Rilanciare l’autonomia partendo dalla qualità del lavoro

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Pietro Calascibetta

“LA SCUOLA SI RIPRENDE LA PAROLA”

E’ sicuramente una buona notizia l’appello lanciato delle associazioni professionali AIMC-CIDI-MCE-PROTEO FARE SAPERE per rimettere in moto quel protagonismo del mondo della scuola che aveva contraddistinto gli anni ’70/80.
Allora si trattava di dare forma, metodologie e contenuti ad una scuola solo enunciata nella Costituzione e tutta da realizzare, oggi di rilanciare l’autonomia scolastica.
Ma perché è necessario “rilanciare l’autonomia”?

L’AUTONOMIA NON È UNA RIFORMA QUALUNQUE

L’autonomia che siamo chiamati a difendere fa parte di quelle riforme che sono state realizzate per attuare i principi della Costituzione.
In Italia il sistema scolastico del dopoguerra si è caratterizzato per una sostanziale continuità con il passato fascista e addirittura prefascista, fatta ovviamente eccezione per il maquillage degli elementi esplicitamente legati al regime tolti immediatamente.
Il dettato costituzionale ha cominciato ad attuarsi e a cambiare il nostro ordinamento scolastico solo negli anni successivi e per tappe attraverso quelle che noi chiamiamo sbrigativamente “riforme”.
Nello specifico gli organi collegiali hanno creato il quadro giuridico per “l’effettiva partecipazione” permettendo che la democrazia partecipativa da valore enunciato nell’ ultimo comma dell’art. 3 divenisse prassi anche nella scuola; l’autonomia scolastica a seguire ha creato il quadro operativo affinché la partecipazione non fosse solo formale dando “potere” e strumenti agli organi collegiali di adeguare la progettazione « ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti» nel territorio ponendo le basi per rendere possibile anche nella scuola un altro pilastro della democrazia: “l’autonoma iniziativa dei cittadini” (art.118); la rendicontazione sociale, lo Statuto delle studentesse e la valutazione di sistema attiene all’art.97 sulla trasparenza della pubblica amministrazione.
La difesa degli organi collegiali e dell’autonomia e la loro completa attuazione non è quindi la difesa di riforme qualunque o la riforma di questo o quel ministro, ma la difesa di norme che, pur con i loro limiti , incompletezze e lacune da emendare, hanno attuato la Costituzione rompendo la continuità con il passato facendo della scuola una comunità gestita in base ai principi democratici, una comunità di cui fa parte anche il dirigente con precisi vincoli molto più stringenti di quanto fosse a guardar bene prima dell’autonomia e durante il regime fascista. Questa è l’autonomia.
Chiarito il perché l’autonomia è così importante per la democrazia e che quindi bisogna far funzionare realmente queste “riforme” , bisogna chiedersi perché l’autonomia è in crisi.

LA CRISI E’ LA MANIFESTAZIONE DI UN DISAGIO REALE

Di fronte all’ importante compito di formare gli studenti ad affrontare le sfide sociali e dell’ambiente di domani che proprio l’autonomia avrebbe dovuto rendere più efficace, la scuola presenta oggi delle criticità che il manifesto elenca compiutamente.
La crisi della partecipazione agli organi collegiali; la crisi delle politiche delle riforme a fronte alla loro concreta applicazione; l’impoverimento delle relazioni interne in ciascun istituto che si esauriscono “in dinamiche prevalentemente individuali,”; il ripiegamento e l’isolamento di chi aveva “scommesso sull’autonomia“, insomma uno strisciante e generalizzato abbandono dell’impegno.
Per rilanciare l’autonomia credo che si debba necessariamente affrontare le radici di questa crisi e capirne il perché, non basta chiamare alla mobilitazione. Credo che il rilancio dell’autonomia parta proprio dal trovare delle proposte per superare questa crisi. Proposte, però, che vadano al nocciolo della questione.
La crisi nasconde un profondo disagio degli operatori della scuola che è maturato in questi anni per il modo con cui sono costretti a lavorare proprio nella scuola dell’autonomia su cui molti avevano “scommesso” e avevo contribuito a realizzare.
Una contraddizione molto dolorosa che spesso disorienta chi ci ha creduto veramente e ha lottato per essa.
Un disagio che, purtroppo, non è una fantasia alimentata dai media, un atteggiamento vittimistico di una categoria o una oscura manovra politica, ma una realtà tangibile perché si vive proprio sul piano professionale e sulla propria pelle.
Un disagio che si sta trasformando in deriva per la mancanza di un’iniziativa comune in cui riconoscersi .Un disagio che ha prodotto quel disimpegno e quel “ripiegamento” che rischia ora di aprire la strada a soluzioni populiste, particolaristiche e autoreferenziali facendo perdere la dimensione comunitaria del sistema scolastico e del lavoro nel proprio istituto esponendo la scuola al rischio di “derive autoritative se non, talvolta, autoritarie” come si paventa nell’appello.

IL RISCHIO DI BUTTAR VIA L’AUTONOMIA PER SBARAZZARSI DELLA CRISI

La tentazione di trovare una soluzione attraverso vie brevi è forte come forte è il disagio e concreto il rischio di “buttar via la stessa autonomia insieme a questa crisi”.
Aderire ad una dimensione regionale del servizio scolastico nell’ambito di un’autonomia differenziata può esercitare una certa attrattiva a fronte di un centralismo che invece di offrire all’autonomia una credibile governance di sistema, come puntavano le stesse norme, si barcamena tra il laissez faire e il dirigismo centralista come abbiamo ampiamente sperimentato anche durante la pandemia e come sta riprendendo piede oggi.
Può essere attrattiva anche l’idea di ridimensionare se non di archiviare gli organi collegiali, l’autonomia e le stesse riforme additate come la causa della burocratizzazione della scuola .
Il malcontento trova infatti nell’autonomia e nelle riforme ad essa correlate un facile capro espiatorio.
Tutta la lamentela sulla burocratizzazione della scuola è alimentata dal fatto che l’autonomia ha introdotto nel lavoro del docente una serie di attività di progettazione, di monitoraggio e autovalutazione oltre alla lezione d’aula che si sono trasformate attualmente in semplici adempimenti e non in attività significative e di conseguenza gratificanti sul piano professionale e riconosciute sindacalmente in modo adeguato come tali, come invece dovrebbero essere.
Non è un segreto ricordare che le critiche all’autonomia e alle riforme provengono anche da settori significativi dell’area democratica, alcuni ossessionati dall’idea che l’autonomia sia il cavallo di troia di una presunta aziendalizzazione della scuola, altri preoccupati che l’autonomia favorisca le scuole private, altri ancora contrariati agli obblighi di rendicontazione , di autovalutazione e valutazione dei risultati che la normativa sull’autonomia e sugli organi collegiali impongono nell’ottica della trasparenza e della partecipazione democratica nei confronti dei genitori e degli studenti e non certo per una logica puramente efficientistica come spesso si crede.
Il pensiero verticale porta poi a ritenere che il superamento della crisi possa passare attraverso la solita leva della formazione dei docenti che è sì una delle condizioni che permette l’autonomia, ma non il dispositivo per superare questo disagio che risiede altrove, come dirò più avanti, e colpisce più duro, se possiamo dire, addirittura il personale con maggiore formazione e più impegnato nelle attività necessarie a far funzionare la scuola perché si sente soverchiato dalle incombenze che si scaricano proprio su chi è più disponibile aprendo la porta ad un burnout diffuso.
Un’ altra via breve, anzi brevissima, è l’aumento dello stipendio, sicuramente sacrosanto, ma che sarebbe un modo per far tacere la categoria se non si toccano le condizioni di lavoro.
Se da una parte c’è il disagio del personale della scuola, dall’altro c’è un atteggiamento diffidente dell’opinione pubblica verso la scuola e i docenti dovuto ai risultati non particolarmente brillanti degli studenti e dalla situazione della dispersione e degli abbandoni che non segna una significativa inversione di tendenza, tanto che si deve ricorrere a misure straordinarie.
Tutto questo costituisce una formidabile sponda ai detrattori dell’autonomia.

MA LA SCUOLA IN CUI LAVORIAMO E’ VERAMENTE LA SCUOLA DELL’AUTONOMIA?

