la cura degli ambienti di apprendimento; che significa impegno a trasformarli da non-luoghi a spazi accoglienti, stimolanti, polifunzionali,
  • una leadership che coltivi l’idea di scuola come comunità professionale e dimostri attenzione costante al funzionamento delle diverse articolazioni funzionali del Collegio e al loro coordinamento interno.

[1]. Va richiamato che il  Piano di Ripresa (formula abbreviata che traduce la sigla PNRR) fa parte del Programma dell’Unione europea, noto come Next Generation EU.

[2] L’insieme di questi tre progetti è parte del Piano Scuola (capitolo importante del Programma PNRR per l’Italia), che si articola in ben sei Riforme, per altrettante aree problematiche del nostro sistema di Istruzione: questo per richiamare la complessità dell’operazione entro cui ci si muove.

[3] Attività che mira a vincere il disagio che generalmente si manifesta con modalità che vanno dal basso rendimento fino all’abbandono scolastico precoce. Si tratta di percorsi ad apprendimento guidato.  

[4] Che andrà configurato secondo le Linee Guida del Decreto ministeriale del 22 dicembre del 2022, che prospettano azioni articolate e promettenti che richiedono non solo progettazione attenta, ma anche competenze professionali adeguate.

[5]. Particolarmente importanti dopo i due anni di pandemia che non ha garantito continuità e regolarità delle attività didattiche e ha sacrificato pesantemente la socialità.

[6] V. però la nota 10.

[7] M. Baldacci, Personalizzazione o individualizzazione? Edizioni Erickson, 2005

[8] In questo differenziandosi dall’”istruzione personalizzata che tende a traguardi diversi e personali per ciascuno, ponendo per ognuno obiettivi differenti”. Sempre Baldacci, ibidem.

[9] Simonetta Fasoli in Didattica del recupero o recupero della didattica? pubblicato recentemente su Nuovopavonerisorse.it

[10] La didattica individualizzata, nelle esperienze più comuni, assume generalmente la classe come l’ambiente di apprendimento nel quale si alternano momenti di attività a dimensione collettiva (lezioni parzialmente frontali, debate, brainstorming …), con lavori di gruppo a dimensioni variabili, a seconda dei luoghi, del tipo di attività ecc. Durante i quali l’insegnante copre funzioni, tutte comunque sostanzialmente riconducibili al proprio profilo.

[11] In essa si apre alla possibilità, che andrebbe però chiarita su più versanti, di svolgere anche in orario antimeridiano i percorsi di mentoring e orientamento e di potenziamento delle competenze. Alcune altre aperture interessanti:  l’individuazione di docenti/tutor/esperti interni attraverso deliberazione del Collegio Docenti;  riconoscimento economico per attività gestionali di progettazione e tecnico-operative del personale interno, il supporto educativo e/o psico-pedagogico di  docenti o altre figure specialistiche interne e/o esterne, le attività operative strumentali alla gestione dei percorsi formativi (da parte segreteria didattica), ….

[12] V. al riguardo, in Associazione professionale Proteo Fare Sapere, le considerazioni approfondite nel documento “La dispersione. La scuola da parte del problema a parte della soluzione”, elaborato da un gruppo di lavoro dell’Associazione; documento dal quale sono state riprese le riflessioni del paragrafo.

 




La scuola del merito tra LEP e autonomia differenziata

di Antonella Romagnolo
per gentile concessione della rivista on-line
M.A.Gi.C. e school

La notizia di questi giorni riguarda l’approvazione da parte del governo del disegno di legge dell’“Autonomia differenziata per le Regioni a Statuto ordinario.

È in corso il processo di conversione. Si tratta di un tema, che ha sempre infiammato la politica e i cittadini. La scuola di qualità e del merito, a cui miriamo tutti, come cambierà? Tutti, in fondo, ci chiediamo legittimamente se l’autonomia differenziata comporterà un miglioramento dei servizi o se invece si acuiranno i divari territoriali.

