L’orientamento scolastico e professionale, in salsa ‘Valditara’. E oltre

di Antonio Valentino

  1. “La grande rivoluzione del merito”, annunciata dal Ministro a tambur battente a fine marzo, si è materializzata nelle sue linee portanti il 5 aprile col Decreto n. 63 e con la Circolare ministeriale, stessa data, con oggetto: Avvio delle iniziative propedeutiche all’attuazione delle Linee guida sull’orientamento[1] – A.S.2023-2024 (sottotitolo: Il tutor scolastico: prime indicazioni).

Dal Decreto si derivano essenzialmente queste indicazioni:

  • si destinano 150 milioni di euro alle istituzioni scolastiche statali del II ciclo di istruzione e più precisamente alle ultime tre classi -, per ‘valorizzare’ l’impegno dei docenti chiamati a svolgere la funzione di tutor e di orientatore”.
  • si precisano i requisiti dei docenti interessati per l’accesso alla formazione – a carico dell’Indire e per la durata di 20 ore -: condizione per svolgere le funzioni delle due figure;
  • si prevede che le iniziative da mettere in campo siano destinate alle classi del secondo biennio e dell’ultimo anno del Secondo Ciclo e che le figure saranno attive a partire dal prossimo anno scolastico.

La Circolare Ministeriale definisce invece in modo particolare le cose fondamentali che c’è da sapere: gli obiettivi dell’orientamento, le attività che devono svolgere le due figure e la consistenza dei raggruppamenti di studenti destinatari delle attività proposte; la consistenza come criterio per il compenso alle due figure.

  1. Quanto agli obiettivi dell’operazione, si precisa che sono: (a) rafforzare il raccordo tra il primo e il secondo ciclo di istruzione e formazione, per permettere una scelta consapevole che valorizzi le potenzialità e i talenti degli studenti e, inoltre, (b) contribuire alla riduzione della dispersione scolastica e dell’insuccesso scolastico e (c) favorire l’accesso alle opportunità formative dell’istruzione terziaria”.

    Obiettivi sostanzialmente condivisibili se solo non evidenziassero una vistosa incongruenza.
    Praticamente si dice: obiettivo urgente e prioritario è il raccordo tra la secondaria di primo grado e il biennio successivo – per le ragioni a tutti note -, ma il decreto prevede  di intervenire prioritariamente sulle ultime tre classi della secondaria. Così. Un arcano

  1. Rispetto poi alle attività del docente tutor, le stesse che di fatto assorbono quelle più significative nei percorsi di orientamento, sono ricondotte alle seguenti due:
  • aiutare ogni studente a rivedere su una apposita piattaforma[2]digitale unica”…., le parti fondamentali che contraddistinguono ogni E-port-folio personale (cioè percorso di studi; sviluppo delle competenze; a sviluppare riflessioni “in chiave valutativa, auto-valutativa e orientativa sul percorso svolto e, soprattutto, sulle sue prospettive”; a provvedere alla “scelta di almeno un prodotto, riconosciuto criticamente dallo studente come il proprio ‘capolavoro’ (sic!)”. E questo, per ciascun anno scolastico e formativo,
  • “costituirsi consigliere delle famiglie” nei momenti di scelta dei percorsi formativi o delle prospettive professionali dello studente.

Il docente orientatore si farà invece carico di “gestire i dati forniti dal Ministero   preoccupandosi “di raffinarli [ohibò] e di integrarli con quelli specifici raccolti nelle differenti realtà economiche territoriali e metterli a disposizione di docenti, famiglie e studenti”. Una figura praticamente “a sostegno dell’orientamento”, come si legge nella Circolare più volte citata.

La cosa, anche qui, un po’ strana e misteriosa, è la denominazione delle due figure: il docente che svolge tutte le funzioni tipiche dell’orientatore/di orientamento viene chiamato tutor e chi raccoglie dati dalla piattaforma dedicata e li ‘raffina’ (!) e li integra e li diffonde tra docenti e genitori, lo si chiama orientatore. Mah!

  1. Però ai fini di una funzionalità sensata dell’intera operazione, l’aspetto che pone più interrogativi è il numero delle risorse professionali da mettere in campo. Il Ministro nell’ultima intervista al Corriere, dove preannunciava “la grade rivoluzione del merito”, declamava trionfalmente che “sono in arrivo 100.000 tutor”. Una cifra impressionante e sorprendente, con un sottotesto facilmente intuibile.

I dati per venirne a capo e capirne il valore ce li offre la già citata Circolare ministeriale del 5 aprile.

Questi i parametri numerici della Circolare ministeriale: 1 tutor ogni 30 studenti; studenti che  possono diventare anche 50, se 30 vi sembran pochi. (Nella circolare si parla addirittura di raggruppamenti, lasciando così pensare di raccogliere ragazzi di classi diverse per arrivare ai numeri previsti: tutti con un unico tutor!).

Stiamo parlando di una funzione, come si può dedurre da quanto riportato al precedente punto 3, molto delicata   e pesante per compiti, responsabilità, oltre che per numero dei soggetti con cui rapportarsi; funzione che si affianca, nella stessa persona, a quella di docente ( 3 e più classi da gestire) in nessun modo alleggerita.
Pensate solo al “dialogo costante con lo studente, la sua famiglia e i colleghi coinvolti nell’attività didattica rivolta al singolo studente, ecc. ecc.”, moltiplicato per 30, 40, 50 ragazzi, famiglie ecc..

Spiderman o lo stesso Batman, ne uscirebbero vivi?

Il tutto con un compenso accessorio annuo compreso tra i 2800 euro a 4.700 lordo stato. Da scialarci, se ci pensate. (Per il docente ‘orientatore’ – uno per ogni istituzione scolastica – il compenso va da 1.500 euro lordo Stato a 2.000 euro, sempre lordo Stato: si sciala di meno, ma si sopravvive di più).

Quelli qui sopra indicati sono gli impegni sull’orientamento delle scuole del secondo ciclo per le quali sono stati stanziati dal ministero i 150 milioni di euro di cui al Decreto del 5 aprile.

  1. Dal prossimo anno sono previste inoltre iniziative di formazione per gli studenti, a carico dei fondi PNRR, che interesseranno classi della Secondaria.