Scrive Berlinguer nella prefazione al volume «Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome» (a cura di M. Campione e E. Contu, Il Mulino 2020), “Bisogna essere chiari: è inequivocabile che questa sia ancora la fase di attuazione dell’autonomia; non si può infatti affermare che i vent’anni trascorsi […] abbiano già introdotto sufficiente autonomia nelle scuole».
Questa è un’affermazione politicamente rilevante che è necessario tenere presente nel momento in cui vogliamo parlare di rilancio dell’autonomia.
A questo punto viene da chiedersi. La scuola dell’autonomia è proprio quella che si vive tutti i giorni nella quotidianità dei propri istituti? Oppure quella che viviamo è la brutta copia di un’autonomia che ancora non c’è?
C’è il rischio che gli insegnanti stessi considerino un fallimento l’autonomia e le riforme successive senza averle sperimentate per come erano state pensate.
Berlinguer ci conferma che il processo di riforma del sistema, che lui ben conosce, non si è ancora compiuto del tutto.
Se le cose stanno così la prima cosa da fare per difendere l’autonomia è indicare chiaramente ciò che manca e chiedere con chiarezza che l’autonomia sia completata.

L’ AUTONOMIA INCOMPIUTA

Varato il Regolamento si è creduto o voluto credere che ormai la riforma fosse tutta lì e che bastasse applicare il Regolamento perché l’autonomia si realizzasse per incanto.
Chi per un motivo chi per un altro, chi in buona fede chi con il fine preciso di boicottarla non si è posto il problema di come il lavoro del docente sarebbe dovuto cambiare con l’introduzione della flessibilità sia rispetto agli studenti sia rispetto ai colleghi.
Guardando ciò che è avvenuto allora e la situazione in cui ci troviamo adesso ci si rende conto che il pezzo mancante riguarda proprio il lavoro, come se la professione docente fosse ancora un’attività individuale circoscritta nell’interazione tra il singolo docente e lo studente, orientata alla selezione di una classe dirigente e non un processo collettivo di formazione dei cittadini in cui la comunità scolastica e l’autonomia in sé ( se funzionano) diventano un vero e proprio dispositivo di apprendimento di competenze disciplinari e sociali per gli studenti e per gli adulti.
In particolare non si sono affrontate due questioni che sono determinanti per l’attuazione dell’autonomia.

L’ORGANICO COME RISORSA

La prima riguarda l’organico, cioè l’entità delle risorse umane necessarie al lavoro nella scuola. Appena dopo il varo del Regolamento prese l’avvio una sperimentazione nazionale che prevedeva al posto dell’organico tradizionale conteggiato in base ai parametri della scuola selettiva, l’assegnazione alle scuole di un organico in base al “progetto di autonomia” degli istituti cioè conteggiato in base ai bisogni metodologici necessari nello specifico contesto di ciascun istituto in base all’utenza.
Ci si era resi conto evidentemente che la flessibilità organizzativa e didattica avrebbe richiesto la disponibilità di un organico più ampio di quello strettamente necessario alle lezioni a classe intera e tradizionalmente assegnato in base alle classi da coprire e alle ore curricolari di ciascuna disciplina, un nuovo organico che sarebbe servito per la predisposizione di nuovi contesti di apprendimento con un tempo più lungo, non con attività extracurricolari (vedi doposcuola, recupero o L.A.C.) come si vuole fare oggi, ma per rendere possibile quella riorganizzazione del curricolo disciplinare prevista dal Regolamento, l’operativizzazione del curricolo, la personalizzazione, l’individualizzazione, la sperimentazione e la ricerca.
Lo stretto legame tra organico, organizzazione del lavoro e successo formativo era stato ampiamente dimostrato dalle scuole nelle esperienze di avanguardia degli anni ’70.
Una proposta di organico però subito sepolta e finita nel dimenticatoio, ripresa solo dalla “Buona scuola”, ma, tra un compromesso e l’altro, solo come potenziamento condizionato dall’entità delle quote di personale rimaste a disposizione nelle graduatorie di ciascuna disciplina dopo le assegnazioni ordinarie. Qualcuno direbbe “con il personale residuale” alla faccia del rispetto della professionalità di quei docenti e dei bisogni progettuali delle diverse realtà scolastiche.

IL LAVORO E’ CAMBIATO

La seconda questione riguarda più propriamente le modalità di lavoro dei docenti.
Che ci fosse allora la consapevolezza che l’autonomia avrebbe comportato un’innovazione anche nel lavoro dei docenti è testimoniato addirittura da quanto leggiamo nella piattaforma unitaria di allora dei sindacati (“Un contratto per la scuola dell’autonomia”, Piattaforma CGIL – CISL – UIL Scuola , 2002 – 2005, 13 Giugno 2002) dove si sottolinea proprio la necessità nella scuola per l’attuazione dell’autonomia di “ un’attività organizzata su modelli di lavoro differenziati, professionalità articolate, itinerari di ricerca continui in un contesto relazionale che, oltre a valorizzare l’impegno individuale dell’insegnante, si connoti con una dimensione cooperativa.”
Ancora Berlinguer scrive nel volume citato che l’autonomia è nata per realizzare nella scuola un contesto di lavoro capace di «produrre ricchezza intellettuale, sperimentare metodologie, di fare della partecipazione una condizione essenziale», in altre parole per valorizzare chi vi lavora e gli stessi utenti, studenti e genitori presenti in base al dettato costituzionale in quanto membri della società civile e portatori anch’essi di cultura.
Questo avrebbe comportato prendere in considerazione un orario di lavoro del docente in cui la docenza, le attività di tutoraggio degli studenti, di confronto con le famiglie e di progettazione, monitoraggio, ricerca e sviluppo tra colleghi potessero avere la stessa dignità ed essere messe sullo stesso piano dell’insegnamento in aula.
nascondere il problema di come affrontare l’autonomia sul piano del lavoro sotto il tappeto dei tagli al bilancio senza che nessuno mettesse un limite a questo depauperamento della scuola ha compromesso in modo irrimediabile la “dimensione cooperativa” , la ricerca di nuovi contesti di apprendimento e ha di fatto ristretto l’autonomia alla didattica d’aula facendo credere che la flessibilità nei programmi e nelle metodologie anche con l’aiuto delle TIC fosse sufficiente a raggiungere le finalità che l’autonomia voleva perseguire, confondendo l’autonomia didattica con quella che si chiama libertà di insegnamento.
Una responsabilità anche dell’area democratica. Ciò che è stato sacrificato è stato il “core” dell’autonomia e la vera novità: l’autonomia organizzativa, di sperimentazione, ricerca e sviluppo che richiede tempi e spazi adeguati per realizzarsi.
Se guardiamo con attenzione tutte le riforma successive constatiamo che sono state pensate sulla premessa che ci fosse nella scuola lo spazio e il tempo di agire la “dimensione cooperativa” della professione, da qui la difficoltà oggi nella loro applicazione concreta (ad esempio per i professionali o per l’inclusione)
La realizzazione e il monitoraggio del PDP, del PEI e del Progetto individuale, del Progetto formativo individuale, del Progetto orientamento del PCTO, del curricolo trasversale di educazione civica ecc. ecc., solo per fare qualche esempio, da progettazioni e strumenti operativi di lavoro per i docenti diventano adempimenti con crocettati e taglia e incolla da mettere a verbale e archiviare.
Chi li fa come dovrebbero essere fatti ( e sono in molti per fortuna ) lo fa attraverso il lavoro volontario, al massimo con una mancetta in busta paga.
L’autonomia ha finito per prendere la fisionomia di un decentramento di funzioni amministrative ed è spesso diventata un modo per scaricare sui collegi e i dirigenti la responsabilità dei risultati senza dare né le risorse umane né gli strumenti organizzativi per gestire la flessibilità e la progettualità richiesta dalle norme. Anche i distacchi dei docenti che una volta venivano dati alle scuole per seguire i progetti (segno che erano necessari) sono stati subito eliminati in cambio di…niente.
In altre parole l’autonomia ha dovuto muoversi nelle strettoie di una struttura e di un’organizzazione del lavoro che fa riferimento al modello gentiliano diventandone prigioniera.
Un autonomia fatta con i fichi secchi. Una categoria umiliata due volte sul piano professionale.

QUANDO IL LAVORO E’ DI SERIE A E QUANDO DI SERIE B

Le riforme assegnano un ruolo centrale ai contesti collegiali, al consiglio di classe, ai dipartimenti disciplinari e ad una serie di figure il cui elenco si allunga ogni anno tra cui il coordinatore di classe, illustre fantasma, non previsto neppure da una norma, ma fondamentale per fare del consiglio di classe una vera équipe che può occuparsi della dispersione.
Il coordinatore di classe vale dunque meno del tutor dell’orientamento a cui si vorrebbe riconoscere un punteggio extra per i trasferimenti? I docenti con 9 o 6 classi. che spesso sono i docenti delle aree di indirizzo nelle superiori, non possono materialmente esercitare la “dimensione cooperativa” costretti a passare da una riunione all’altra e a cui si chiede di fare il tutor del PCTO.
Manca uno stato giuridico del personale a misura dell’autonomia, una modalità di comporre gli organici che permetta realmente l’autonomia progettuale, un ordinamento e delle figure professionali che possano essere messe in grado a ciascuno di poter svolgere il proprio lavoro in modo conforme ai compiti richiesti dall’autonomia, un contesto in cui ciò che si impara nei corsi di formazione si possa realmente applicare.
Mentre l’autonomia richiederebbe una collaborazione tra docenti posti sullo stesso piano e un lavoro di pari dignità indipendentemente dai compiti svolti, nella realtà l’unico lavoro riconosciuto professionalmente è quello di cattedra mentre tutto il resto e accessorio, aggiuntivo e soprattutto facoltativo mettendo in difficoltà non solo i dirigenti, ma anche gli stessi collegi e chi ha a cuore la scuola.
Gli aspetti strutturali e organizzativi rappresentano i nodi più delicati nell’attuazione dell’autonomia e delle riforme perché da questi dipende la qualità delle prestazioni professionali in aula e di conseguenza i risultati degli studenti, ma questo sembra non si possa più dire, non a caso i testi di Piero Romei non sono più neppure nella bibliografia dei concorsi.
Rilanciare l’autonomia richiede che ci sia una proposta per “liberare” finalmente il lavoro in modo che possa adattarsi in modo compiuto all’autonomia e alle riforme successive.