Per capire, è necessario farsi delle domande.

Che cos’è l’autonomia differenziata?

L’autonomia differenziata è una particolare forma di autonomia, che consente alle Regioni a Statuto ordinario di chiedere allo Stato competenze e funzioni sulle materie, definite dall’art.116 della Cost., comma III, e quindi legiferare su ambiti che sarebbero riservati allo Stato. Tra queste materie, c’è l’istruzione, ai sensi dell’art.117, della Cost., comma II, lett. n).

Su cosa incide l’autonomia differenziata e cosa sono i LEP?

L’autonomia differenziata incide sulla legislazione esclusiva e concorrente e sul gettito fiscale; ma prevede la definizione previa dei LEP con legge dello Stato. I LEP sono livelli essenziali di prestazioni, concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art.117 della Cost., comma II, lettera m, in termini di fabbisogni e costi standard (Legge di Bilancio 2023).

Che differenza c’è tra legislazione esclusiva e legislazione concorrente?

Secondo l’art.117 della Cost., comma II, l’istruzione è una materia di legislazione esclusiva dello Stato e su questa materia lo Stato ha potestà regolamentare. Infatti, ne determina le norme generali. L’istruzione professionale, invece, è materia di legislazione concorrente e la potestà regolamentare spetta alle Regioni.

Come si definiscono i LEP?

Con la Legge 29 dicembre 2022 n.197, cosiddetta Legge di Bilancio 2023, ai commi 791-798, sono stabilite le modalità per la determinazione dei LEP e per consentire ai cittadini il godimento delle prestazioni nel pieno superamento dei divari territoriali e la condizione per l’attribuzione di ulteriori funzioni (consentita subordinatamente alla determinazione dei relativi LEP).

Va quindi stabilita la “soglia di spesa necessaria e invalicabile” per erogare le prestazioni sociali e di natura fondamentale. Deve, inoltre, essere assicurato lo svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari Stato-Autonomie territoriali; favorita un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al PNRR. E’ opportuno ricordare che la Costituzione, all’art. 120 prevede che a tutela dei LEP, il Governo si sostituisca alle Regioni a prescindere dai confini territoriali.

Chi definisce i LEP?

Con la Legge di Bilancio 2023, è istituita la Cabina di regia, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, procede a determinare i LEP. Individua le materie, di cui all’art. 116 della Cost., terzo comma, nel rispetto degli equilibri finanziari dello Stato, in coerenza con gli obiettivi programmati e il supporto delle amministrazioni competenti.

Per ogni materia, la Cabina di regia effettua una ricognizione su: normativa statale e sulle funzioni esercitate da Stato e Regioni a Statuto ordinario e sulla spesa sostenuta dallo Stato in ogni regione nell’ultimo triennio (spese totali e parziali per materia). Sulla base di questa ricognizione, la Commissione tecnica, propone le ipotesi di costi e fabbisogni standard materia per materia e le predispone, seguendo i metodi stabiliti dall’art.5, c.1, lett. dalla a) alla f) del D. Lgs. 26 novembre 2010 n.216.

Sulla base di queste ipotesi tecniche, la Cabina di regia determina i LEP ed entro sei mesi dalla conclusione di tale attività, predispone per il Presidente del Consiglio dei Ministri uno o più schemi di decreto, dove i LEP sono espressi in termini di costi e fabbisogni standard (comma 795). In caso di ritardo, viene nominato un Commissario entro trenta giorni successivi alla scadenza dei dodici mesi, che procederà al completamento delle attività non perfezionate (comma 797).

Cosa cambierebbe nella scuola con l’autonomia differenziata?

La definizione dei LEP è certamente un’operazione propedeutica all’autonomia differenziata.

Con il nuovo disegno di legge, ove fosse convertito in legge, si darebbe attuazione al terzo comma dell’art.116 della Cost., cioè alle “nuove forme di autonomia” concernenti le materie dell’art.117, tra cui proprio il punto n) del secondo comma, che riguarda le “norme generali sull’istruzione”.