Consideriamole nel riquadro che segue:

  • Percorsi formativi di 15 ore per ciascun studente nel corso degli ultimi 3 anni delle scuole del secondo ciclo della secondaria (5 h x anno) “da erogare con modalità curricolare ed extracurricolare”. Saranno organizzati dalle Università sulla base di accordi con le scuole. Praticamente, se ho capito bene: 5 ore per anno scolastico! Su tematiche, di tutto rispetto: dal conoscere il contesto della formazione superiore / i settori di lavoro / gli sbocchi occupazionali / i lavori del futuro; al fare esperienza di didattica disciplinare attiva, partecipativa laboratoriale; dall’autovalutare, verificare consolidare le proprie conoscenze, al consolidare competenze riflessine e trasversali, al ….. Tutto sempre in 5 ore annue per tre anni. Manca solo – se è possibile – una lezione con conseguenti esercitazioni (che sarebbe sicuramente molto apprezzata dai ragazzi, su Le fughe dalle lezioni ovvero Saltare scuola come esperienze di vita).
  • Percorsi formativi previsti dalle Linee guida per l’Orientamento (Decreto n. 328 del 22 dicembre 2022), 1. per le le scuole della Secondaria di primo grado e per il primo biennio della secondaria di secondo grado, di almeno 30 ore di orientamento anche extracurricolari, per ogni anno di corso; 2. per l’ultimo triennio della Secondaria di secondo grado, altrettante ore, queste però curricolari, per ogni anno. Per questi ultimi si concede che si possono integrare, qualunque cosa ciò significhi, con le 15 ore gestite dei percorsi universitari e con i percorsi PICTO.
  1. Un altro punto di attenzione riguarda la natura giuridica delle ‘figure’ introdotte. Quello che si capisce è che non si tratta delle figure di sistema prefigurate dall’articolo 21 della Legge 59/1997, col quale si istituisce l’autonomia scolastica. Presumibilmente si tratterà ancora di docenti che coprono funzioni specifiche ma in modo volatile, occasionale, e spesso senza che se ne abbia adeguata preparazione e competenza.
    Va anche considerato che i famosi 150 milioni previsti per ‘la valorizzazione degli insegnanti’ impegnati nelle funzioni di tutor e orientatore valgono solo per il corrente anno finanziario.  Quindi, sotto questo aspetto, la prospettiva è ancora una navigazione a vista?

  2. L’impressione che un po’ si deriva dai dati e dalle iniziative sopra riportati è che questa ‘riforma’, è quella di una debolezza complessiva di visione e di strategie appropriate.

Alla base di una valutazione di questo tipo c’è la convinzione, molto diffusa tra docenti e dirigenti del secondo ciclo e delle ultime classi del primo, che l’orientamento – come anche l’insuccesso scolastico e la dispersione – non è un problema per la cui soluzione ci si può lavare le mani pensando di uscirne  introducendo nelle scuole figure di cirenei, da formare con 20 ore di corsi, e condendo il tutto con percorsi formativi per gli studenti, che sono anch’essi un punto di domanda.
Assenti gli insegnanti come comunità professionale. Scompare il CdC a cui comunque dovrebbe essere il compito principale della formazione dei ragazzi. C’è invece il cireneo solitario che si fa carico di tutto e anche delle famiglie.
Sbarazziamo il campo da un possibile equivoco. Nessuno può ovviamente pensare che non siano necessarie, per questa come per altre operazioni dello stesso tipo, figure di coordinamento delle diverse azioni e iniziative dei percorsi formativi da prevedere nelle sedi proprie.

In una organizzazione complessa come la scuola, le figure di coordinamento sono fondamentali.
Ma che siano però figure di sistema: docenti cioè con un profilo potenziato, definito giuridicamente e contrattualmente. Non volatili e casuali.
E ancora: non è in discussione la presenza nella scuola secondaria di un counselor o un mentor, come figure professionali anche esterne (con competenze da attingere anche dalla psicologia dinamica), per le situazioni problematiche più complesse della classe.
Ma i soggetti da valorizzare in questa importante partita non sono forse i docenti tutti della classe, come gruppo professionale, sulla base di un progetto condiviso per orientamento? Non è ciò che sa qualsiasi persona che si intende un po’ di scuola?

  1. Interrogativi questi che riportano in primo piano due questioni – anch’esse complesse e difficili e non più rinviabili – che rappresentano altrettante risposte a due criticità della nostra scuola, che proprio una riforma dell’orientamento avrebbe dovuto prevedere nelle modalità possibili:

– la visione dell’insegnamento disciplinare capace di produrre una idea aperta della conoscenza e di sviluppare competenze di prim’ordine; come l’integrazione dei saperi, la correlazione e l’osservazione, con occhi e sguardi diversi, dei diversi oggetti di studio e apprendimento (competenze di base in ogni discorso sull’orientamento);

– la pratica di didattiche individualizzate/personalizzate[3], che, quando ‘agite’ con professionalità, possono creare ponti preziosi tra caratteristiche delle materie scolastiche e caratteristiche degli studenti (quest’ultime in termini di bisogni, attese, aspirazioni, ma anche di specifici ritmi e modalità di apprendimento, di tipo di intelligenza e capacità linguistiche, di prerequisiti cognitivi). Pratiche che, come sanno in tanti nelle scuole, diventano didattiche orientative quando guardano all’insegnamento disciplinare anche come ‘strumento’ per sviluppare capacità trasversali (soft skills); con particolare riferimento alla riflessività, alla comunicazione efficace, all’ascolto attivo, al problem setting & solving, alla flessibilità …,).

9. Ancora un’ultima considerazione. Legata alla percezione che questa ‘riforma’ dell’orientamento sembra abbia scelto di ignorare le esperienze positive e innovative di tante nostre scuole.
Il riferimento è alle pratiche, didattiche – diffuse tra l’altro  nei nostri Istituti  più di quanto non si creda – come il debate o lavori di gruppo opportunamente strutturati o attività di autovalutazione dello studente, esperienze di peer education: utili certamente per apprendimenti disciplinari più solidi e duraturi, ma utili anche per sviluppare competenze necessarie per orientarsi con consapevolezza e sensatezza anche nella scelta tra i diversi   percorsi scolastici o professionali; o più in generale, nelle scelte di vita.

Ma il riferimento è anche

ai Centri di Informazione e Consulenza gestiti da docenti di riferimento (tutor per l’orientamento nominati dal ds), diffusamente attivi nella secondaria di secondo grado e previste dal PTOF di istituto e

ai percorsi formativi gestiti da insegnanti in genere di materie scientifiche o tecnologiche del secondo ciclo, per classi terminali del primo ciclo (l’ex terza media).