IL RUOLO DELLE ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI

In questi anni quando si pronuncia la parola “ lavoro” si pensa subito al contratto e non allo stato giuridico e ai compiti che la normativa assegna ai docenti e ai dirigenti dai quali dipende in realtà la qualità del lavoro. L’organizzazione viene vista più da un punto di vista sindacale che professionale confondendo spesso i due piani che vanno affrontati separatamente anche se ovviamente ciascuno è in relazione con l’altro.
Ancora una lettura della piattaforma contrattuale del 2002 chiarisce bene questi due piani.
“ Le risorse vanno attribuite direttamente alle scuole per la individuazione e la gestione delle funzioni obiettivo al fine di valorizzare e sostenere la flessibilità progettuale delle scuole […]
Per quanto riguarda, invece, le figure di sistema: uno specifico intervento legislativo dovrà prevedere la loro istituzione, le modalità di selezione, il reclutamento e la dotazione organica. Solo successivamente il contratto potrà definirne i regimi orari e gli inquadramenti.”
Una precisazione importante. L’idea della necessità di un Middle Management ante litteram.
Per rilanciare l’autonomia mettendo in primo piano il lavoro nella sua interezza e non solo la didattica è necessario chiedere alla politica e al legislatore di ridefinire lo stato giuridico dei docenti su “modelli di lavoro differenziati” e “ professionalità articolate” funzionali ai nuovi compiti che l’autonomia e le riforme richiedono nella loro attuazione.
Oggi questa esigenza è ancor più presente di quanto fosse allora perché sono state introdotte nella scuola una dopo l’altra delle nuove figure che non possono che essere definite di sistema perché devono essere obbligatoriamente presenti in tutte le scuole con gli stessi compiti e nulla hanno a che fare con le funzioni strumentali legate alla specificità dei diversi istituti come il contratto del 2002 ben chiariva.
Il ruolo delle associazioni professionali può essere a questo punto molto importante per aprire una riflessione sul lavoro nella scuola e sulla sua articolazione sulla base degli effettivi compiti che la normativa assegna al personale scolastico per capire quale assetto ordinamentale dovrebbe avere la scuola perché questi compiti possano essere assolti in modo efficace senza mortificare la professionalità di nessuno.
Le associazioni possono avere un ruolo determinante per formulare alla politica delle proposte che valorizzino la professionalità dei docenti.
Le esperienze pluriennali di scuole come l’Istituto Rinascita di Milano, Scuola Città di Firenze e don Milani di Genova, per citare quelle che conosco meglio, essendo sperimentazioni non solo didattiche, ma strutturali ( che lavorano fuori ordinamento per intenderci) hanno potuto individuare dei modelli che possono offrire sicuramente delle idee al dibattito che si vuole animare, ma ciò che è importante e che i tavoli interassociativi che si chiede di costituire nelle scuole possano, sulla base dell’esperienza che il personale vive quotidianamente elaborare una proposta di un nuovo stato giuridico e di un ordinamento che possa permettere di innovare l’organizzazione dando dignità al lavoro.
Ridefinito il contesto in cui operare diventerà determinante il ruolo del sindacato per trovare il modo migliore per tutelare il personale attraverso una revisione contrattuale in grado di riconoscere questa nuova dimensione del lavoro del docente sul piano economico e della carriera.
Invertendo la sequenza il risultato purtroppo cambia di molto.




Esame di Stato primo ciclo: come prepararsi serenamente al colloquio

di Annalisa Filipponi[1]

L’esame di stato conclusivo del primo ciclo dell’istruzione torna nella sua veste conosciuta (tre prove scritte e un colloquio orale) prima della pandemia. La Nota ministeriale informativa n° 4155 del 7 febbraio 2023 del Ministero dell’Istruzione del Merito in relazione al colloquio conclusivo recita: “Il colloquio (DM. 741/2017, articolo 10), condotto collegialmente dalla sottocommissione, valuta il livello di acquisizione delle conoscenze, abilità e competenze descritte nel profilo finale dello studente previsto dalle Indicazioni nazionali per il curricolo, con particolare attenzione alle capacità di argomentazione, di risoluzione di problemi, di pensiero critico e riflessivo, di collegamento organico e significativo tra le varie discipline di studio. Il colloquio accerta anche il livello di padronanza delle competenze connesse all’insegnamento trasversale di educazione civica.

La prima domanda da porsi è quella relativa all’efficacia del colloquio d’esame della Secondaria di I grado, condotto dagli insegnanti di classe a pochi giorni dalla fine della scuola e come ultimo momento di un ciclo di studi, con una modalità che molto spesso si risolve in una carrellata di contenuti raccolti in una “tesina” o con risposte del discente a domande specifiche dell’insegnante quasi esclusivamente correlate alle singole discipline. Una attenta lettura della nota ministeriale nella parte centrale del suo articolato sul colloquio (“particolare attenzione alle capacità di argomentazione, di risoluzione di problemi, di pensiero critico e riflessivo, di collegamento organico e significativo tra le varie discipline di studio”) apre la possibilità a valutare se vi possono essere altre modalità, oltre a quelle conosciute, per condurre un esame che soddisfi appieno la norma e al tempo stesso costituisca un elemento di novità e un’occasione formativa per gli studenti nell’ultima parte e nel primo esame del loro percorso scolastico nel Primo ciclo d’istruzione.

Per questo l’Accademia di Argomentazione e Debate del Friuli-Venezia Giulia- DeAFVG.APS- ha avviato in due importanti Istituti comprensivi del Friuli-Venezia Giulia delle azioni formative per preparare gli studenti e le studentesse a nuove modalità e nuovi moduli didattici che li conducano con rinnovata motivazione al colloquio d’esame. Una delle due esperienze innovative ha carattere sperimentale e introduce il Debate come modalità facoltativa di svolgimento del colloquio d’esame; l’altra invece si sviluppa in alcuni moduli formativi propedeutici al colloquio, liberamente scelti da allievi e famiglie, e utilizza la metodologia del Dialogo euristico peer to peer in Comunità di ricerca oltre a porre le basi del Public Speaking.

Entrambe le sperimentazioni sono tese verso uno sviluppo problematizzante della dialettica argomentativa per costruire, insieme agli studenti e ai loro insegnanti, una modalità che sposti la comunicazione in sede d’esame dalla sola esposizione ad una argomentazione ragionata. Dunque, la finalità che accomuna le due diverse esperienze è quella di poter osservare e valutare le competenze acquisite da ciascun discente nel processo cognitivo maturato nel corso del triennio della Secondaria di I grado.

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L’attività sperimentale condotta in un Istituto vuole verificare gli effetti della trasformazione del colloquio d’esame attraverso l’utilizzo del
Debate, levando quella prova sia dalla sua forma tradizionale (esposizione di un argomento e poi eventuali domande sulle varie materie di studio), sia da forme sperimentali ma trasmissive (redazione ed illustrazione di tesine, power point, ricerche, ecc.). Si tratta di cercare di spostare il focus del colloquio dalla trasmissione di contenuti all’utilizzo, in quella sede, di abilità analitiche, critiche, argomentative e di vere competenze comunicative anche nell’ambito di diversi contenuti, da presentare e rielaborare per sostenere un colloquio d’esame sereno, divertente ma profondo.
Il Debate possiede tutte le caratteristiche per toccare gli elementi sopra citati, nell’ambito di un apprendimento critico in cui l’argomentazione si costruisce per un’azione comunicativa efficace e approfondita. La sperimentazione trasforma il colloquio d’esame in una forma di innovazione didattica di Debate formativo, che non ha alcun valore agonistico, ma permette allo studente di usare la struttura argomentativa come strumento di comunicazione trasversale di contenuti didattici. Le conoscenze disciplinari saranno utilizzate per rendere solida la ricerca documentale, che costituisce la basa strutturale della prova, dato che l’esame si svolgerà a coppie di studenti e in forma dialettica, all’interno di argomentazioni PRO e CONTRO su una Mozione data. La Mozione, comunicata agli studenti una quindicina di giorni prima dell’esame, sarà formulata dai docenti esaminatori e verterà su argomenti afferenti ai curricoli disciplinari e/o di educazione civica analizzati in classe durante l’anno.