Cosa dobbiamo aspettarci nel mondo della scuola?

Ove l’istruzione fosse materia, su cui le Regioni a Statuto ordinario possono legiferare, si potrebbe assistere alla modifica di quelle norme generali. Le norme generali, a cui il personale della scuola fa riferimento, riguardano il D.Lgs. 16 aprile 1994, n.297 Testo Unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado.

I temi sono vari, tra cui si citano: OOCC; istituzione di scuole di ogni ordine e grado; edilizia e attrezzature scolastiche; ordinamento scolastico: libri di testo; valutazione; esami, diplomi e attestati; tasse; sperimentazione, ricerca educativa, formazione e aggiornamento; alunni in particolare situazione di disagio; norme sul personale, reclutamento, ruoli e organici; mobilità; congedi e aspettative; ricostruzione di carriera; trattamento di quiescenza.

I divari territoriali tra il Nord e il Sud sono una realtà del nostro paese, che si cerca di colmare con i Progetti Nazionali di Ripresa e Resilienza. Diffondere una scuola del merito su tutto il territorio italiano è una sfida. Ricordiamo, però, che lo è stata anche l’autonomia scolastica e il processo di riforma è iniziato nel 1997 con la Legge Bassanini n.59, seguito dal Regolamento sull’autonomia scolastica D.P.R. n.275 emanato in data 8 marzo 1999. Sono processi lunghi.

Le istituzioni scolastiche autonome, che lavorano ai progetti PNRR 1.4 e 4.0, stanno promuovendo il loro modello di scuola, coinvolgendo la comunità educante del territorio (sussidiarietà), col fine di innovare gli ambienti di apprendimento e colmare i divari territoriali. A fronte di questa autonomia, va sottolineato l’atto di responsabilità con il quale le scuole si impegnano a proiettare i giovani verso le professioni del futuro, valorizzando i loro talenti. La scuola del merito deve certamente prepararsi ai LEP. Dovrà anche lavorare con l’autonomia differenziata? Attendiamo la Legge.




E’ difficile farcela, forse impossibile… La scuola e la “fatica” di Sisifo

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Domenico Sarracino

La scuola è preposta da sempre alla preparazione alla vita delle nuove generazioni. Non era cosa da poco ieri e, in una situazione così liquida ed articolata come quella attuale, non lo è oggi. Bisogna ribadire un assunto determinante: la scuola non è un opificio in cui il processo produttivo, se bene organizzato, dà sempre risultati standardizzati, previsti e prevedibili. Anche in una scuola che fosse priva di carenze e perfettamente organizzata i risultati sarebbero sempre aperti ed esposti al rischio ed all’insuccesso, perchè essa ha a che fare con la vita che cambia, con il nuovo che si presenta, con ciò che freme e fermenta nella società…

Fare scuola è tentare e ritentare, cercare e sperimentare; è sempre una navigazione in mare aperto, in cui la rotta va continuamente controllata.

Fare scuola (quando non si cede al vivacchiare) è un mestiere difficile in partenza. Meriterebbe da parte di tutti ben altra attenzione e considerazione. Invece accade che da sempre ed in particolare negli ultimi tempi di essa si parli tanto, ma poco si fa soprattutto da parte di chi ha le più alte responsabilità; e la scuola resta quello che è; ora tirata di qua ora di là, sempre più fa pensare alla punizione di Sisifo, costretto da Zeus a fare tanta fatica per trascinare in su un masso destinato irrimediabilmente a ricadere in basso. E quel poco che fanno quelli che reggono il sistema-scuola è più per apparire che per esserci sul serio, è estemporaneità ed improvvisazione, fuoco d’artificio volto a dare fumo negli occhi e a far finta di fare, senza un disegno strategico, senza continuità, mezzi adeguati, coerenza; senza un disegno strategico che parta dallo stato reale delle cose.