Che dire conclusivamente, a seguito delle analisi e riflessioni critiche di questo contributo?

Solo che all’autore è del tutto estraneo l’idea di alimentare – nei cinque o sei che in esso incappassero – tentazioni di disimpegno rispetto alle iniziative che le scuole sono chiamate a mettere in campo in base alle indicazioni del Decreto e materiali connessi.
L’intento è stato piuttosto quello di riportare in primo piano le opportunità che offre la tematica dell’orientamento per il rinnovamento della nostra scuola (la centralità del ruolo della comunità professionale e dei C.d.C come gruppo di lavoro: in primo luogo attraverso didattiche individualizzate e orientative e un coordinamento responsabile delle attività; ma anche attraverso il coinvolgimento del gruppo classe). Opportunità che non sono in alternativa o in contrapposizione a quelle previste dall’impianto ministeriale e da recuperare opportunamente, e nei tempi giusti, attraverso un eventuale, apposito Piano di Istituto.
Comunque se all’intento non corrispondono gli esiti attesi, preme qui chiarire manzonianamente che “non si è fatta apposta”.

[1]Nota ministeriale del 22 dicembre 2022

[2] Con tutte queste piattaforme si ha a volte l’impressione che l’autonomia opportunamente regolata [Piero Romei] sia sempre più declinata come autonomia uniformata.

[3]Istruzione individualizzata non significa ovviamente istruzione individuale, generalmente realizzata in un rapporto 1 ad 1. Essa, come è noto, consiste piuttosto nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche individuali di ciascuno cercando di permettere al singolo di conseguire individualmente obiettivi comuni al resto della classe. Altro è l’istruzione personalizzata che tende invece a traguardi diversi e personali per ciascuno, ponendo per ognuno obiettivi differenti.

 

 

 

 

 

 




Apprendimento permanente, per affrontare le sfide del XXI secolo

Stefaneldi Giovanni Fioravanti

Era la scommessa dell’Illuminismo il cittadino cosmopolita del sapere, come dire che solo la ragione può unire il mondo, perché l’uomo razionale non accetta barriere nazionali.
La società della conoscenza nasce nutrendosi della fiducia nell’universalità del sapere come forza unificatrice contro le spinte scioviniste dei vari nazionalismi.
La seduzione dell’apprendimento permanente, per tutta la vita, è l’enunciazione di un particolare atteggiamento illuministico verso esistenze guidate dalla ragione, dalla compassione per l’altro, dalla continua ricerca di innovazione e cambiamento, in cui l’unica cosa che non è una scelta è compiere delle scelte.

L’apprendimento è un processo continuo che non tollera più d’essere relegato alle sole aule scolastiche e alle loro forme rituali di istruzione, perché la vita esige sempre un di più di conoscenza per affrontare problemi e innovazioni che non hanno un punto di arrivo, cambiamenti che richiedono responsabilizzazione e processi decisionali i cui effetti non riguardano solo il singolo individuo, ma l’appartenenza collettiva alla comunità mondiale.
Siamo entrati nel tempo del problem solving, dell’apprendere a risolvere problemi, dove non è più sufficiente essere istruiti su problemi già risolti da altri, ma piuttosto è necessario imparare come dare soluzione a quelli che hanno da venire, per i quali non esistono ancora formule ed eserciziari.

L’apprendimento permanente è la risposta sociale moderna all’esigenza di diventare cittadini della Terra, della Terra Patria, come ci ricorda Edgar Morin,  accedendo a una cultura condivisa, dotati di strumenti intellettuali ed emotivi per vivere una cittadinanza planetaria.
La società come luogo pedagogico, di cui scriveva John Dewey agli albori del secolo scorso, è ora la Terra intera con la potenza del pluralismo e della molteplicità delle sue comunità e culture nelle quali ogni giorno si costruisce il destino comune.
La parola apprendimento è diventata indispensabile per parlare di noi stessi, degli altri e della convivenza con l’ambiente.

Le scienze dell’educazione si sono tradizionalmente occupate dello studio delle istituzioni che forniscono l’istruzione formale, ma oggi  è importante  l’espansione e la diffusione del paradigma pedagogico in aree non tradizionalmente considerate educative, in qualsiasi parte del mondo l’istruzione non è solo una questione di ciò che si insegna a scuola, ma è, in nome dell’apprendimento permanente, qualcosa che permea il governo di tutte le attività sociali.

Diventa importante per gli insegnanti sostenere gli alunni a trovare il modo migliore  di sviluppare la capacità di capire e gestire il proprio futuro, le narrazioni nel contesto dell’istruzione sottolineano che il mondo è diventato sempre più mutevole e difficile da prevedere. Una delle voci all’interno di queste narrazioni chiede come la scuola potrebbe prepararsi per un futuro di cui sappiamo meno ma di cui dobbiamo sapere sempre di più. La risposta data riguarda lo sviluppo di talenti per essere in grado di gestire nuove situazioni.
Il compito più importante per l’insegnante è quindi quello di organizzare ambienti e contesti di apprendimento stimolanti che supportino processi esplorativi in cui l’individuo in modo attivo acquisisca conoscenza e dove la conoscenza è considerata un processo piuttosto che un prodotto.

Una componente cruciale nel processo di apprendimento è, dunque, la metacognizione, come produrre conoscenza su noi stessi, capire come la conoscenza funziona nella pratica, progettare i nostri propri processi di apprendimento come un oggetto di ricerca, una meta-prospettiva per il futuro.
Pertanto, una dimensione centrale della formazione degli insegnanti è la capacità di sviluppare conoscenze su come la conoscenza è prodotta e costituita. In questo contesto, la conoscenza e i processi di apprendimento degli studenti diventano a loro volta una pratica di conoscenza per la produzione e lo sviluppo della conoscenza degli insegnanti. Senza dubbio “imparare” nelle narrazioni contemporanee significa qualcosa di diverso rispetto a quelle di altri periodi storici. Viviamo in una società rischiosa, incerta e in continua evoluzione. In questo contesto diventa indispensabile la svolta epistemologica che iscrive l’apprendimento permanente e la costante formazione e produzione di conoscenza nella pratica quotidiana come chiave per un futuro gestibile.