Si tratta, dunque, di un modo innovativo di condurre l’esame di stato, in cui lo studente non deve solo assemblare contenuti e argomenti, ma scegliere quali contenuti e quali argomenti supportano la sua posizione (pro o contro) in rapporto alla Mozione. Si tratta della metodologia del Debate, adattata però ad una funzione non competitiva, ma solamente formativa. Ciascun allievo cercherà di convincere la commissione del livello di competenze acquisite lungo il triennio non attraverso la sola trasmissione di contenuti, ma utilizzando i contenuti come elemento cardine della loro rielaborazione cognitiva, che comunicherà tramite argomentazioni a sostegno o a confutazione di una tesi data.

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La seconda esperienza formativa coinvolge gran parte degli studenti di due Scuole secondarie di un Istituto comprensivo e si fonda su un processo formativo che tocca alcuni elementi del Debate e delle pratiche argomentative più collaudate come la Comunità di ricerca e il Public Speaking. Infatti, i moduli su cui si è sviluppato il percorso preparatorio hanno cercato di produrre un processo di apprendimento significativo, al fine di sviluppare un reale apprendimento cognitivo, con l’analisi e, quindi, lo sviluppo di diversi stili comunicativi dentro contesti plurali, con una base argomentativa preparata per cercare di coinvolgere chi ascolta. Il corso preparatorio è stato strutturato su tre cardini didattici:

 

  1. La Comunità di ricerca per un dialogo euristico tra pari (saper ascoltare, rielaborare un pensiero proprio su un testo dato, imparare a comunicarlo in modo corretto ed efficace).
  2. Saper comunicare in modo efficace: il Public Speaking.
  3. Saper tenere il focus in un colloquio rielaborando alcuni collegamenti interdisciplinari raccordandoli tra loro con i connettivi appropriati.

Gli esiti di queste nuove modalità di approccio al colloquio d’esame conclusivo del Primo ciclo dell’istruzione si potranno analizzare solo al termine dell’anno scolastico, ma fin d’ora si può indicare la metodologia formativa proposta, come esperienza vissuta con vero entusiasmo dai/dalle giovani studenti/studentesse che l’hanno scelta.
Le docenti formatrici esperte esterne sono state affiancate, in entrambe le azioni formative, da un docente tutor facente parte della commissione d’esame. Il tirocinio formativo ha visto alunni ed alunne sperimentare il passaggio dalla trasmissione di contenuti (propria delle interrogazioni, anche delle più problematizzanti) allo sviluppo argomentativo di una tesi, incentrata su un’area tematica di interesse. In questo modo alunni ed alunne si confronteranno con un compagno o una compagna che sta sostenendo le tesi opposte in una delle due scuole; mentre trasformeranno l’esposizione di contenuti in una tesi argomentativa nell’altra scuola. Non si tratta di un esercizio di retorica, ma dello sviluppo della competenza che permette di verificare un argomento da diversi punti di vista. In questo modo si forniscono agli studenti competenze che rendono attivo l’ascolto, che permettono anche nella fase adolescenziale di affrontare questioni complesse, che consentono di esporre le proprie ragioni e ascoltare quelle degli altri interlocutori, ma solo dopo aver analizzato attentamente la Mozione o l’argomento scelto non sull’onda di un’interlocuzione basata sull’improvvisazione emotiva, ma attraverso un approfondimento centrato sul lavoro preparatorio.

L’attività così progettata sposta le potenzialità argomentative da un indistinto luogo libero (in cui ognuno può dire quello che vuole) ad un esame di stato in cui la qualità della propria argomentazione viene valutata nella sua profondità, pertinenza, coerenza logica, anche nello scambio dialogico, dalla commissione d’esame. Si cerca di passare, in questo modo, dall’esposizione di una “tesina” o dall’illustrazione di un power point, ad una prova di dialettica argomentativa dentro una vera prova di realtà qual è l’esame di stato.

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Il colloquio d’esame si trasforma, dunque, in una vera prova esperta, dentro il campo reale dell’argomentazione, cogliendo in pieno il senso della nota ministeriale citata.
Il lavoro è ambizioso, ma collega formazione, innovazione e ricerca didattica al fine di sperimentare le potenzialità del Debate e del Dialogo euristico tra pari in Comunità di ricerca in una logica che sposta l’attenzione dello studente dalla comunicazione trasmissiva (propria della scuola) o istintiva (propria dei social) a quella del discorso connesso ad un’organizzazione preventiva del sapere argomentato da comunicare.

Collocare tutto questo in un esame di stato vuol dire cercare di costruire percorsi di senso dentro una preparazione scolastica che, comunque, attesta la fine di un importantissimo ciclo dell’istruzione.

  1. Docente e formatrice. Presidentessa dell’Accademia di Argomentazione e Debate del Friuli Venezia Giulia e della Sezione Friuli Venezia Giulia della Società Nazionale Debate Italia.



L’orientamento scolastico e professionale, in salsa ‘Valditara’. E oltre

di Antonio Valentino

  1. “La grande rivoluzione del merito”, annunciata dal Ministro a tambur battente a fine marzo, si è materializzata nelle sue linee portanti il 5 aprile col Decreto n. 63 e con la Circolare ministeriale, stessa data, con oggetto: Avvio delle iniziative propedeutiche all’attuazione delle Linee guida sull’orientamento[1] – A.S.2023-2024 (sottotitolo: Il tutor scolastico: prime indicazioni).

Dal Decreto si derivano essenzialmente queste indicazioni:

  • si destinano 150 milioni di euro alle istituzioni scolastiche statali del II ciclo di istruzione e più precisamente alle ultime tre classi -, per ‘valorizzare’ l’impegno dei docenti chiamati a svolgere la funzione di tutor e di orientatore”.
  • si precisano i requisiti dei docenti interessati per l’accesso alla formazione – a carico dell’Indire e per la durata di 20 ore -: condizione per svolgere le funzioni delle due figure;
  • si prevede che le iniziative da mettere in campo siano destinate alle classi del secondo biennio e dell’ultimo anno del Secondo Ciclo e che le figure saranno attive a partire dal prossimo anno scolastico.

La Circolare Ministeriale definisce invece in modo particolare le cose fondamentali che c’è da sapere: gli obiettivi dell’orientamento, le attività che devono svolgere le due figure e la consistenza dei raggruppamenti di studenti destinatari delle attività proposte; la consistenza come criterio per il compenso alle due figure.

  1. Quanto agli obiettivi dell’operazione, si precisa che sono: (a) rafforzare il raccordo tra il primo e il secondo ciclo di istruzione e formazione, per permettere una scelta consapevole che valorizzi le potenzialità e i talenti degli studenti e, inoltre, (b) contribuire alla riduzione della dispersione scolastica e dell’insuccesso scolastico e (c) favorire l’accesso alle opportunità formative dell’istruzione terziaria”.

    Obiettivi sostanzialmente condivisibili se solo non evidenziassero una vistosa incongruenza.
    Praticamente si dice: obiettivo urgente e prioritario è il raccordo tra la secondaria di primo grado e il biennio successivo – per le ragioni a tutti note -, ma il decreto prevede  di intervenire prioritariamente sulle ultime tre classi della secondaria. Così. Un arcano

  1. Rispetto poi alle attività del docente tutor, le stesse che di fatto assorbono quelle più significative nei percorsi di orientamento, sono ricondotte alle seguenti due:
  • aiutare ogni studente a rivedere su una apposita piattaforma[2]digitale unica”…., le parti fondamentali che contraddistinguono ogni E-port-folio personale (cioè percorso di studi; sviluppo delle competenze; a sviluppare riflessioni “in chiave valutativa, auto-valutativa e orientativa sul percorso svolto e, soprattutto, sulle sue prospettive”; a provvedere alla “scelta di almeno un prodotto, riconosciuto criticamente dallo studente come il proprio ‘capolavoro’ (sic!)”. E questo, per ciascun anno scolastico e formativo,
  • “costituirsi consigliere delle famiglie” nei momenti di scelta dei percorsi formativi o delle prospettive professionali dello studente.

Il docente orientatore si farà invece carico di “gestire i dati forniti dal Ministero   preoccupandosi “di raffinarli [ohibò] e di integrarli con quelli specifici raccolti nelle differenti realtà economiche territoriali e metterli a disposizione di docenti, famiglie e studenti”. Una figura praticamente “a sostegno dell’orientamento”, come si legge nella Circolare più volte citata.