Ma un altro fattore incide sulla situazione che si sta descrivendo e che chiama in causa altri soggetti che segnano la vita sociale e la contaminano, un fattore che interviene potentemente e profondamente sulla formazione dei giovani il cui peso è ancora troppo poco presente e considerato.
Parlo dell’educazione indiretta, quella che il mondo adulto, i responsabili della cosa pubblica e chi svolge alte funzioni politiche economiche e sociali diffondono col loro agire; i quali molto spesso danno continui esempi di doppiezza, di corruzione e disonestà: predicano una cosa e ne fanno un’altra, mentono, spergiurano, raggirano, perseguono interessi personali, accecati dalle carriere, dalle cordate, dai posti di potere. E parlo, nel contempo, di quel fenomeno ancor più insidioso ed insinuante che riguarda la comunicazione, l’intrattenimento e il mondo dei social, che pervade società complesse ed articolate come la nostra, in cui tutto si fa spettacolo, in cui vincono e colpiscono la trasgressione, il gesto sopra le righe, l’atteggiamento spavaldo, la voce grossa, l’intolleranza e la sopraffazione, dove a dettare i palinsesti sono i dati dell’audience. E allora: se la nostra società funziona così, “educa così”, la scuola, fosse pure senza alcuna pecca, con concorrenti così efficaci- ahimè- dispero che potrà farcela. C’è una tabe intorno a noi, quella che genera il malcostume crescente e i gesti dei tanti Blanco.
Credo che chi tiene ad un futuro migliore, di costruzione e progresso nella libertà, nella responsabilità e nella cooperazione solidale non può non interrogarsi su questi fenomeni.




Scuola e comunità locale

Stefanel

di Raimondo Giunta

Il modello della scuola separata dal mondo, lontana dai turbamenti delle vicende quotidiane, se è esistito, ha compiuto il suo percorso e comunque ad ogni buon conto non avrebbe davanti a sè un grande futuro.

Con la nascita degli stati nazionali la scuola ha preso in carico il compito di legare le nuove generazioni ai valori e agli interessi delle nuove organizzazioni statuali. Da quel momento diventa luogo di riproduzione dei saperi e di formazione dei comportamenti ritenuti necessari per l’accesso ai ruoli di comando della società e per il mantenimento della sua coesione.

Pur separata ha coltivato un disegno egemonico sulla società; ha ritenuto di doversi considerare il suo “dovere essere”, di rappresentare il paradigma, l’esempio dei principi e dei valori che andavano ovunque praticati.

La scuola dell’educazione nazionale nasce nel seno della cultura illuministica e ne conserva ereditariamente i tratti, gli impulsi, le tensioni e le procedure.  E’ una scuola che non conosce i propri limiti e che crede di essere e rappresentare la “cultura”, di avere l’esclusiva della vera e unica educazione; di essere nella nazione la sola dispensatrice del sapere critico, razionale, dei valori estetici e spirituali.

La scuola del nostro passato è stata il luogo del testo scritto, dei linguaggi formali, dell’astrazione concettuale: strumenti indispensabili di riduzione, unificazione e mediazione dei saperi alti. Operazioni possibili proprio per la sua separatezza. E’ stata una scuola elitaria nella cultura dei suoi curricoli, selettiva nella sua organizzazione, discriminatoria nella sua composizione sociale.
Questa scuola ha dato ai saperi una propria forma, l’ha dato anche alle procedure di trasmissione, al rapporto conoscitivo con la realtà e al dialogo formativo. Se questa non era la” cultura”, è però stata la sua cultura, dalla quale le riesce difficile distaccarsi.

La scuola dell’educazione nazionale è stata necessariamente una scuola uniforme, accentrata, diretta dall’alto.
E’ stata gestita con ordini di servizio e direttive indiscutibili, come si credeva che dovesse essere l’enciclopedia dei saperi che doveva trasmettere; è stata una scuola che ha funzionato finché è stata piccola la platea dei suoi studenti, limitato l’accesso ad ogni grado di istruzione.  Ha funzionato finché è stata semplice la composizione sociale della nazione e finché governabili sono stati i processi di cambiamento tecnico e lo sviluppo delle conoscenze.