Pianificare il futuro significa pianificare le disposizioni e le sensibilità interiori che ordinano i modi in cui le persone risolvono i problemi in quanto cittadini orientati al futuro. La realizzazione del futuro diventa così un progetto individuale di apprendimento permanente. Non più l’alunno, l’allievo, lo scolaro della tradizione, ma il soggetto singolo pensato come il primo organizzatore del proprio destino.

Considerare l’intera società come luogo di conoscenza, come un luogo di apprendimento diffuso che investe la responsabilità dei singoli soggetti in termini di lifelong e life wide learning costituisce una condizione indispensabile alla governance del ventunesimo secolo.

Bibliografia

Biesta, G. (2006)
‘What’s the point of lifelong learning if lifelong learning has no point? On the democratic deficit of policies for lifelong learning’, European Educational Research Journal, 5: 169–80.
European Commission (1996)
Teaching and Learning: Towards a Learning Society, Luxembourg: Office for Official Publications of the European Communities.
European Commission (2000)
Commission Staff Working Paper, Memorandum on Lifelong Learning, Brussels: European Commission.
Fejes, A., Nicoll, K. (2008)
Foucault and Lifelong Learning. Governing the subject, Routledge, NY.
Field, J. (2000)
Lifelong Learning and the New Educational Order, Stoke on Trent: Trentham Books.
Gustavsson, B. (2002) ‘What do we mean by lifelong learning and knowledge?’ International Journal of Lifelong Education, 21: 13–23.
UNESCO (1996)
Learning: The Treasure Within, Report to UNESCO of the International Commission on Education for the Twenty-first Century, Paris: UNESCO.




Lettera aperta alla maestra “dell’Ave Maria in classe”

di Cinzia Mion

Cara Marisa Francescangeli, maestra della scuola primaria di San Vero Milis (Oristano), mi chiamo Cinzia Mion e mi permetto, da anziana Dirigente scolastica in pensione , di inviarle una lettera aperta per spiegarle alcune “cosette” che evidentemente lei ignora.
Lo si capisce dalle notizie di stampa, comprese le varie interviste da lei rilasciate a destra e a manca. Cosette che lei ignora pur avendo il dovere di conoscerle in quanto ricopre un posto importante all’interno dell’Istituzione Scuola.
Posso perdonare che i diversi “salvini” di turno non ne siano a conoscenza: lo Stato non affida loro la formazione iniziale dei piccoli cittadini italiani in crescita, come viene fatto invece nei suoi confronti.
Ma lei no. Lei le deve conoscere e tenere presenti.

L’aria garrula e superficiale, invece, con cui le affronta non solo mi fa capire che non ne è a conoscenza (ha superato un esame di concorso per ricoprire il posto assegnato?) ma mi fa anche capire che sta prendendo sottogamba quello che lei crede di valorizzare sia pur minimizzandolo, perché si stupisce della sanzione ricevuta. Lasciamo perdere il problema della correttezza giuridico-amministrativa della sanzione stessa (su questo aspetto, sui social, sono intervenuti anche rappresentanti dell’Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici ).
Mi riferisco alle conseguenze della revisione del Concordato (1985) e al fatto che da allora nella scuola ha diritto di cittadinanza la “cultura” religiosa ma non al contrario gli atti di “culto”.


Questi ultimi sono: il segno della croce, le preghiere prima delle lezioni, (o addirittura durante come ha fatto lei) le benedizioni a Natale o a Pasqua o comunque durante le cerimonie civili, le messe durante l’orario scolastico, le cosiddette visite pastorali, ecc. “Unzioni” varie come sembra aver fatto lei non sono nemmeno contemplate tanto sono anacronistiche e direi onestamente strambe, non essendo lei deputata a somministrare olii più o meno santi….
La preghiera, è stato chiaramente spiegato, poteva essere analizzata, verso per verso, ma non recitata ma anche questo con l’insegnante di religione o durante le ore ad essa deputate. Se recitata, infatti, automaticamente diventa un atto di culto.
Da notare comunque che anche durante la lezione facoltativa di religione cattolica (quindi in presenza di alunni che hanno scelto tutti di frequentare questa attività) valgono le stesse regole!
Ma veniamo ora all’aspetto che più mi interessa perché mi pare che finora nessuno l’abbia rilevato, nemmeno chi si sbraccia a difenderla.
Mi riferisco all’aria scanzonata con cui si vanta di far recitare le preghiere così, come si recita una poesia o una filastrocca a memoria. Ma non si rende conto che è lei a “desacralizzare” le preghiere, togliendo loro con disinvoltura l’aspetto che le rende pregnanti : il Sacro e il Simbolico?
E per di più se lo fa ricordare da una persona non credente ma che ha sempre rispettato questi valori tanto da scandalizzarsi nel notare la leggerezza con cui lei affronta queste tematiche.
Mi fa tornare in mente quella volta che in Umbria una docente di religione valdese ha fatto ricorso al Tar per mancanza di rispetto del dettato del Nuovo Concordato, da parte delle autorità religiose cattoliche. Era stata infatti impartita una benedizione religiosa durante l’orario scolastico, che la dirigente scolastica aveva permesso, facendosi scudo di una semplice “noterella “(invalidata poi dal Tar Emilia Romagna, Sentenza 250/1993) del ministro di turno che affermava che, se il Consiglio di Istituto era d’accordo, si sarebbe potuto fare, e il TAR dell’Umbria ha dato ragione al Vescovo affermando che : udite udite “ Le benedizioni durano poco e non lasciano tracce!!!”. Ha pensato anche lei così come il Tar dell’Umbria di quel tempo (sentenza 677/2005!)?
Quello che mi ha fatto rabbrividire allora non è stato tanto il giudice amministrativo, chiaramente ammanigliato, ma il Vescovo che pur di averla vinta ha accettato che si calpestasse , dal suo punto di vista, la sacralità del RITO e il significato SIMBOLICO della religione. Se a quest’ultima togli il rito e il simbolo, cosa resta? Lo spauracchio sulla povera gente.
Ricordiamoci chi parlava dell’”Oppio dei popoli”…




La personalizzazione dell’Istruzione alle porte. Centomila tutor in arrivo: parola di ministro (wow!)

di Aristarco Ammazzacaffè

Signor Ministro le scrivo, così mi distraggo un po’.
Scriverle dopo aver letto i suoi comunicati mette sempre allegria e speranza. L’ultimo in ordine di tempo, quello sulla “grande rivoluzione del merito” (sic) è particolarmente esaltante perché fa riferimento alla ‘prima pietra’ che finalmente è stata posta per una prospettiva decisamente strategica. Volendo.
Ora io non so se le rivoluzioni si costruiscono con le pietre.
Le voglio credere. Per ora ci basta – e avanza anche – il suo comunicato sullo schema di decreto, che – lo richiamo per chi non fosse informato – prevede cose addirittura – “l’istituzione di due figure professionali: il docente tutor e il docente orientatore”.
La prima, tesa a “sviluppare la personalizzazione dell’istruzione nelle Scuole secondarie di II grado” (nientemeno!); la seconda, “a concretizzare l’attività di orientamento” (era ora!).
E sul piatto, un primo stanziamento di 150 milioni di euro nel 2023. Per dire che ora si fa sul serio.