La cosa, anche qui, un po’ strana e misteriosa, è la denominazione delle due figure: il docente che svolge tutte le funzioni tipiche dell’orientatore/di orientamento viene chiamato tutor e chi raccoglie dati dalla piattaforma dedicata e li ‘raffina’ (!) e li integra e li diffonde tra docenti e genitori, lo si chiama orientatore. Mah!

  1. Però ai fini di una funzionalità sensata dell’intera operazione, l’aspetto che pone più interrogativi è il numero delle risorse professionali da mettere in campo. Il Ministro nell’ultima intervista al Corriere, dove preannunciava “la grade rivoluzione del merito”, declamava trionfalmente che “sono in arrivo 100.000 tutor”. Una cifra impressionante e sorprendente, con un sottotesto facilmente intuibile.

I dati per venirne a capo e capirne il valore ce li offre la già citata Circolare ministeriale del 5 aprile.

Questi i parametri numerici della Circolare ministeriale: 1 tutor ogni 30 studenti; studenti che  possono diventare anche 50, se 30 vi sembran pochi. (Nella circolare si parla addirittura di raggruppamenti, lasciando così pensare di raccogliere ragazzi di classi diverse per arrivare ai numeri previsti: tutti con un unico tutor!).

Stiamo parlando di una funzione, come si può dedurre da quanto riportato al precedente punto 3, molto delicata   e pesante per compiti, responsabilità, oltre che per numero dei soggetti con cui rapportarsi; funzione che si affianca, nella stessa persona, a quella di docente ( 3 e più classi da gestire) in nessun modo alleggerita.
Pensate solo al “dialogo costante con lo studente, la sua famiglia e i colleghi coinvolti nell’attività didattica rivolta al singolo studente, ecc. ecc.”, moltiplicato per 30, 40, 50 ragazzi, famiglie ecc..

Spiderman o lo stesso Batman, ne uscirebbero vivi?

Il tutto con un compenso accessorio annuo compreso tra i 2800 euro a 4.700 lordo stato. Da scialarci, se ci pensate. (Per il docente ‘orientatore’ – uno per ogni istituzione scolastica – il compenso va da 1.500 euro lordo Stato a 2.000 euro, sempre lordo Stato: si sciala di meno, ma si sopravvive di più).

Quelli qui sopra indicati sono gli impegni sull’orientamento delle scuole del secondo ciclo per le quali sono stati stanziati dal ministero i 150 milioni di euro di cui al Decreto del 5 aprile.

  1. Dal prossimo anno sono previste inoltre iniziative di formazione per gli studenti, a carico dei fondi PNRR, che interesseranno classi della Secondaria.

Consideriamole nel riquadro che segue:

  • Percorsi formativi di 15 ore per ciascun studente nel corso degli ultimi 3 anni delle scuole del secondo ciclo della secondaria (5 h x anno) “da erogare con modalità curricolare ed extracurricolare”. Saranno organizzati dalle Università sulla base di accordi con le scuole. Praticamente, se ho capito bene: 5 ore per anno scolastico! Su tematiche, di tutto rispetto: dal conoscere il contesto della formazione superiore / i settori di lavoro / gli sbocchi occupazionali / i lavori del futuro; al fare esperienza di didattica disciplinare attiva, partecipativa laboratoriale; dall’autovalutare, verificare consolidare le proprie conoscenze, al consolidare competenze riflessine e trasversali, al ….. Tutto sempre in 5 ore annue per tre anni. Manca solo – se è possibile – una lezione con conseguenti esercitazioni (che sarebbe sicuramente molto apprezzata dai ragazzi, su Le fughe dalle lezioni ovvero Saltare scuola come esperienze di vita).
  • Percorsi formativi previsti dalle Linee guida per l’Orientamento (Decreto n. 328 del 22 dicembre 2022), 1. per le le scuole della Secondaria di primo grado e per il primo biennio della secondaria di secondo grado, di almeno 30 ore di orientamento anche extracurricolari, per ogni anno di corso; 2. per l’ultimo triennio della Secondaria di secondo grado, altrettante ore, queste però curricolari, per ogni anno. Per questi ultimi si concede che si possono integrare, qualunque cosa ciò significhi, con le 15 ore gestite dei percorsi universitari e con i percorsi PICTO.
  1. Un altro punto di attenzione riguarda la natura giuridica delle ‘figure’ introdotte. Quello che si capisce è che non si tratta delle figure di sistema prefigurate dall’articolo 21 della Legge 59/1997, col quale si istituisce l’autonomia scolastica. Presumibilmente si tratterà ancora di docenti che coprono funzioni specifiche ma in modo volatile, occasionale, e spesso senza che se ne abbia adeguata preparazione e competenza.
    Va anche considerato che i famosi 150 milioni previsti per ‘la valorizzazione degli insegnanti’ impegnati nelle funzioni di tutor e orientatore valgono solo per il corrente anno finanziario.  Quindi, sotto questo aspetto, la prospettiva è ancora una navigazione a vista?

  2. L’impressione che un po’ si deriva dai dati e dalle iniziative sopra riportati è che questa ‘riforma’, è quella di una debolezza complessiva di visione e di strategie appropriate.

Alla base di una valutazione di questo tipo c’è la convinzione, molto diffusa tra docenti e dirigenti del secondo ciclo e delle ultime classi del primo, che l’orientamento – come anche l’insuccesso scolastico e la dispersione – non è un problema per la cui soluzione ci si può lavare le mani pensando di uscirne  introducendo nelle scuole figure di cirenei, da formare con 20 ore di corsi, e condendo il tutto con percorsi formativi per gli studenti, che sono anch’essi un punto di domanda.
Assenti gli insegnanti come comunità professionale. Scompare il CdC a cui comunque dovrebbe essere il compito principale della formazione dei ragazzi. C’è invece il cireneo solitario che si fa carico di tutto e anche delle famiglie.
Sbarazziamo il campo da un possibile equivoco. Nessuno può ovviamente pensare che non siano necessarie, per questa come per altre operazioni dello stesso tipo, figure di coordinamento delle diverse azioni e iniziative dei percorsi formativi da prevedere nelle sedi proprie.

In una organizzazione complessa come la scuola, le figure di coordinamento sono fondamentali.
Ma che siano però figure di sistema: docenti cioè con un profilo potenziato, definito giuridicamente e contrattualmente. Non volatili e casuali.
E ancora: non è in discussione la presenza nella scuola secondaria di un counselor o un mentor, come figure professionali anche esterne (con competenze da attingere anche dalla psicologia dinamica), per le situazioni problematiche più complesse della classe.
Ma i soggetti da valorizzare in questa importante partita non sono forse i docenti tutti della classe, come gruppo professionale, sulla base di un progetto condiviso per orientamento? Non è ciò che sa qualsiasi persona che si intende un po’ di scuola?

  1. Interrogativi questi che riportano in primo piano due questioni – anch’esse complesse e difficili e non più rinviabili – che rappresentano altrettante risposte a due criticità della nostra scuola, che proprio una riforma dell’orientamento avrebbe dovuto prevedere nelle modalità possibili:

– la visione dell’insegnamento disciplinare capace di produrre una idea aperta della conoscenza e di sviluppare competenze di prim’ordine; come l’integrazione dei saperi, la correlazione e l’osservazione, con occhi e sguardi diversi, dei diversi oggetti di studio e apprendimento (competenze di base in ogni discorso sull’orientamento);

– la pratica di didattiche individualizzate/personalizzate[3], che, quando ‘agite’ con professionalità, possono creare ponti preziosi tra caratteristiche delle materie scolastiche e caratteristiche degli studenti (quest’ultime in termini di bisogni, attese, aspirazioni, ma anche di specifici ritmi e modalità di apprendimento, di tipo di intelligenza e capacità linguistiche, di prerequisiti cognitivi). Pratiche che, come sanno in tanti nelle scuole, diventano didattiche orientative quando guardano all’insegnamento disciplinare anche come ‘strumento’ per sviluppare capacità trasversali (soft skills); con particolare riferimento alla riflessività, alla comunicazione efficace, all’ascolto attivo, al problem setting & solving, alla flessibilità …,).

9. Ancora un’ultima considerazione. Legata alla percezione che questa ‘riforma’ dell’orientamento sembra abbia scelto di ignorare le esperienze positive e innovative di tante nostre scuole.
Il riferimento è alle pratiche, didattiche – diffuse tra l’altro  nei nostri Istituti  più di quanto non si creda – come il debate o lavori di gruppo opportunamente strutturati o attività di autovalutazione dello studente, esperienze di peer education: utili certamente per apprendimenti disciplinari più solidi e duraturi, ma utili anche per sviluppare competenze necessarie per orientarsi con consapevolezza e sensatezza anche nella scelta tra i diversi   percorsi scolastici o professionali; o più in generale, nelle scelte di vita.