Negli ultimi decenni il contesto di riferimento della scuola è profondamente mutato, è diventato quasi irriconoscibile rispetto al passato. Si potrebbe dire con grande approssimazione che fino a ieri la scuola è stata la scuola degli stati e delle economie nazionali, la scuola del primo secolo di industrializzazione, ma che oggi si trova fuori posto nei tempi dell’universalizzazione delle economie e dei mercati, del deperimento degli stati nazionali e della costituzione di comunità statuali multietniche e multiculturali.
Pare a molti evidente che il sistema scolastico necessariamente debba scommettersi e sfidarsi in un nuovo cammino; dalla sicurezza delle precedenti stagioni deve avviarsi alla ricerca di una nuova identità.
La scuola deve vivere con consapevolezza il suo paradosso che è quello di innovare, ma anche di conservare; di confrontarsi con i cambiamenti, ma di non illudersi di poterli afferrare e assimilare nella loro interezza; di porsi ancora come momento possibile di unificazione nazionale, ma di dare spazio alla diversità,  di aprirsi alla pluralità delle culture locali; di trasmettere un patrimonio,  ma anche di innovarlo. La condizione di separatezza, che l’ha distinta, si deve sciogliere in un rapporto di reciproco dialogo e di scambio con la società. Tra scuola e società c’è qualche necessaria barriera, ma non la cortina di ferro.

L’autonomia della scuola è sembrata lo strumento adatto per far compiere alla scuola questo nuovo percorso. La scuola non più luogo di esecuzione, ma di ricerca e di elaborazione curriculare; di creatività didattica; luogo in cui trovano spazio la libertà professionale e la responsabilità del personale della scuola.  L’apertura al territorio che era stata nel passato una vaga opzione culturale è diventata oggi un compito specifico da assolvere. Il territorio non è più un ambito di conquista e di colonizzazione; il depositario di conoscenze, di valori e di simboli di una cultura ritenuta minore e pertanto da censurare e da rimuovere, ma un partner educativo.
Con l’autonomia la scuola, pur rimanendo dentro l’apparato delle istituzioni statali, incomincia a qualificarsi come ente di servizio territoriale, la cui funzione si esprime nella formulazione di proposte formative che devono tener conto del contesto locale e interpretarne la storia.

La scuola da luogo di conformità diventa luogo di confronto culturale e valoriale. La scuola si arricchisce perché si possono recuperare gli elementi di contiguità e di continuità col mondo circostante e perché in questo modo in ogni situazione si può riannodare il filo della comunicazione con le generazioni che ci hanno preceduto; la scuola può diventare luogo della ricostruzione della memoria e delle tradizioni locali.
L’accortezza e la sapienza delle scuole devono fare in modo che l’apertura al territorio non comporti l’irruzione acritica del folklore e dell’aneddotica municipale nel curriculum, perché il compito è quello di dare spazio ai saperi “altri” rispetto a quelli ufficiali, ma nella forma seria del sapere critico e storico e di comprendere che tra territorialità, spazio nazionale e relazioni internazionali si giuoca la partita della buona educazione delle nuove generazioni.