Su tutto questo sfolgorio impressionante, mi permette, signor Ministro, due considerazioni?
La prima è di assoluto apprezzamento, che sfiora la meraviglia, per tale sua impresa. Tanto che mi sono chiesto: – Ma come fa il signor ministro a connettere organicamente: merito, personalizzazione dell’insegnamento (attraverso la figura del tutor), orientamento degli studenti, come progetto istituzionale (attraverso la figura dell’orientatore)? E ancora: valorizzazione dei talenti e, soprattutto, ‘competizione’: parola ormai chiave del Programma 2023 per la valorizzazione delle eccellenze; e, soprattutto, modus operandi canonico per il riconoscimento del merito (Avviso M.I.M. del 25.01.’23, n. 2437).

E c’è anche la ciliegina della lotta alle diseguaglianze, come prezioso specchietto per le allodole (volatili da lei molto amati, come sembra riportino le sue biografie).
Tanto che mi chiedo spesso: ma quali meriti particolari ha la nostra scuola e il nostro Paese per meritare un ministro così? Boh!
Perciò, non si dia pena per quanti le rimproverano che nel suo vocabolario sono assenti parole come cooperazione, apprendere insieme, leadership diffusa, comunità professionale, pratiche condivise, lavoro di squadra, coordinamento organizzativo… Diffidi di chi gliene parla. Si tratta di finti innovatori che sappiamo bene chi sono e cosa vogliono.
Certamente non sono dei nostri, ci può giurare.
La seconda considerazione è invece un po’ più critica, ma è comunque tale da non togliere niente ai riconoscimenti precedenti. E riguarda il cuore del suo schema di decreto; cioè l’istituzione delle due figure professionali sopra richiamate.
Al riguardo, se me lo permette, sarebbe bene esplicitare meglio la nozione di ‘personalizzazione dell’istruzione’. È comunque certamente ottima la “direzione” che lei ha in mente: quella “di una scuola che faccia emergere i talenti di ogni studente, innescando un percorso virtuoso”. (Commuove, signor ministro, questo suo attaccamento ai talenti. La capisco: ogni umano ha le sue fisime; è lei signor ministro è chiaramente un umano). Molto importante e comunque democratica la finalità che lei esplicita: superare “le difficoltà, frutto di diseguaglianze di natura sociale e favorire le scelte consapevoli per il percorso di studi e di lavoro”.
Chiaramente ci propone, con questa lapidaria affermazione una scuola, che più che istruire, si preoccupi, come è giusto che sia, di fare emergere i talenti e, così facendo, di liberarci finalmente da tutti i problemi legati all’insuccesso scolastico. Che non se ne può più. E sono d’accordo.

È la liberazione da questa tara – la scuola che produce insuccessi e dispersione – che lei ha in mente quando parla di istruzione personalizzata? Siamo sicuri di sì.
L’impianto strategico previsto dallo schema di decreto però, mi permetta di dirle, non sembra essere all’altezza della ‘direzione’ che lei lodevolmente indica.
Occorrerebbe chiarire bene la questione e farcela sapere per tempo.
Intuiamo che con la partita dell’istruzione personalizzata lei vuole passare alla storia. E che lei giustamente ci tiene e se lo merita. Perciò, prima ce lo fa sapere e prima possiamo, al riguardo, fare anche noi la nostra parte. Perché, anche noi crediamo profondamente agli inneschi di percorsi virtuosi quando si fanno emergere i talenti (dirlo meglio non si poteva!). E questo va ribadito. Qualunque cosa significhi. Ci mancherebbe!
Perciò sul piano operativo vorremmo essere rassicurati un po’ di più sulle scelte strategiche che lei propone; a partire dalla istituzione delle figure del tutor e dell’orientatore, che lei tende giustamente a rendere funzionali al suo disegno complessivo.
In particolare, appare importante l’aver precisato il compito del tutor. Che lei chiarisce, da par suo, essere quello di “coordinare e sviluppare le attività didattiche a favore di una personalizzazione dell’istruzione” e di “predisporre percorsi personalizzati, d’intesa coi colleghi”. (dalla sua intervista al Corriere della Sera del 30 marzo).
Quindi si tratterebbe, se l’interpretazione è corretta, di interventi individualizzati (più che personalizzati, mi sembra) – definiti cioè in base alle caratteristiche degli studenti (tipo di intelligenza, ritmi e modalità di apprendimento, bisogni formativi in base alle loro specifiche situazioni sociali o a percorsi scolastici inadeguati, attitudini personali, eccetera) – che sarebbero a carico dei docenti coordinati dal tutor.
Supponendo d’aver capito – come pura ipotesi di partenza –, penso che bisognerebbe però, signor Ministro, chiarire quali siano questi insegnanti da coordinare: colleghi sorteggiati a caso? affini culturalmente? amici per la pelle? colleghi fastidiosi da riportare sulla retta via? E quanti poi per ciascun tutor? C’è qualche numero che gira in giro? Sappiamo che questi numeri lei li ha. Ma che non può comunicarceli per un qualche riserbo istituzionale. Se è così, ce lo dica, per favore. Noi capiamo, ci mancherebbe.
Però vorrei rispettosamente suggerirle che questi insegnanti potrebbero ben essere i colleghi dei Consigli di classe o dei dipartimenti o di appositi gruppi di lavoro della scuola. Non le pare?
In questo caso però i tutor come si configurerebbero? E, soprattutto, cosa diventerebbero gli Organismi collegiali dei docenti?
Mi creda, signor ministro, qui si prospetta un vero ginepraio. Da non raccapezzarsi. Tanto che a furia di pensarci mi sono detto: – Ma è mai possibile che nessuno dei suoi collaboratori al Ministero gli abbia detto che la didattica individualizzata – non individuale, che è tutt’altra cosa, come lei ben sa – occupa da tempo, nel dibattito di chi si interessa di cose scolastiche, un posto importante; e che è convinzione unanimemente condivisa che le competenze che essa richiede dovrebbero far parte del bagaglio professionale di ogni buon insegnante? E che lo stesso discorso, con qualche variante, vale per la didattica orientativa?
Questo per dire appunto che, con la didattica individualizzata, il tutor soprattutto non c’entra un benemerito fico secco. Se non è così, basta che ce lo dica.
Dovrebbe comunque conservare tutto il suo valore la funzione di coordinamento delle varie articolazioni del Collegio – implicitamente, e con lodevole acume, da lei richiamata -, da assicurare attraverso l’istituzione di figure preparate e competenti e contrattualmente riconosciute.
Purtroppo, nonostante la sua palese e apprezzabile buona volontà di fare qualcosa di innovativo, va però detto che la proposta del suo schema di decreto, a volerla guardare un po’ meglio nelle strategie che prevede, appare, allo stato attuale – se lo lasci dire, ma sempre con rispetto – abbastanza ingarbugliata e piuttosto deboluccia; e soprattutto discretamente pasticciata. Se me lo consente, aggiungerei: senza capo né coda. Del tutto.
Secondo me, deve avergliela suggerita qualche agente segreto dell’opposizione, nascosto nel suo entourage: certamente di sinistra (e lei sa bene che gente è), per far fare brutta figura a lei e all’intero governo; e soprattutto alla Presidente in persona: e questa cosa per me è decisamente intollerabile.
Però, signor ministro, faccia attenzione. Si informi bene prima della prossima mossa e lo faccia in prima persona. Certamente troverà gente esperta e di fiducia che le spiegherà bene il tranello in cui è cascato – anche lei a sua insaputa -; e probabilmente anche come uscirne.
C’è tanta brava gente anche nel suo entourage, basta solo trovarla.