Ma il riferimento è anche

ai Centri di Informazione e Consulenza gestiti da docenti di riferimento (tutor per l’orientamento nominati dal ds), diffusamente attivi nella secondaria di secondo grado e previste dal PTOF di istituto e

ai percorsi formativi gestiti da insegnanti in genere di materie scientifiche o tecnologiche del secondo ciclo, per classi terminali del primo ciclo (l’ex terza media).

Che dire conclusivamente, a seguito delle analisi e riflessioni critiche di questo contributo?

Solo che all’autore è del tutto estraneo l’idea di alimentare – nei cinque o sei che in esso incappassero – tentazioni di disimpegno rispetto alle iniziative che le scuole sono chiamate a mettere in campo in base alle indicazioni del Decreto e materiali connessi.
L’intento è stato piuttosto quello di riportare in primo piano le opportunità che offre la tematica dell’orientamento per il rinnovamento della nostra scuola (la centralità del ruolo della comunità professionale e dei C.d.C come gruppo di lavoro: in primo luogo attraverso didattiche individualizzate e orientative e un coordinamento responsabile delle attività; ma anche attraverso il coinvolgimento del gruppo classe). Opportunità che non sono in alternativa o in contrapposizione a quelle previste dall’impianto ministeriale e da recuperare opportunamente, e nei tempi giusti, attraverso un eventuale, apposito Piano di Istituto.
Comunque se all’intento non corrispondono gli esiti attesi, preme qui chiarire manzonianamente che “non si è fatta apposta”.

[1]Nota ministeriale del 22 dicembre 2022

[2] Con tutte queste piattaforme si ha a volte l’impressione che l’autonomia opportunamente regolata [Piero Romei] sia sempre più declinata come autonomia uniformata.

[3]Istruzione individualizzata non significa ovviamente istruzione individuale, generalmente realizzata in un rapporto 1 ad 1. Essa, come è noto, consiste piuttosto nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche individuali di ciascuno cercando di permettere al singolo di conseguire individualmente obiettivi comuni al resto della classe. Altro è l’istruzione personalizzata che tende invece a traguardi diversi e personali per ciascuno, ponendo per ognuno obiettivi differenti.

 

 

 

 

 

 




Apprendimento permanente, per affrontare le sfide del XXI secolo

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

Era la scommessa dell’Illuminismo il cittadino cosmopolita del sapere, come dire che solo la ragione può unire il mondo, perché l’uomo razionale non accetta barriere nazionali.
La società della conoscenza nasce nutrendosi della fiducia nell’universalità del sapere come forza unificatrice contro le spinte scioviniste dei vari nazionalismi.
La seduzione dell’apprendimento permanente, per tutta la vita, è l’enunciazione di un particolare atteggiamento illuministico verso esistenze guidate dalla ragione, dalla compassione per l’altro, dalla continua ricerca di innovazione e cambiamento, in cui l’unica cosa che non è una scelta è compiere delle scelte.

L’apprendimento è un processo continuo che non tollera più d’essere relegato alle sole aule scolastiche e alle loro forme rituali di istruzione, perché la vita esige sempre un di più di conoscenza per affrontare problemi e innovazioni che non hanno un punto di arrivo, cambiamenti che richiedono responsabilizzazione e processi decisionali i cui effetti non riguardano solo il singolo individuo, ma l’appartenenza collettiva alla comunità mondiale.
Siamo entrati nel tempo del problem solving, dell’apprendere a risolvere problemi, dove non è più sufficiente essere istruiti su problemi già risolti da altri, ma piuttosto è necessario imparare come dare soluzione a quelli che hanno da venire, per i quali non esistono ancora formule ed eserciziari.

L’apprendimento permanente è la risposta sociale moderna all’esigenza di diventare cittadini della Terra, della Terra Patria, come ci ricorda Edgar Morin,  accedendo a una cultura condivisa, dotati di strumenti intellettuali ed emotivi per vivere una cittadinanza planetaria.
La società come luogo pedagogico, di cui scriveva John Dewey agli albori del secolo scorso, è ora la Terra intera con la potenza del pluralismo e della molteplicità delle sue comunità e culture nelle quali ogni giorno si costruisce il destino comune.
La parola apprendimento è diventata indispensabile per parlare di noi stessi, degli altri e della convivenza con l’ambiente.

Le scienze dell’educazione si sono tradizionalmente occupate dello studio delle istituzioni che forniscono l’istruzione formale, ma oggi  è importante  l’espansione e la diffusione del paradigma pedagogico in aree non tradizionalmente considerate educative, in qualsiasi parte del mondo l’istruzione non è solo una questione di ciò che si insegna a scuola, ma è, in nome dell’apprendimento permanente, qualcosa che permea il governo di tutte le attività sociali.

Diventa importante per gli insegnanti sostenere gli alunni a trovare il modo migliore  di sviluppare la capacità di capire e gestire il proprio futuro, le narrazioni nel contesto dell’istruzione sottolineano che il mondo è diventato sempre più mutevole e difficile da prevedere. Una delle voci all’interno di queste narrazioni chiede come la scuola potrebbe prepararsi per un futuro di cui sappiamo meno ma di cui dobbiamo sapere sempre di più. La risposta data riguarda lo sviluppo di talenti per essere in grado di gestire nuove situazioni.
Il compito più importante per l’insegnante è quindi quello di organizzare ambienti e contesti di apprendimento stimolanti che supportino processi esplorativi in cui l’individuo in modo attivo acquisisca conoscenza e dove la conoscenza è considerata un processo piuttosto che un prodotto.

Una componente cruciale nel processo di apprendimento è, dunque, la metacognizione, come produrre conoscenza su noi stessi, capire come la conoscenza funziona nella pratica, progettare i nostri propri processi di apprendimento come un oggetto di ricerca, una meta-prospettiva per il futuro.
Pertanto, una dimensione centrale della formazione degli insegnanti è la capacità di sviluppare conoscenze su come la conoscenza è prodotta e costituita. In questo contesto, la conoscenza e i processi di apprendimento degli studenti diventano a loro volta una pratica di conoscenza per la produzione e lo sviluppo della conoscenza degli insegnanti. Senza dubbio “imparare” nelle narrazioni contemporanee significa qualcosa di diverso rispetto a quelle di altri periodi storici. Viviamo in una società rischiosa, incerta e in continua evoluzione. In questo contesto diventa indispensabile la svolta epistemologica che iscrive l’apprendimento permanente e la costante formazione e produzione di conoscenza nella pratica quotidiana come chiave per un futuro gestibile.

Pianificare il futuro significa pianificare le disposizioni e le sensibilità interiori che ordinano i modi in cui le persone risolvono i problemi in quanto cittadini orientati al futuro. La realizzazione del futuro diventa così un progetto individuale di apprendimento permanente. Non più l’alunno, l’allievo, lo scolaro della tradizione, ma il soggetto singolo pensato come il primo organizzatore del proprio destino.

Considerare l’intera società come luogo di conoscenza, come un luogo di apprendimento diffuso che investe la responsabilità dei singoli soggetti in termini di lifelong e life wide learning costituisce una condizione indispensabile alla governance del ventunesimo secolo.

Bibliografia

Biesta, G. (2006)
‘What’s the point of lifelong learning if lifelong learning has no point? On the democratic deficit of policies for lifelong learning’, European Educational Research Journal, 5: 169–80.
European Commission (1996)
Teaching and Learning: Towards a Learning Society, Luxembourg: Office for Official Publications of the European Communities.
European Commission (2000)
Commission Staff Working Paper, Memorandum on Lifelong Learning, Brussels: European Commission.
Fejes, A., Nicoll, K. (2008)
Foucault and Lifelong Learning. Governing the subject, Routledge, NY.
Field, J. (2000)
Lifelong Learning and the New Educational Order, Stoke on Trent: Trentham Books.
Gustavsson, B. (2002) ‘What do we mean by lifelong learning and knowledge?’ International Journal of Lifelong Education, 21: 13–23.
UNESCO (1996)
Learning: The Treasure Within, Report to UNESCO of the International Commission on Education for the Twenty-first Century, Paris: UNESCO.




Lettera aperta alla maestra “dell’Ave Maria in classe”

di Cinzia Mion

Cara Marisa Francescangeli, maestra della scuola primaria di San Vero Milis (Oristano), mi chiamo Cinzia Mion e mi permetto, da anziana Dirigente scolastica in pensione , di inviarle una lettera aperta per spiegarle alcune “cosette” che evidentemente lei ignora.
Lo si capisce dalle notizie di stampa, comprese le varie interviste da lei rilasciate a destra e a manca. Cosette che lei ignora pur avendo il dovere di conoscerle in quanto ricopre un posto importante all’interno dell’Istituzione Scuola.
Posso perdonare che i diversi “salvini” di turno non ne siano a conoscenza: lo Stato non affida loro la formazione iniziale dei piccoli cittadini italiani in crescita, come viene fatto invece nei suoi confronti.
Ma lei no. Lei le deve conoscere e tenere presenti.