Tra scuola e società il dialogo è necessario, anzi indispensabile

di Raimondo Giunta

La scuola vive dei suoi rapporti con la società; si alimenta delle sue esigenze, si muove sulla spinta dei suoi problemi. Scuola e società reciprocamente si richiamano; si dovrebbero aiutare, ma più spesso negli ultimi tempi confliggono. Va da sé che per cogliere frutti buoni, però, è necessaria la loro stretta, solidale collaborazione, nella distinzione dei compiti e dei ruoli e nel rispetto delle funzioni professionali, culturali ed educative che in autonomia la scuola deve svolgere. Se la scuola non entra in sintonia con i problemi della società e con i temi culturali del proprio tempo, prima o poi perde la propria ragione d’essere.
La riflessione su questo nodo cruciale dell’istruzione deve essere permanente e costituirsi come principio di orientamento nell’azione quotidiana a scuola, per evitare il rischio che si avviti e si impoverisca nella sua solitaria autoreferenzialità. La scuola non può tenere né porte, né finestre chiuse. Operazione assurda e inefficace; ci penserebbero gli alunni e le famiglie eventualmente a portare dentro la scuola il mondo che sta fuori. Il problema è come la scuola debba pensare e vivere le questioni che agitano la società e questo non è di pacifica e concorde soluzione. C’è un modo proprio della scuola per svolgere questo compito e solo rispettandone stile e natura si possono avere risultati utili.
Nella costruzione del rapporto scuola-società ci sono scelte che attengono alle responsabilità generali dello Stato e scelte che sono nelle mani delle singole scuole, dotate degli strumenti che loro può dare l’autonomia.
Tutto, nel piccolo e nel grande, si sviluppa intorno al rapporto tra domanda sociale d’istruzione e capacità del sistema scolastico di soddisfarla. La composizione della domanda sociale di istruzione muta secondo i tempi, la forza sociale dei soggetti che la formulano, la natura dei bisogni collettivi che in un dato momento si pensa che possano e debbano essere soddisfatti.
Che la scuola anche quando lo voglia non riesca a tenere il passo con le esigenze della società è fatto naturale che non dovrebbe sorprendere. Le risposte del sistema di istruzione arriverebbero sempre con un po’ di ritardo… anche se fosse in grado di programmare e di applicare le innovazioni.