Nuove figure docenti e circo Barnum

di Mario Maviglia

Dopo l’introduzione del docente tutor, sono previste altre rilevanti figure di insegnanti che animeranno la vita scolastica e daranno nuova linfa alla didattica. Siamo in grado di anticiparvi quali saranno queste nuove figure:

  • Insegnante counselor: sarà incaricato di dispensare consigli non richiesti ai colleghi su vari aspetti della vita scolastica e professionale. Al momento sembra non sia prevista la possibilità di offrire consigli anche sulla vita privata e intima dei docenti, ma non è escluso che ciò non possa avvenire in futuro anche in relazione ai risultati che verranno conseguiti nella fase di implementazione di questa figura.
  • Insegnante coach: come dice il nome, questo docente sarà chiamato a rimettere insieme i cocci delle scuole in quelle situazioni particolarmente degradate e disagiate e destinate allo sgretolamento se non vi è un adeguato intervento professionale. Il coach condurrà i colleghi verso le nuove frontiere della didattica rinsaldando i legami tra i docenti e facendo scoprire loro il valore della collaborazione e, in prospettiva, dell’amore universale come collante per la comunità educante. Sarà richiesto, come titolo indispensabile, la patente B.
  • Insegnante supporter: questa figura appare particolarmente importante in questo momento storico caratterizzato dalla visibilità e dalla popolarità. E in effetti il docente supporter ha il compito di andare in giro per il territorio per far conoscere la scuola e attirare nuovi clienti. Ogni scuola deciderà le forme più adeguate per raggiungere lo scopo, ma viene suggerito di non trascurare il contatto vis-à-vis (incontri porta a porta, volantinaggio davanti ai supermercati, omino sandwich, organizzazione di aperitivi di conoscenza ecc.).
  • Insegnante SE (Social Entertainer): ha lo specifico compito di tirar su il morale dei colleghi, facendoli divertire e proponendo un approccio positivo alla vita. Utilizza strategie di vario tipo: si veste da pagliaccio, racconta barzellette, fa giochi di prestigio. Questa figura risulta particolarmente importante in alcuni momenti rituali della scuola: prima di ogni Collegio Docenti, dopo i colloqui con i genitori, dopo l’incontro con i colleghi di dipartimento, tutte occasioni in cui il docente SE deve dimostrare tutta la sua perizia di intrattenitore ameno.
  • Insegnante per l’empowerment: si occupa di far esplodere le potenzialità dei colleghi fornendo loro suggestioni e illusioni circa la loro incontestabile importanza e bravura. Viene assegnato alle scuole poste nelle aree più depresse del Paese. Non agisce nei confronti dei docenti troppo grassi sennò l’esplosione di cui sopra potrebbe causare danni fisici. Titolo preferenziale per ricoprire l’incarico: laurea in ingegneria termonucleare o esperienza maturata nel campo dei cavalli fiscali.
  • Insegnante per l’IP (Inner Peace): l’obiettivo della pace interiore appare quanto mai necessario in quest’epoca convulsa e stressante. Il docente IP supporta i colleghi a trovare un giusto equilibrio interiore in modo che essi possano fondersi con l’armonia universale. Particolare cautela userà con i colleghi un po’ anziani affinché la pace interiore non diventi definitiva.
  • Insegnante MiI (Made in Italy): è incaricato di convertire tutta la strumentazione didattica, tecnologica e funzionale della scuola in MiI. L’approccio richiesto è di tipo pratico-operativo: talvolta basta correggere l’etichetta Made in China in Made in Italy; altre volte occorre andare più in profondità emendando tutte le dizioni non omologate: on/off diventa sì/no, power viene cambiato in potere, software viene emendato in programma per calcolatore elettronico. Richieste particolari competenze in onomatopea e aggiustamenti linguistici artigianali.
  • Insegnante humiliating: è una figura professionale che ha il compito di mettere in pratica la nuova Weltanschauung ministeriale in campo pedagogico. Infatti, tocca all’insegnante humiliating realizzare quel sano principio pedagogico valditariano che consiste nell’umiliare gli studenti che si sono resi colpevoli di gravi comportamenti nei confronti della scuola e/o dei compagni. Per questo incarico sono richieste specifiche competenze sul piano umano e psicosociale: essere molto cinici, dimostrare una buona dose di sadismo, abbondare in quella qualità che viene genericamente definita “stronzaggine”. È inoltre richiesta una buona padronanza nell’uso del cilicio, della verga e di un linguaggio non convenzionale (meglio se scurrile).