L’aria garrula e superficiale, invece, con cui le affronta non solo mi fa capire che non ne è a conoscenza (ha superato un esame di concorso per ricoprire il posto assegnato?) ma mi fa anche capire che sta prendendo sottogamba quello che lei crede di valorizzare sia pur minimizzandolo, perché si stupisce della sanzione ricevuta. Lasciamo perdere il problema della correttezza giuridico-amministrativa della sanzione stessa (su questo aspetto, sui social, sono intervenuti anche rappresentanti dell’Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici ).
Mi riferisco alle conseguenze della revisione del Concordato (1985) e al fatto che da allora nella scuola ha diritto di cittadinanza la “cultura” religiosa ma non al contrario gli atti di “culto”.


Questi ultimi sono: il segno della croce, le preghiere prima delle lezioni, (o addirittura durante come ha fatto lei) le benedizioni a Natale o a Pasqua o comunque durante le cerimonie civili, le messe durante l’orario scolastico, le cosiddette visite pastorali, ecc. “Unzioni” varie come sembra aver fatto lei non sono nemmeno contemplate tanto sono anacronistiche e direi onestamente strambe, non essendo lei deputata a somministrare olii più o meno santi….
La preghiera, è stato chiaramente spiegato, poteva essere analizzata, verso per verso, ma non recitata ma anche questo con l’insegnante di religione o durante le ore ad essa deputate. Se recitata, infatti, automaticamente diventa un atto di culto.
Da notare comunque che anche durante la lezione facoltativa di religione cattolica (quindi in presenza di alunni che hanno scelto tutti di frequentare questa attività) valgono le stesse regole!
Ma veniamo ora all’aspetto che più mi interessa perché mi pare che finora nessuno l’abbia rilevato, nemmeno chi si sbraccia a difenderla.
Mi riferisco all’aria scanzonata con cui si vanta di far recitare le preghiere così, come si recita una poesia o una filastrocca a memoria. Ma non si rende conto che è lei a “desacralizzare” le preghiere, togliendo loro con disinvoltura l’aspetto che le rende pregnanti : il Sacro e il Simbolico?
E per di più se lo fa ricordare da una persona non credente ma che ha sempre rispettato questi valori tanto da scandalizzarsi nel notare la leggerezza con cui lei affronta queste tematiche.
Mi fa tornare in mente quella volta che in Umbria una docente di religione valdese ha fatto ricorso al Tar per mancanza di rispetto del dettato del Nuovo Concordato, da parte delle autorità religiose cattoliche. Era stata infatti impartita una benedizione religiosa durante l’orario scolastico, che la dirigente scolastica aveva permesso, facendosi scudo di una semplice “noterella “(invalidata poi dal Tar Emilia Romagna, Sentenza 250/1993) del ministro di turno che affermava che, se il Consiglio di Istituto era d’accordo, si sarebbe potuto fare, e il TAR dell’Umbria ha dato ragione al Vescovo affermando che : udite udite “ Le benedizioni durano poco e non lasciano tracce!!!”. Ha pensato anche lei così come il Tar dell’Umbria di quel tempo (sentenza 677/2005!)?
Quello che mi ha fatto rabbrividire allora non è stato tanto il giudice amministrativo, chiaramente ammanigliato, ma il Vescovo che pur di averla vinta ha accettato che si calpestasse , dal suo punto di vista, la sacralità del RITO e il significato SIMBOLICO della religione. Se a quest’ultima togli il rito e il simbolo, cosa resta? Lo spauracchio sulla povera gente.
Ricordiamoci chi parlava dell’”Oppio dei popoli”…




La personalizzazione dell’Istruzione alle porte. Centomila tutor in arrivo: parola di ministro (wow!)

di Aristarco Ammazzacaffè

Signor Ministro le scrivo, così mi distraggo un po’.
Scriverle dopo aver letto i suoi comunicati mette sempre allegria e speranza. L’ultimo in ordine di tempo, quello sulla “grande rivoluzione del merito” (sic) è particolarmente esaltante perché fa riferimento alla ‘prima pietra’ che finalmente è stata posta per una prospettiva decisamente strategica. Volendo.
Ora io non so se le rivoluzioni si costruiscono con le pietre.
Le voglio credere. Per ora ci basta – e avanza anche – il suo comunicato sullo schema di decreto, che – lo richiamo per chi non fosse informato – prevede cose addirittura – “l’istituzione di due figure professionali: il docente tutor e il docente orientatore”.
La prima, tesa a “sviluppare la personalizzazione dell’istruzione nelle Scuole secondarie di II grado” (nientemeno!); la seconda, “a concretizzare l’attività di orientamento” (era ora!).
E sul piatto, un primo stanziamento di 150 milioni di euro nel 2023. Per dire che ora si fa sul serio.

Su tutto questo sfolgorio impressionante, mi permette, signor Ministro, due considerazioni?
La prima è di assoluto apprezzamento, che sfiora la meraviglia, per tale sua impresa. Tanto che mi sono chiesto: – Ma come fa il signor ministro a connettere organicamente: merito, personalizzazione dell’insegnamento (attraverso la figura del tutor), orientamento degli studenti, come progetto istituzionale (attraverso la figura dell’orientatore)? E ancora: valorizzazione dei talenti e, soprattutto, ‘competizione’: parola ormai chiave del Programma 2023 per la valorizzazione delle eccellenze; e, soprattutto, modus operandi canonico per il riconoscimento del merito (Avviso M.I.M. del 25.01.’23, n. 2437).

E c’è anche la ciliegina della lotta alle diseguaglianze, come prezioso specchietto per le allodole (volatili da lei molto amati, come sembra riportino le sue biografie).
Tanto che mi chiedo spesso: ma quali meriti particolari ha la nostra scuola e il nostro Paese per meritare un ministro così? Boh!
Perciò, non si dia pena per quanti le rimproverano che nel suo vocabolario sono assenti parole come cooperazione, apprendere insieme, leadership diffusa, comunità professionale, pratiche condivise, lavoro di squadra, coordinamento organizzativo… Diffidi di chi gliene parla. Si tratta di finti innovatori che sappiamo bene chi sono e cosa vogliono.
Certamente non sono dei nostri, ci può giurare.
La seconda considerazione è invece un po’ più critica, ma è comunque tale da non togliere niente ai riconoscimenti precedenti. E riguarda il cuore del suo schema di decreto; cioè l’istituzione delle due figure professionali sopra richiamate.
Al riguardo, se me lo permette, sarebbe bene esplicitare meglio la nozione di ‘personalizzazione dell’istruzione’. È comunque certamente ottima la “direzione” che lei ha in mente: quella “di una scuola che faccia emergere i talenti di ogni studente, innescando un percorso virtuoso”. (Commuove, signor ministro, questo suo attaccamento ai talenti. La capisco: ogni umano ha le sue fisime; è lei signor ministro è chiaramente un umano). Molto importante e comunque democratica la finalità che lei esplicita: superare “le difficoltà, frutto di diseguaglianze di natura sociale e favorire le scelte consapevoli per il percorso di studi e di lavoro”.
Chiaramente ci propone, con questa lapidaria affermazione una scuola, che più che istruire, si preoccupi, come è giusto che sia, di fare emergere i talenti e, così facendo, di liberarci finalmente da tutti i problemi legati all’insuccesso scolastico. Che non se ne può più. E sono d’accordo.