Compito della scuola non è la previsione delle esigenze della società, ma quello di interpretarle quando queste vengono esposte. Ogni realtà ha i propri tempi di funzionamento e il proprio statuto e prenderne atto è operazione dovuta e opportuna. Come comprendere che non esistono soluzioni definitive per i problemi della scuola. Le risposte del sistema di istruzione e formazione ad ogni buon conto sono nell’ordine del ragionevole e del plausibile. Questo non vuol dire volere una scuola effimera, ridiscutibile anno per anno.
La scuola deve avere un impianto solido, offrire curriculi strutturati e rigorosi con una parte ovviamente stabile e una riprogettabile che apra una finestra sul mondo
Nella domanda sociale di istruzione tende ad assorbire ogni spinta e a rappresentarla per intero quella che proviene dal mondo economico.
E’ una pretesa ricorrente dalla quale bisogna sapersi difendere, perché, se è impossibile teorizzare l’indipendenza dei processi di scolarizzazione rispetto a quelli economico-sociali, è altresì impossibile farne l’unico destino, perché la funzione professionale non è l’unica che deve svolgere un sistema scolastico.
Il mondo del lavoro e delle occupazioni, tra l’altro, per i processi continui di profonda, tumultuosa trasformazione che lo distinguono, non è un punto di riferimento stabile come nel passato e nessun sistema di istruzione può essere insensibile ai cambiamenti di costume, psicologici e sociologici dell’utenza scolastica. La scuola deve essere, infatti, sempre all’altezza del compito di socializzazione e di formazione culturale e umana delle nuove generazioni, al quale per nessun motivo può abdicare.
Nel leggere il rapporto tra scuola e società molti si soffermano sul loro scarso grado di integrazione; altri si lamentano dei tentativi di subordinare il sistema di istruzione alle leggi del mercato e delle imprese e di violarne l’autonomia. Per il sistema scolastico è quasi impossibile la simbiosi con la società; inaccettabile la sua subordinazione; convengono e sono proficui solo il confronto e il dialogo aperto e permanente nella diversità dei ruoli. Nel trattare questo problema non si può dimenticare che quando si parla del sistema di istruzione e formazione ci si deve riferire alla condizione attuale di pluralismo formativo, alla condizione, cioè, che vede la scuola in posizione di centralità fra tante altre agenzie formative, ma con connotati diversi rispetto a quelli che un tempo ne disegnavano l’indiscutibile supremazia.
E’ il tempo dell’industria culturale e della pervasività dei nuovi media. E’ il tempo dell’apprendimento lungo tutta la vita. E tutto questo rende molto difficile indicare una sola linea di confronto tra scuola e società, tra scuola ed esigenze individuali delle persone.
Ad ogni buon conto la scuola non può perdere il controllo del proprio programma culturale, ha la responsabilità di non disperdere la propria identità nell’allargarsi e nell’infittirsi dei suoi intrecci con la società; il mestiere della scuola consiste nel sapere escludere e selezionare i contenuti che devono entrare nei curricoli. Non deve rischiare di soffocare per ingordigia. La scuola non deve limitarsi ad assicurare una semplice continuità con la società che l’attornia o con le esperienze quotidiane.
”Essa è quella particolare comunità in cui si fa l’esperienza di scoprire le cose usando l’intelligenza e ci si introduce in nuovi e inimmaginati campi d’esperienza”(J. Bruner).
”La scuola è un luogo dove si svolge un particolare tipo di lavoro intellettuale che consiste nel ritirarsi dal mondo quotidiano, al fine di considerarlo e valutarlo;un lavoro che resta coinvolto con quel mondo, in quanto oggetto di riflessione e di ragionamento”(L. Resnick).
Il funzionamento del sistema formativo dovrebbe essere speculare all’apparizione di una nuova e consolidata tendenza esistenziale non più strutturata a blocchi (scuola/lavoro/pensione) ma segnata dall’alternanza di fasi di lavoro e momenti di formazione e dalla crescente importanza della capacità di apprendimento, dalla capacità di apprendere ad apprendere come si dice sempre più spesso.
Bisogna chiedersi, allora, che genere di cultura e di formazione debbano avere le nuove generazioni, che cosa debbano saper fare i giovani appena usciti dalla scuola, come sia possibile tenere il passo nei confronti delle trasformazioni della società e del mondo del lavoro.
Il sistema di istruzione svolge la sua funzione, se è in grado di progettare i curricoli che formano, a partire dalla scuola primaria fino all’università, le competenze richieste in questa fase storica dalla società nel suo insieme e non solo dal sistema economico-aziendale. Si parla da alcuni decenni di flessibilità, adattabilità, mobilità ed oggi di competenze chiave, di competenze trasversali, di soft-skills. Sono problemi di prima grandezza, bisognosi di risposte che devono contemperare l’immediato e la prospettiva, cioè difficili e nello stesso tempo transitorie. Nel mondo dei problemi con cui bisogna confrontarsi entrano da protagonisti nuovi contenuti, nuovi saperi, nuove tecnologie, nuovi media, personalizzazione dei percorsi formativi, ricerca di radici locali, conoscenza del mondo, momenti di creatività e di espressività. Vi restano con la loro forte presenza la lotta alla dispersione scolastica, la consistenza della cultura comune, le metodologie adatte ad esaltare l’iniziativa di chi apprende. Resta, inoltre, immutata la necessità di conciliare obiettivi di promozione umana e culturale con quelli di professionalizzazione e quella di evitare scelte precoci e socialmente inique.
Alla conclusione del corso di studi i giovano dovrebbero avere la capacità di riconoscere e controllare le condizioni e le modificazioni della propria condizione sociale e di lavoro. Dovrebbero sapere formulare ragionamenti chiari e fondati, compiere processi di astrazione, fare ordinate classificazioni, immaginare modelli ed enunciare generalizzazioni, procedere ad applicazioni del proprio sapere a casi nuovi e particolari.
La loro preparazione dovrebbe essere connotata da conoscenze specifiche e da metodologie tecniche relative alla professione di riferimento, se hanno frequentato scuole tecniche e professionali. La missione educativa della scuola non è più solo quella di arricchire una persona di conoscenze sempre più varie e complesse, ma anche quella di renderla sicura dei propri mezzi per affrontare in qualsiasi nuova situazione le proprie responsabilità di cittadino e di lavoratore.