 L’introduzione di altre figure è allo studio degli organi competenti, che probabilmente avvieranno una consultazione per raccogliere proposte da parte dei docenti.
Gli insegnanti che non rivestiranno alcuna di queste funzioni (o altre già previste dall’ordinamento vigente) confluiranno nella categoria dei docenti pària, ossia l’insieme di coloro che svolgono il disdicevole compito di insegnare lingua, matematica, storia e tutte le altre discipline, guidati dall’insano convincimento che compito della scuola sia quello di promuovere i processi di apprendimento degli studenti..




L’insegnante è come un regista, gli alunni sono gli attori

di Raimondo Giunta

Non c’è deduzione tra finalità educative e procedure didattiche ,ma ci sono tentativi e percorsi di avvicinamento.
I principi si possono incarnare in pratiche differenti, adattabili a contesti diversi e a diversi alunni, a diversi contenuti dell’apprendimento.
Questo non significa che si è liberi da qualsiasi vincolo di coerenza ,ma che bisogna con discernimento orientarsi verso quei modelli didattici ritenuti più adeguati alle situazioni date, sapendo in partenza che a-priori non ci sono metodi universalmente buoni e sempre efficaci.

Il problema non è quale pratica adottare, ma quali apprendimenti si devono conseguire e misurare su questi la pertinenza dei mezzi e delle procedure usati, tenendo presente che una pratica non può essere separata dalle intenzioni che l’animano e dal modo in cui viene messa in atto.

Ogni apprendimento impegna l’attività intellettuale di colui che apprende e ne porta il segno; ogni conoscenza è legata al contesto sociale e culturale in cui scaturisce e nei luoghi di formazione il protagonismo dei discenti e le pratiche sociali di cui è quotidianamente partecipe non possono essere trascurate.

L’alunno deve sentire come scoperta personale il possesso del sapere e “rapportarsi ad esso con uno spirito amichevole e curioso”(D.Nicoli).
E’ indispensabile fare almeno un tratto dell’itinerario intellettuale dell’apprendimento sul modello della scoperta, che nei luoghi scolastici non può che essere inquadrato, semplificato, didatticizzato; lontano comunque dall’insegnamento ex-cathedra.

“Imparare a essere scienziati non è la stessa cosa di imparare le scienze: è imparare una cultura con tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna”(J.Bruner).
Lavorare per enigmi, dibattiti, situazioni-problemi, piccoli progetti di ricerca, esperimenti comporta un radicale cambiamento dell’insegnamento.

E’ fondamentale per una buona formazione tenere sempre sotto osservazione il rapporto che si viene a istituire tra alunno e il sapere, per cercare in tutti i modi che non si frappongano ostacoli, remore di qualsiasi genere che possano determinare un atteggiamento difensivo, diffidente o cinico verso una disciplina, una nozione, un metodo, una posizione intellettuale (Ph.Perrenoud).

Per raggiungere questo risultato una buona scuola deve dare spazio alla negoziazione, al dialogo, alla riflessione perché in questo modo l’alunno può crescere bene e trovare fiducia nelle sue forze.

Ai metodi e ai modelli didattici si deve richiedere di favorire e di stimolare l’autonomia dello studente, di collocare l’apprendimento in contesti realistici, di agevolare la “costruzione” delle conoscenze entro una esperienza sociale di collaborazione con l’insegnante e con i pari, di promuovere e incoraggiare l’autoconsapevolezza nel processo di apprendimento.

Le nuove concezioni dell’apprendimento e la cultura pedagogica più attenta alle trasformazioni della società ridisegnano sia il ruolo del docente sia il ruolo dell’alunno.

Il docente diventa il regista del processo di formazione e gli alunni ne diventano gli attori.

Gli alunni responsabilizzati e coinvolti nel loro apprendimento possono diventare in alcune attività aiuto per l’insegnante ,risorse di apprendimento per i propri pari

L’insegnante favorisce la comunicazione interattiva tra gli alunni, valorizza i punti di forza di una prestazione; permette a tutti di esprimersi e ne apprezza i suggerimenti; valorizza la partecipazione e i contributi degli alunni, stimola con le sue domande e riporta a coerenza col modello didattico prescelto le attività che vengono svolte; favorisce l’identità e la consapevolezza individuale e dei gruppi di lavoro.

E’ presenza fondamentale nei momenti preliminari, e soprattutto durante l’attività didattica. E’ un ruolo di guida ,ma deve accettare che il centro dell’azione didattica si sposti dalla cattedra all’intera aula, che si instauri una forma di democrazia nelle relazioni pedagogiche. Non deve considerarsi un dispensatore di saperi, che spezza ogni giorno il pane della verità. Collocato in una comunità d’apprendimento assume il ruolo di adulto significativo, capace di mobilitare i talenti degli studenti in esperienze importanti, concrete, sfidanti che suscitano interesse curiosità e desiderio di apprendere.

Il buon esito del lavoro di formazione dipende dalla capacità dell’insegnante di testimoniare in modo convincente il proprio amore per il sapere, di costituirsi come modello plausibile di persona appassionata del proprio lavoro di studio e di ricerca.
Deve far vedere che ha in sé il fuoco che vuole accendere negli altri: fatto che oltrepassa la competenza didattica e interpella le altre sue dimensioni umane.