È la liberazione da questa tara – la scuola che produce insuccessi e dispersione – che lei ha in mente quando parla di istruzione personalizzata? Siamo sicuri di sì.
L’impianto strategico previsto dallo schema di decreto però, mi permetta di dirle, non sembra essere all’altezza della ‘direzione’ che lei lodevolmente indica.
Occorrerebbe chiarire bene la questione e farcela sapere per tempo.
Intuiamo che con la partita dell’istruzione personalizzata lei vuole passare alla storia. E che lei giustamente ci tiene e se lo merita. Perciò, prima ce lo fa sapere e prima possiamo, al riguardo, fare anche noi la nostra parte. Perché, anche noi crediamo profondamente agli inneschi di percorsi virtuosi quando si fanno emergere i talenti (dirlo meglio non si poteva!). E questo va ribadito. Qualunque cosa significhi. Ci mancherebbe!
Perciò sul piano operativo vorremmo essere rassicurati un po’ di più sulle scelte strategiche che lei propone; a partire dalla istituzione delle figure del tutor e dell’orientatore, che lei tende giustamente a rendere funzionali al suo disegno complessivo.
In particolare, appare importante l’aver precisato il compito del tutor. Che lei chiarisce, da par suo, essere quello di “coordinare e sviluppare le attività didattiche a favore di una personalizzazione dell’istruzione” e di “predisporre percorsi personalizzati, d’intesa coi colleghi”. (dalla sua intervista al Corriere della Sera del 30 marzo).
Quindi si tratterebbe, se l’interpretazione è corretta, di interventi individualizzati (più che personalizzati, mi sembra) – definiti cioè in base alle caratteristiche degli studenti (tipo di intelligenza, ritmi e modalità di apprendimento, bisogni formativi in base alle loro specifiche situazioni sociali o a percorsi scolastici inadeguati, attitudini personali, eccetera) – che sarebbero a carico dei docenti coordinati dal tutor.
Supponendo d’aver capito – come pura ipotesi di partenza –, penso che bisognerebbe però, signor Ministro, chiarire quali siano questi insegnanti da coordinare: colleghi sorteggiati a caso? affini culturalmente? amici per la pelle? colleghi fastidiosi da riportare sulla retta via? E quanti poi per ciascun tutor? C’è qualche numero che gira in giro? Sappiamo che questi numeri lei li ha. Ma che non può comunicarceli per un qualche riserbo istituzionale. Se è così, ce lo dica, per favore. Noi capiamo, ci mancherebbe.
Però vorrei rispettosamente suggerirle che questi insegnanti potrebbero ben essere i colleghi dei Consigli di classe o dei dipartimenti o di appositi gruppi di lavoro della scuola. Non le pare?
In questo caso però i tutor come si configurerebbero? E, soprattutto, cosa diventerebbero gli Organismi collegiali dei docenti?
Mi creda, signor ministro, qui si prospetta un vero ginepraio. Da non raccapezzarsi. Tanto che a furia di pensarci mi sono detto: – Ma è mai possibile che nessuno dei suoi collaboratori al Ministero gli abbia detto che la didattica individualizzata – non individuale, che è tutt’altra cosa, come lei ben sa – occupa da tempo, nel dibattito di chi si interessa di cose scolastiche, un posto importante; e che è convinzione unanimemente condivisa che le competenze che essa richiede dovrebbero far parte del bagaglio professionale di ogni buon insegnante? E che lo stesso discorso, con qualche variante, vale per la didattica orientativa?
Questo per dire appunto che, con la didattica individualizzata, il tutor soprattutto non c’entra un benemerito fico secco. Se non è così, basta che ce lo dica.
Dovrebbe comunque conservare tutto il suo valore la funzione di coordinamento delle varie articolazioni del Collegio – implicitamente, e con lodevole acume, da lei richiamata -, da assicurare attraverso l’istituzione di figure preparate e competenti e contrattualmente riconosciute.
Purtroppo, nonostante la sua palese e apprezzabile buona volontà di fare qualcosa di innovativo, va però detto che la proposta del suo schema di decreto, a volerla guardare un po’ meglio nelle strategie che prevede, appare, allo stato attuale – se lo lasci dire, ma sempre con rispetto – abbastanza ingarbugliata e piuttosto deboluccia; e soprattutto discretamente pasticciata. Se me lo consente, aggiungerei: senza capo né coda. Del tutto.
Secondo me, deve avergliela suggerita qualche agente segreto dell’opposizione, nascosto nel suo entourage: certamente di sinistra (e lei sa bene che gente è), per far fare brutta figura a lei e all’intero governo; e soprattutto alla Presidente in persona: e questa cosa per me è decisamente intollerabile.
Però, signor ministro, faccia attenzione. Si informi bene prima della prossima mossa e lo faccia in prima persona. Certamente troverà gente esperta e di fiducia che le spiegherà bene il tranello in cui è cascato – anche lei a sua insaputa -; e probabilmente anche come uscirne.
C’è tanta brava gente anche nel suo entourage, basta solo trovarla.




Nuove figure docenti e circo Barnum

di Mario Maviglia

Dopo l’introduzione del docente tutor, sono previste altre rilevanti figure di insegnanti che animeranno la vita scolastica e daranno nuova linfa alla didattica. Siamo in grado di anticiparvi quali saranno queste nuove figure:

  • Insegnante counselor: sarà incaricato di dispensare consigli non richiesti ai colleghi su vari aspetti della vita scolastica e professionale. Al momento sembra non sia prevista la possibilità di offrire consigli anche sulla vita privata e intima dei docenti, ma non è escluso che ciò non possa avvenire in futuro anche in relazione ai risultati che verranno conseguiti nella fase di implementazione di questa figura.
  • Insegnante coach: come dice il nome, questo docente sarà chiamato a rimettere insieme i cocci delle scuole in quelle situazioni particolarmente degradate e disagiate e destinate allo sgretolamento se non vi è un adeguato intervento professionale. Il coach condurrà i colleghi verso le nuove frontiere della didattica rinsaldando i legami tra i docenti e facendo scoprire loro il valore della collaborazione e, in prospettiva, dell’amore universale come collante per la comunità educante. Sarà richiesto, come titolo indispensabile, la patente B.
  • Insegnante supporter: questa figura appare particolarmente importante in questo momento storico caratterizzato dalla visibilità e dalla popolarità. E in effetti il docente supporter ha il compito di andare in giro per il territorio per far conoscere la scuola e attirare nuovi clienti. Ogni scuola deciderà le forme più adeguate per raggiungere lo scopo, ma viene suggerito di non trascurare il contatto vis-à-vis (incontri porta a porta, volantinaggio davanti ai supermercati, omino sandwich, organizzazione di aperitivi di conoscenza ecc.).
  • Insegnante SE (Social Entertainer): ha lo specifico compito di tirar su il morale dei colleghi, facendoli divertire e proponendo un approccio positivo alla vita. Utilizza strategie di vario tipo: si veste da pagliaccio, racconta barzellette, fa giochi di prestigio. Questa figura risulta particolarmente importante in alcuni momenti rituali della scuola: prima di ogni Collegio Docenti, dopo i colloqui con i genitori, dopo l’incontro con i colleghi di dipartimento, tutte occasioni in cui il docente SE deve dimostrare tutta la sua perizia di intrattenitore ameno.
  • Insegnante per l’empowerment: si occupa di far esplodere le potenzialità dei colleghi fornendo loro suggestioni e illusioni circa la loro incontestabile importanza e bravura. Viene assegnato alle scuole poste nelle aree più depresse del Paese. Non agisce nei confronti dei docenti troppo grassi sennò l’esplosione di cui sopra potrebbe causare danni fisici. Titolo preferenziale per ricoprire l’incarico: laurea in ingegneria termonucleare o esperienza maturata nel campo dei cavalli fiscali.
  • Insegnante per l’IP (Inner Peace): l’obiettivo della pace interiore appare quanto mai necessario in quest’epoca convulsa e stressante. Il docente IP supporta i colleghi a trovare un giusto equilibrio interiore in modo che essi possano fondersi con l’armonia universale. Particolare cautela userà con i colleghi un po’ anziani affinché la pace interiore non diventi definitiva.
  • Insegnante MiI (Made in Italy): è incaricato di convertire tutta la strumentazione didattica, tecnologica e funzionale della scuola in MiI. L’approccio richiesto è di tipo pratico-operativo: talvolta basta correggere l’etichetta Made in China in Made in Italy; altre volte occorre andare più in profondità emendando tutte le dizioni non omologate: on/off diventa sì/no, power viene cambiato in potere, software viene emendato in programma per calcolatore elettronico. Richieste particolari competenze in onomatopea e aggiustamenti linguistici artigianali.
  • Insegnante humiliating: è una figura professionale che ha il compito di mettere in pratica la nuova Weltanschauung ministeriale in campo pedagogico. Infatti, tocca all’insegnante humiliating realizzare quel sano principio pedagogico valditariano che consiste nell’umiliare gli studenti che si sono resi colpevoli di gravi comportamenti nei confronti della scuola e/o dei compagni. Per questo incarico sono richieste specifiche competenze sul piano umano e psicosociale: essere molto cinici, dimostrare una buona dose di sadismo, abbondare in quella qualità che viene genericamente definita “stronzaggine”. È inoltre richiesta una buona padronanza nell’uso del cilicio, della verga e di un linguaggio non convenzionale (meglio se scurrile).


 L’introduzione di altre figure è allo studio degli organi competenti, che probabilmente avvieranno una consultazione per raccogliere proposte da parte dei docenti.
Gli insegnanti che non rivestiranno alcuna di queste funzioni (o altre già previste dall’ordinamento vigente) confluiranno nella categoria dei docenti pària, ossia l’insieme di coloro che svolgono il disdicevole compito di insegnare lingua, matematica, storia e tutte le altre discipline, guidati dall’insano convincimento che compito della scuola sia quello di promuovere i processi di apprendimento degli studenti..