 




C’era una volta il direttore didattico

di Nicola Puttilli

In una dichiarazione rilasciata qualche tempo fa al Corriere delle Sera sul previsto ulteriore taglio di autonomie scolastiche disposto dall’ultima legge di bilancio, il presidente di ANP Antonello Giannelli sottolinea il rischio di ingestibilità amministrativa degli istituti sovradimensionati. Giannelli ha ragione da vendere, anche in considerazione della condizione di perenne emergenza in cui da troppo tempo versano gli uffici amministrativi delle scuole fra carenze, precarietà e inadeguata formazione del personale. Mi ha tuttavia colpito l’assenza di argomentazioni circa la “gestibilità” didattica di tali strutture peraltro comprendenti, come nel caso degli istituti comprensivi, diversi ordini di scuole. Sarà che ho trascorso poco più di una decina di anni nel ruolo di dirigente scolastico mentre una ventina circa in quello di direttore didattico, ma sempre mi ha guidato la convinzione che una buona amministrazione e organizzazione non avessero altra finalità se non l’innalzamento della qualità del progetto formativo e della didattica.

ll passaggio alla dirigenza scolastica è stata una logica conseguenza dell’attribuzione dell’autonomia. Non che prima ci fossero sostanziali differenze fra il ruolo di preside e di direttore didattico, entrambi inquadrati nel IX livello del contratto di lavoro dividevano analoghe condizioni retributive e di stato giuridico, mentre diverse erano, di fatto, le modalità di reclutamento: sempre attraverso regolare concorso, molto selettivo, nel caso dei direttori didattici, spesso con concorso riservato, decisamente più abbordabile, nel caso dei presidi. Diversa, inoltre, la formazione di provenienza: quasi sempre laurea di natura disciplinare per i presidi, non sempre, ma molto spesso, laurea in pedagogia per i direttori didattici, provenienti dall’istituto magistrale, dove un po’ di pedagogia e di psicologia l’avevano pur masticata, e dalla facoltà di magistero.

A Torino, dove ho sempre lavorato, c’era una grande tradizione associativa dei direttori didattici attiva già dal dopoguerra, raccoglieva una massiccia partecipazione e nei primi anni ’80 diede vita alla “Conferenza dei direttori didattici”, riconosciuta con atto formale e autorizzata a riunirsi in orario di servizio dall’allora provveditore agli studi. Nulla di simile esisteva per i presidi.

L’attenzione per i temi pedagogici e didattici era molto alta tra i direttori didattici e nel confronto interno alla  loro associazione (successivamente e quasi per intero confluita nell’ANDIS), ampiamente prevalenti rispetto a quelli più propriamente gestionali e amministrativi.

L’avvento dell’autonomia e della dirigenza, nonchè la formazione comune di 300 ore tra direttori didattici e presidi che l’hanno accompagnata, ha comportato, com’era logico che fosse, un radicale cambiamento di prospettiva. Per quanto il nuovo assetto normativo non prevedesse in alcun modo una diminuzione delle competenze e delle responsabilità del nuovo dirigente scolastico in campo pedagogico e didattico, l’enfasi si è di fatto spostata, quasi inconsapevolmente,  sugli aspetti gestionali e organizzativi con preciso riferimento, rispetto alla specificità del ruolo, alle teorie sul management allora prevalenti. Non è un caso, del resto, se in Piemonte, rispetto alle 300 ore di formazione, la scelta era limitata a due agenzie formative: ISVOR, che faceva capo alla FIAT ed ELEA agenzia formativa di Olivetti. Le teorie di riferimento erano ovviamente quelle più recenti di derivazione anglosassone che, rispetto al settore pubblico, istruzione compresa, si ispiravano prevalentemente al modello allora definito del “quasi privato”.

Certo esigenze di svecchiamento non erano più rinviabili. Come ci spiegava Enrico Autieri, direttore di ISVOR, si trattava di passare da un modello burocratico-artigianale, da sempre imperante nella nostra pubblica amministrazione, a un modello a gestione professionale, di chiara derivazione aziendale, fondato su variabili di progetto: pianificazione, problem solving, misurazione, rendicontazione.

La strada era segnata ma forse sarebbe stato necessario modularla fin da subito secondo le esigenze prioritarie della nostra scuola: innalzamento qualitativo dei processi di insegnamento/apprendimento, superamento delle ineguaglianze e della dispersione scolastica, inclusione e benessere psicofisico degli studenti. Da subito doveva essere chiarito il nesso fra qualità dell’organizzazione e fini istituzionali, da questo e per questo era nata fondamentalmente l’autonomia scolastica. L’enfasi sugli aspetti organizzativi e “manageriali” ha fatto invece premio, nella percezione del ruolo del dirigente scolastico in particolare, su quelli più strettamente pedagogici e didattici. Credo che anche a tale distorsione si debba il sovradimensionamento, nelle regioni del nord principalmente, di molte istituzioni scolastiche che arrivano a contare più di 2000 studenti senza, peraltro, che siano state create le condizioni normative e organizzative per gestire situazioni di tale complessità (middle management, leadership diffusa, ecc.).

Ricordo ancora le difficoltà che incontrai, da parte delle insegnanti della scuola dell’infanzia, quando decisi di unificare il loro collegio dei docenti con quello della scuola elementare. Nei collegi della scuola dell’infanzia si ponevano in discussione tutti gli aspetti della vita scolastica, compresi quelli apparentemente più irrilevanti: cosa fare con i bambini che non volevano dormire al pomeriggio, le problematiche presentate dalla mensa o dai momenti di gioco, le dinamiche relazionali tra i bambini ecc., tutti quegli elementi di attenzione e di cura così cari, mi  piace citarla, all’amica Cinzia Mion.  Avevano ragione le maestre della scuola dell’infanzia, nel collegio unificato di queste cose non si è più parlato, né si sono trovati altri spazi per poterlo fare, figurarsi in istituti comprensivi con 1800 alunni e tre ordini di scuola.

E’ ovvio che non si sta auspicando un ritorno agli anni ’90, ma ad oltre vent’anni dall’istituzione dell’autonomia e della dirigenza scolastica sarebbero maturi i tempi per una rinnovata riflessione. Anche la ricerca di una giusta dimensione per le istituzioni scolastiche (da 700 a non oltre, tassativamente, 1200 alunni?) e una struttura organizzativa (middle management adeguatamente riconosciuto e formato?) idonea a presidiare gli spazi non solo amministrativi e gestionali ma anche più propriamente psicopedagogici e relazionali, potrebbero aiutare non poco a far ritrovare senso ed equilibrio ad organizzazioni fin troppo complesse e a un ruolo ormai reso indistinto e pletorico come quello del dirigente scolastico.

Anche nel linguaggio comune non si sente più parlare di direttore didattico, poco usata anche la corretta definizione di dirigente scolastico, evidentemente troppo fredda e burocratica, è rimasto il preside a rappresentare tutti. In una delle sue ultime riflessioni un altro caro amico, Giancarlo Cerini, così si esprimeva, con la consueta lucidità: “Si ha spesso l’impressione che la nuova generazione di dirigenti scolastici sia troppo preoccupata delle correttezza delle procedure formali e molto meno della guida di una comunità educativa”. Cinzia e Giancarlo, non a caso due direttori didattici.